IL PRETORE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale a
 carico di Turatti Vito, imputato del reato di cui all'art. 21,  terzo
 comma, della legge n. 319/1976, per avere, in qualita' di sindaco del
 comune  di  Mesola,  effettuato in acque superficiali uno scarico con
 parametri superiori ai  limiti  tabellari  quanto  a  solfuri,  azoto
 ammoniacale e tensioattivi.
                             O S S E R V A
    Che  il  p.m. di udienza dott. Nicola Proto ha richiesto pronuncia
 di questo pretore in ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza
 e rilevanza della questione di legittimita' degli artt.  3  e  6  del
 d.-l.  n. 629/1994 per violazione degli artt. 3, 9, 10, 41 e 77 della
 Costituzione, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Osserva il pretore che la richiesta e' fondata e ritiene  pertanto
 di  dover  dichiarare  rilevante  e non manifestamente infondata, per
 violazione degli artt. 3, 9, 10,  41  e  77  della  Costituzione,  la
 questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 3 del d.-l. 16
 novembre 1994, n. 629.
    Irrilevante  appare   invece,   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  6  del predetto decreto-legge, non dovendo
 trovare tale norma applicazione nel caso di specie, in cui non vi  e'
 un problema di difetto di autorizzazione.
    Circa  i  presupposti  di  diritto  in  ordine  alla non manifesta
 infondatezza si rileva quanto segue:
    1) Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    L'art. 3 del d.-l. n. 629/1/994 ha depenalizzato tutte le  ipotesi
 di  superamento  dei  limiti  di  accettabilita'  di cui alle tabelle
 allegate alla legge n. 319/1976, fatta  eccezione  per  gli  scarichi
 provenienti da insediamenti produttivi.
    Nel  contesto  sanzionatorio  della legge n. 319/1976, per come si
 delineava prima delle diverse modifiche apportate con i decreti-legge
 succedutisi dal 15  novembre  1993  ad  oggi,  il  reato  piu'  grave
 appariva essere quello previsto dal terzo comma dell'art. 21.
    Tale  normativa, anche alla luce della sentenza n. 1766/1993 delle
 s.u. della Cassazione era applicabile a tutti gli scarichi, quale che
 ne fosse la provenienza.
    Ora, se puo' essere ritenuto ragionevole l'intento legislativo  di
 sanzionare  solo  amministrativamente  gli scarichi provenienti dagli
 insediamenti  civili  (potendosi  presumere  che  gli  stessi   siano
 normalmente  caratterizzati  da  un carico inquinante minore rispetto
 agli scarichi degli insediamenti produttivi e quindi meno dannosi per
 l'ambiente), non altrettanto puo' dirsi con riferimento agli scarichi
 delle pubbliche fognature. Infatti, a queste ultime possono  affluire
 anche  scarichi  provenienti  da  insediamenti produttivi (evenienza,
 questa, disciplinata gia' nel corpo normativo  della  legge  Merli  e
 poi,  sotto  il profilo piu' squisitamente tecnico, dalla delibera 30
 dicembre 1980 del comitato  interministeriale  per  la  tutela  delle
 acque dall'inquinamento e recentemente dalla direttiva CEE n. 271 del
 21  maggio  1991)  per  cui  non  e'  possibile  fondare  un giudizio
 preventivo e generale di minor pericolosita'.
    Alla  stregua  della  disciplina  sanzionatoria  introdotta con il
 d.-l. n. 629/1994, dunque, mentre l'esercizio di un  singolo  scarico
 da insediamento produttivo, in violazione delle tabelle allegate alla
 legge  n.  319/1976,  viene  sanzionato  penalmente  anche qualora il
 superamento dei limiti tabellari sia  modesto,  costituisce,  invece,
 semplice  illecito  amministrativo  l'esercizio  dello scarico di una
 pubblica fognatura alla quale affluisce una  pluralita'  di  scarichi
 provenienti  da  insediamenti  produttivi,  anche  qualora lo scarico
 terminale superi in maniera rilevante i limiti tabellari  ed  apporti
 quindi un concreto nocumento alla situazione ambientale.
