ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), promosso con ordinanza emessa il 6 ottobre 1994 dal Magistrato militare di sorveglianza di Roma sull'istanza proposta da Tonello Giampaolo, iscritta al n. 655 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 1994; Udito nella camera di consiglio del 20 aprile 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli; Ritenuto in fatto 1. - Tonello Giampaolo, ristretto nel carcere militare di Peschiera del Garda, in espiazione della pena di anni tre e mesi otto di reclusione sostituita, ai sensi dell'art. 63 del codice penale militare di pace, con la reclusione militare di pari durata, chiedeva al Magistrato militare di sorveglianza di Roma di poter usufruire di un permesso premio. Il Magistrato militare di sorveglianza, premesso che la costante giurisprudenza e' attestata nella linea interpretativa in base alla quale al condannato militare puo' essere concesso solo il c.d. permesso di necessita' e non anche il permesso premio, di cui possono usufruire esclusivamente i condannati "alle pene (comuni) della reclusione e dell'arresto", ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimita' dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, "nella parte in cui non prevede requisiti di ammissione al permesso premio rispetto alla reclusione militare equivalenti a quelli previsti per la pena della reclusione". Il giudice a quo, dopo aver denunciato che, a causa dell'indicato "forse inconsapevole accidente verbale", il condannato militare non puo' utilizzare uno degli istituti piu' significativi del trattamento penitenziario, deduce come una simile disciplina non possa, certo, giustificarsi in funzione delle finalita' proprie della reclusione militare perche' essa si traduce nella pratica cancellazione del principio della "progressivita' trattamentale", potendo il condannato militare disporre - a tali fini - soltanto dell'affidamento in prova al servizio sociale, ai sensi della legge 29 aprile 1983, n. 167. D'altro canto, l'istituto del permesso premio risulterebbe perfettamente compatibile con lo specifico contenuto rieducativo della reclusione militare, consentendo, anzi, "di giungere meditatamente alla eventuale concessione dell'affidamento in prova solo dopo un periodo trattamentale individuato dal giudice" e senza che un regime informato ad un temporaneo distacco dalla struttura carceraria risulti incompatibile con il principio in base al quale "nella permanenza in carcere i militari debbono essere impegnati in istruzioni civili e militari" (art. 12 del regio decreto 10 febbraio 1943, n. 306). Senza contare che ai militari non detenuti competono periodi di licenza per coltivare gli stessi interessi affettivi culturali e di lavoro e ritenuti non incompatibili con la prestazione militare. Donde la violazione dell'art. 3 della Costituzione, per l'irrazionalita' di una regolamentazione restrittiva della reclusione militare rispetto alla reclusione comune e dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione stessa, per essere impedita la realizzazione della finalita' rieducativa della pena. 2. - Nel giudizio davanti a questa Corte non si e' costituita la parte privata ne' ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1. - Il Magistrato militare di sorveglianza dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimita' dell'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), introdotto dall'art. 9 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, "nella parte in cui non prevede requisiti di ammissione al permesso premio rispetto alla reclusione militare equivalenti a quelli previsti per la pena della reclusione". Piu' in particolare, di fronte all'istanza di permesso premio da parte di un detenuto in espiazione della pena di tre anni e otto mesi di reclusione, sostituita con la reclusione militare per eguale durata ai sensi dell'art. 63 del codice penale militare di pace, il giudice a quo si duole di un assetto normativo che - secondo la linea interpretativa pressoche' costantemente seguita dalla giurisprudenza - mentre consente al condannato militare di fruire del c.d. "permesso di necessita'" di cui all'art. 30 dell'ordinamento penitenziario, lo sottrae, invece, alla possibilita' di usufruire del permesso premio. Cosi' da vulnerare non soltanto il principio di eguaglianza, per l'ingiustificata disparita' di trattamento tra condannati "comuni" e condannati "militari", ma anche il principio della funzione rieducativa della pena, precludendosi al condannato militare di utilizzare un istituto tipico del regime della "progressivita' trattamentale", per di piu' in un sistema che, pur consentendo al condannato militare di essere affidato in prova, in forza della legge 29 aprile 1983, n. 167, lo priva pero' di uno degli strumenti a disposizione del giudice di sorveglianza allo scopo di verificare il "percorso trattamentale" finalizzato anche allo scopo di pervenire all'applicazione della detta misura alternativa alla detenzione. 