ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  39  del  codice
 penale  militare  di  pace  in relazione all'art. 5 del codice penale
 promossi con le seguenti ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 21 dicembre 1993 dal  Tribunale  militare
 di Padova nel procedimento penale a carico di Cuomo Lazzaro, iscritta
 al  n.  161  del  registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 14,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1994;
      2)  ordinanza emessa il 12 aprile 1994 dal Tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Motta Ivan, iscritta al n.
 450 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1994.
    Visti gli atti di intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di consiglio dell'8 febbraio 1995 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
    1. - Con ordinanza del 21 dicembre 1993, il Tribunale militare  di
 Padova,  dopo  aver premesso di procedere nei confronti di un giovane
 per il reato di mancanza alla chiamata, ha osservato  che  l'imputato
 si  e'  difeso  asserendo che l'omessa presentazione era dipesa dalla
 mancata  notificazione  della  cartolina  precetto:  una   evenienza,
 questa,  che,  aggiunta  all'avvertenza  riportata a tergo del modulo
 della Difesa utilizzato dai Consigli di Leva per l'invio  in  congedo
 illimitato provvisorio, nella quale si menziona soltanto l'obbligo di
 presentarsi  alla ricezione della cartolina precetto di chiamata alle
 armi, ha verosimilmente ingenerato nell'imputato il convincimento che
 il dovere di presentazione sorga solo a seguito  della  notificazione
 del  precetto  personale,  e  non, come prescrive l'art. 543, secondo
 comma, del Regolamento di esecuzione  approvato  con  r.d.  3  aprile
 1942,  n.  1133,  con la pubblicazione del manifesto di chiamata alle
 armi.
    Il  Tribunale,  dunque,  "ripropone"  questione  di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  39  del  codice  penale  militare  di pace
 rilevando come questa Corte, pur avendo affermato nella  sentenza  n.
 325  del  1989  che  il  medesimo  art.  39  c.p.m.p.  non  limita la
 disciplina dell'errore di  fatto  sancita  dall'art.  47  del  codice
 penale,  ha  omesso  in  quella  ed in altre pronunce di entrare "nel
 merito dell'inescusabilita' dell'ignoranza  di  diritto  delle  norme
 costitutive  dei doveri militari". Nel caso di specie, puntualizza il
 giudice a quo, l'imputato ha ignorato il contenuto del manifesto, "ma
 in origine e principalmente ha ignorato la normativa posta dal citato
 art.   543"  e  tale  ignoranza  e'  considerata  incondizionatamente
 inescusabile dall'art. 39 c.p.m.p. Da qui l'asserita  violazione  del
 principio  della personalita' della responsabilita' penale che questa
 Corte ha gia' avuto modo di riconoscere con  riferimento  all'art.  5
 c.p.,  ed  il  conseguente auspicio che la medesima statuizione venga
 ora estesa alla norma oggetto di impugnativa, "trattandosi pur sempre
 di materia penale".
    2.  -  L'identica  questione  e'  stata  sollevata  dal   medesimo
 Tribunale  con  una successiva ordinanza emessa il 12 aprile 1994. In
 tale occasione il  giudice  a  quo  ha  prospettato  che  la  mancata
 presentazione alle armi da parte dell'imputato e' dipesa dal fatto di
 aver  egli  erroneamente  attribuito  alla proposizione di un ricorso
 straordinario  al  Capo  dello  Stato  l'effetto   di   produrre   la
 sospensione  della chiamata alle armi; un errore, questo, che secondo
 il rimettente, "si risolve  nell'ignoranza  dei  doveri  dello  stato
 militare,     che    l'art.    39    c.p.m.p.    stabilisce    essere
 incondizionatamente inescusabile". Ritiene in proposito il giudice  a
 quo  che non sussista alcuna valida ragione per la quale una indagine
 sulla colpevolezza, ormai consentita nella  generalita'  dei  casi  a
 seguito  della declaratoria di parziale illegittimita' costituzionale
 dell'art. 5 c.p.,  non  possa  aver  rilievo  quando  si  tratti  "di
 normativa,  integratrice del precetto penale, che abbia influenza sui
 doveri dello stato militare (art. 3 Cost.)". Accanto a cio', conclude
 il rimettente, un simile mancato rilievo di uno stato  soggettivo  di
 ignoranza  verrebbe  a  porsi in aperto contrasto "anche con principi
 basilari sulla responsabilita' penale (art. 27, primo comma, Cost.)".
