IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella causa contro Bruno
 Vallero Nicola, nato il 18 marzo 1972 a Chioggia (Venezia),  atto  di
 nascita  n.  186/A/I, ed ivi residente in viale Veneto, 18/B. Soldato
 nella F.A. del d.m. di Padova, celibe, censurato, libero, imputato di
 diserzione (art. 148, n. 2 del c.p.m.p.) perche', condannato in  data
 26  gennaio  1993  dal  tribunale  militare di Roma per un precedente
 reato di diserzione (art. 148,  n.  2  del  c.p.m.p.)  perdurante  al
 momento della sentenza, non faceva rientro al Corpo neppure dopo tale
 sentenza,  rimanendo arbitrariamente assente fino al 17 novembre 1993
 con il suo arresto da parte dei carabinieri di Chiggia Sottomarina.
    A  seguito  di  richiesta  di  applicazione  di  pena   da   parte
 dell'imputato e del p.m.
                            FATTO E DIRITTO
    Con  sentenza  in  data 26 gennaio 1993 (irrevocabile il 18 aprile
 1993) il militare  Bruno  Vallero  veniva  condannato  dal  tribunale
 militare  di  Roma  alla  pena di due anni di reclusione militare (v.
 certificato penale) per reato di  diserzione  (art.  148,  n.  2  del
 c.p.m.p.)  in  relazione  ad  assenza che, iniziata il 7 maggio 1991,
 ancora non era cessata alla data del giudizio.
    Il  procuratore  militare  in  sede,  a   fronte   del   perdurare
 dell'assenza,  instaurava  altro  procedimento  penale per un secondo
 reato di diserzione  decorrente  dal  26  gennaio  1993,  data  della
 pronuncia  del tribunale militare di Roma, e terminato il 17 novembre
 1993, con l'arresto di Bruno Vallero in Chioggia-Sottomarina. Ma  con
 sentenza  del 10 gennaio 1994 g.u.p. dichiarava non luogo a procedere
 per quest'ulteriore reato, ostandovi il principio del ne bis in  idem
 a norma dell'art. 649 del c.p.p.
    A  seguito  di  impugnativa  del  procuratore  generale,  la Corte
 militare d'appello,  sez.  di  Verona,  in  riforma  di  quest'ultima
 decisione  ha disposto tuttavia il rinvio a giudizio dinanzi a questo
 tribunale.
    In data odierna le parti ex art. 444 del c.p.p. hanno chiesto che,
 a norma dell'art. 81  cpv  del  c.p.,  trattandosi  di  un  ulteriore
 episodio riconducibile ad un unico disegno criminoso, sia applicata a
 Bruno Vallero la pena di quindici giorni di reclusione militare.
    Questo  tribunale  ritiene  che  la decisione della Corte militare
 d'appello sia corretta.
    Da una parte,  infatti,  l'unanime  giurisprudenza  regolatrice  e
 parte  della  dottrina concordano nel ritenere che i reati di assenza
 dal servizio (art. 148 e 151 del c.p.m.p.) siano permanenti.
    Dall'altra, la costante giurisprudenza e la  dottrina  prevalente,
 sul  presupposto  che il reato permanente congloba tutta una serie di
 azioni od omissioni sufficienti ciascuna a realizzare la consumazione
 del reato, affermano  che  la  sentenza  o  il  decreto  di  condanna
 "interrrompono la permanenza", di modo che il ne bis in idem riguarda
 la  sola  parte  del  reato  gia'  giudicata,  e  la prosecuzione del
 comportamento illecito integra un nuovo reato, per il quale non  puo'
 non intervenire un ulteriore giudizio.
    Il  principio  ha  trovato  applicazione per i reati permanenti di
 associazione  a  delinquere,  invasione  di  terreni,  sequestro   di
 persona,  violazione  degli  obblighi  di assistenza familiare, guida
 senza  patente,  in  materia  urbanistica,  edilizia,  finanziaria  e
 previdenziale,  ecc.  E recenti pronunce della Cassazione (sez. I, 13
 novembre 1992, c. D'Alessio; sez. II, 15 luglio 1993, c. Coppola), in
 linea  con  il  tradizionale  insegnamento  del   tribunale   supremo
 militare,  queste  stesse regole hanno applicato ai reati militari di
 assenza dal servizio.
    Questo tribunale non ritiene di dover mettere in dubbio ne' che  i
 reati  di diserzione e di mancanza alla chiamata (artt. 148 e 151 del
 c.p.m.p.)  siano  permanenti  (benche'  non  manchi  in  dottrina  la
 concezione  secondo  cui  i  reati omissivi non potrebbero essere che
 istantanei), ne' in linea di principio le cennate  statuizioni  sulla
 portata della preclusione del ne bis in idem.
