IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Vista l'istanza di revoca della misura personale coercitiva della custodia in carcere avanzata da Pataro Luciano in data 25 marzo u.s., e letto il parere contrario del pubblico ministero del 31 marzo successivo; Rilevato che l'indagato lamenta l'ingiustizia e l'inadeguatezza della misura coercitiva della custodia in carcere adottata, in relazione alla personalita' ed alle attuali condizioni familiari ed economiche dello stesso, tali da escludere in modo assoluto il pericolo di fuga a cautela del quale la misura e' stata disposta, in considerazione anche del comportamento tenuto nell'intervallo di tempo tra il provvedimento di rimessione in liberta' e il nuovo provvedimento restrittivo, durante il quale lo stesso e' rimasto a disposizione dell'autorita' giudiziaria; Considerato inoltre che: Pataro Luciano e' sottoposto alle indagini per i delitti di cui agli artt. 416 del c.p., 81 cpv., 110, 648-bis del c.p., 7 del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152 convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203, per avere, unitamente ad altri concorrenti, promosso e realizzato una struttura associativa finalizzata a riciclare ingenti quantita' di denaro, proveniente dal traffico internazionale di stupefacenti, e per avere, avvalendosi di una serie di conti correnti bancari accesi in Italia ed in svariati paesi esteri, sostituito sistematicamente il denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti dei cartelli colombiani con oro grezzo e/o lavorato, acquistato sui mercati interni dell'aretino e del vicentino, conseguendo cosi la finalita' di agevolare l'attivita' delle suddette organizzazioni colombiane dedite al traffico internazionale della droga; questo giudice per le indagini preliminari, con ordinanza 15 gennaio 1994, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, disponeva la custodia cautelare in carcere per il Pataro Luciano ed altri indagati, ravvisando nei loro confronti la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari in relazione ai gravi delitti contestati; nel prosieguo delle indagini lo stesso veniva posto in liberta' ai sensi del disposto dell'ultima parte del comma 3 dell'art. 275 del c.p.p; a seguito di ulteriori risultanze investigative, in particolare delle dichiarazioni rese da un coindagato colombiano divenuto, nel frattempo, collaboratore di giustizia, dei numerosi documenti contabili acquisiti e dei controlli incrociati ad essi relativi, il pubblico ministero precisava ed ampliava l'imputazione e chiedeva al giudice l'emissione di un nuovo ordine di custodia cautelare per sette persone sottoposte alle indagini, tra cui il Pataro Luciano, da tali ulteriori risultanze emergendo con maggiore chiarezza i ruoli e le funzioni degli associati nonche' il complesso meccanismo attraverso cui affluivano in Italia i narcodollari che venivano riciclati con dollari puliti e con ingenti partite di oro acquistato sui mercati di Arezzo e di Vicenza; con ordinanza del 1 marzo 1995 questo giudice per le indagini preliminari disponeva nuovamente la misura cautelare della custodia in carcere per quattro inquisiti, tra cui il Pataro Luciano, ritenendo credibili e munite di riscontri le dichiarazioni del collaboratore di giustizia e sussistenti le condizioni di applicabilita' della misura e in particolare il ripresentarsi delle esigenze cautelari sotto il profilo del pericolo di fuga. O S S E R V A Permangono a carico dell'istante le condizioni di applicabilita' delle misure, rappresentate dai gravi indizi di colpevolezza, desunti dagli atti di indagine del pubblico ministero ed in particolare dalle numerose, precise e riscontrate dichiarazioni del collaboratore di giustizia Del Gado Upegui Gustavo, nonche' da quelle assunte, mediante rogatoria internazionale in U.S.A., da Efraygi Mahmoud Mohamad, Abenhaim Sion e Kouyoumjian Wanis, dai documenti contabili acquisiti e dai relativi controlli incrociati, come ampiamente motivato nell'ordinanza applicativa della misura della custodia in carcere del 1 marzo 1995 che deve qui intendersi integralmente richiamata. Nondimeno, per quanto attiene alle esigenze cautelari, il pericolo che il Pataro Luciano, se rimesso in liberta', si dia alla fuga, pur se concretamente sussistente in relazione ai contatti, alle amicizie ed agli affari che il predetto intrattiene con lo stato di Panama, suo paese natale, e con la Colombia, e al verosimile intento di sottrarsi alla giustizia in presenza dell'aggravamento del quadro probatorio e del trattamento sanzionatorio prevedibile, puo' essere adeguatamente salvaguardato con una misura cautelare coercitiva diversa dalla custodia in carcere, in particolare attraverso il ricorso alla meno afflittiva misura degli arresti domiciliari con i divieti di cui al secondo comma dell'art. 284 del c.p.p., unitamente al ritiro dei documenti validi per l'espatrio ai sensi dell'art. 281 cpv. del c.p.p. Una siffatta soluzione pero', stante l'inequivoco disposto normativo di cui all'art. 275, terzo comma, del c.p.p., e' impedita, in presenza dei gravi indizi di colpevolezza relativamente a taluno dei delitti ivi previsti (qui, dalla contestazione della circostanza aggravante di cui all'art. 7 della legge n. 203/1991 di conv. del d.