    3. - Nei giudizi e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione sia  dichiarata  inammissibile  per
 essere la stessa analoga ad altra gia' decisa in quel senso da questa
 Corte.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Le  ordinanze sottopongono all'esame della Corte l'identica
 questione: i relativi  giudizi  vanno  pertanto  riuniti  per  essere
 decisi con un'unica sentenza.
    2.  -  Il  Tribunale  militare di Padova dubita della legittimita'
 costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare  di  pace,  in
 riferimento  all'art.  5  del  codice penale, deducendo la violazione
 degli artt. 3 e 27 della Costituzione. Piu' in particolare, nel primo
 dei due provvedimenti di rimessione (R.O. 161 del 1994) il giudice  a
 quo  rileva  che  "l'intransigenza"  che caratterizza la disposizione
 sottoposta a scrutinio, a norma della  quale  il  militare  non  puo'
 invocare a propria scusa l'ignoranza dei doveri inerenti il suo stato
 militare,  appare in contrasto con il principio di personalita' della
 responsabilita' penale nei termini gia' affermati da questa Corte con
 la sentenza n. 364 del  1988  in  relazione  all'art.  5  del  codice
 penale,  ove  appunto  si  e'  dato  rilievo  scusante alla ignoranza
 inevitabile. L'identica  pronuncia,  pertanto,  dovrebbe  ora  essere
 estesa  all'art.  39  c.p.m.p.,  "trattandosi pur sempre - osserva il
 giudice a quo - di materia penale".
    3. - La  norma  oggetto  di  censura  risente  fortemente  di  una
 consolidata  impostazione  che  vede le sue lontane origini in talune
 disposizioni emanate per la chiamata alle armi  nell'esercito  sardo-
 piemontese.  Gia'  nell'Istruzione per l'annuale rassegna dei soldati
 temporari del 19 ottobre 1839 si stabiliva, infatti, all'art.  5, che
 "Il  pretesto  d'ignoranza  del  tempo  e  luogo in cui succedera' la
 rassegna  non  e'  ammissibile,  dacche'  fu  iscritta  nel   congedo
 illimitato  analoga avvertenza". Sicche', e contrariamente ai criteri
 che attualmente vigono in materia, la inescusabilita' della ignoranza
 non scaturiva dalla notifica in forma collettiva del provvedimento di
 chiamata, vale a dire dalla pubblicazione della "notificanza", ma  da
 un   avvertimento   che  assumeva  le  connotazioni  di  una  diffida
 personale, in quanto  iscritta  nel  foglio  di  congedo  illimitato.
 Aspetto,  quest'ultimo  che presenta singolari profili di attualita',
 specie se si considerano i piu'  che  condivisibili  auspici  che  il
 giudice   a   quo   formula   circa  "una  maggiore  chiarezza  nelle
 informazioni alle reclute, ad esempio con apposita  'avvertenza'  sul
 foglio  di  congedo illimitato provvisorio", nel quale invece compare
 il ben  piu'  travisante  avvertimento  che  i  militari  in  congedo
 illimitato   provvisorio   hanno  l'obbligo  di  presentarsi  "quando
 riceveranno la cartolina precetto di chiamata alle armi".
    Il principio delineato nella Istruzione del 1839 non perse poi  la
 sua  validita' neppure quando venne introdotta nel 1853 la vocatio ad
 signa per  pubblico  manifesto,  in  quanto  il  paragrafo  1093  del
 successivo  Regolamento  approvato  con  r.d.  31  marzo  1855,  ebbe
 testualmente  a  prescrivere  che  "il  pretesto  d'ignoranza   della
 chiamata  sotto le armi non potra' legittimare la non presentazione o
 l'indugio dei militari in congedo illimitato a raggiungere il corpo".
