IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel  procedimento  penale  di
 cui  sopra, a carico di Bartolucci Mirocle, imputato del reato di cui
 agli artt. 21 e 25 della legge n. 319/1976, osserva che  il  p.m.  di
 udienza   ha   richiesto   pronunzia  di  questo  pretore  in  ordine
 all'ipotesi  di  non  manifesta  infondatezza  della   questione   di
 legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n.
 9,  motivando  che la norma citata si pone in contrasto con gli artt.
 3, 9 e 10 della Costituzione.
    Cio' posto, il pretore  osserva  che  la  richiesta  del  p.m.  e'
 fondata  e  si ritiene, pertanto, di dover dichiarare rilevante e non
 manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 9,  10  e  32
 della  Costituzione,  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n.  9,  il  quale,  nella  sua
 integrale  stesura,  prevede  la  modifica  globale  del  terzo comma
 dell'art. 21 della legge  n.  319/1976  e,  sospendendo  il  presente
 procedimento,   dispone   la   trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.
    Il pretore rileva che gia' in precedenza,  con  ordinanze  dell'11
 ottobre  1994 e del 28 ottobre 1994, nei procedimenti penali a carico
 di Ferraiolo Alessandro e  Gelli  Paolo  e  di  Innocenti  Giancarlo,
 imputati  del  reato  di  cui all'art. 21 della legge n. 319/1976, il
 pretore di Grosseto si e' pronunziato in ordine  all'ipotesi  di  non
 manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  3  del  d.-l.  19 settembre 1994, n. 537, con trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale, per le argomentazioni  in  esse
 ordinanze esposte.
    Considerato  che  il citato decreto-legge, decaduto per non essere
 stato convertito in legge, e' stato sostituito integralmente e  senza
 alcuna  modifica  per quanto concerne l'indicato art. 3, con il d.-l.
 16 gennaio 1995, n. 9, art. 3.
    Che,   in   merito   a  quest'ultimo  decreto-legge,  con  recente
 ordinanza, in data  31  gennaio  1995,  il  pretore  di  Grosseto  ha
 sollevato  ugualmente  la  questione  di legittimita' costituzionale,
 cosi' come con ordinanze di questo pretore, in data 9 febbraio 1995 e
 16 febbraio 1995.
    Rilevato che le problematiche  applicative  appaiono  strettamente
 collegate  al caso in esame e le argomentazioni esposte nell'indicata
 ordinanza del 31 gennaio 1995, vanno condivise e, quindi, ribadite  e
 richiamate integralmente con la presente ordinanza.
    Le  argomentazioni  essenziali  poste  a  sostegno della sollevata
 questione costituzionale, riflettono quanto in appresso riportato.
    Quanto alla disciplina  degli  scarichi,  la  legge  prescrive  in
 particolare che:
       a)  gli  scarichi degli insediamenti produttivi (art. 12 e art.
 13) devono rispettare direttamente le tabelle. Fanno eccezione i soli
 scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976 (data di entrata in  vigore
 della  legge) immessi in pubbliche fognature provviste di impianto di
 depurazione  funzionante.  In  tal  caso  il  comune   che   gestisce
 l'impianto puo' prescrivere limiti piu' permissivi;
       b)   gli   scarichi  degli  insediamenti  civili  in  pubbliche
 fognature  sono  sempre  ammessi  purche'  osservino  i   regolamenti
 comunali (art. 14, primo comma);
       c) gli scarichi da pubbliche fognature (art. 14, secondo comma)
 sono  disciplinanti  dalle regioni, le quali devono tener conto delle
 direttive statali (emesse con delibera del  30  dicembre  1980),  dei
 limiti  delle  tabelle  e delle situazioni locali. In particolare, le
 citate direttive statali, mentre sono  molto  elastiche  e  nulla  di
 preciso  prescrivono in relazione a questi insediamenti civili (salvo
 la predisposizione di incentivi per favorirne l'allaccio  in  fogna),
 stabiliscono  invece  per  le  pubbliche fognature che le regioni non
 possono mai  derogare  ai  limiti  piu'  restrittivi  previsti  dalle
 tabelle  in  relazione  ai parametri di natura tossica, persistente e
 bioaccumulabile (specificati in un elenco) e che, quanto  agli  altri
 parametri,  deroghe  (permissive)  alle  tabelle sono consentite solo
 quando  "la  presenza  degli  scarichi  provenienti  da  insediamenti
 produttivi   non  sia  tale  da  conferire  al  liquame  in  ingresso
 all'impianto    di    depurazione     caratteristiche     qualitative
 sostanzialmente   diverse   da   quelle  attribuibili  agli  scarichi
 provenienti da soli insediamenti civili".  Solo  quando,  cioe',  gli
 scarichi   industriali   siano   di  minima  entita'  o  siano  stati
 efficacemente pretrattati a monte.