    Pertanto  la  nuova  normativa  fonda  la  differenziazione  della
 disciplina sanzionatoria non gia', come  sarebbe  ragionevole,  sulla
 potenzialita'  inquinante (sia pure presunta) degli scarichi e quindi
 sulla gravita' del fatto ma, in ultima analisi, sulla  qualifica  del
 soggetto   titolare  dello  scarico  terminale  (imprenditore  ovvero
 amministrazione pubblica).
    Ancora  piu'  corposo  si  manifesta  il  sospetto  di  violazione
 dell'art.   3   della  Costituzione  ove  si  confronti  la  condotta
 depenalizzata dall'art. 3 del d.-l. n. 629 con  quella  dallo  stesso
 non  modificata,  prevista  dall'art. 23, primo comma, della legge n.
 319/1976 e per la quale e' prevista la pena dell'ammenda fino a  lire
 5  milioni.  Tale  ultima  norma,  infatti, prevede la sanzione sopra
 indicata per "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi  prima
 che  l'autorizzazione  da  lui  richiesta  nelle forme prescritte sia
 stata  concessa".  Ne  deriva  la  paradossale  conseguenza  che  una
 condotta in concreto inquinante come quella di effettuare scarichi di
 pubbliche  fognature  superando  i limiti di tollerabilita' e' punita
 con una mera sanzione amministrativa mentre una  violazione  formale,
 quale  quella  rappresentata  dall'avere  attivato  uno  scarico (non
 necessariamente  inquinante)   prima   che   l'autorizzazione,   gia'
 richiesta,  sia  stata  rilasciata,  costituisce  una  fattispecie di
 rilievo penale.
    Infine un'ulteriore violazione  del  limite  della  ragionevolezza
 deriva  dalla circostanza che l'art. 3 del d.-l.  n. 629/1994 prevede
 il pagamento di una somma da  L.  3  milioni  a  L.  30  milioni  per
 l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui all'art. 21, comma
 3,  della  legge  n. 319/1976, mentre l'articolo 6 prevede la diversa
 maggiore sanzione del pagamento di una somma da L.  10 milioni  a  L.
 100 milioni per chi apre o comunque effettua scarichi delle pubbliche
 fognature,  servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza
 avere richiesto l'autorizzazione. Con riferimento al caso di  specie,
 quindi,  verrebbe  punito  piu' severamente l'amministratore pubblico
 che non chiede l'autorizzazione quando deve consentire l'apertura  di
 un  nuovo  scarico  fognario  (che  potrebbe  in  ipotesi  non  avere
 carattere    inquinante)     rispetto     all'amministratore     che,
 indipendentemente   dalla   richiesta   di   autorizzazione,  dispone
 l'effettuazione di uno scarico fognario sicuramente inquinante.
    2)  Violazione  degli  artt.  9,  secondo  comma,  e   32,   della
 Costituzione.
    Secondo  la giurisprudenza costituzionale il concetto di paesaggio
 deve intendersi come "ambiente naturale", come  ecosistema.  Ora,  la
 mancata  previsione  di  una  norma penale che sanzioni comportamenti
 profondamente   incidenti   sulla   qualita'   dell'ambiente,    come
 l'effettuazione  di  scarichi  di  pubbliche fognature che superino i
 limiti di accettabilita'; o l'attivazione dei predetti scarichi senza
 avere   richiesto   la   preventiva   autorizzazione,  determina  una
 diminuzione dell'efficacia preventiva e dissuasiva  della  disciplina
 di  cui  si tratta. Tale disciplina, inoltre, poiche' non differenzia
 il trattamento sanzionatorio a seconda della natura delle  acque  che
 recapitino  nelle  pubbliche  fognature  e, quindi, in base alla loro
 effettiva potenzialita' inquinante, ma solo in base al  dato  formale
 della   provenienza   (da  insediamenti  produttivi  o  da  pubbliche
 fognature), non  permette  una  adeguata  e  sostanziale  tutela  del
 paesaggio.
    Da  quanto  sopra esposto deriva pure il sospetto di contrasto tra
 le norme ordinarie e l'art.  32  della  Costituzione  che  tutela  il
 diritto  alla  salute  giacche' tale diritto ricomprende per costante
 giurisprudenza costituzionale il diritto all'ambiente salubre.
    3) Violazione dell'art. 10 della Costituzione.
    Deve rilevarsi la mancata conformazione  alle  norme  adottate  in
 sede  comunitaria  in materia di acque reflue urbane con la direttiva
 CEE n. 271  del  21  maggio  1991  in  quanto  norme  cui  il  nostro
 ordinamento  giuridico  e' tenuto costituzionalmente ad uniformarsi e
 che, ai sensi della predetta direttiva, avrebbe gia' dovuto  recepire
 dal 30 giugno 1993.
    In particolare l'art. 2 della direttiva pone una netta distinzione
 nell'ambito delle acque reflue urbane, tra le acque reflue domestiche
 e  le  acque  reflue industriali. Distinzione alla quale e' collegata
 poi una diversa disciplina fondata  sulla  necessita'  per  le  acque
 reflue   industriali   che   affluiscono   in   reti   fognarie,   di
 regolamentazione ed autorizzazioni specifiche  nonche'  di  specifici
 controlli  (artt. 11 e 13). Inoltre, la direttiva CEE, stabilisce, al
 fine  di  evitare  negative  conseguenze   sull'ambiente,   specifici
 requisiti  per  le  sole acque reflue industriali che confluiscono in
 reti fognarie e non invece per le acque reflue domestiche  che  hanno
 il medesimo sbocco (All. 1C).
    Ora,   poiche'   nell'ambito  della  direttiva  comunitaria  sopra
 indicata la natura  delle  acque  che  confluiscono  nelle  pubbliche
 fognature  rappresenta  elemento qualificante ai fini della normativa
 che  ne  regolamenta  lo  scarico,  deve  concludersi  che  l'attuale
 disciplina  statuale,  con  riferimento in particolare all'art. 3 del
 d.-l.  n.  629/1994,  in   quanto   prescinde   completamente   dalla
 considerazione    dell'elemento   discriminante   dinanzi   indicato,
 riservando  un  identico  trattamento  sanzionatorio  per   qualsiasi
 scarico  delle  pubbliche  fognature,  quale  che sia la natura delle
 acque che in esse  affluiscono,  e'  in  evidente  contrasto  con  la
 direttiva comunitaria.
    Del resto il legislatore appare ben consapevole di tale contrasto,
 atteso che ha precisato l'art. 1, quarto comma, del d.-l. n. 629/1994
 che  "le  disposizioni  del  presente  decreto si applicano in attesa
 dell'attuazione della direttiva 91/271 CEE del 21 maggio 1991".
    Ed e' particolarmente grave che lo Stato italiano, gia' due  volte
 condannato  dalla Corte europea di giustizia per la permissivita' del
 sistema autorizzatorio e per l'inadeguatezza delle  sanzioni  contem-
 plate dall'art. 22 della legge Merli (Corte di gius. 28 febbraio 1991
 e 13 dicembre 1990), ed ormai inadempiente rispetto al termine del 30
 giugno  1993,  previsto  per  l'adeguamento della normativa nazionale
 alla direttiva CEE 271 del 21 maggio 1991, continui a  legiferare  in
 via  d'urgenza in contrasto con la predetta disciplina, azzerando del
 tutto gli obblighi autorizzatori.
    E  cio' accade in una situazione in cui la costante giurisprudenza
 della Corte costituzionale afferma che tutti i soggetti competenti  a
 dare  esecuzione alle leggi sono giuridicamente tenuti a disapplicare
 le  norme  interne  incompatibili  con   la   normativa   comunitaria
 direttamente  applicabile  nell'ordinamento  interno  (Corte cost. 11
 luglio 1989, n. 389).
    4) Violazione dell'art. 41 della Costituzione.
    L'art.  41,  secondo  comma,  della   Costituzione   prevede   che
 l'iniziativa  economica  privata  non puo' svolgersi in contrasto con
 l'utilita' sociale e a tale norma viene generalmente  ricondotto,  al
 fine  di  fornirgli  veste  costituzionale,  il principio comunitario
 espresso in numerose direttive in materia ambientale del "chi inquina
 paga".