 Da  qui  l'avvio  di   un   rigoroso   e   consolidato   orientamento
 giurisprudenziale  che,  ponendo  a  fulcro  proprio  il principio di
 inescusabilita', era solito derivare  da  esso  il  postulato,  fatto
 palese  in  antiche massime, che "l'ignoranza della chiamata sotto le
 armi non puo'  servire  di  scusa  a  chi  poteva  e  doveva  tenersi
 informato  di  tutto  cio'  che  concerne  il  servizio militare, non
 essendovi disposizione di legge che imponga all'Autorita' di renderlo
 personalmente avvertito". Una volta ricondotta,  quindi,  l'ignoranza
 del  manifesto  a  violazione  di  un  dovere dello stato militare, e
 affermato che  il  dovere  di  tenersi  al  corrente  della  chiamata
 risultava  in  concreto  violato  in  tutti i casi in cui se ne fosse
 verificata l'ignoranza, finiva per  divenire  conclusione  pressoche'
 obbligata  quella  di  ritenere  -  come in effetti la giurisprudenza
 ritenne - che  l'ignoranza  della  chiamata  disposta  per  manifesto
 equivalesse   in   tutto  e  per  tutto  all'ignoranza  della  legge,
 cosicche', presumendosi la conoscenza di  quest'ultima,  allo  stesso
 modo dovesse presumersi, iuris et de iure, la conoscenza della prima.
    Nonostante  che  al  principio di inescusabilita' della ignoranza,
 dettato dal  par.  1093  del  Regolamento  del  1855,  fosse  annesso
 prevalentemente  il valore di canone ermeneutico piuttosto che quello
 di autonoma fonte precettiva, la mancata riproduzione della norma nei
 successivi regolamenti del  1877  e  del  1890  diede  luogo  a  tali
 "dubbiezze e perplessita'" da indurre le Commissioni incaricate della
 stesura degli attuali codici militari ad adottare la formulazione poi
 trasfusa  nell'art.  39,  al  dichiarato  fine  - come si legge nella
 relazione della Commissione Ministeriale al progetto definitivo -  di
 "togliere  ogni difficolta' in materia di conoscenza dei manifesti di
 chiamata alle armi, intorno alla quale si  e'  sempre  tormentata  la
 giurisprudenza  alla ricerca di una norma sicura di responsabilita'".
 Si  osservo',  a  tal  proposito, che la norma contenuta nel progetto
 poteva "risolversi  in  una  condizione  di  sfavore  creata  per  il
 militare,  per  il  quale  si  verrebbe a ritenere non applicabile il
 principio, affermato dalla legge penale comune, che l'errore  su  una
 legge  diversa  dalla penale, quando ha cagionato un errore sul fatto
 che costituisce il  reato,  esclude  la  punibilita'  (art.  47  cod.
 pen.)".  Ma  si rilevo' che "l'esigenza pratica" di cui innanzi si e'
 detto "e alla quale l'esperienza  impone  di  attribuire  grandissimo
 valore", consigliava il mantenimento della norma proposta, anche "per
 ribadire   il  concetto  della  inutilita'  di  ogni  indagine  sulla
 effettiva   conoscenza   dei   doveri   inerenti   alle    molteplici
 manifestazioni  del  servizio  militare, ai fini della determinazione
 del dolo. Si pensi, ad esempio, al caso dei rapporti tra pari  grado,
 quando  ad  alcuno di essi sia conferita una superiorita' in comando:
 non potra'  il  militare  invocare  l'ignoranza  di  quei  doveri  di
 sottomissione  al  pari grado, disposti dai regolamenti; ed e' bene -
 si affermo' - che tale concetto trovi  esplicita  enunciazione  nella
 legge".  Dal  testo  del progetto venne invece espunto il riferimento
 alla "ignoranza della legge penale  militare",  essendo  apparso  che
 tale previsione "costituisse la ripetizione di un principio affermato
 nella  legge  penale  comune  (art.   5 del c.p.) e quindi pienamente
 applicabile nella materia militare, dato il  carattere  complementare
 del  progetto,  senza bisogno di un esplicito richiamo" (v. Relazione
 della Commissione Ministeriale n.  41).