-l. n. 152/1991), dalla presunzione legale di adeguatezza della sola misura coercitiva della custodia in carcere a fronteggiare le esigenze cautelari, presunzione iuris tantum superabile soltanto attraverso la prova positiva dell'insussistenza delle esigenze cautelari. La previsione normativa ricordata, a seguito delle modifiche introdotte con l'art. 5, primo comma, del d.-l. n. 152 cit. e, successivamente, con l'art. 1, primo comma, del d.-l. 9 settembre 1991, n. 292 convertito con modifiche dalla legge 8 novembre 1991, n. 356, preclude al giudice ogni valutazione in merito alla adeguatezza, o meno, della custodia in carcere alle concrete esigenze, facendo perdere irragionevolmente di significato al parametro di adeguatezza di cui al primo comma dell'art. 275 del c.p.p., e al principio dell'extrema ratio della custodia cautelare in carcere, espresso dalla prima parte del terzo comma. L'attuale disciplina sembra quindi porsi in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di liberta' personale e di non colpevolezza di cui agli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione. La norma censurata infatti sottrae al giudice il potere di valutare nel merito l'entita' delle esigenze cautelari effettivamente presenti, per applicare di conseguenza la misura adeguata in concreto a fronteggiarle: cosi' il legislatore viene irragionevolmente a negare i principi appena sanciti, imponendo in ogni caso l'applicazione della misura piu' afflittiva, anche quando essa e' eccessiva rispetto alle esigenze cautelari del caso, e si rivela pertanto ultronea rispetto alla concezione del carcere come extrema ratio. Su tali principi e concetti, che costituiscono il risultato di una forte domanda di civilta' e di umanita' in tema di misure cautelari, prevale quindi nelle novelle successive all'emanazione del codice una esplicita sfiducia verso l'organo giudiziario preposto alla emanazione di provvedimenti restrittivi della liberta' personale, evidentemente ritenuto incapace di apprezzare, in concreto, la pericolosita' particolarmente qualificata di soggetti autori di gravi reati, ed incline ad allentare le cautele nei confronti di tali soggetti per un malinteso favor libertatis. Ne risulta un sistema cautelare irragionevole, nel quale i principi e concetti suddetti sono scritti per essere subito dopo negati, in relazione ad un gran numero di reati, che e' prossimo ad esaurire la gamma di quelli per i quali si suole fare ricorso nella pratica alle misure cautelari, e che comprende comunque delitti fra loro notevolmente diversificati, ovvero suscettibili di differenziarsi nei singoli casi concreti. Tale profilo di irragionevolezza, laddove determina un'unica indifferenziata risposta cautelare, e la piu' grave - quella concepita come extrema ratio - a fronte di situazioni tra loro cosi' diverse, sul piano della gravita' della fattispecie astratta, ed ancor piu' sul piano del caso singolo (effettivo coefficiente di gravita' dei reati, personalita' e pericolosita' in concreto dell'indiziato), si traduce in un giustificato sospetto di violazione del principio di uguaglianza: situazioni obbiettivamente diverse, le quali necessiterebbero di una corrispondente articolazione nella scelta della misura cautelare da applicare, vengono ad essere appiattite dalla presunzione astratta di adeguatezza della sola misura della custodia in carcere. La norma richiamata viola quindi il principio di eguaglianza laddove prescrive l'eguale trattamento di situazioni tra loro sostanzialmente diverse e non consente al giudice di differenziare, entro un ambito piu' o meno ampio, la risposta cautelare dell'ordinamento nei confronti di soggetti sottoposti ad indagini per i delitti di cui all'art. 275, terzo comma, del c.p.p.: di fatto il giudice, in presenza dei presupposti di cui all'art. 273 del c.p.p., deve solo limitarsi ad apprezzare se sussistano, ancorche' a livello minimale, le esigenze cautelari indicate al successivo art. 274, senza tuttavia poter accedere ai criteri di scelta delle misure, potendo negare o revocare la misura suddetta soltanto quando sono acquisiti elementi positivi, tali da escludere la sussistenza di dette esigenze. Peraltro la norma in esame ha in se' un ulteriore grave profilo di irragionevolezza: lo stesso legislatore (art. 275, terzo comma, ultima parte, del c.p.p.) ammette la possibilita' che anche per gravi delitti non siano presenti in concreto (per inesistenza ab initio o per il loro susseguente venir meno) le esigenze cautelari, e che il giudice apprezzi tale situazione di mancanza delle esigenze cautelari, di conseguenza astenendosi dall'applicare la custodia in carcere, e con essa qualsivoglia diversa misura coercitiva. Dunque il giudice puo' verificare se, di fronte al gravemente indiziato di uno dei gravi reati