2. - Alcuni magistrati militari di sorveglianza hanno affermato la compatibilita' dello status di condannato militare con l'accesso al beneficio di cui all'art. 30-ter dell'ordinamento penitenziario, tuttavia la premessa da cui muove il giudice a quo, affermando che l'assetto normativo vigente non consente ai condannati militari di essere ammessi al beneficio del permesso premio e' da ritenere corretta, in mancanza di una esplicita norma che estenda a tali soggetti il detto beneficio. E cio', oltre tutto, in un regime nell'ambito del quale la giurisprudenza di legittimita' non e' in grado di arrecare alcun contributo interpretativo, attestata, come essa risulta, al principio secondo cui i provvedimenti adottati in materia di permessi premio, rientrando tra quelli diretti a regolare la vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari, si differenziano da quelli destinati ad incidere sugli effetti e sulla durata del rapporto instauratosi con l'inizio dell'esecuzione della pena: con la conseguenza che i primi, per la loro asserita natura amministrativa, anche se pronunciati dal giudice di sorveglianza o in sede di reclamo, si vedono precluso l'accesso al ricorso per cassazione e non sono impugnabili neppure ai sensi dell'art. 111 della Costituzione (v. art. 568, secondo comma, del codice di procedura penale), non avendo una diretta incidenza sullo status libertatis. 3. - Anche se il giudice a quo ha del tutto trascurato la problematica riguardante la natura giuridica del procedimento relativo alla concessione o al diniego dei permessi premio ed i conseguenti riverberi che la detta problematica proietta in punto di legittimazione a sollevare questione di legittimita' costituzionale, la Corte non puo' esimersi dal pronunciarsi preliminarmente circa la sottoponibilita' al giudizio di legittimita' dell'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, condizionato, come esso appare, alla verifica della tipologia del provvedimento positivo o negativo in materia. Tanto piu' che tutte le volte in cui questa Corte ha avuto occasione di statuire specificamente in ordine alla legittimita' costituzionale della disciplina dei permessi premio, ha, in cio' concordando con la ora ricordata giurisprudenza della Corte di cassazione, dichiarato inammissibili le relative denunce contestando al tribunale di sorveglianza il potere di sollevare, in materia, questioni di legittimita', proprio con il richiamo alla "'struttura amministrativa' della procedura", puntualizzando come "il provvedimento pronunciato dal tribunale di sorveglianza in sede di reclamo avverso il diniego di un permesso premio da parte del magistrato di sorveglianza, non e' ricorribile per cassazione, in quanto 'rientra fra quelli rivolti a regolare la vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari e si differenzia da quelli destinati ad incidere in modo sostanziale sugli effetti e sulla durata del rapporto instauratosi con l'inizio di esecuzione della pena', di modo che il relativo procedimento si configura 'come un procedimento de plano con caratteristiche ben diverse da quelle delle procedure giurisdizionalizzate'" (v. ordinanze n. 436 del 1989 e n. 1163 del 1988). 4. - La linea seguita sul punto ha subito, pero', una decisiva revisione in tempi recenti. Anche se le relative statuizioni non hanno coinvolto direttamente l'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, gli effetti dalle stesse scaturenti appaiono determinanti quanto al riconoscimento di una diversa natura giuridica al procedimento di concessione o diniego del permesso premio oltre che al giudizio demandato al tribunale di sorveglianza. Con sentenza n. 349 del 1993, nel dichiarare non fondata, "nei sensi di cui in motivazione", la questione di legittimita' dell'art. 41-bis, secondo comma, della legge n. 354 del 1975, questa Corte ha, infatti, precisato come "sia da escludere che misure di natura sostanziale e che incidono sulla qualita' e quantita' della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali) e che percio' stesso modificano il grado di privazione della liberta' personale imposto al detenuto, possano essere adottate al di fuori dei principi della riserva di legge e della riserva giurisdizionale specificamente indicati dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione". E, nel tracciare il discrimine fra le "modalita' di trattamento del detenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la cui applicazione e' demandata di regola all'Amministrazione, anche se sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (v. art. 69 dell'Ordinamento Penitenziario) o con possibilita' di reclamo al Tribunale di sorveglianza (v. art. 14-ter Ordinamento Penitenziario) - e misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori del carcere", come l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semiliberta', le licenze, e, appunto, i permessi premio, ha affermato che tali misure "sono sempre di competenza dell'Autorita' giudiziaria (v. artt. 21, 30, 30-ter, 69 e 70 dell'Ordinamento Penitenziario) proprio perche' incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di liberta' personale del detenuto". Ne deriva, dunque - secondo la linea da ultimo tracciata dalla Corte - la natura non amministrativa ma giurisdizionale dei procedimenti di concessione o diniego dei permessi premio e della procedura del reclamo davanti al tribunale di sorveglianza. Donde la legittimazione del giudice a quo, ex art. 23, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma ora denunciata. 