    4. - Dai brevi cenni offerti sulla lontana origine della  norma  e
 dai  lavori  preparatori  del  codice penale militare di pace possono
 dunque trarsi alcuni spunti utili per l'inquadramento della questione
 sottoposta all'esame di questa Corte. Il principio di inescusabilita'
 della ignoranza della chiamata, anzitutto, fu coniato all'interno  di
 un  sistema  che  prescindeva  dal  pubblico manifesto, per saldarsi,
 invece, al precetto personale che insorgeva all'atto  della  relativa
 iscrizione  nel  foglio  di  congedo di ciascun militare. Introdotta,
 poi, la  chiamata  per  manifesto,  il  principio  fu  mantenuto  dal
 legislatore  per  l'"esigenza  pratica"  di impedire che il militare,
 accampando a  propria  scusa  l'ignoranza  dei  regolamenti,  potesse
 dedurre  la  non  conoscenza  dei  doveri inerenti al proprio stato e
 sottrarsi, quindi, alle relative sanzioni. Espungendo,  pertanto,  il
 riferimento  alla  inescusabilita' della ignoranza della legge penale
 militare proprio perche' "coperto" dalla generale previsione  dettata
 dall'art.  5 c.p., gli autori del codice militare hanno con chiarezza
 inteso estendere  l'area  di  quel  principio,  fino  a  comprendervi
 qualsiasi  fonte  non  primaria  dalla quale possono promanare doveri
 inerenti allo stato militare  la  cui  inosservanza  e'  dalla  legge
 prevista  come  reato.  In relazione a quelle fonti, dunque, si evoca
 una indifferenza normativa circa la relativa conoscenza, al punto  da
 rendere  configurabile,  per le singole fattispecie e con riferimento
 alla consapevolezza dei doveri che da quelle fonti  promanavano,  una
 sorta  di dolus in re ipsa, malgrado la "condizione di sfavore creata
 per il militare" a  causa  della  possibile  elusione  del  principio
 sancito  dall'art.  47 c.p. in tema di rilevanza dell'errore su legge
 diversa da quella penale.
    Da  tutto  cio'  e'  quindi  possibile  trarre  gia'   una   prima
 conclusione  che  ben potra' soccorrere come insopprimibile nucleo di
 riferimento attorno al quale far ruotare la disamina della fondatezza
 del quesito  che  il  giudice  a  quo  solleva:  il  principio  della
 inescusabilita'  della ignoranza dei doveri militari, frutto, come si
 e' visto,  di  una  piu'  che  secolare  tradizione  dell'ordinamento
 militare  italiano,  trova  un suo valido aggancio e una sua coerenza
 sistematica soltanto se correlato alla gerarchia  di  valori  propria
 dell'epoca  in  cui  fu  elaborato il codice penale militare di pace.
 Un'epoca, quindi,  nella  quale,  anche  a  voler  prescindere  dalle
 peculiarita'  storiche  di  quel contesto, non potevano certo trovare
 adeguato risalto gli ineludibili e fondamentali principi che soltanto
 la successiva legge fondamentale dello Stato ebbe ad introdurre.
    5. - Questa Corte ha avuto modo di occuparsi in  piu'  circostanze
 dell'art. 39 c.p.m.p.
    In una prima occasione (v. ordinanza n. 221 del 1987) la questione
 venne  dichiarata  inammissibile  per difetto di rilevanza, essendosi
 ritenuto che entrambi i casi oggetto dei provvedimenti di  rimessione
 si  riferivano ad imputati ben a conoscenza del fatto che la chiamata
 dei   giovani   di   leva   avveniva   per   pubblici   manifesti   e
 subordinatamente  anche  per  cartolina precetto. Successivamente (v.
 ordinanza n. 151 del 1988),  la  questione  venne  ancora  una  volta
 dichiarata  inammissibile per difetto di rilevanza, ma si sottolineo'
 come la norma impugnata, proprio perche' "espressione  di  ben  altra
 stagione  politica",  avesse  indotto la dottrina e la giurisprudenza
 dell'epoca  ad  adoperarsi  "per  reimpostare   la   problematica   e
 l'interpretazione"  della  norma  stessa,  "in  funzione  delle nuove
 'norme di principio sulla disciplina militare' (l. 11 luglio 1978  n.
 382)  in guisa da consentire una possibile correlazione con l'art. 47
 ult. co. cod. pen.".
    Anche con l'ordinanza n. 787 del 1988 la questione  fu  dichiarata
 inammissibile  per difetto di rilevanza ma (e il dato assume non poco
 risalto) la Corte non manco' di osservare che, ove nel caso di specie
 fossero davvero venuti in discorso l'ignoranza o l'errore sui  doveri
 inerenti  allo  stato  di militare, "si sarebbe effettivamente allora
 prospettata   una   questione   di   possibile    scusabilita'    sia
 dell'ignoranza che dell'errore, che si sarebbe potuta esaminare anche
 in  relazione  alla  sentenza  n.  364  del 1988 di questa Corte". Un
 assunto,  dunque,  che,  seppure  enunciato   in   forma   ipotetica,
 rappresenta  comunque  un  precedente del quale occorre doverosamente
 tenere conto.
