ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 63  del  codice
 di  procedura  penale, promosso con ordinanza emessa il 3 giugno 1994
 dal Pretore di Bologna nel procedimento penale  a  carico  di  Marani
 Clarisca  ed  altri, iscritta al n. 590 del registro ordinanze 1994 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  41,  prima
 serie speciale, dell'anno 1994;
    Udito  nella  camera  di consiglio del 22 febbraio 1995 il Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nel corso di un dibattimento a carico di persone imputate del
 reato di cui all'art. 220, primo comma, del regio  decreto  16  marzo
 1942, n. 267, in relazione all'art. 49 dello stesso regio decreto, il
 Pretore  di  Bologna  ha  sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24
 della Costituzione, questione di legittimita' dell'art. 63 del codice
 di procedura penale, "nella parte in cui non ricomprende il  curatore
 fallimentare  fra  i  soggetti indicati nel primo comma di tale norma
 quali destinatari delle dichiarazioni indizianti di una  persona  non
 imputata o non indiziata".
    In  punto  di  rilevanza il giudice a quo osserva che la prova del
 reato contestato si fonda sulla deposizione testimoniale del curatore
 e sui verbali di dichiarazioni a lui  rese  dagli  imputati,  la  cui
 utilizzabilita'  resterebbe  esclusa - non rientrando i detti verbali
 nella previsione di cui all'art. 237 del codice di procedura penale -
 ove  la  norma  denunciata  venisse   dichiarata   costituzionalmente
 illegittima,  "quanto meno perche'" le dichiarazioni sono state "rese
 senza l'avviso e l'invito di cui all'art. 63 c.p.p.".
    Relativamente  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
 premette  che  nel sistema del nuovo codice le prove orali si formano
 al   dibattimento,   eccezionale   rivelandosi    l'acquisizione    e
 l'utilizzazione  di  verbali  di  dichiarazioni.  La  possibilita' di
 acquisire e di utilizzare dichiarazioni di una persona attraverso  la
 deposizione  testimoniale  di  altra  persona - la c.d. testimonianza
 indiretta - trova, poi, specifici limiti nell'art.  195  del  codice,
 mentre  le  dichiarazioni comunque rese dall'imputato o dall'indagato
 "nel corso del dibattimento" (recte, "nel  corso  del  procedimento")
 non   possono   formare  oggetto  di  testimonianza;  una  disciplina
 completata dall'art. 63 dello stesso codice a norma del quale "se una
 persona non imputata o indiziata rende  all'autorita'  giudiziaria  o
 alla  polizia  giudiziaria  dichiarazioni  da  cui emergano indizi di
 reita'  a  suo  carico  deve  essere  interrotto  l'esame,  avvertito
 (l'indagato)  che possono essere svolte indagini nei suoi confronti e
 invitato  a   nominare   un   difensore",   mentre   "le   precedenti
 dichiarazioni  non possono essere utilizzate a fini di prova (ma solo
 quale indizio di reato)".
    Dall'assetto ora delineato emerge che se una persona riferisce  ad
 altri  fatti  costituenti  reato  questi  possono  essere  oggetto di
 testimonianza;  quando  tali  fatti  vengano  riferiti  all'autorita'
 giudiziaria  o  alla  polizia  giudiziaria,  "in  qualunque sede cio'
 avvenga"  trova  applicazione l'art. 63. Il tutto perche' ben diverse
 sono  le  due  situazioni:   nell'un   caso   le   rivelazioni   sono
 volontariamente  rese;  nell'altro  costituiscono  adempimento  di un
 "obbligo giuridico" o comunque scaturiscono da "situazioni in cui  la
 persona   venga   in  contatto  per  motivi  d'ufficio  con  soggetti
 qualificati che rivestono la qualifica di P.U.".
    Che il curatore possa deporre relativamente  a  fatti  costituenti
 reato a lui rivelati dal fallito non risulta oggetto di alcun divieto
 nell'ambito  del  vigente codice di rito (l'art. 62 si riferisce alle
 dichiarazioni  rese  nell'ambito  del  procedimento,  l'art.  63   si
 riferisce  alle  dichiarazioni  rese all'autorita' giudiziaria o alla
 polizia giudiziaria; donde l'impossibilita' di chiamare in  causa  la
 sentenza  costituzionale  n.  69/1984), con conseguente equiparazione
 delle dichiarazioni del fallito a quelle rese a un terzo pur  essendo
 tali  dichiarazioni  rese nell'ambito di un procedimento giudiziario,
 ad un pubblico ufficiale, davanti al quale il fallito ha l'obbligo di
 presentarsi a norma dell'art. 49 della legge fallimentare.