    In proposito  e'  anche  da  ricordare  la  sentenza  della  Corte
 costituzionale  n.  127  del 16 marzo 1990 la quale ha negato che "il
 costo eccessivo" possa giustificare la  mancata  adozione,  da  parte
 delle  imprese,  delle migliori tecnologie disponibili per ridurre le
 emissioni inquinanti). Ora, appare chiaro che  le  citate  norme  del
 decreto, laddove escludono la sanzionabilita' penale per gli scarichi
 delle pubbliche fognature, pur se agli stessi affluiscano scarichi da
 insediamenti produttivi, vengono di fatto a penalizzare anche sul pi-
 ano della libera concorrenza, quelle imprese che, servite da scarichi
 che   non   recapitano  in  pubbliche  fognature  abbiano  affrontato
 rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alla  normativa
 in  vigore  e  si  trovino  magari  esposte al rischio della sanzione
 penale (art. 23, legge n. 319/1976) per  avere  iniziato  l'attivita'
 prima di avere formalmente ottenuto l'autorizzazione richiesta.
    5) Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione.
    Il  principio  della  riserva di legge in materia penale possiede,
 quale primo e fondamentale significato, quello secondo cui le  scelte
 di  politica  criminale  sono  monopolio  esclusivo  del parlamento e
 l'ammissibilita' che nuove norme di diritto penale  siano  introdotte
 attraverso  decreti  legge  o  decreti  legislativi  e' connessa alla
 circostanza che, in entrambi i casi si  realizzi  e  sia  assicurato,
 comunque, l'intervento del parlamento in posizione sovraordinata, ora
 quale organo delegante (art. 76 della Costituzione).
    Ora  quale organo cui e' rimesso il potere di conferire stabilita'
 e durevolezza, attraverso la legge  di  conversione,  a  disposizioni
 normative  precarie e soggette a decadenza in caso di inutile decorso
 del termine di 60 giorni dettato dall'art. 77,  ultimo  comma,  della
 Costituzione.
    Nella  materia  in  questione  invece, con la reiterazione di vari
 decreti-legge  mai  convertiti  si  e'  realizzata,  di   fatto,   la
 sottrazione  al  Parlamento della sua esclusiva competenza a disporre
 in  materia  penale,  con   l'inammissibile   assunzione   da   parte
 dell'esecutivo  del relativo potere di bilanciamento e di valutazione
 degli interessi che in materia  penale  e'  di  esclusiva  competenza
 dell'organo assembleare rappresentativo della sovranita' popolare.
    La  prassi  della reiterazione dei decreti-legge in materia penale
 con contenuto identico  ovvero,  talvolta,  come  nella  specie,  con
 contenuto  diverso,  ha  come  conseguenza di sottrarre, di fatto, al
 Parlamento la possibilita' prevista dall'art. 77, ultimo comma, della
 Costituzione "di regolare con legge i rapporti giuridici sorti  sulla
 base  dei decreti non convertiti. E' evidente che, se la reiterazione
 dei decreti nella stessa materia si protrae per un anno, si  potranno
 determinare  effetti  definitivi quale il giudicato, non modificabili
 in sede giudiziaria, con la conseguente gravissima  compressione  dei
 diritti  dei  singoli,  resa ancora piu' incisiva dalla disparita' di
 trattamento che potrebbe verificarsi ove due  fattispecie  identiche,
 ma  giudicate  sotto  la vigenza di un diverso decreto-legge, vengano
 diversamente giudicate.
    Va ulteriormente osservato che la reiterazione a catena, per circa
 un anno di diversi decreti-legge in relazione  alla  stessa  materia,
 denota  in  modo  palese,  con  specifico  riferimento all'ultimo dei
 decreti emanati,  la  carenza  dei  requisiti  della  "necessita'  ed
 urgenza".  Requisiti  che,  se  possono  ipotizzarsi  come  esistenti
 rispetto al primo dei decreti, certamente sono venuti meno ad un anno
 di distanza e cioe' dopo un periodo di tempo tale  da  consentire  la
 normale legiferazione del Parlamento in via ordinaria.
    In  ordine  alla  rilevanza,  ove  si  ritenesse  la  legittimita'
 dell'art. 3 del d.-l.  n.  629/1994,  quest'ultimo  dovrebbe  trovare
 applicazione  al  caso  di  specie,  con  conseguente declaratoria di
 assoluzione per non essere il fatto  imputato  previsto  dalla  legge
 come reato.
    Dalle  considerazioni esposte, si desume che il presente giudizio,
 allo stato e vigente il d.-l. n. 629/1994, non puo'  essere  definito
 in   modo   indipendente   dalla   risoluzione   della  questione  di
 legittimita' costituzionale.