IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI F A T T O Al termine delle indagini preliminari, il p.m. chiedeva a questo giudice la emissione di decreto penale a carico di Rufat Elmaz e Kasumova Dzulistan in atti generalizzate per il reato di cui all'art. 670, primo comma, c.p. Dalla lettura degli atti non emerge che le imputate abbiano mendicato tenendo alcuna delle condotte previste dal secondo comma dell'art. 670 c.p. ovvero dall'art. 671 c.p. Non risulta altresi' che le predette usufruissero di elargizioni da parte dello Stato, di enti pubblici o da parte di privati per il sostentamento proprio e dei prossimi congiunti, ne' che avessero una occupazione lavorativa dalla quale trarre i mezzi necessari con i quali fare fronte ai propri bisogni primari tra cui, oltre a quelli alimentari, anche quelli di sistemazione in un ambiente salubre, alle piu' elementari necessita' di educazione, istruzione e svago moralmente accettabili per se' e per la prole, beni tutti questi garantiti costituzionalmente (artt. 1, 2, 3, 4, 9 nonche' 30, 31, 32, 38 Cost.). Vale la pena, al riguardo, richiamare l'attenzione sulle condizioni ambientali, sociali, culturali ed economiche nelle quali vive la popolazione ROM alla quale appartengono le imputate (in baracche o roulotte in campi nomadi notoriamente con insufficienza, inidoneita' quando non addirittura inesistenza di servizi igienici, di fognature, di acqua, di mezzi di riscaldamento, di infrastrutture in genere), per rendersi conto che nel caso concreto siano assolutamente carenti sotto ogni profilo le iniziative pubbliche volte non solo a garantire loro la pura e semplice assistenza, quanto quelle di carattere piu' generale volte a creare le condizioni loro indispensabili per una reale integrazione nella societa', ai cui margini tali persone per fatti involontari si ritrovano a vivere. D I R I T T O Sulla base di tali presupposti di fatto appare rilevante la questione di legittimita' costituzionale nei termini sotto specificati dell'art. 670, primo comma, c.p. per contrasto con gli artt. 2, 3 e 27 della Costituzione, giacche' dall'esito della stessa dipende quello del presente procedimento che in caso positivo puo' concludersi con una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. 1. - Il complesso delle disposizioni di cui agli artt. 670, primo e secondo comma, e 671 c.p. ha di mira la tutela dell'ordine pubblico. Attraverso la punizione dell'attivita' di mendicita' si intende prevenire e punire un complesso di comportamenti che in qualche modo possono costituire un pericolo per la tranquillita' ed il decoro della civile convivenza (cfr. Cass. sez VI, 11 marzo 1970, n. 617). La lesione di siffatto bene e' facilmente ravvisabile laddove la mendicita' assuma forme particolari, vessatorie, ripugnanti, petulanti ovvero fraudolente (cfr. secondo comma, dell'art. 670 c.p.) o addirittura in pregiudizio dei minori (cfr. art. 671 c.p.). L'offesa al bene tutelato e' altresi' ravvisabile laddove il mendicare non trovi giustificazione in uno stato di bisogno, inteso questo in senso piu' ampio di quello sotteso alla disposizione dell'art. 54 c.p. (con i limiti dell'imminenza del pericolo e del grave danno alla persona), cioe' in uno stato di impossibilita', seppure momentanea, di affrontare diversamente le esigenze di mantenimento proprie e dei propri congiunti, laddove appunto, il soggetto non versi in condizioni di particolare ristrettezza economica. In tali casi, infatti, l'atteggiamento di mendicita' puo' risultare offensivo della morale e della tranquillita' pubblica, cioe' di quella dei cittadini che legittimamente sentono di aver adempiuto ai loro doveri sociali attraverso il proprio contributo lavorativo e fiscale alla organizzazione della collettivita' e che pertanto sono legittimati a nutrire aspettative di paritario comportamento dagli altri consociati. E proprio in tali casi, quando addirittura si rappresenti con mezzi fraudolenti uno stato di bisogno inesistente, tale da ingenerare nell'animo altrui il senso di pieta' o ancor piu' la