    Di qui la violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione perche'
 mentre,  da  un  lato,  si  consente  l'utilizzazione   delle   dette
 dichiarazioni  al  di  fuori  di  ogni garanzia difensiva, dall'altro
 lato, si detta un regime differenziato  rispetto  alle  dichiarazioni
 rese  al giudice civile, assoggettate alla disciplina di cui all'art.
 63  del  codice  di  procedura  penale  perche'  rese  ad   autorita'
 giudiziaria.
                        Considerato in diritto
    1.  -  Il Pretore di Bologna dubita, in riferimento agli artt. 3 e
 24 della Costituzione, della legittimita' dell'art. 63 del codice  di
 procedura  penale,  nella  parte  in cui non comprende tra i soggetti
 destinatari delle "dichiarazioni indizianti"  -  con  la  conseguente
 applicabilita'   della   disciplina   ivi   prevista   nei  confronti
 dell'imputato e  della  persona  sottoposta  alle  indagini  -  oltre
 all'autorita'  giudiziaria  ed  alla  polizia  giudiziaria,  anche il
 curatore del fallimento.
    Piu' precisamente, nel corso di un  procedimento  penale  ove  era
 stato  contestato  agli  imputati il reato di cui all'art. 220, primo
 comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all'art.
 49 dello  stesso  regio  decreto,  perche',  dichiarati  falliti,  si
 allontanavano  dalla  propria  residenza  senza  l'autorizzazione del
 giudice delegato al fallimento, il giudice a  quo,  premesso  che  la
 prova  di  detto  reato  si  fonda  sulla  deposizione  del  curatore
 fallimentare  e  sulle  dichiarazioni  a  lui  rese  dagli  imputati,
 l'utilizzabilita' delle quali resterebbe esclusa - donde la rilevanza
 della  questione  -  ove  le  stesse venissero assoggettate al regime
 previsto dall'art. 63, primo comma, del codice di  procedura  penale,
 ha   ravvisato   violazione   del   principio   di   eguaglianza  per
 l'ingiustificata   disparita'   di   trattamento,    nonostante    la
 "sostanziale  omogeneita'"  di situazioni, "fra le dichiarazioni rese
 da una parte al giudice civile in sede  di  interrogatorio  formale",
 alle  quali  sarebbe  riferibile  la  disciplina  dettata dalla norma
 denunciata, e quelle rese dal fallito al curatore che possono  essere
 utilizzate  sia  in  quanto  tali sia attraverso la deposizione dello
 stesso curatore; nonche' lesione del diritto di difesa  dell'imputato
 su   cui  grava  l'obbligo  giuridico  di  rendere  al  curatore  del
 fallimento  dichiarazioni  da  cui  potrebbe  scaturire  la prova del
 commesso reato.
    2. - La questione non e' fondata.
    Questa  Corte,  con  sentenza  n.  69/1984,  ha   gia'   esaminato
 un'analoga   questione,   peraltro,   piu'  correttamente  incentrata
 sull'art. 49 della legge fallimentare (chiamato in causa  in  quanto,
 oltre  a  prevedere  l'obbligo di residenza del fallito, fa carico al
 fallito stesso di presentarsi personalmente al giudice  delegato,  al
 curatore e al comitato dei creditori ogni qualvolta venga convocato),
 denunciato  nella  parte  in  cui  non  prevede  che il curatore, nel
 procedere  all'interrogatorio  del  fallito,   debba   osservare   le
 disposizioni  contenute,  per  casi  identici, negli artt. 78, ultima
 parte, 304, secondo e terzo comma, 304-bis, 304- ter e 304-quater del
 codice  di   procedura   penale   del   1930;   e   cio'   nonostante
 "l'interrogatorio  miri  ad acquisire dati che possono rilevare anche
 al fine dell'accertamento di eventuali responsabilita' penali".