    Piu' articolati  sono  i  passaggi  che  hanno  contrassegnato  la
 sentenza  n. 325 del 1989, essendo stata la questione sollevata sotto
 un duplice profilo riguardante, il primo, l'art. 5 del codice  penale
 e  il  secondo  l'art.  47, primo e terzo comma, dello stesso codice.
 Quanto al primo profilo, dedotto,  stavolta,  con  espresso  richiamo
 alla  sentenza  n.  364  del  1988, la Corte ritenne inammissibile la
 questione sul rilievo che il giudice a quo aveva omesso di  precisare
 se e per quali motivi riteneva potersi prospettare nel caso di specie
 una  ignoranza inevitabile "sulla portata imperativa del manifesto di
 chiamata", con cio' lasciando trasparire la pertinenza della norma al
 tema che la questione intendeva sollevare e, dunque, la necessita' di
 affrontare il  merito  ove  l'ordinanza  di  rimessione  fosse  stata
 adeguatamente   motivata  sul  punto.  Sul  secondo  degli  accennati
 profili, invece, la Corte, facendo leva su di un recente e  condiviso
 orientamento  giurisprudenziale  ormai  affrancatosi  dalla  non piu'
 giustificabile "ideologia degli autori del codice", pervenne  ad  una
 soluzione  interpretativa  affermando che "l'errore sulla portata del
 manifesto, vertendo su un atto amministrativo, e' in  realta'  errore
 sul  presupposto  storico  per l'attuazione del dovere in concreto" e
 come tale da qualificare alla stregua di  "errore  di  fatto  ..  che
 incide  sul  dolo,  secondo i principi del diritto penale militare ex
 art. 16 del codice penale, rendendo  rilevante  questo  errore  anche
 nell'area  dell'art.  39  del  codice penale militare di pace". Ed e'
 proprio su quest'ultima linea che hanno poi finito per attestarsi  le
 piu'  recenti pronunce, tutte di manifesta inammissibilita', relative
 ad altrettanti giudizi promossi  sempre  dal  Tribunale  militare  di
 Padova  (v.,  in  particolare, le ordinanze n. 247 del 1991, n. 7 del
 1992 e n. 205 del 1994).
    6. - Le sollecitazioni che il giudice  a  quo  ha  insistentemente
 rivolto a questa Corte al fine di risolvere il quesito se ed in quali
 limiti  debba  essere  riconosciuto valore scriminante alla ignoranza
 dei doveri inerenti allo stato militare, svelano, dunque, l'esistenza
 di un problema di fondo cui la giurisprudenza di questa Corte non  ha
 sin  qui  offerto adeguata soluzione. Limitare, infatti, la rilevanza
 dell'errore alla non conoscenza del  manifesto  di  chiamata,  inteso
 questo  alla stregua di un mero atto amministrativo idoneo a generare
 null'altro che il "dovere in concreto" di presentazione alle armi, ed
 obliterare, per questa via, il rilievo che puo' assumere  l'ignoranza
 della   norma  da  cui  promana  il  "dovere  in  astratto",  produce
 l'ineluttabile effetto di dar vita ad  un  circuito  per  cosi'  dire
 autodimostrativo  che,  arrestandosi  all'errore finale, prescinde da
 quella che ne puo' essere la causa generatrice: l'ignoranza, appunto,
 della norma regolamentare che fa obbligo alle reclute, abbiano o meno
 ricevuto la cartolina precetto, di presentarsi comunque  "nei  giorni
 stabiliti  dal  manifesto,  la  cui  pubblicazione vale per essi come
 precetto personale" (art. 543 del regolamento  per  l'esecuzione  del
 testo unico delle disposizioni legislative sul reclutamento del regio
 esercito,  Parte seconda, approvato con r.d. 3 aprile 1942, n. 1133).
 Orbene, nella ordinanza emessa il 21  dicembre  1993  (R.O.  161  del
 1994)  il  Tribunale  militare di Padova prospetta proprio una simile
 evenienza, osservando motivatamente che nel caso di specie la  omessa
 tempestiva  presentazione  del militare e' dipesa, in via principale,
 non dalla mancata conoscenza del contenuto del manifesto di chiamata,
 ma dal fatto di aver ignorato la normativa posta dal citato art.  543
 del    regolamento.    Un   errore,   dunque,   tuttora   considerato
 incondizionatamente  inescusabile  dall'art.  39  c.p.m.p.,  di   cui
 pertanto   si   chiede,   ancora   una   volta,  la  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale in riferimento all'art.  5  del  codice
 penale,  come  dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza
 n. 364 del 1988.
    7. - Sono fin troppo note le ragioni che indussero questa Corte  a
 dichiarare,  con  la  appena  ricordata  sentenza n. 364 del 1988, la
 parziale illegittimita' costituzionale dell'art. 5 del codice penale.
 Si  osservo',  infatti,  sulla  base,  anche,  di  una   approfondita
 ricostruzione storico-sistematica dell'importante tema, condotta alla
 luce   dei  valori  costituzionali  che  esso  coinvolgeva,  che  dal
 principio sancito dall'art.  27,  primo  comma,  della  Costituzione,
 occorreva  trarre  il  corollario  che la legittima punibilita' di un
 fatto dovesse "necessariamente includere almeno la colpa  dell'agente
 in  relazione  agli  elementi  piu'  significativi  della fattispecie
 tipica". Collegando poi fra loro i precetti enunciati dal primo e dal
 terzo   comma  dell'art.  27  della  Carta  fondamentale  si  dedusse
 "l'illegittimita' costituzionale della punizione dei  fatti  che  non
 risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto
 con  i  (od  indifferenza  ai) valori della convivenza espressi dalle
 norme penali", osservandosi, a tal proposito, che "il  ristabilimento
 dei   valori   sociali   "dispregiati"   e  l'opera  rieducatrice  ed
 ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della  dimostrata
 "soggettiva  antigiuridicita'" del fatto". Accanto a cio', si ritenne
 che l'art. 5 del codice  penale  fosse  in  contrasto  tanto  con  il
 principio   di   uguaglianza,   derivando  dalla  norma  un  identico
 trattamento per situazioni fra loro dissimili, quali sono  quella  di
 "chi  agisce  con la coscienza della illiceita' del fatto" rispetto a
 quella di "chi invece con tale coscienza non opera",  quanto  con  il
 principio affermato nel secondo comma dell'art. 3 della Costituzione,
 ben  potendo  l'ignoranza  della  legge dipendere o da un fatto dello
 Stato,  che  "non  abbia   reso   obiettivamente   riconoscibili   (o
 "prevedibili")  alcune  leggi",  o  dalla  "mancata  rimozione  degli
 "ostacoli"" di cui alla citata previsione costituzionale.
    Ma assai piu' radicalmente, ed e' questo l'aspetto che  in  questa
 sede  maggiormente  interessa,  si  ritenne  che  l'art. 5 del codice
 penale violasse "lo spirito stesso dell'intera Carta fondamentale  ed
 i  suoi  essenziali principi ispiratori", rilevandosi a tale riguardo
 che "far sorgere l'obbligo  giuridico  di  non  commettere  il  fatto
 penalmente  sanzionato  senza  alcun  riferimento alla consapevolezza
 dell'agente, considerare violato lo stesso obbligo senza  dare  alcun
 rilievo   alla   conoscenza   od   ignoranza  della  legge  penale  e
 dell'illiceita'  del  fatto,  sottoporre  il  soggetto  agente   alla
 sanzione   piu'  grave  senza  alcuna  prova  della  sua  consapevole
 ribellione  od  indifferenza  all'ordinamento   tutto,   equivale   a
 scardinare  fondamentali  garanzie  che lo Stato democratico offre al
 cittadino  ed  a  strumentalizzare  la   persona   umana,   facendola
 retrocedere  dalla  posizione  prioritaria  che  essa  occupa  e deve
 occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati".