convinzione di adempiere ad un dovere morale di solidarieta', e' stata ritenuta perfino la sussistenza del reato di truffa (cfr. Cass. sez. II, 16 dicembre 1981 Liotta). Per contro ogni volta che il soggetto che involontariamente si trovi in quella situazione di bisogno, cioe' in una situazione contrastante e incompatibile con quella voluta e concepita dallo Stato come base di regolazione dei rapporti sociali - che in applicazione dello stesso dettato costituzionale, fondato sul lavoro (artt. 1 e 2) e allo stesso tempo ispirato a principi solidaristici (art. 3, secondo comma), dovrebbe garantire ad ogni persona, senza distinzione alcuna, fornendole i mezzi (lavoro ed assistenza) perche' possa vivere un'esistenza dignitosa quale individuo e soggetto sociale - la mendicita' non puo' che essere interpretata come semplice e legittima richiesta della solidarieta' altrui, realizzata attraverso un atteggiamento che fa leva unicamente su di un sentimento, quello della carita', che in quanto tale, niente di lesivo puo' contenere, salvo che non sia esercitato con modalita' di per se' offensive (cfr. secondo comma, art. 670 c.p.). Al di fuori dei limiti interpretativi ora prospettati, vale a dire al di la' dei casi in cui vi sia la prova concreta (fornita dunque da chi sostiene l'accusa) che il soggetto abbia volontariamente rifiutato i mezzi posti a sua disposizione o ad essi, quando realmente accessibili, volontariamente o per colpa non abbia fatto ricorso, si ritiene pertanto che la disposizione contenuta nel primo comma dell'art. 670 c.p. sia in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2 e 3. In definitiva, cosi' come formulata, la fattispecie, che incrimina chiunque mendichi - e non invece solo chi cio' faccia per propria colpa, potendo altrimenti contare e ricorrere su altri mezzi di mantenimento - riserva lo stesso trattamento (punitivo) a soggetti che si trovano in situazioni del tutto diverse (art. 3, primo comma, Cost.), senza tener conto, appunto che soltanto in taluni casi - quelli teste' menzionati - detti soggetti pongono in essere una condotta realmente offensiva, finendo cosi', nei restanti casi, per vanificare quei doveri di solidarieta' previsti appunto dalla Costituzione al fine di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l'uguaglianza (cfr. art. 2 e 3, secondo comma, Cost.). 2. - La fattispecie in esame, laddove non dovesse essere accolto il rilievo sopra esposto, e dunque dovesse continuare ad essere rivolta a chiunque, cioe' anche a quei soggetti che non per propria colpa, ma per carenze istituzionali, si trovassero nella situazione di non potersi garantire quelle condizioni minime e necessarie (mantenimento, abitazione, istruzione, salute) per vivere con dignita' e decoro - valori questi ai quali implicitamente si richiama la fattispecie stessa - dovrebbe ritenersi in conflitto altresi' con il principio costituzionale della finalita' rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Sanzionare penalmente una condotta alla quale il soggetto non per propria colpa non avrebbe non potuto ricorrere o che addirittura gli si sarebbe posta come unica possibile alternativa al ricorso a ben piu' gravi fatti criminosi non puo' ritenersi atteggiamento finalizzato a rieducare, dal momento che in casi del genere il soggetto punito nessun insegnamento, nessuno stimolo a diverso atteggiamento potrebbe trarre dalla sanzione, in quanto nessuna diversa e concreta prospettiva alla quale egli possa essersi colposamente o volontariamente sottratto gli e' mai stata rappresentata. Ne' d'altra parte puo' sostenersi alcuna funzione risocializzante della pena - che si esplica pur sempre post factum - laddove non siano stati assolti i compiti istituzionali dello Stato (art. 2, Cost.), la cui realizzazione ancor prima della punizione dovrebbe esplicare funzioni di prevenzione generale. Si ritiene pertanto la sussistenza delle condizioni di rilevanza e di non manifesta infondatezza per sollevare d'ufficio la eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 670, primo comma, c.p.