    In tale occasione la Corte non ritenne violati ne' il principio di
 eguaglianza ne' il diritto di difesa, definendo le  censure  proposte
 basate  "su  un'identita'  di  posizione tra l'imputato e il fallito"
 assolutamente insussistente  "perche'  l'interrogatorio  del  fallito
 opera  fuori  dell'istruzione penale, per la quale l'art. 304, quarto
 comma, del codice di procedura penale, novellato con la  riforma  del
 1969, non manca di avvertire che nel corso dell'istruzione formale le
 dichiarazioni rese in assenza del difensore prima dell'assunzione, da
 parte dell'interrogato della qualita' di imputato, non possono essere
 utilizzate".  Non  si  omise,  peraltro,  di  precisare  che se "tali
 dichiarazioni non possono essere utilizzate, a fortiori  non  debbono
 essere  utilizzate  le  dichiarazioni  rese  dal  fallito  (sia  esso
 imputato oppur no) al curatore", considerato che tale  soggetto  "non
 e' da qualificare neppure ufficiale di polizia giudiziaria".
    3.  - Il rimettente ha contestato la riferibilita' di tale decisum
 al sistema del nuovo codice di procedura  penale  perche'  "l'attuale
 codice  sembra  consentire  la  deposizione testimoniale del curatore
 sulle dichiarazioni del fallito  non  potendo  trovare  applicazione,
 neppure  in  via  analogica,  l'art. 62 c.p.p., che si riferisce alle
 dichiarazioni rese nell'ambito del procedimento, ne' l'art. 63 c.p.p.
 che  si  riferisce  alle  sole   dichiarazioni   rese   all'autorita'
 giudiziaria e alla polizia giudiziaria".
    Ma,  in  tal  modo,  il giudice a quo, oltre a deviare dal petitum
 effettivamente  perseguito,  diretto  all'annullamento,  nella  parte
 sopra  indicata,  dell'art.  63  (un precetto rigorosamente attestato
 alla disciplina delle "dichiarazioni indizianti"),  perviene  ad  una
 soluzione  interpretativa che non trova alcun riscontro normativo nel
 raffronto tra il trattamento riservato alle dichiarazioni di  persona
 non imputata nell'abrogato e nel vigente codice di rito.
    4.  -  L'art.  304  del codice di procedura penale del 1930, quale
 risultante a seguito delle sostituzioni  operate  dall'art.  8  della
 legge  5  dicembre  1969,  n. 932, oltre a prevedere che, qualora nel
 corso dell'interrogatorio di  persona  non  imputata  che  non  abbia
 nominato  un  proprio  difensore  emergano  indizi di reita' a carico
 dell'interrogato, il giudice lo avverte, dandone  atto  nel  verbale,
 che  da  quel momento ogni parola da lui detta puo' essere utilizzata
 contro   di   lui,   contempla,   poi,   un   regime   di    assoluta
 inutilizzabilita'    delle    dichiarazioni   precedentemente   rese,
 riferibile  anche agli atti della polizia giudiziaria, in forza della
 "novellazione" dell'art. 78, secondo comma, dello stesso  codice,  ad
 opera dell'art. 11 della legge n. 932 del 1969.
    Il   detto   regime   -   beninteso,   riferibile   esclusivamente
 all'interrogatorio -  risulta  conservato  nel  sistema  del  vigente
 codice  di  rito che - sia pure nel diverso contesto scaturente dalla
 distinzione tra fase delle indagini preliminari e fase  del  processo
 (e  nella  conseguente  diversa  disciplina  quanto all'utilizzazione
 delle acquisizioni della fase anteriore al dibattimento) -  contempla
 espressamente  l'inutilizzabilita'  delle dichiarazioni della persona
 non imputata ovvero non sottoposta alle indagini dalle quali emergano
 indizi di reita' a  suo  carico.  Una  tale  preclusione  e',  certo,
 rigorosamente  circoscritta  all'imputato  ed alla persona sottoposta
 alle indagini (v. artt. 60, 61 e 63) secondo un  assetto  da  cui  si
 ricava  l'inutilizzabilita'  contro  il dichiarante delle "precedenti
 dichiarazioni" rese davanti all'autorita' giudiziaria o alla  polizia
 giudiziaria  da  persona  non  imputata  ovvero  non  sottoposta alle
 indagini;   con   in   piu'   l'assoluta   inutilizzabilita'    delle
 dichiarazioni  della  persona  che  avrebbe dovuto essere sentita fin
 dall'inizio quale imputato o quale persona sottoposta  alle  indagini
 (art.  63,  secondo  comma).  Cosicche' e' tuttora da ritenere che il
 detto regime non e' riferibile al  fallito  relativamente  agli  atti
 della  procedura  concorsuale,  e, piu' specificamente, all'esame del
 curatore, quest'ultimo essendo un  soggetto  che  -  puo'  anche  qui
 ripetersi  -  "non  e'  da  qualificare  neppure ufficiale di polizia
 giudiziaria".