    Quanto alle sanzioni, la omessa  richiesta  di  autorizzazione  e'
 punita alternativamente con l'ammenda da 1.500.000 a 10.000.000 o con
 l'arresto  da  due  mesi a due anni (art. 21, primo e secondo comma),
 mentre, per il  superamento  dei  limiti,  l'art.  21,  terzo  comma,
 prevede  che  "si  applica sempre la pena dell'arresto (da due mesi a
 due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di cui alle
 tabelle  allegate  alla  legge,  nei  rispettivi  limiti  e  modi  di
 applicazione",  con la ulteriore pena accessoria della incapacita' di
 contrattare con la pubblica amministrazione.
    In conclusione, la legge Merli basa la  sua  operativita'  su  tre
 ordini  di  obblighi,  tutti  penalmente  sanzionati e tutti fra loro
 connessi, nei  confronti  dei  titolari  di  scarichi:  l'obbligo  di
 richiedere  l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le prescrizioni
 dell'autorizzazione  e  l'obbligo  di  rispettare  limiti prefissati,
 direttamente o indirettamente, dalla legge.
    Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una  serie
 di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il
 16  gennaio  1995 con il n. 9. Le principali modifiche apportate alla
 legge Merli dal citato decreto sono:
       A) In relazione all'obbligo di richiedere  autorizzazione  dopo
 18  anni,  si riaprono i termini per tutti gli inadempienti e, per il
 passato, si riazzera tutto e si  estinguono  i  reati  gia'  commessi
 purche'  i contravventori presentino, oggi, domanda di autorizzazione
 in sanatoria entro 90 giorni dalla legge di conversione e paghino  da
 500.000 a 3.000.000 (art. 7);
       B) Quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una
 serie  di  obblighi  (validi  a  livello  nazionale).  Ad esempio gli
 scarichi da pubbliche fognature e quelli  degli  insediamenti  civili
 non   in  pubbliche  fognature  devono  rispettare  limiti  non  piu'
 prefissati ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni,  che
 possono   tranquillamente   derogare   alle  tabelle;  anche  se  per
 l'immediato e fino a nuove direttive, "restano ferme le  prescrizioni
 adottate  anteriormente ed in particolare quelle di cui alla delibera
 del 30 dicembre 1980". Di modo che vengono penalizzate le regioni che
 a  questa  delibera  si  erano  adeguate  e   vengono   premiate   le
 inadempienti;
       C)  La  inosservanza  dei  limiti tabellari e non e' punita, di
 regola, non piu' con l'arresto ma con  sanzione  alternativa.  Quanto
 alle  ulteriori conseguenze per il superamento di limiti, venuta gia'
 meno con il nuovo codice  di  procedura  penale  la  possibilita'  di
 custodia  cautelare  in  caso  di recidiva, il decreto-legge in esame
 cancella della legge Merli anche la pena accessoria della incapacita'
 di contrattare con la pubblica amministrazione;
       D)  Analogamente,  la  inosservanza  delle  prescrizioni  delle
 autorizzazioni  allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge Merli
 con arresto o ammenda, comporta, con il decreto-legge in  esame  solo
 una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni.
    In  conclusioni, limiti certi vengono sostituiti da limiti rimessi
 alla discrezionalita' quasi  totale  di  regioni  e  comuni,  con  il
 pericolo  di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela; in
 piu',  la  inosservanza  di  questi  limiti,   con   il   conseguente
 inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa
 pecuniaria  ovvero  una  ammenda  oblabile senza vero rischio penale.
 Questo  rischio,   paradossalmente,   resto   solo   per   violazioni
 soprattutto  formali  e  "burocratiche" (quali la omessa richiesta di
 autorizzazione allo scarico). Ma, comunque, per esse  dopo  18  anni,
 scatta  una  totale  sanatoria  rispetto  al  passato,  premiando gli
 inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge.
