IL PRETORE Visti gli atti del procedimento n. 439/1994 r.g.n.r., n. 4156/1994 reg. pret. contro Riso Carmela Grazia, imputata: a) del reato p. e p. dall'art. 20, lett. c) della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per avere eseguito i lavori di costruzione di un sottotetto abitabile, con quattro camere e servizi, in totale difformita' della concessione in sanatoria, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico; b) del reato p. e p. dagli artt. 17 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, per avere iniziato la costruzione di cui al capo A senza nulla osta del Genio civile; c) del reato p. e p. dagli artt. 18 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, per avere effettuato la costruzione di cui al capo A senza la direzione tecnica di un professionista autorizzato; In Scilla (Reggio Calabria), il 23 novembre 1993; Preso atto dell'istanza presentata all'odierna udienza dal pubblico ministero (dott. Giuseppe Creazzo) a che sia sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724, in relazione agli artt. 79 e 3 della Costituzione; Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuto che la prospettata questione appare rilevante e non manifestamente infondata per i motivi che seguono; MOTIVI DI RILEVANZA Sembra opportuno citare, nella sua sintetica chiarezza, l'argomentazione addotta dal pubblico ministero, argomentazione che questo giudice condivide integralmente: "la questione va dichiarata rilevante poiche' deve essere disposta la sospensione del presente procedimento. Tale sospensione discende obbligatoriamente dall'applicazione del combinato disposto dell'art. 39 della legge n. 724/1994 (c.d. legge finanziaria) e dell'art. 44 della legge n. 47/1985, posto che il reato risulta essere stato commesso entro il 31 dicembre 1993, termine ultimo previsto dall'art. 39, primo comma, della legge n. 724/1994 cit. La sospensione opera e deve essere disposta in tutti i procedimenti aventi ad oggetto i reati di cui all'art. 20 della legge n. 47/1985, anche indipendentemente da una richiesta di parte, e costituisce il primo atto dell'intera procedura prevista per addivenire alla declaratoria di estinzione del reato a seguito del pagamento della somma stabilita. Ne consegue che, come gia' statuito dalla Corte costituzionale in caso identico, afferente la disciplina di cui alla legge n. 47/1985, divengono rilevanti le questioni di costituzionalita' relative a tutte le disposizioni della legge (adesso integralmente fatte rivivere dalla citata "finanziaria") che risultano intimamente collegate tra loro nell'unico fine di regolamentare il meccanismo procedimentale di sanatoria (sent. Corte costituzionale n. 369 del 23-31 marzo 1988). Si vuole aggiungere - ad ulteriore conferma della tesi sopra esposta - che l'obbligatorieta' della sospensione trova fondamento nelle esigenze di "economia" sottostanti qualsiasi istituto processuale: non sembra dubitabile, infatti, che persino a fronte di un'espressa istanza in senso opposto dell'imputato il giudice sia tenuto a sospendere il procedimento, onde evitare di addivenire ad una pronuncia suscettibile, ab origine e sino al suo passaggio in giudicato, di essere inficiata dalla successiva sanatoria ottenuta dall'imputato medesimo, cui la richiesta di "condono" non e' certo preclusa dalla sentenza penale, sanatoria che comporterebbe, ai sensi dell'art. 38, secondo comma della legge n. 47/1985, la necessaria declaratoria di estinzione del reato. MOTIVI DI NON MANIFESTA INFONDATEZZA Occorre muovere dal raffronto tra il provvedimento normativo oggi impugnato e quello precedente, cui il medesimo fa integrale rinvio: e' proprio dalla "reviviscenza" dell'istituto contenuto nei capi IV e V della legge n. 47/1985, determinata dal citato rinvio, che si desumono ed evidenziano i contorni ed i contenuti del recente "condono edilizio", contenuti cui deve essere necessariamente attribuita natura "clemenziale". Tanto deriva, infatti, dalla rinnovata attualita' dell'analisi gia' compiuta, in merito, proprio dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 369/1988, ove si legge che la legge n. 47/1985 "pur non putendosi ritenere .. implicante la tipica figura dell'amnistia, di cui all'art. 151 c.p., costituisce, senza dubbio, 'specie' d'una generale nozione di 'misura di clemenza'". Ebbene, non v'e' dubbio neppure che le considerazioni che indussero la Corte a pervenire, allora, ad una tale conclusione, possano oggi essere integralmente applicate al nuovo "condono", che, si ripete, recepisce pienamente la