    5.  -  D'altro  canto,  il  richiamo  del  rimettente  alla  ratio
 dell'art.  63,  individuata  nell'esistenza  "di  una  situazione  di
 obbligo giuridico" o comunque "nell'ambito di situazioni  in  cui  la
 persona  venga  in  contatto  per  motivi  di  ufficio  con  soggetti
 qualificati che rivestono la qualita' di P.U." e da  cui  deriverebbe
 la  dedotta  violazione  dell'art. 3 della Costituzione, si rivela la
 conseguenza di una non rigorosa verifica interpretativa: sia  perche'
 pure  al  curatore  del  fallimento  e'  riconosciuta la qualifica di
 pubblico ufficiale sia, soprattutto,  perche'  l'essersi  evocato  un
 tertium  comparationis individuato sulla base della parificazione, ai
 fini previsti dall'art.  63  del  codice  di  procedura  penale,  tra
 autorita'  giudiziaria e giudice civile e, dunque, tra interrogatorio
 dell'imputato o dell'indagato ed interrogatorio formale della  parte,
 appare  una  soluzione  ermeneutica  davvero  impropria  rispetto  ai
 principi' sia del rito civile sia del rito  penale.  Il  riferimento,
 infatti, all'autorita' giudiziaria, contenuto nell'art. 63 del codice
 di  procedura  penale,  e'  preordinato al solo fine di ricomprendere
 nella nozione di genere non soltanto il giudice penale, ma  anche  il
 pubblico  ministero.  Mentre  non  puo'  in essa essere ricondotto il
 giudice civile, il quale, pure ove in sede di interrogatorio  formale
 vengano  ammessi  dalla parte fatti costituenti reato, non puo' certo
 fare ricorso al regime previsto dalla norma ora denunciata,  essendo,
 semmai,  tenuto,  ai sensi dell'art. 331, quarto comma, del codice di
 procedura penale - come, del resto, in  ogni  altra  ipotesi  in  cui
 risulti  un fatto nel quale si puo' configurare un reato perseguibile
 di ufficio - a redigere ed a trasmettere senza ritardo la denuncia al
 pubblico  ministero;  diviene  infatti   del   tutto   impercorribile
 l'estensibilita'  del regime dettato dal piu' volte ricordato art. 63
 del  codice di procedura penale, nei confronti di un atto perseguente
 finalita' probatorie del tutto diverse da quelle proprie del processo
 penale, non essendo ricavabile da alcuna norma  del  rito  civile  un
 principio  che imponga al giudice civile di sospendere l'acquisizione
 di  un  atto  dell'istruzione  probatoria  in  funzione  di  esigenze
 teleologiche   esclusive   del   processo   penale  (arg.,  sia  pure
 indirettamente, ex artt. 295 del codice  di  procedura  civile,  come
 sostituito  dall'art. 35 della legge 26 novembre 1990, n.  353, e 211
 delle norme di coordinamento del nuovo codice di procedura penale).
    Un'analoga  improprieta'  risulta  dall'avere  il  giudice  a  quo
 mancato  di  discriminare  l'ipotesi  in  cui  il  fallito rivesta la
 qualita' di indagato da quella in  cui,  invece,  tale  qualita'  non
 abbia  ancora assunto: con inevitabili riverberi anche in riferimento
 alla dedotta violazione del diritto di  difesa,  soltanto  nel  primo
 caso    potendosi    profilare   ostacoli   all'utilizzazione   delle
 dichiarazioni. Cio' pure alla stregua del gia' ricordato principio in
 base al quale il divieto di esame opera  solo  con  riferimento  alle
 dichiarazioni  rese  "nel corso del procedimento" e non genericamente
 "in pendenza del procedimento" (v. sentenza n. 237/1993).
    6. - Tali precisazioni - se conducono ad escludere ogni  contrasto
 della  norma  denunciata  con  i  parametri costituzionali invocati -
 consentono di  ridurre  in  piu'  precisi  tracciati  ermeneutici  il
 problema  riguardante  la possibilita' di assumere la deposizione del
 curatore  del  fallimento  relativamente  a   fatti   risultanti   da
 dichiarazioni a lui rese dal fallito.