    Appare evidente che il d.-l. n. 9/1995, scardina,  o  quanto  meno
 depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la
 legge   Merli  (obbligo  di  richiedere  autorizzazione,  obbligo  di
 rispettare  le  prescrizioni  dell'autorizzazione   ed   obbligo   di
 rispettare limiti prefissati).
    Per  tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia'
 rilevato per i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza  del  2
 agosto  1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di Grosseto
 11 ottobre 1994, pretore di Grosseto 28 ottobre 1994)  e  lucidamente
 sostenuto  in scritti (G. Amendola) viola il principio di uguaglianza
 sancito dall'art. 3 della  legge  fondamentale  dello  Stato.  Appare
 evidente  che,  dopo  le modifiche introdotte dal decreto nel sistema
 sanzionatorio  della  legge  Merli,   la   violazione   di   obblighi
 "burocratici"  e  formali,  certamente  non ricollegabili ad un danno
 all'ambiente  quali  la  omessa  richiesta  di  autorizzazione   allo
 scarico, viene punita, ai sensi dell'art. 21, primo comma, come reato
 con la pena dell'arresto o dell'ammenda; mentre la fattispecie di ben
 maggiore  gravita'  sostanziale,  quale  l'inquinamento dell'ambiente
 provocato con il superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo
 comma, e proprio per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame
 con la pena piu'  severa  di  tutta  la  legge  (solo  arresto,  pena
 accessoria),  viene  punita  come  illecito  amministrativo  con  una
 sanzione pecuniaria ovvero, con la pena  alternativa  dell'ammenda  o
 dell'arresto  (con  tutte  le  conseguenze piu' favorevoli che questo
 comporta). Insomma, in tal modo, fatti  gravi  vengono  illogicamente
 puniti  in  modo  molto piu' benevolo di fatti certamente piu' lievi.
 Peraltro, in tal modo si  introduce  una  disparita'  di  trattamento
 anche  rispetto  al  sistema  complessivo  della  normativa di tutela
 ambientale che si e' rappresentato in precedenza (cfr. ad esempio, il
 d.P.R. 24 maggio  1988,  n.  203,  sull'inquinamento  atmosferico  da
 industrie),  ed  in  particolare  con le altre leggi che si occupano,
 come la Merli, di inquinamento delle acque (quale la legge  a  difesa
 del  mare  n.  979  del  31 dicembre 1981 e il decreto legislativo 27
 gennaio 1992, n. 133, sugli  scarichi  di  sostanze  pericolose),  le
 quali  prevedono  tutte  sanzioni  penali  (e non amministrative) per
 fatti  di  inquinamento   o   per   violazione   delle   prescrizioni
 dell'autorizzazione.
    In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante
 giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di
 eguaglianza  consente  al  legislatore di emanare norme differenziate
 riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo  a  condizione  che
 tali  norme  rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento
 sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne
 giustifichino l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del  1963).
 Per  cui  la Corte ha dichiarato illegittime norme che prevedevano un
 trattamento sanzionatorio irrazionalmente  differenziato  rispetto  a
 quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena
 edittale  minima  per  l'oltraggio (n. 341 del 1994); ovvero, con una
 decisione proprio relativa all'art. 21 della legge Merli (ove  si  fa
 espresso  riferimento anche al complesso della normativa ambientale),
 eliminando  il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni   sostitutive
 (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994).
    Orbene,  in  questa  sentenza,  ricorda  la  Corte che si viola il
 principio di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita  ad
 un  "sistema  normativo  assolutamente squilibrato", come avviene, ad
 esempio, quando si  favorisce  "chi  ha  posto  in  essere,  fra  due
 condotte  gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata da
 maggiore gravita', discriminando invece chi ha  realizzato  il  fatto
 che  meno  offende  lo  stesso  valore giuridico (sentenza n. 249 del
 1993)".  Esattamente  quello  che  ha  fatto  il   Governo   con   il
 decreto-legge in esame.
    Ma  l'art.  3 della Costituzione risulta violato anche sotto altri
 profili.  La  nuova  formulazione  dell'art.  14,  concedendo   ampia
 discrezionalita'  alle  regioni per la fissazione di limiti comporta,
 con  ogni  evidenza,  la  possibilita'  che  vi  siano   marcate   ed
 irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione.
    In   detto   svuotamento  sanzionatorio  di  uno  dei  reati  piu'
 importanti in materia di  tutela  ambientale  (forse  il  reato  piu'
 importante  in  assoluto  in  materia  di inquinamenti) si profila ad
 avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art.
