IL PRETORE
    Visti gli atti del procedimento n. 3726/93  r.g.n.r.,  n.  3795/94
 reg. pret. contro D'Inzillo Oreste, imputato:
       A)  del  reato  p.  e.  p.  dall'art. 20 lett. B della legge 28
 febbraio 1985, n. 47, per avere eseguito i lavori di  ampliamento  di
 un  preesistente fabbricato, realizzando un vano lungo m 5, largo m e
 dell'altezza di m 2,80 in muratura ed un piccolo corpo di fabbrica  a
 due  piani  f.t.  in  muratura  di  mattoni  forati, in assenza della
 concessione;
      B) Omissis;
      C) Omissis;
      In Calanna (RC), il 24 maggio 1993;
    Preso  atto  dell'istanza  presentata  all'odierna   udienza   dal
 pubblico  ministero  (dott.  Giuseppe  Creazzo)  a  che sia sollevata
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1,  2  e  3  del
 d.-l. 27 settembre 1994, n. 551, in relazione agli artt. 79 e 3 della
 Costituzione;
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuto  che  la  prospettata  questione  appare  rilevante e non
 manifestamente infondata per i motivi che seguono:
                          MOTIVI DI RILEVANZA
    Sembra  opportuno   citare,   nella   sua   sintetica   chiarezza,
 l'argomentazione  addotta  dal pubblico ministero, argomentazione che
 questo giudice condivide integralmente: "la questione  va  dichiarata
 rilevante  poiche'  deve  essere disposta la sospensione del presente
 procedimento.    Tale    sospensione    discende    obbligatoriamente
 dall'applicazione  del  combinato  disposto  dell'art. 1 del d.-l. n.
 551/1994 e dell'art. 44 legge n. 47/1985, posto che il reato  risulta
 essere  stato  commesso  entro  il  31  dicembre 1993, termine ultimo
 previsto dall'art. 1, primo comma, del  d.-l.  n.  551/1994  cit.  La
 sospensione  opera  e  deve  essere  disposta in tutti i procedimenti
 aventi ad oggetto i reati di cui all'art. 20 della legge n.  47/1985,
 anche  indipendentemente  da una richiesta di parte, e costituisce il
 primo  atto  dell'intera  procedura  prevista  per  addivenire   alla
 declaratoria  di  estinzione  del reato a seguito del pagamento della
 somma stabilita. Ne consegue che,  come  gia'  statuito  dalla  Corte
 costituzionale  in caso identico, afferente la disciplina di cui alla
 legge   n.   47/1985,   divengono   rilevanti   le    questioni    di
 costituzionalita'  relative  a  tutte  le  disposizioni  della  legge
 (adesso integralmente fatte rivivere dal  decreto-legge  citato)  che
 risultano   intimamente   collegate   tra  loro  nell'unico  fine  di
 regolamentare il meccanismo procedimentale di sanatoria (sent.  Corte
 costituzionale n. 369 del 23-31 marzo 1988)".
    Si  vuole  aggiungere  -  ad  ulteriore  conferma della tesi sopra
 esposta - che l'obbligatorieta' della  sospensione  trova  fondamento
 nelle   esigenze   di   "economia"   sottostanti  qualsiasi  istituto
 processuale: non sembra dubitabile, infatti, che persino a fronte  di
 un'espressa  istanza  in  senso  opposto dell'imputato il giudice sia
 tenuto a sospendere il procedimento, onde evitare  di  addivenire  ad
 una  pronuncia  suscettibile,  ab  origine e sino al suo passaggio in
 giudicato, di essere inficiata dalla  successiva  sanatoria  ottenuta
 dall'imputato  medesimo,  cui  la richiesta di "condono" non e' certo
 preclusa dalla sentenza penale, sanatoria che comporterebbe, ai sensi
 dell'art. 38, secondo comma, della legge n.  47/1985,  la  necessaria
 declaratoria di estinzione del reato.
                 MOTIVI DI NON MANIFESTA INFONDATEZZA
    Occorre  muovere dal raffronto tra il provvedimento normativo oggi
 impugnato e quello precedente, cui il medesimo fa  integrale  rinvio:
 e' proprio dalla "reviviscenza" dell'istituto contenuto nei capi IV e
 V  della  legge  n.  47/1985,  determinata  dal citato rinvio, che si
 desumono ed  evidenziano  i  contorni  ed  i  contenuti  del  recente
 "condono   edilizio";   contenuti  cui  deve  essere  necessariamente
 attribuita  natura  "clemenziale".  Tanto  deriva,   infatti,   dalla
 rinnovata  attualita'  dell'analisi gia' compiuta, in merito, proprio
 dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 369/1988, ove  si  legge
 che  la legge n. 47/1985 "pur non potendosi ritenere .. implicante la
 tipica  figura  dell'amnistia,  di  cui  all'art.   151   del   c.p.,
 costituisce, senza dubbia, 'specie' d'una generale nozione di 'misura
 di  clemenza'". Ebbene, non v'e' dubbio neppure che le considerazioni
 che indussero la Corte a pervenire, allora, ad una tale  conclusione,
 possano  oggi essere integralmente applicate al nuovo "condono", che,
 si ripete, recepisce pienamente la precedente normativa.