    Una simile tematica, su cui ha insistito il giudice a quo, pur non
 indicando   come   oggetto   di   apposita  impugnativa  le  relative
 prescrizioni codicistiche (il che - sia detto per inciso  -  dimostra
 ancora  una  volta  come  il  vizio denunciato non esorbiti dall'area
 dell'art. 63 del codice di procedura penale), non puo'  che  ricevere
 una  soluzione  che  sia  attenta,  da  un  lato,  alla posizione del
 curatore  fallimentare   con   riferimento   alla   possibilita'   di
 testimoniare  su  fatti  a  lui  rivelati  dal  fallito nel corso del
 procedimento fallimentare e, dall'altro lato, alla utilizzazione  nel
 processo penale, degli atti da cui emergano fatti di rilevanza penale
 a carico della persona esaminata proprio in forza delle dichiarazioni
 da questa rese al curatore del fallimento.
    7.  -  Quanto  a  quest'ultimo profilo, dall'interpretazione della
 Corte  di  cassazione  emerge  come  alla  relazione   del   curatore
 fallimentare  (entro  la quale puo' essere contenuta l'indicazione di
 fatti appresi dal fallito) venga riconosciuta la natura di  documento
 che,  a  norma  dell'art.  234  del  codice di procedura penale, puo'
 essere  acquisito  ed  utilizzato  come  prova.  E  cio'  perche'  la
 relazione  non ha origine nel processo penale e non e' finalizzata ad
 esso, diretta, come risulta, al giudice delegato e  non  al  pubblico
 ministero;  cosicche',  anche  se puo' contenere indicazioni utili ai
 fini delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione  penale,
 non  costituisce  di per se' una notizia di reato e, dunque, non puo'
 essere disciplinata come tale. Del resto, secondo il  giudice  penale
 di  legittimita'  il  diritto  alla  prova  non deve essere compresso
 creando  ipotesi  di  inutilizzabilita'  che   non   trovano   sicuro
 ancoraggio  nella  norma  processuale  e non puo' ignorarsi che nella
 relazione del curatore possono confluire anche accertamenti  analoghi
 agli  atti  irripetibili  della  polizia  giudiziaria  o del pubblico
 ministero  che  se  la  relazione  non  potesse  essere acquisita non
 avrebbero modo di essere utilizzati a fini probatori.
    8. - Relativamente al primo profilo, il richiamo all'art.  62  del
 codice  di  procedura  penale  che  preclude  la  testimonianza sulle
 dichiarazioni rese nel corso del procedimento dall'imputato  o  dalla
 persona  sottoposta  alle  indagini  non  puo', certo, coinvolgere le
 dichiarazioni rese al curatore.  Il  divieto,  infatti,  come  questa
 Corte ha gia' avuto occasione di chiarire, presuppone pur sempre "che
 le  dichiarazioni  su cui dovrebbe vertere la testimonianza de auditu
 siano state rese (anche spontaneamente) in occasione  del  compimento
 di  cio' che debba comunque qualificarsi come un (qualsiasi) atto del
 procedimento" (sentenza n. 237/1993). Ed e' sicuramente da  escludere
 (cfr.   la   piu'   volte  ricordata  sentenza  n.  69/1984)  che  le
 dichiarazioni destinate al curatore  possano  considerarsi  rese  nel
 corso  del  procedimento  penale, non potendo certo sostenersi che la
 procedura fallimentare sia preordinata alla verifica di  una  notitia
 criminis.
    Che,  poi,  possa  essere  assunta  la  deposizione  del  curatore
 relativamente a fatti appresi dal fallito e' circostanza da  valutare
 in  rapporto  all'ambito  di  operativita'  degli  artt. 62 e 195 del
 codice  di  procedura  penale,  senza  che  cio'  comporti  verifiche
 eccedenti  l'ordinaria  interpretazione delle norme codicistiche, non
 trascurando le enunciazioni della giurisprudenza ordinaria che si  e'
 pronunciata   nel   senso  dell'utilizzabilita'  della  testimonianza
 indiretta del curatore, secondo uno  schema  non  riconducibile  alle
 limitazioni derivanti dall'art. 62 del codice di procedura penale.
    Il  tutto anche considerando che da nessuna disposizione si ricava
 un precetto che precluda al curatore di  deporre  sui  fatti  appresi
 nell'esercizio  delle  sue funzioni, fermo restando, ove si tratti di
 deposizione de relato, l'osservanza delle prescrizioni concernenti la
 testimonianza indiretta.