di cui si tratta, le esigenze cautelari siano nulle, e di conseguenza mandarlo libero da qualsiasi cautela, sia pure la meno afflittiva: ma non puo' verificare cio' che a maggior ragione parrebbe abilitato a verificare, vale a dire l'esistenza di esigenze cautelari attenuate, suscettibili di adeguato presidio con l'adozione di una diversa misura. L'incoerenza del sistema appare davvero clamorosa, poiche' il giudice, secondo una logica che non e' eccessivo definire perversa, ha il potere di lasciare completamente libero l'indiziato del piu' grave dei gravi delitti indicati dal terzo comma dell'art. 275, ma non ha il potere di disporre a suo carico una misura meno afflittiva del carcere, pur in presenza di esigenze cautelari tenui o molto tenui, e comunque tali da trovare adeguato presidio in misure diverse. Si affida pertanto al giudice (e, prima che al giudice, al pubblico ministero, il quale, ritenendo l'inesistenza di esigenze cautelari, puo' astenersi dal chiedere l'applicazione della misura cautelare nei confronti di chi e' indiziato di uno dei c.d. delitti a cattura obbligatoria), il potere di compiere l'arduo pronostico di cessazione della pericolosita' dell'indiziato del grave o gravissimo reato (ovvero del rischio che si dia alla fuga per evitare una pesante condanna). Ma si diffida nello stesso tempo del giudice, allorche' si tratta di formulare la previsione che tale pericolosita' e tale rischio si sono ridimensionati fino al punto di poter essere fronteggiati in modo appropriato con gli arresti domiciliari o con altra cautela: ne risulta la possibilita' di irrazionali discriminazioni, fra soggetti indiziati che presentano situazioni borderline quanto all'apprezzamento delle esigenze cautelari. La previsione dell'art. 275, terzo comma, del c.p.p. appare altresi' in contrasto con il principio secondo cui la liberta' personale e' inviolabile e con quello per il quale l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva, di cui agli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione. La lettura combinata di tali principi porta a ritenere che le misure limitative della liberta' personale siano circoscritte a quelle strettamente necessarie per l'apprestamento di indispensabili cautele a fronte di effettivi pericoli per altri valori costituzionalmente protetti. A cio' e' strettamente collegata l'ulteriore conseguenza, fatta propria dalle ricordate proposizioni contenute nel primo comma e nella prima parte del terzo comma dell'art. 275 del c.p.p.: se la liberta' personale e' un valore fondamentale, e se le misure cautelari non possono costituire anticipazione della pena, ne deriva che la limitazione di tale liberta' dovra' essere quella minore in concreto possibile, la compatibilita' tra i diversi valori costituzionali in contrapposizione venendo a realizzarsi attraverso l'applicazione di quella misura cautelare, eventualmente diversa dal carcere, che sia adeguata e sufficiente a presidiare le specifiche esigenze di cautela. I parametri costituzionali ora evidenziati confermano dunque come l'adozione del carcere preventivo debba operare soltanto come momento estremo di autotutela dell'ordinamento, qualora nessun'altra misura sia idonea a salvaguardare le esigenze cautelari concretamente presenti, diversamente realizzandosi una compressione irragionevole dei fondamentali diritti personali di cui si tratta, diversamente essendo imposto di adottare la misura meno afflittiva bastevole nel caso concreto a fronteggiare i pericoli per gli altri valori costituzionali. La norma censurata stabilisce dunque un automatismo inconciliabile con i principi di liberta' e non colpevolezza, e rende inoperanti i parametri di adeguatezza e di proporzionalita', richiamati dalla stessa norma, con i quali si chiede appunto al giudice di governare i valori in giuoco con il minimo sacrificio anticipato (rispetto alla sentenza definitiva) della liberta' personale, tale sacrificio essendo fortemente influenzato non solo dalla durata, ma anche dalla qualita' della data misura, ed il sacrificio massimo trovando giustificazione solo in presenza dell'extrema ratio, costituito dall'insufficienza di ogni altra misura. Nel caso sottoposto al vaglio di questo giudice, l'esigenza cautelare nei confronti dell'indagato Pataro Luciano, rappresentata dal pericolo di fuga, potrebbe essere neutralizzata adeguatamente dalla misura degli arresti domiciliari presso la propria abitazione, con il connesso divieto di espatrio: infatti si tratta di soggetto nei confronti del quale i saldi riferimenti familiari e le abitudini di vita rendono del tutto inverosimile una latitanza sul territorio nazionale, e dal quale e' da temere soltanto il definitivo espatrio verso il Centro America, con la connessa impossibilita' di ottenerne l'estradizione. La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, terzo comma, del c.p.p, sollevata d'ufficio in via incidentale da questo giudice, sulla scorta delle considerazioni sopra esposte, appare dunque rilevante e non manifestamente infondata.