5. - Cio' premesso, la questione e' da ritenere fondata. Come altra volta questa Corte ha avuto occasione di puntualizzare (v. sentenza n. 188 del 1990), il permesso premio di cui all'art. 30- ter della legge penitenziaria, "espressione di una nuova concezione della pena, del carcere e della funzione rieducativa-promozionaledi alcune misure premiali", consente "al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di liberta'", delineando cosi' un assetto alla cui base e' "una visione della rieducazione entro e fuori delle mura carcerarie comune anche alle misure alternative", pure se non da confondere con la funzione propria di esse. Il permesso premio costituisce, infatti, "incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria, appunto in funzione del premio previsto, in assenza di particolare pericolosita' sociale, quale conseguenza di regolare condotta", ed al contempo "strumento di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato in societa'". Esso e', dunque, "parte integrante del trattamento rieducativo" divenendo, altresi' - attraverso l'osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in liberta' - strumento diretto ad agevolarne la progressione rieducativa. Il rappresentare i permessi premio come parte integrante del trattamento rieducativo consente, poi, di trarre utili elementi per l'eventuale concessione delle misure alternative alla detenzione e, comunque, per l'ulteriore prosecuzione della pena detentiva. 6. - Proprio sulla base di tali premesse il sottrarre al condannato militare uno strumento cruciale ai fini del trattamento come il permesso premio risulta in contrasto, oltre che con la funzione rieducativa della pena, anche con il principio di eguaglianza. Sotto il primo profilo va considerato come l'istituto previsto dall'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975 possa rivelarsi funzionale - in applicazione del principio di progressivita' - all'affidamento in prova cui il condannato militare e' abilitato ad accedere ai sensi della legge 29 aprile 1983, n. 167. Un istituto che, peraltro, pur con gli adattamenti richiesti "dalle particolarita' dell'organizzazione materiale militare", questa Corte ha ritenuto di equiparare per certi fondamentali aspetti all'affidamento in prova del condannato comune, tanto da dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 29 aprile 1983, n. 167, come sostituito dall'art. 1, numero 1, della legge 23 dicembre 1986, n. 897, nella parte in cui non prevede l'adozione del provvedimento dell'affidamento in prova indipendentemente dall'osservazione della personalita' del condannato condotta per almeno un mese nello stabilimento militare (sentenza n. 119 del 1992). Sotto il secondo profilo, la previsione del permesso premio al condannato militare non si rivela affatto incompatibile con il particolare status del condannato. Vero e' che questa Corte ha avuto occasione di rimarcare che "i fini della rieducazione per il condannato militare e per quello comune si rivelano .. divergenti"; una divergenza che si sostanzia nel "prevalente recupero al servizio militare per il primo" e nel "reinserimento sociale per il secondo" (sentenza n. 414 del 1991). Ma una tale divergenza non pare assumere rilievo nella materia dei permessi premio, non ravvisandosi la benche' minima antinomia con le finalita' proprie della rieducazione militare dall'applicazione di un istituto che, presupponendo la regolare condotta del condannato e l'assenza di ogni sua pericolosita' sociale, vale a costituire pure per il condannato militare un incentivo alla collaborazione con l'istituzione carceraria, in funzione del premio previsto: potendosi anche qui affermare che il permesso premio e' strumento esso stesso di rieducazione, in quanto consente un iniziale inserimento del condannato nel contesto sociale, in un quadro certo non incompatibile con le esigenze proprie del consorzio militare. 7. - L'art. 30-ter, quarto comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354, deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la concessione del permesso premio ai condannati alla reclusione militare. Cio', ovviamente, sia nel caso in cui venga espiata una pena originariamente militare sia nel caso in cui la pena della reclusione militare venga espiata in sostituzione della reclusione comune.