    Tanto  premesso,  sembra  oltremodo  verosimile   la   prospettata
 violazione   del   dettato  dell'art.  79  della  Costituzione,  come
 modificato dalla legge costituzionale  n.  1/1992,  che  prevede  gli
 istituti  di  clemenza, quegli istituti, cioe', che rompono "il nesso
 costante tra reato  e  punibilita'"  (sentenza  Corte  costituzionale
 citata).  Il  presente condono, infatti, verrebbe a determinare detta
 "rottura" al di fuori dei  limiti  procedimentali  costituzionalmente
 sanciti   per   lo   scopo,  che  prevedono  l'adozione  di  un  tale
 provvedimento con legge deliberata a maggioranza dei  due  terzi  dei
 componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione
 finale.
    Ne'   sembrano  poter  rivivere  le  ragioni  che,  a  suo  tempo,
 "giustificarono"  la  rinuncia  dello  Stato  alla  propria  potesta'
 punitiva,  ravvisandosi,  per  contro,  la  confliggenza del presente
 "condono" con il dettato fondamentale dell'art. 3 della Costituzione.
    Infatti, come incisivamente affermato dal pubblico ministero in un
 passo dell'istanza, che piace  riportare  testualmente,  "il  supremo
 organo   di  giustizia,  nella  sentenza  citata,  ritenne  opportuno
 tracciare, ribadendoli, i limiti costituzionali 'esterni'  al  potere
 di  emanare provvedimenti di clemenza da parte dello Stato, statuendo
 che tutte le volte in cui si rompe il  nesso  costante  tra  reato  e
 punibilita'  e  quest'ultima  viene  utilizzata  per  fini estranei a
 quelli  relativi   alla   difesa   dei   beni   tutelati   attraverso
 l'incriminazione  penale,  tale  uso, nell'incidere negativamente sul
 principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione,  deve  trovare
 la  sua  giustificazione  nel  quadro costituzionale che determina il
 fondamento ed i limiti del  potere  punitivo  dello  Stato.  Ritenne,
 quindi,  di  individuare  la  'giustificazione'  di  tale  dirompente
 provvedimento di clemenza nell'esigenza di 'chiudere con  un  passato
 di  illegalita'  di massa', si' da porre, per il futuro, 'sicure basi
 normative (discendenti dalla disciplina organica di cui alla legge n.
 47/1985) per la repressione futura di fatti che violano  fondamentali
 esigenze  sottese  al  governo  del  territorio,  come  la  sicurezza
 dell'esercizio   dell'iniziativa   economica    privata,    il    suo
 coordinamento  a  fini sociali, la funzione sociale della proprieta',
 la tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico ecc.  E
 questi beni non potevano essere validamente difesi, per il futuro, se
 non  attraverso  la "cancellazione' del notevole, ingombrante, carico
 pendente relativo alle passate illegalita'' (cfr. sent.  Corte  cost.
 cit.  in  Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, p. 24). Non vi e'
 dubbio, dunque, che la  sola,  vera  ragione  che  indusse  la  Corte
 costituzionale  a  respingere  le  censure  di  costituzionalita' del
 condono edilizio di cui alla legge n. 47/1985  fu  la  eccezionalita'
 del  provvedimento  e  l'esigenza  di  chiudere  con  il  passato  in
 occasione dell'emanazione di nuova, organica, disciplina  legislativa
 in materia di repressione di illeciti urbanistici ed edilizi".
    Alla  luce  di  quanto  sopra, sembra evidente a questo pretore la
 confliggenza del provvedimento rimesso oggi al vaglio  della  Suprema
 Corte  con  quei  principi  che  la  Corte  stessa  ritenne opportuno
 enunciare, e sottolineare con fermezza, per chiarire le ragioni della
 propria mancata censura al precedente condono. E' precisamente quella
 gerarchia di valori che giustifico' l'atto di clemenza di  allora  ad
 essere  oggi  minacciata:  allora  lo  Stato  rinuncio'  alla propria
 potesta' punitiva nel nome dei citati valori di tutela dell'ambiente,
 del patrimonio storico ed artistico,  della  funzione  sociale  della
 proprieta';  la  reiterazione  del  provvedimento, oggi, disattende e
 sovverte radicalmente le limpide indicazioni fornite  gia'  all'epoca
 dall'Organo di suprema giustizia.