 9,  secondo  comma,  della  Costituzione,  laddove  la   tutela   del
 paesaggio,  inteso  secondo  le piu' recenti pronuncie della Corte di
 cassazione e della Corte costituzionale, non deve essere inteso  solo
 come  bellezza  estetica  da  cartolina  ma come ambiente naturale in
 senso  lato,  quindi   comprensivo   anche   degli   inevitabili   ed
 inscindibili aspetti bionaturalistici.
    Per  gli  stessi  motivi  esposti  in  relazione  all'art. 9 della
 Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in  contrasto
 anche con l'art. 32 della carta costituzionale.
    Infatti,  nel  concetto  di  tutela  della  salute  come principio
 costituzionalmente garantito deve, per forza di cose  ricomprendersi,
 il  piu'  vasto  concetto  della  salute  pubblica  nel  senso  delle
 salubrita' dell'ambiente naturale ed  urbano  ove  ciascun  cittadino
 vive.  Il  diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente
 salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza  (si
 veda  per  tutte  la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6
 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale  in  data  31  dicembre
 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la
 diminuita,  ed  anzi  per  certi  versi  di fatto del tutto caducata,
 possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da
 inquinamento  idrico  crea   i   presupposti   per   una   evoluzione
 incontrollata  del  fenomeno,  incoraggiata  dall'abbassamento  della
 guardia in sede di controlli di p.g.  e  possibilita'  di  intervento
 processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per
 la  salute  e  salubrita'  pubblica  in  un  ambiente che resta cosi'
 maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante.
    Va ancora rilevato che la norma in  esame  pare  porsi  in  totale
 contrasto   con  gli  obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese  per
 l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di
 giustizia ha condannato il nostro  Paese  per  il  contrasto  tra  le
 "legge  Merli"  e  le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la
 permissivita'  del  sistema  autorizzatorio   previsto   e   per   la
 "insufficienza"  delle  sanzioni  penali  previste  dall'art.  22  in
 relazione alla inosservanza  delle  prescrizioni  dell'autorizzazione
 (Corte  di  giustizia  28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra
 esposta generale regressione sanzionatoria creata  dal  decreto-legge
 in  esame  concretizza  di  conseguenza  una ulteriore evoluzione del
 grado di inadempienza italiana verso le  direttive  CEE  e  verso  le
 sentenze della Corte europea.
    Peraltro  il  decreto stesso, si pone in evidente contrasto con la
 direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento  delle  acque
 reflue  urbane,  che  lo  Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire
 entro lo scorso giugno  1993  e  che  fissa  obblighi  e  limiti  ben
 precisi,  con  ben  pochi  margini  di discrezionalita' specie per le
 "aree sensibili". E del resto il contrasto e'  apparso  evidentemente
 gia'  in  sede di redazione del testo in esame se il decreto richiama
 espressamente nell'art. 1 la direttiva 91/217/CEE del 21 maggio 1991.
    Ove  il  decreto  n.  9 dovesse essere convertito in legge, le sue
 prescrizioni si  applicheranno  dunque  finche'  non  si  sara'  data
 attuazione  alla  citata direttiva; attrazione che dovrebbe avvenire,
 secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 febbraio 1994,  entro
 il  marzo  1995  e,  peraltro,  con  rigidi  principi  di  attuazione
 predeterminati dal Parlamento (art.  37,  primo  comma)  in  evidente
 contrasto  con  la elasticita' e genericita' del decreto in esame, il
 che provochera' ulteriore confusione ed incertezza del diritto.
    Ed in ogni caso va  sottolineato  che,  secondo  la  citata  legge
 comunitaria,  il  Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva
 provvedendo allo "adeguamento della normativa vigente alla disciplina
 comunitaria,  apportando  alla  prima  ogni  necessaria  modifica  ed
 integrazione  allo  scopo  di definire un quadro omogeneo ed organico
 delle disposizioni di settore" (art. 36, lett. c)).
    Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto  n.
 9/1995,  ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art.
 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del
 diritto internazionale.
    Da quanto  sopra  esposto  emerge  la  rilevanza  della  sollevata
 eccezione  sul  caso  in esame, ove risulta contestato il superamento
 dei limiti tabellari, con le differenze  normative  richiamate  e  le
 diverse strategie processuali percorribili da parte della difesa, sia
 in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione.