LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso proposto da
 Bambara Maria, elettivamente domiciliata in Roma, via F.lli  Ruspoli,
 2  c/o  l'avvocato  Mario  Albanese  che la rappresenta e difende per
 delega a margine del ricorso, ricorrente,  contro  fallimento  Zunino
 Bernardo,  in  persona del curatore Monti Piero, intimato, avverso la
 sentenza
 n.  359/1990 della Corte di appello di Torino depositato il 12 aprile
 1990.
    E' presente per il ricorrente l'avvocato Albanese;
    Udita la  relazione  della  causa  svolta  dal  cons.  rel.  dott.
 Morelli;
    La difesa del ricorrente chiede l'accoglimento del ricorso;
    Udito  il p.m. in persona del sost. proc. gen. dott. Lupi che con-
 clude per l'accoglimento del primo e secondo ricorso, con  rimessione
 alla  Corte  costituzionale, in virtu' dell'art. 70 l.f. in relazione
 alla interpretazione della Corte di cassazione sulla stessa.
                            FATTO E DIRITTO
    I. - Maria Bambara ricorre per cassazione avverso la  sentenza  in
 data 12 aprile 1990 della Corte di appello di Torino che, confermando
 la  statuizione  di  primo  grado,  ha respinto l'opposizione da essa
 proposta avverso l'acquisizione, al fallimento  del  marito  Bernardo
 Zunino,  di due immobili da lei personalmente acquistati in regime di
 separazione dei beni, nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di
 fallimento.
    Poiche' nella specie ricorrono pacificamente tutti i  presupposti,
 fattuali  e giuiridici, della presunzione (di acquisto con denaro del
 fallito) di cui all'art.  70  l.f.,  appunto  invocata  dal  curatore
 fallimentare,   la   moglie  in  bonis,  con  l'odierna  impugnazione
 (ritualmente  notificata  al  fallimento  che   pero'   non   si   e'
 costituito),  per  un verso, ora denuncia vizi di motivazione, in cui
 sarebbero a suo avviso incorsi i giudici di merito nell'escludere  la
 concludenza  della  prova  liberatoria  da  lei  offerta  in punto di
 effettiva utilizzazione di "denaro proprio"  nelle  compravendite  in
 oggetto;  e per altro verso, in subordine, eccepisce l'illegittimita'
 costituzionale del predetto art. 70 l.f., in riferimento agli artt. 3
 e 31 della Costituzione.
    La seconda censura (al di  la'  della  sua  collocazione  graduata
 nella  sequenza  espositiva)  e'  logicamente preliminare, per cui si
 impone, con carattere di priorita', la verifica di legittimita' della
 c.d. presunzione muciana ex art. 70 cit.: nei limiti ovviamente della
 deliberazione sommaria cui e' tenuto questo Collegio, quale giudice a
 quo, ai fini della proposizione dell'incidente  di  costituzionalita'
 ai  sensi degli art. 134 della Cost., 1 della l. cost. 1948 n. 1 e 23
 l. 11 marzo 1953 n. 87.
    II. - La disposizione sospettata di illegittimita' e' - come detto
 - quella dell'art. 70 r.d. 1942 n. 267, secondo cui "i  beni  che  il
 coniuge  del  fallito  ha acquistato a titolo oneroso nel quinquennio
 anteriore alla dichiarazione di fallimento si presumono di fronte  ai
 creditori, salvo prova contraria, acquistati con denaro del fallito e
 si  considerano  di  proprieta' di lui. Il curatore e' legittimato ad
 apprenderne il possesso".
    La   norma   vive   nella   ormai   consolidata    interpretazione
 giurisprudenziale  -  da  cui  anche questo Collegio non ha motivo di
 discostarsi - secondo cui essa non si applica  con  riguardo  a  beni
 oggetto di comunione legale dei coniugi secondo le disposizioni degli
 artt.  177  ss.cc.  (nel  testo  fissato dalla riforma del diritto di
 famiglia di cui alla legge 19 maggio 1975, n. 151) perche', in questo
 caso, "la presunzione dell'appartenenza al coniuge  imprenditore  (in
 relazione   agli  acquisti)  e'  combattuta  e  vinta  dal  principio
 giuridico  dell'attribuzione  degli acquisti ad entrambi i coniugi, a
 prescindere dall'accertamento  della  provenienza  del  denaro,  anzi
 sulla  opposta  presunzione  che  il  prezzo  sia la risultante di un
 eguale apporto dei coniugi". E continua viceversa ad  operare,  detta
 presunzione,  "quando  tra  i coniugi sussista" - come nella specie -
 "il diverso regime convenzionale della separazione  dei  beni"  (cfr.
 sentenze  nn.  7338,  6079/91  n.;  35 1/1990; 954/1989 e Corte cost.
 100/1993).
    Siffatta disciplina - ad avviso di questa Corte  -  effettivamente
 non  si  sottrae  al  dubbio  di  incostituzionalita' in relazione ai
 parametri e per le ragioni che (anche al di la' della  prospettazione
 della parte) si vanno di seguito ad esporre.
    1)  Violazione  dell'art.  3 cpv, in relazione anche agli artt. 3,
 comma primo, 29 e 31, comma primo, Costituzione, per irragionevolezza
 sopravvenuta della norma in esame nel quadro della  nuova  disciplina
 dei rapporti di famiglia, attuativa di valori costituzionali.
     A)  Con la citata sentenza n. 351/1990 di questa sezione e' stato
 invero gia' sottolineato come la  richiamata  legge  del  1975  abbia
 appunto  "tradotto  in  regole  giuridiche i principi enucleati dalla
 Carta  costituzionale  in  materia  di  famiglia,  con  lo  scopo  di
 rafforzare  il  vincolo coniugale e di garantirlo .. anche attraverso
 la valorizzazione del  lavoro  in  modo  paritario  di  ciascuno  dei
 coniugi pur se soltanto casalingo".
    Questi  principi,  fondanti di una nuova e piu' moderna concezione
 delle relazioni anche patrimoniali dei coniugi,  hanno  evidentemente
 una  portata  generalissima  e conformano in ogni caso quei rapporti,
 quale che sia poi il regime - legale di comunione, di separazione dei
 beni od altro convenzionale - in concreto prescelto dai coniugi.
    Per cui se, in caso di adozione del modello legale  di  comunione,
 resta   per   quanto   detto   con  cio'  stesso  esclusa  in  radice
 l'operativita' della presunzione muciana (in parte qua implicitamente
 cosi',  di  fatto,  abrogata),  nell'ipotesi,  invece,   di   diversa
 regolamentazione  convenzionale  dei rapporti economici familiari, lo
 ius superveniens, ancorche'  non  comporti  analoga  incompatibilita'
 applicativa   di   quella  presunzione,  non  e'  comunque  privo  di
 conseguenza, perche' introduce pur sempre  una  rete  di  principi  -
 ispirati  al  canone  sovraordinato della parita' delle posizioni dei
 coniugi  -  nella  quale  la  norma  "interferente"  (cfr.  Cass.  n.
 954/1989)  dell'art.  70  l.f.  pare  impigliarsi e venire comunque a
 collidere, per la valenza assolutamente antinomica dei presupposti da
 cui  muove  e  del  risultato  cui  e'  suscettibile  di   approdare,
 assoggettando  il  coniuge in bonis all'onere "spesso faticoso se non
 addirittura impossibile" (Cass. n.  351/1990)  di  provare  cio'  che
 nella   logica,   paritaria   della   riforma   (e   della  normativa
 sovraordinata di sostegno) dovrebbe essere piuttosto il dato fattuale
 di  normale  ricorrenza,  da  superare  con  la  prova   ex   adverso
 (l'effettivita' cioe' degli acquisti personali, come corollario della
 pari dignita', che esclude la sudditanza, economica anche del coniuge
 dell'imprenditore).
     B)   Ulteriori   elementi   di   contraddizione   e   di   intima
 irragionevolezza del  complessivo  prodotto  normativo  sembrano  poi
 derivare  dalla  presunzione  muciana  - pur negli indicati limiti di
 riferibilita' al regime di separazione dei beni - con  riguardo  alla
 disciplina  di  singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della
 famiglia.
    In  particolare,  gia'  in  relazione allo stesso regime legale di
 comunione, siffatti profili di antinomia sembrano verificabili.
    In questa prospettiva, l'attenzione cade sull'art.  193  del  c.c.
 (che e' norma inderogabile ai sensi del successivo art. 210), laddove
 questo  indica  il  passaggio, anche per via giudiziale, al regime di
 separazione dei beni come rimedio fisiologico per  le  patologie  del
 regime di comunione legale.
    Non sfugge infatti come questa "ancora di salvataggio", offerta al
 coniuge in comunione a fronte di situazioni di disordine negli affari
 del  consorte,  rischi di trasformarsi in una trappola quando un tale
 disordine  (come  nel  piu'  dei  casi)  sia  relativo  ad  attivita'
 imprenditoriali  (e  prodromico  di uno stato di insolvenza): poiche'
 con la scelta - che, nell'intenzione del legislatore, dovrebbe essere
 cautelativa  -  del  regime  di  separazione  dei  beni,  il  coniuge
 dell'imprenditore  si  pone  in posizione di virtuale soggezione alla
 presunzione muciana con il risultato (di  cui  si  stenta  a  trovare
 giustificazione)  di  mettere  a  repentaglio  anche  quella quota di
 proprieta' degli acquisti  che  la  comunione  gli  avrebbe  comunque
 garantito.
     C)  Ne'  priva  di rilievo - sempre ai fini della incidenza dello
 ius  superveniens  (in  chiave  di  erosione   dei   presupposti   di
 ragionevolezza)  nei  rispetti  della  presunzione  in oggetto - pare
 essere la diversa configurazione che, quanto alla sua  fonte,  assume
 ora il regime di separazione dei beni.
    Nell'attuale  assetto dei rapporti patrimoniali della famiglia, la
 separazione dei beni costituisce infatti, non piu' "regime legale" ma
 il risultato effettuale di una apposita  "convenzione"  dei  coniugi:
 che,  per un verso, ne disvela l'intenzione di evitare commistioni di
 patrimoni  e,  per  altro  verso,  su   un   piano   socio-economico,
 statisticamente  tende  a  ricollegarsi ad una situazione fattuale in
 cui entrambi i coniugi hanno proprie e distinte fonti di reddito.
    Per modo che - in controtendenza con la dimostrata sua progressiva
 devitalizzazione - la presunzione  de  qua  sarebbe  chiamata  ora  a
 superare  e  travolgere, con il meccanismo dell'inversione dell'onere
 della prova, non piu' soltanto l'effettivita'  del  singolo  acquisto
 operato  dal  coniuge dell'imprenditore nell'arco del quinquennio, ma
 anche l'effettivita' (o  comunque  la  perdurante  osservanza)  dello
 scopo   della   convenzione   di   base   sulla  opzione  del  regime
 patrimoniale.
    Il che pure non si sottrae al dubbio appunto di ragionevolezza.
    2) Violazione degli artt. 31, comma primo, 29 e  3,  comma  primo,
 Costituzione.
    In  questa seconda prospettiva, la presunzione in questione sembra
 piu' direttamente, collidere con il combinato contesto degli artt. 31
 (la' dove questo impone di "agevolare la formazione della  famiglia),
 29  (che  fonda,  a  sua volta, la famiglia sul matrimonio) e 3 della
 Costituzione (per quanto ne  esce,  da  detti  parametri,  rafforzata
 l'esigenza di tutela della famiglia, con l'implicito divieto di farla
 oggetto di misure di sfavore).
    In applicazione dei riferiti canoni costituzionali, e' stato dallo
 stesso Giudice delle leggi del resto gia' affermato - tra l'altro con
 la  sentenza  n.  179/1976  (che ha dichiarato l'illegittimita' della
 disciplina fiscale sul cumulo dei redditi coniugali) -  che  si  pone
 fuori  dal  circuito delle indicazioni programmatiche del Costituente
 una normativa "che non agevola la formazione della famiglia  ed  anzi
 da'  vita  per  i  nuclei  familiari legittimi, e nei confronti delle
 unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze,  ad  un
 trattamento deteriore".
    E  cio'  appunto  e' quel che sembra verificarsi nella specie, per
 effetto dell'applicazione della disciplina sub art. 70 l.f.