precedente normativa. Ad ulteriore - ma certo superfluo - suffragio delle dette considerazioni, puo' essere richiamata la previsione di un'esclusione soggettiva all'applicazione del provvedimento di sanatoria, e precisamente quella di cui all'ultimo periodo dell'art. 39, primo comma, cit., concernente i condannati per il reato di associazione di tipo mafioso: appare evidente il taglio "morale" di una simile esclusione che non trova giustificazione in oggettive connessioni tra l'attivita' ammessa al condono e la fattispecie per la quale il medesimo viene negato. Sola coerenza normativa che questo giudice ipotizza sottendere detta limitazione soggettiva alla fruibilita' della sanatoria e', dunque, proprio quella tipica dell'atto di clemenza, destinato a tutti e soli gli individui che il legislatore, nella sua sovranita' discrezionale e non certo arbitraria, ritiene meritevoli del beneficio concesso. Tanto premesso, sembra oltremodo verosimile la prospettata violazione del dettato dell'art. 79 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/1992, che prevede gli istituti di clemenza, quegli istituti, cioe', che rompono "il nesso costante tra reato e punibilita'" (sent. Corte costituzionale cit.). Il presente condono, infatti, verrebbe a determinare detta "rottura" al di fuori dei limiti procedimentali costituzionalmente sanciti per lo scopo, che prevedono l'adozione di un tale provvedimento con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nalla votazione finale. Ne' sembrano poter rivivere le ragioni che, a suo tempo, "giustificarono" la rinuncia dello Stato alla propria potesta' punitiva, ravvisando, per contro, la confliggenza del presente "condono" con il dettato fondamentale dell'art. 3 della Costituzione. Infatti, come incisivamente affermato dal pubblico ministero in un passo dell'istanza, che piace riportare testualmente "il supremo organo di giustizia, nella sentenza citata, ritenne opportuno tracciare, ribadendoli, i limiti costituzionali 'esterni' al potere di emanare provvedimenti di clemenza da parte dello Stato, statuendo che tutte le volte in cui si rompe il nesso costante tra reato e punibilita' e quest'ultima viene utilizzata per fini estranei a quelli relativi alla difesa dei beni tutelati attraverso l'incriminazione penale, tale uso, nell'incidere negativamente sul principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione, deve trovare la sua giustificazione nel quadro costituzionale che determina il fondamento ed i limiti del potere punitivo dello Stato. Ritenne, quindi, di individuare la 'giustificazione' di tale dirompente provvedimento di clemenza nell'esigenza di 'chiudere con un passato di illegalita' di massa', si' da porre, per il futuro, 'sicure basi normative (discendenti dalla disciplina organica di cui alla legge n. 47/1985) per la repressione futura di fatti che violano fondamentali esigenze sottese al governo del territorio, come la sicurezza dell'esercizio dell'iniziativa economica privata, il suo coordinamento a fini sociali, la funzione sociale della proprieta', la tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico ecc. E questi beni non potevano essere validamente difesi, per il futuro, se non attraverso la 'cancellazione' del notevole, ingombrante, carico pendente relativo alle passate illegalita' (cfr. sent. Corte cost. cit. in Gazzetta Ufficiale, 1a serie speciale, p. 24). Non vi e' dubbio, dunque, che la sola, vera ragione che indusse la Corte costituzionale a respingere le censure di costituzionalita' del condono edilizio di cui alla legge n. 47/1985 fu la eccezionalita' del provvedimento e l'esigenza di chiudere con il passato in occasione dell'emanazione di nuova, organica, disciplina legislativa in materia di repressione di illeciti urbanistici ed edilizi". Alla luce di quanto sopra, sembra evidente a questo pretore la confliggenza del provvedimento rimesso oggi al vaglio della Suprema Corte con quei principi che la Corte stessa ritenne opportuno enunciare, e sottolineare con fermezza, per chiarire le ragioni della propria mancata censura al precedente condono. E' precisamente quella gerarchia di valori che giustifico' l'atto di clemenza di allora ad essere oggi minacciata: allora lo Stato rinuncio' alla propria potesta' punitiva nel nome dei citati valori di tutela dell'ambiente, del patrimonio storico ed artistico, della funzione sociale della proprieta'; la reiterazione del provvedimento, oggi, disattende e sovverte radicalmente le limpide indicazioni fornite gia' all'epoca dell'Organo di suprema giustizia.