IL PRETORE
    Letti gli atti ed i  documenti  di  causa,  a  scioglimento  della
 riserva, osserva quanto segue.
                               F A T T O
    Con  ricorso  depositato  in  data  26  febbraio 1993 l'I.N.A.I.L.
 (Istituto nazionale per  l'assicurazione  contro  gli  infortuni  sul
 lavoro), conveniva in giudizio il sig. Trentalange Pasquale, titolare
 dell'omonima  impresa,  spiegando azione di regresso ex artt. 10 e 11
 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, per il rimborso delle prestazioni
 assicurative erogate  in  favore  del  muratore  Ziccardi  Giroletto,
 dipendente  della  ditta  Trentalange,  a seguito dell'infortunio sul
 lavoro avvenuto in data 30 luglio 1987 in Ripalimosani  (Campobasso),
 allorche'  l'operaio  era  scivolato a terra da una scala a pioli non
 vincolata, come invece prescritto dall'art. 8 del  d.P.R.  7  gennaio
 1956, n. 164.
    A  fondamento  dell'azione  di  regresso  l'Istituto  allegava  la
 responsabilita' penale del datore di lavoro Trentalange Pasquale,  al
 quale  con sentenza irrevocabile n. 1097/1990 del 3 dicembre 1990 del
 pretore di Campobasso, era stata applicata ex artt.  444  e  ss.  del
 c.p.p.  la pena di L. 400.000 di multa per il delitto di cui all'art.
 590, terzo comma, del c.p.
    Il Trentalange si costituiva con memoria, contestando in fatto  ed
 in diritto il fondamento della domanda e chiedendone il rigetto.
    Acquisiti  gli atti integrali del procedimento penale definito con
 sentenza di patteggiamento, ed espletata prova  testimoniale,  questo
 giudicante  ritiene che debba essere sollevata d'ufficio questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 10, quinto comma, del d.P.R. 30
 giugno 1965, n. 1124, nella parte in cui la norma non  consente  che,
 ai  fini  dell'esercizio  del  diritto  di  regresso dell'I.N.A.I.L.,
 l'accertamento del fatto-reato  possa  essere  compiuto  dal  giudice
 civile  anche nel caso in cui sia stata pronunziata nei confronti del
 datore di lavoro sentenza di applicazione di pena su richiesta  delle
 parti ex art. 444 del c.p.p.
    La  questione si appalesa rilevante e non manifestamente infondata
 per le seguenti considerazioni di
                             D I R I T T O
    Il presupposto ordinario di partenza affinche' l'I.N.A.I.L.  possa
 esercitare  l'azione  di  regresso nei confronti del datore di lavoro
 del dipendente infortunato - nonostante che l'art. 10 del  d.P.R.  n.
 1124/1965  sancisca  al  primo  comma  l'esonero  dello  stesso dalla
 responsabilita' civile una volta assolto l'obbligo assicurativo -  e'
 costituito  dalla pronunzia di condanna penale per il fatto dal quale
 e' derivato l'infortunio. La responsabilita' civile permane allora  a
 carico  dei  condannati  o  comunque  a  carico  del datore di lavoro
 allorche' la sentenza penale stabilisca che l'infortunio e'  avvenuto
 per  causa  imputabile  a  un  soggetto  incaricato della direzione o
 sorveglianza del lavoro, del cui fatto il  proponente  sia  tenuto  a
 rispondere secondo il codice civile (art. 10, secondo e terzo comma).
    L'originario  testo della norma prevedeva poi il potere-dovere del
 giudice adito  dall'I.N.A.I.L.  di  accertare  la  sussistenza  della
 responsabilita'  civile  per  il  fatto  che avrebbe costituito reato
 anche nel caso di pronunzia penale di rito di non  doversi  procedere
 per morte dell'imputato o per amnistia.