    Anche perche', ormai  superata,  come  gia'  detto,  dalla  stessa
 evoluzione  del  costume,  la presunzione (da cui a sua volta in gran
 parte, anche se non esclusivamente, dipende quella muciana) per  cui,
 quando  il  marito  sia  imprenditore,  la  moglie  viva in posizione
 subordinata,  e  quando  sia  la  moglie  ad   esercitare   attivita'
 commerciale, il marito si trasformi in uomo "atto a casa", ne risulta
 eccessiva,   ed   ingiustificatamente   gravatoria   della   famiglia
 legittima, la riferita misura di tutela dei creditori, a fronte di un
 pericolo  di  commistione  di  patrimoni  e   fittizie   intestazioni
 analogamente,  e  con  non  diversa intensita', verificabile anche in
 altre  parallele   forme   di   convivenza   in   ipotesi   prescelta
 dell'imprenditore.
    (Considerazioni,  queste, per altro non dissimili da quelle che, a
 fronte  di  presunzione  analogamente  strutturata  (ancorche'  senza
 prefissazione  del  limite  temporale  del quinquennio) esistente nel
 Par. 45.K.O., ha indotto la Corte tedesca a dichiararne, con sentenza
 del 24 luglio 1968, il contrasto con l'art. Abs.1 della  Grundgesetz,
 sostanzialmente    corrispondente    all'art.    31    della   nostra
 Costituzione).
    3) Violazione dell'art. 3, primo comma.
    Per la disparita' di trattamento  non  agevolmente  giustificabile
 che  ne  deriva,  alla  stregua  di  tutte  le  considerazioni di che
 precedono  (ed  agli  effetti  della  disciplina  delle   revocatorie
 fallimentari),  in  danno delle famiglie che abbiano scelto il regime
 di separazione dei beni od altro regime convenzionale (e che per cio'
 dovrebbero continuare a risentire l'applicazione della presunzione in
 esame), per un verso, all'esterno, rispetto a famiglie  di  fatto  od
 altre  forme  di  libera  convivenza)  e per altro verso, all'interno
 stesso della famiglia legittima, rispetto ai nuclei che hanno  optato
 per  il regime di comunicazione legale: tutti del pari sottratti alla
 sfera di operativita' della norma suddetta.
    III. - Tutto cio' premesso e considerato poi:
      che le accennate riflessioni, nella misura in cui autorizzano il
 sospetto  di  violazione  di  parametri  costituzionali  evocati,  in
 relazione  ai profili sottolineati, assolvono con cio' all'obbligo di
 motivazione sulla "non manifesta infondatezza" della questione che si
 intende  sollevare  (ogni  ulteriore  approfondimento   dei   profili
 medesimi  rischiando di travalicare nel proprium del sindacato, sulla
 "fondatezza", riservato alla Corte costituzionale);
      che, per altro,  gli  odierni  rilievi  sulla  legittimita'  del
 denunciato art. 70 l.f. non coincidono con le censure - di violazione
 dell'art. 24, dell'art. 3 (per disparita' di trattamento tra "moglie"
 e  marito)  e,  genericamente, dell'art. 29 della Costituzione - gia'
 esaminate con la precedente sentenza della Corte n. 195/1975, dei cui
 temi l'odierna ordinanza non presuppone pertanto il riesame;
     che  e'  innegabile,  infine, la rilevanza della questione di cui
 sopra, perche' l'art. 70 l.f. e' proprio la norma che  (in  relazione
 alla  situazione,  in  fatto  pacifico,  come  in narrativa premessa)
 occorre applicare ai fini della decisione della controversia;  e  che
 tale   rilevanza   sussiste  indipendentemente  dallo  scrutinio  del
 precedente motivo di ricorso ex art. 360 n. 5 del c.p.c., in punto di
 denegato assolvimento della prova liberatoria, poiche' - ove  pur  in
 tesi  fondata  siffatta  censura  -  la  cassazione della sentenza di
 appello,   che   ne   deriverebbe,   per    vizi    di    motivazione
 nell'applicazione  di  norma  legittima,  avrebbe  portata ed effetti
 innegabilmente  diversi  da  quello,  per   applicazione   di   norma
 illegittima,  quale  invece  conseguente  all'eventuale  accoglimento
 della quaestio legitimitatis.