    Tuttavia,  non puo' non porsi un delicato problema di legittimita'
 in relazione alle conseguenze che  si  determinano  a  seguito  delle
 plurime   condanne   per   le   condotte   illecite  che,  perdurando
 successivamente ad ogni giudizio, danno  luogo  a  nuovi  e  autonomi
 reati della stessa specie. Conseguenze che, comunque riguardanti ogni
 caso  di  permanenza  nel reato, risultano perticolarmente evidenti e
 gravi quando, come avviene per l'assenza dal servizio, la  permanenza
 nel  reato puo' protrarsi anche per venticinque anni circa (dall'eta'
 dell'obbligo di leva sino al compimento del  quarantacinquesimo  anno
 di eta').
    E'  chiaro che il trattamento sanzionatorio per un illecito penale
 deve poter tener conto anche  dell'ampiezza  del  periodo  nel  quale
 perdura la consumazione del reato. Tuttavia, di fronte all'indefinita
 possibilita'    del    moltiplicarsi    delle    condanne   a   causa
 dell'"interruzione giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649  del
 c.p.p.,  non  puo' non porsi un problema di legittimita', che valga a
 individuare un limite a questa spirale secondo cui,  sin  quando  non
 termini  il  periodo  di  lesione  del  bene  giuridico,  la condotta
 illecita porta ad una condanna che a sua volta pone  un  nuovo  fatto
 richiedente un'ulteriore sanzione, e cosi' via.
    Sensibile  a quest'esigenza, l'art. 377 c.p.m.p. stabiliva che per
 i reati di assenza dal servizio di regola non si poteva procedere  al
 giudizio  sin  quando  non  ne  fosse cessata la permanenza. La norma
 tuttavia, su istanza  di  questo  tribunale,  e'  stata  dalla  Corte
 costituzionale  caducata  (sentenza  n.  469 del 1990), dopo che, con
 l'entrata in vigore del  nuovo  c.p.p.  e  per  la  dichiarazione  di
 illegittimita' dell'art. 308 del c.p.m.p. (sentenza n. 503 del 1989),
 pure  a  seguito  di  questione sollevata da questo tribunale, ne era
 venuto meno il necessario complemento,  vale  a  dire  il  potere  di
 adottare  misure  cautelari  e  precautelari  idonee a far cessare la
 permanenza nel reato.
    L'attuale situazione, purtroppo, si caratterizza  per  ancor  piu'
 gravi violazioni di principi costituzionali.
    L'"interruzione  giudiziale  della  permanenza"  ex  art.  649 del
 c.p.p. comporta, innanzitutto,  che  la  responsabilita'  penale  del
 disertore  o  mancante  alla  chiamata  ancora  assente  non  dipenda
 solamente dal suo operato, come richiederebbe il principio  dell'art.
 27,   primo   comma,   della  Costituzione,  ma  anche  dallo  stesso
 funzionamento  dell'apparato   giudiziario   militare:   essa,   piu'
 concretamente,  cresce  in  ragione del numero delle condanne che nel
 periodo del perdurante reato gli vengono inflitte.
    Questo   moltiplicarsi  dei  giudizi  e  delle  sanzioni  produce,
 inoltre,  in  violazione   dell'art.   25,   secondo   comma,   della
 Costituzione,  un  innalzamento della pena edittalmente stabilita per
 il  reato  e  una  sanzione  praticamente  indeterminata  o,  se   si
 preferisce,  che  ex  art.  81 del c.p. trova un limite solamente nel
 triplo del massimo della pena edittale.
    Infine, ne risulta violato anche il principio  dell'art.  3  della
 Costituzione,  essendo  evidente che, a parita' di periodo di assenza
 dal  servizio,  il  trattamento  sanzionatorio  complessivo  viene  a
 derivare  dal grado di efficenza dell'apparato giudiziario competente
 a conoscere del resto nei vari autonomi episodi  che  si  creano  con
 l'"interruzione   giudiziale".   La   trasgressione   del   principio
 costituzionale  e',  del  resto,  evidente  anche  per  le  fasi  del
 procedimento  precedenti  il  giudizio:  da  una  posticipazione  del
 dibattimento   puo',   ad   esempio,   dipendere    la    sussistenza
 dell'aggravante di aver protratto l'assenza oltre sei mesi (art. 154,
 n. 2, del c.p.m.p.).
    E' chiaro, dunque, in quale senso la denunciata illegittimita' non
 possa riguardare l'"interruzione giudiziale della permanenza" ex art.
 649 del c.p.p. in quanto tale. Essa concerne la parte in cui - il che
 e' ampiamento sottolineato dalla giurisprudenza regolatrice che senza
 mezzi  termini  si  riferisce al comportamento successivo al giudizio
 come ad un episodio del tutto nuovo ed autonomo - consente che per un
 unico reato permanente, una o piu' volte giudizialmente "interrotto",
 sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio  superiore  a
 quello edittalmento stabilito per il reato medesimo.
   La  questione di legittimita' e' sicuramente rilevante nel presente
 giudizio, in quanto questo limite viene superato per il Bruno Vallero
 con l'aumento ex art. 81 del  c.p.,  dal  momento  che  il  tribunale
 militare  di  Roma  gia' ha irrogato una pena (due anni di reclusione
 militare) coincidente con il massimo edittale.