    La  Corte costituzionale, con varie pronunzie additive, ha via via
 ampliato  l'estensione  dei  poteri  cognitivi  del  giudice   civile
 rispetto  ai fatti oggetto di procedimento penale a carico del datore
 di lavoro pervenuti a differenti esiti  di  rito  o  di  merito.  Con
 sentenza   9   marzo  1967,  n.  22  ha  dichiarato  l'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 10, quinto comma, nella  parte  in  cui  non
 consentiva  l'accertamento della responsabilita' civile per il fatto-
 reato  in   caso   di   estinzione   per   intervenuta   prescrizione
 (considerando l'analoga efficacia processuale di tale evento rispetto
 alla  morte del reo od all'amnistia, gia' contemplate dall'originario
 testo   normativo,   e    quindi    l'incostituzionale    trattamento
 differenziale di fattispecie legale tra di loro equivalenti).
    Con  sentenza  n.  102 del 19 giugno 1981 la Corte ha poi ritenuto
 costituzionalmente illegittimo il  quadro  normativo  dell'azione  di
 regresso  in  relazione ai casi del procedimento penale (a carico del
 datore di lavoro o di un suo dipendente responsabile dell'infortunio)
 concluso con sentenza di assoluzione, quando l'I.N.A.I.L.  non  fosse
 stato  posto  in  grado di partecipare al procedimento penale, ovvero
 definito con proscioglimento in sede istruttoria o  provvedimento  di
 archiviazione;  inoltre  ha dichiarato costituzionalmente illegittimo
 l'art. 10, quinto comma, del d.P.R. n. 1124/1965, in base all'art. 27
 della legge n. 87/1953, nella parte in cui  non  consentiva  che,  ai
 fini  dell'esercizio  del  diritto  di  regresso,  l'accertamento del
 fatto-reato potesse essere compiuto dal giudice civile anche nel caso
 in cui la sentenza di condanna penale non faccia stato  nel  giudizio
 civile instaurato dall'I.N.A.I.L.
    Nella motivazione viene operato un piu' specifico riferimento alla
 incostituzionalita', per violazione del diritto di difesa e di azione
 dell'I.N.A.I.L. (art. 24 della Costituzione), della non esperibilita'
 del  regresso  nell'ipotesi  di  esistenza  di  una  sentenza  penale
 affermativa di responsabilita' del datore di  lavoro  (o  di  un  suo
 dipendente),  ma  con  limitazioni  pregiudizievoli  per il contenuto
 dell'azione di regresso.
    Allo  stato  attuale  quindi l'I.N.A.I.L. puo' agire in regresso o
 avvalendosi    direttamente    della    sentenza    affermativa    di
 responsabilita'  penale  facente  stato  nel  giudizio  civile ovvero
 giovandosi  del  potere-dovere  del  giudice  civile   di   accertare
 incidentalmente  la  sussistenza  del fatto-reato, potere normalmente
 riservato  al  giudice  penale  in  caso  di  sentenza  di   condanna
 sprovvista  di  efficacia  di  giudicato  in sede civile, o ancora di
 sentenza in rito di non doversi procedere per morte del reo, amnistia
 o prescrizione, di proscioglimento istruttorio  o  archiviazione,  ed
 infine  di  assoluzione in giudizio penale cui l'I.N.A.I.L. non abbia
 potuto partecipare.
    L'articolazione complessiva del quadro normativo,  attraverso  gli
 interventi  del  giudice  delle  leggi  sul testo unico in materia di
 infortuni sul lavoro e malattie professionali si  inquadra  pero'  in
 epoca  anteriore  all'introduzione del codice di procedura penale del
 1988 e risponde alla complessiva  ratio  di  consentire  all'istituto
 previdenziale  di  esperire  l'azione  di regresso, indipendentemente
 dalla sua partecipazione, effettiva o potenziale, al giudizio  penale
 promosso a seguito dell'infortunio, qualunque esito esso abbia avuto.