    L'ampiezza di simili principi e' dunque tale da investire tutti  i
 temi  che  tradizionalmente  hanno  ruotato attorno al precetto della
 inescusabilita' della ignoranza della legge penale. Svilito, infatti,
 il gia' criticato dogma della presunzione assoluta di conoscenza, non
 ha piu' senso operare, ai fini che qui rilevano, sottili  disamine  a
 margine  degli  elementi normativi del fatto o procedere a faticose e
 sempre opinabili distinzioni delle fonti "esterne"  alla  fattispecie
 incriminatrice,  allo scopo di verificare se le stesse possano o meno
 qualificarsi come integratrici del precetto penale,  onde  consentire
 il trasferimento dell'errore su quest'ultimo, in precedenza del tutto
 irrilevante,  nell'alveo  dell'errore  su legge extra penale ai sensi
 dell'art. 47, terzo comma, del codice penale. Una volta stabilito che
 l'ignoranza sulla legge penale scrimina in tutti i  casi  in  cui  la
 stessa  sia  risultata  inevitabile,  e'  di  tutta  evidenza  che un
 siffatto  principio  debba  valere  anche  nelle   ipotesi   in   cui
 l'ignoranza   verta   sull'eventuale   presupposto   normativo  della
 fattispecie  incriminatrice,  non  potendosi   certo   pervenire   al
 paradosso   di   ammettere   una  lettura  differenziata  dei  valori
 costituzionali che con la citata sentenza si e' inteso  preservare  a
 seconda  delle  modalita'  tecniche  attraverso le quali ogni singola
 fattispecie  viene  ad  essere  strutturata.  L'ignoranza o l'errore,
 dunque, sia che esso riguardi la previsione incriminatrice in  quanto
 tale,  sia  che  si  rifletta su una disposizione che la norma stessa
 richiama o piu' semplicemente presuppone, assumera' comunque  rilievo
 in  tutti  i  casi  in  cui la mancata od erronea conoscenza del dato
 normativo, inteso questo in tutte le sue componenti,  sia  dipesa  da
 cause  che  hanno reso inevitabile quella ignoranza o quell'errore. E
 se tutto cio' vale nelle interferenze che possono stabilirsi  fra  le
 leggi   penali,  a  fortiori  alle  medesime  conclusioni  occorrera'
 pervenire nel caso in cui l'errore  cada  su  una  legge  diversa  da
 quella penale e riguardi non il fatto ma l'estensione del precetto.
    8.  -  Le  conclusioni cui occorre pervenire sono, a questo punto,
 evidenti. Gia' nella ricordata sentenza n.  325  del  1989,  infatti,
 questa  Corte non manco' di rilevare come l'interpretazione dell'art.
 39 c.p.m.p. quale limite all'efficacia scusante dell'errore su  legge
 extra  penale,  pur  se, "certamente rispondente alla ideologia degli
 autori del codice", non potesse ritenersi piu'  giustificabile,  "sia
 perche'  contraria  ai  principi fondamentali del diritto penale (che
 sono  principi  di  civilta'),  sia  perche'  nel  nuovo  ordinamento
 democratico,   anche   militare,   quei   principi   sono   collegati
 all'ispirazione  di  fondo  della  Costituzione   che   rende   ormai
 anacronistica  quella  interpretazione".  Ma il punto da affrontare e
 definitivamente risolvere  non  sta  nell'ignoranza  del  "dovere  in
 concreto"  e,  dunque, del fatto inquadrabile nell'area dell'art. 47,
 terzo comma, del codice  penale,  ma  nel  piu'  radicale  errore,  o
 ignoranza,  che  investa  la  stessa  fonte normativa che quel dovere
 costituisce "in astratto": errore di  diritto,  dunque,  rispetto  al
 quale   l'art.   39  c.p.m.p.  introduce  una  previsione  di  totale
 irrilevanza ed inescusabilita' che si presenta del tutto impermeabile
 a qualsiasi tentativo di manipolazione interpretativa.  Una  siffatta
 preclusione    diviene,   allora,   inaccettabile   per   le   stesse
 considerazioni che indussero questa Corte a  dichiarare  la  parziale
 illegittimita' costituzionale dell'art. 5 del codice penale, giacche'
 se l'ignoranza inevitabile di una norma penale esclude la punibilita'
 della  condotta,  a  maggior  ragione  alla  stessa  conclusione deve
 condurre l'ignoranza inevitabile delle ben piu' flebili, variegate  e
 certo  meno conosciute e conoscibili disposizioni regolamentari sulle
 quali si fondano  i  molteplici  doveri  che  ineriscono  allo  stato
 militare.  E  cio' appare ancor piu' doveroso ove si consideri, da un
 lato, l'impossibilita' di sottoporre a scrutinio di costituzionalita'
 tutte le fonti non legislative dalle quali sorgono doveri militari la
 cui  inosservanza  e'  penalmente  sanzionata  (v.,  con  riferimento
 proprio al r.d. 3 aprile 1942, n. 1133, l'ordinanza n. 124 del 1973);
 dall'altro,   la   fluidita'   di   tali  fonti,  essendo  le  stesse
 suscettibili di mutamenti in  funzione  delle  variabili  scelte  che
 l'autorita'  amministrativa  e'  abilitata  a  compiere,  e, sotto un
 ultimo ed assorbente profilo, l'impossibilita' di far leva su di  una
 supposta  specificita'  dell'ordinamento  militare  per  predicare il
 mantenimento nel sistema di una norma che, al  di  la'  di  qualsiasi
 adeguamento  sul  piano  applicativo,  si  appalesa  ormai  in aperto
 contrasto con i fondamentali valori di uno stato democratico.