    Ma  ne' il legislatore del 1965, ne' la Corte costituzionale nelle
 citate  pronunzie,  hanno  potuto,  ratione   temporis,   tenere   in
 considerazione  la  fattispecie  del procedimento penale definito con
 sentenza irrevocabile di applicazione  di  pena  su  richiesta  della
 parti  (c.d. patteggiamento), peculiare istituto introdotto dal nuovo
 codice di procedura penale.
    Ad avviso di questo giudicante, ed alla  luce  della  elaborazione
 giurisprudenziale  finora compiuta sul patteggiamento, la fattispecie
 non rientra ne' nell'efficacia diretta della sentenza penale ex  art.
 10,  secondo  e  terzo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, ne'
 nella possibilita' di accertamento della  responsabilita'  penale  da
 parte  del  giudice  civile. L'I.N.A.I.L. non puo' esperire azione di
 regresso a seguito  di  processo  penale  concluso  con  sentenza  di
 applicazione  di  pena su richiesta; tale situazione contrasta con il
 diritto di azione e difesa in giudizio dell'Istituto (art.  24  della
 Cost.)  e  con  il  principio di eguaglianza, stante l'ingiustificata
 disparita' di  trattamento  di  situazioni  analoghe  (art.  3  della
 Cost.),  per  gli  stessi motivi messi in luce dalle citate pronunzie
 della Corte costituzionale.
    La questione e' chiaramente rilevante nel presente  giudizio,  che
 non   puo'  essere  definito  se  non  accertando  la  sussistenza  o
 l'insussistenza della responsabilita'  del  convenuto  in  ordine  al
 reato  contestatogli  per  il  fatto da cui e' derivato l'infortunio,
 poiche'  il  relativo  procedimento  penale  e'  ormai  definito  con
 sentenza irrevocabile di patteggiamento.
    Infatti  l'art. 445, primo comma, del c.p.p. esclude espressamente
 che la sentenza di applicazione di pena su richiesta delle  parti  ex
 art.  444,  secondo  comma,  del c.p.p. rivesta efficacia nei giudizi
 civili ed amministrativi.
    Ne' acquista alcun rilievo, al fine di  ritenere  colpito  da  una
 condanna  penale  il  convenuto  dell'azione  di regresso I.N.A.I.L.,
 quanto dispone l'ultimo periodo del medesimo art. 445,  primo  comma,
 secondo  cui,  salve  diverse  disposizioni  di legge, la sentenza di
 patteggiamento e' equiparata ad una sentenza di condanna.
    La  disposta  "equiparazione" (concetto invero diverso dalla piena
 identificazione del patteggiamento  con  una  sentenza  di  condanna,
 quanto  ai  presupposti  formativi  della fattispecie ed agli effetti
 giuridici  che  ne  scaturiscono),  e'  evidentemente  limitata  alle
 conseguenze  in  campo penale dell'applicazione di pena su richiesta.
 La stessa relazione al  progetto  preliminare  del  codice  (p.  108)
 menzionava  a mo' di esempio la valutabilita' della pronunzia ai fini
 della recidiva. Altrettanto vale  -  si  puo'  aggiungere  -  per  la
 declaratoria  di  abitualita'  o professionalita' del reato, o per la
 computabilita' della precedente sentenza ex art. 444  del  c.p.p.  ai
 fini  della  concessione al condannato della sospensione condizionale
 della pena. Ma la equiparazione non spiega  effetti  in  campo  extra
 penale in ordine ai presupposti dell'azione di regresso.
    Bisogna  allora  stabilire  se  la  sentenza di patteggiamento, in
 relazione alla natura della pronunzia,  presupponga  un  accertamento
 pieno di responsabilita' penale, cosi' da configurare, ai fini di cui
 agli  artt.  10  e  11 del d.P.R. n. 1124/1965, una "condanna" penale
 che, pur non facendo stato nel giudizio civile, consenta  al  giudice
 adito con azione di regresso di accertare comunque la sussistenza del
 fatto-reato,  come  consentito  dalla  Corte costituzionale 29 aprile
 1981, n. 102. Se cosi' non  fosse,  nulla  osterebbe  a  entrare  nel
 merito  della  responsabilita'  del  datore  di  lavoro  nel presente
 giudizio, previa valutazione degli atti  del  procedimento  penale  e
 delle prove direttamente assunte da questo giudicante.
    Ma  cosi' non e', allo stato della giurisprudenza costituzionale e
 di quella delle sezioni unite penali della Corte di cassazione.
    La sentenza n. 251 del 6 giugno 1991 della Corte costituzionale ha
 dichiarato non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 degli  artt. 447, 448 e 563 del c.p.p. disattendendo espressamente la
 prospettazione del giudice remittente che, argomentando della  natura
 di  sentenza  di  condanna  che  andrebbe  riferita alla pronuncia di
 applicazione della pena su  richiesta  delle  parti,  dubitava  della
 legittimita'  costituzionale  di  una sentenza che, pur accertando la
 fondatezza di un'accusa penale, venga resa non in pubblica udienza.
    La Corte ha rilevato che nel rito speciale di cui agli artt. 444 e
 448 del c.p.p. emerge un profilo di negozialita' il quale  spiega  il
 fatto  che  l'indagine  del  giudice  in  ordine alla responsabilita'
 dell'imputato puo'  essere  limitata  a  profili  determinati,  senza
 rivestire  quell'accertamento  pieno  ed  incondizionato  sui fatti e
 sulle  prove  che  rappresenta,  nel  rito  ordinario,  la   premessa
 necessaria per l'applicazione della sanzione penale.
    Viene  allora  escluso che la sentenza adottata ai sensi dell'art.
 444 del c.p.p. possa  assumere  le  caratteristiche  proprie  di  una
 sentenza   di   condanna,   basata   sull'accertamento   pieno  della
 "fondatezza dell'accusa penale"; la sentenza di patteggiamento non ha
 in definitiva natura di vera e propria sentenza di condanna.
    La Cassazione a sezioni unite penali (sentenza 27 marzo 1992, imp.
 Di  Benedetto),  prendendo  le  mosse  da  Corte  costituzionale   n.
 251/1991,  e componendo il contrasto di giurisprudenza insorto tra le
 sezioni  semplici  in  ordine   alla   natura   della   sentenza   di
 patteggiamento ha precisato che l'istituto in esame rinviene primario
 fondamento  nella  convergente  richiesta  del  pubblico  ministero e
 dell'imputato sul merito dell'imputazione,  e  la  pronunzia  che  ne
 scaturisce contiene un accertamento ed una affermazione solamente per
 implicito  della responsabilita' dell'imputato; come tale non e' vera
 e propria sentenza di condanna.
    Sviluppando tale assunto le s.u. hanno aggiunto che la motivazione
 della  sentenza  di  patteggiamento  si  esaurisce in una delibazione
 positiva  della   sussistenza   dell'accordo   delle   parti,   della
 correttezza   della   qualificazione  giuridica  del  fatto  e  della
 applicazione  e  comparazione  delle  eventuali  circostanze,   della
 congruita' della pena, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo
 comma,  della  Costituzione,  della  concedibilita' della sospensione
 condizionale, qualora l'efficacia  della  richiesta  sia  subordinata
 alla concessione del beneficio, ed in una delibazione negativa quanto
 all'esclusione della sussistenza di cause di non punibilita' o di non
 procedibilita' o si estinzione del reato.
    Se  allora  la sentenza di applicazione di pena ex artt. 444 e ss.
 del c.p.p. non e' preceduto da un giudizio di pieno accertamento e di
 piena affermazione della responsabilita'  penale  dell'imputato,  non
 puo'  ritenersi  che la fattispecie, calata nella realta' civilistica
 dell'azione di regresso I.N.A.I.L., sia ricompresa nell'ipotesi della
 condanna  penale  che  non  fa  stato  nei  confronti   dell'istituto
 previdenziale,  e  che  tuttativa  da'  ingresso all'accertamento del
 fatto-reato da parte del giudice  civile,  fattispecie  esaminata  da
 Corte  costituzionale  n.  102/1981  (che  come  gia'  accennato,  ha
 sintetizzato in dispositivo al punto 4 con la locuzione "sentenza  di
 condanna  penale"  la  perifrasi  "sentenza  penale affermativa della
 responsabilita' del datore di lavoro")' contenuta in motivazione  sub
 3).
    Il   quadro   normativo   complessivo  che  discende  dall'innesto
 dell'istituto del  patteggiamento  nella  disciplina  dell'azione  di
 regresso   I.N.A.I.L.,   ricomposto   in   termini   di  legittimita'
 costituzionale dal giudice delle  leggi  nel  vigore  del  codice  di
 procedura penale del 1930, e' allora caratterizzato:
      per  un  verso  dalla  inefficacia  "diretta"  della sentenza di
 applicazione di pena su richiesta della  parti  nel  giudizio  civile
 promosso dall'istituto previdenziale;
      per  altro  verso  dall'assenza  di una previsione normativa che
 abiliti il giudice civile,  adito  in  regresso  dall'I.N.A.I.L.,  ad
 accertare  il  fatto-reato, quando il procedimento penale presupposto
 sia stato  definito  con  sentenza  irrevocabile  di  patteggiamento;
 difettano  in tal caso entrambe le condizioni (di causa e di relativo
 effetto) affinche' possa applicarsi la  norma  di  cui  all'art.  10,
 quinto  comma,  del  d.P.R.  n.    1124/1965  come risulta dopo Corte
 costituzionale n. 102/1981, giacche' la pronunzia  ex  art.  444  del
 c.p.p.   non   contiene   una  piena  ed  esplicita  affermazione  di
 responsabilita' dell'imputato e non  ha  natura  di  vera  e  propria
 sentenza di condanna.
    Tale    situazione    di    impasse    appare    irragionevolmente
 pregiudizievole nei confronti dell'I.N.A.I.L., e concretamente lesiva
 dei diritti di azione in  giudizio  e  di  difesa  costituzionalmente
 garantiti (art. 24, primo e secondo comma, della Cost.), in relazione
 al  diritto  di  agire in regresso che l'Istituto vanta nei confronti
 dei  responsabili  civili  degli  infortuni  subiti  dai   lavoratori
 assicurati.  Appare violato anche l'art. 3 della Costituzione, stante
 l'assoluta irrazionalita'  di  un  ordito  legislativo  che  consente
 all'I.N.A.I.L.  di  coltivare l'azione di regresso pur in presenza di
 pronunzie  penali  che  abbiano  escluso  nel  merito  la  fondatezza
 dell'imputazione   elevata  contro  il  responsabile  dell'infortunio
 ovvero  lo  abbiano  prosciolto  in  rito  (per  morte,  amnistia   o
 prescrizione),  senza entrare nel merito dell'accusa, neanche in quei
 termini limitati ad una delibazione di alcuni profili ben individuati
 del themas decidendum, propri della sentenza di patteggiamento, e non
 consente invece all'Istituto di agire a fronte di un giudizio  penale
 pervenuto  ad una sentenza di merito irrevocabile, pur peculiare come
 quella prevista dagli artt. 444 e ss. del c.p.p.
    Le  considerazioni  che  precedono   inducono   a   ritenere   non
 manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 10, quinto comma, del  d.P.R.  30  giugno  1965,  n.  1124,
 laddove  non prevede che, a fronte dell'azione di regresso esercitata
 dall'I.N.A.I.L. in base a sentenza di patteggiamento pronunziata  nei
 confronti  del  datore  di lavoro dell'infortunato, il giudice civile
 possa accertare il fatto costituente reato.