    Se di specificita' dell'ordinamento militare si vuol continuare  a
 parlare  agli  effetti che qui interessano, cio' sara' possibile solo
 nella ben diversa prospettiva di costruire su di essa una equilibrata
 elaborazione  dei  necessari  canoni  ermeneutici  alla  cui  stregua
 condurre  l'accertamento  in  concreto  se l'ignoranza del dovere sia
 stata o meno inevitabile; una  elaborazione,  questa,  rispetto  alla
 quale  dovranno essere tenuti nel massimo conto i principi che a tale
 riguardo questa  Corte  ha  enunciato  nella  piu'  volte  richiamata
 sentenza  n.  364  del  1988  (segnatamente al n. 27), trattandosi di
 principi  di  ordine  generale  la  cui  validita'   deve   ritenersi
 senz'altro  trasferibile  anche  nell'area  della  norma  che  qui si
 censura.
    L'art. 39 del codice penale militare di pace deve pertanto  essere
 dichiarato  costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt.
 3  e  27  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui   non   esclude
 dall'inescusabilita'  dell'ignoranza  dei  doveri inerenti allo stato
 militare l'ignoranza inevitabile.
    9. - Diversa e' la situazione che il medesimo  Tribunale  militare
 di  Padova  ha  prospettato  con l'ordinanza emessa il 12 aprile 1994
 (R.O. 450 del 1994). In tal caso, infatti, e' lo stesso giudice a quo
 a precisare che l'imputato, il quale "non ha mai  avuto  l'intenzione
 di sottrarsi ai suoi obblighi di leva", ha dichiarato "di non essersi
 tempestivamente   presentato  in  quanto  il  padre,  che  curava  in
 esclusiva i rapporti con l'autorita' militare, gli aveva detto che la
 sua partenza era automaticamente sospesa a  seguito  di  proposizione
 del   ricorso   straordinario  al  Capo  dello  Stato",  erroneamente
 attribuendo a  tale  atto  gli  stessi  effetti  che  -  secondo  una
 informativa  avuta  per  iscritto  dal Distretto Militare di Torino -
 scaturiscono dalla proposizione del ricorso al T.A.R.
    Nel  caso  di  specie,  dunque,  la  mancata   presentazione   per
 l'espletamento  degli  obblighi  di leva non puo' ritenersi scaturita
 dalla  ignoranza  dei  doveri  inerenti  allo  stato  militare,   che
 l'imputato  ben  conosceva,  ma  unicamente  dal  fatto di avere egli
 erroneamente attribuito ad uno  specifico  rimedio  amministrativo  i
 medesimi  effetti sospensivi sulla chiamata alle armi che, secondo le
 informazioni ricevute dal proprio padre, si sarebbero  determinati  a
 seguito  del  ricorso in sede giurisdizionale. Un errore, dunque, che
 non cade sul  dovere  in  se'  considerato  o  sulla  relativa  fonte
 precettiva,  ma che si incentra, piu' semplicemente, sui rapporti che
 legano fra loro il procedimento di gravame e  gli  effetti  dell'atto
 amministrativo assoggettato a reclamo. La rilevanza di un tale errore
 sull'esistenza  o  meno del reato contestato all'imputato va pertanto
 risolta dal giudice militare alla stregua dei criteri  interpretativi
 adottati dalla giurisprudenza per casi analoghi.
    Pertanto    la   questione   proposta   deve   essere   dichiarata
 inammissibile.