Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione  dei signori on. Giuseppe
 Calderisi, Lorenzo Strik Lievers, Elio Vito, promotori dei referendum
 in materia  di  commercio,  di  elezioni  comunali  e  di  contributi
 sindacali,  ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3,
 4,  10 e 13 del 1995 e fissati in data 11 giugno 1995 con decreti del
 Presidente della Repubblica 5 aprile 1995,  rappresentati  e  difesi,
 come  da  delega  in calce al presente atto, dal prov. avv. Beniamino
 Caravita di Toritto, e presso lo stesso elettivamente domiciliati, in
 Roma,  via  T.  Taramelli  n.  22,   contro   il   Garante   per   la
 radiodiffusione  e  l'editoria,  in  persona del Garante pro-tempore;
 nonche' contro il Governo della Repubblica, in persona del Presidente
 del Consiglio dei Ministri pro-tempore;  per  l'annullamento,  previa
 sospensione:
      del  provvedimento  del  Garante  del  12  aprile  1995, recante
 "Regolamento per la disciplina della  comunicazione  sulla  stampa  e
 sulla  radiotelevisione  relativa ai referendum abrogativi per la cui
 votazione e' fissata la data del giorno 11 giugno 1995";
      del provvedimento  del  Garante  del  13  maggio  1995,  recante
 "Integrazioni  e modifiche delle disposizioni 12 aprile 1995 relative
 alle campagne referendarie sulla stampa e sulla radiotelevisione";
      del provvedimento  del  Garante  del  22  maggio  1995,  recante
 "Disposizioni  relative  alle  campagne  referendarie  sulla stampa e
 sulla radiotelevisione";
      del d.-l. 19 maggio 1995, n. 182, recante "Disposizioni  urgenti
 per  la  parita'  di  accesso  ai  mezzi  di  informazione durante le
 campagne elettorali e referendarie".
                               F A T T O
    A  seguito  dell'emanazione  del  primo  decreto-legge  sulla  par
 condicio  (d.-l.  20  marzo  1995,  n. 83) i promotori dei referendum
 indicati in epigrafe sollevavano conflitto di attribuzioni contro  il
 Governo  e  contro il Garante, per l'annullamento del decreto-legge e
 del conseguente provvedimento del Garante 22 marzo 1995.
    I promotori proponevano tale ricorso in considerazione  del  grave
 ed  intollerabile  pregiudizio  che  essi  avrebbero  ricevuto  da un
 provvedimento legislativo che non  soltanto  di  fatto  impediva  del
 tutto  la  campagna elettorale referendaria - in relazione al divieto
 della medesima durante le campagne elettorali -,  ma  introduceva  un
 assoluto divieto di pubblicita' (costituzionalmente illegittimo|) che
 avrebbe   bloccato   il  circolare  delle  informazioni  relative  al
 contenuto e al significato delle proposte referendarie sulle quali il
 corpo elettorale era stato chiamato a pronunciarsi.
    La Corte costituzionale, con ordinanza n. 118 del 7  aprile  1995,
 dichiarava  ammissibile  il conflitto nella parte in cui questo aveva
 ad  oggetto  il   d.-l.   n.   83   del   1995,   mentre   dichiarava
 l'inammissibilita'  nella  parte  in  cui  tale ricorso riguardava il
 provvedimento 22 marzo 1995 del  Garante  per  la  radiodiffusione  e
 l'editoria.
    La  motivazione  di  tale  inammissibilita'  si  rintracciava  nel
 difetto di legittimazione oggettiva  "stante  la  palese  inidoneita'
 dell'atto  in  relazione al quale il conflitto viene sollevato - atto
 che si riferisce alla tornata elettorale del 23 aprile 1995 e che non
 e' destinato a incidere sotto alcun profilo  nella  disciplina  della
 campagna  referendaria  -  a  ledere  la  sfera  di  attribuzioni dei
 ricorrenti" (Corte cost., ord. n. 118/1995).
    Con successiva sentenza  n.  161  del  10  maggio  1995  la  Corte
 dichiarava  la  non  spettanza  al  Governo del potere di adottare la
 disposizione di cui all'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995  in
 riferimento alle campagne referendarie e, conseguentemente, annullava
 la  disposizione  suddetta  nella  parte  in  cui  si  applicava alle
 campagne referendarie.
    Soltanto tre giorni dopo tale pronuncia di codesta eccellentissima
 Corte il Garante emanava il provvedimento  13  maggio  1995,  recante
 "Integrazioni  e modifiche delle disposizioni 12 aprile 1995 relative
 alle campagne referendarie sulla stampa  e  sulla  radiotelevisione",
 con  il quale dettava una disciplina dei messaggi pubblicitari aventi
 ad oggetto  i  referendum  dell'11  giugno  1995,  limitandoli  sotto
 molteplici ed irragionevoli profili.
    Il  provvedimento  del  Garante  era  il  risultato di una precisa
 scelta governativa - orientata nel senso del non intervento -  in  un
 settore  nel  quale  i  vincoli  del decreto-legge sulla par condicio
 erano stati eliminati per effetto della pronuncia costituzionale.
    Infatti,  in  base  a  dichiarazioni   rilasciate   dallo   stesso
 Presidente   del   Consiglio   Dini   ai   mezzi  d'informazione,  il
 provvedimento del Garante nasceva dalla decisione del Governo di  non
 intervenire  ne'  nella  forma  piu' corretta del disegno di legge di
 iniziativa governativa, ne' con la (piu' discutibile procedura della)
 decretazione  d'urgenza  (vd.  "Dini:  il  Garante   sapra'   trovare
 l'equilibrio"  in  "Il Popolo", 13 maggio 1995; "Referendum, spot col
 contagocce", in "Il Giornale", 13 maggio 1995; Intervista al Garante,
 in "L'Unita'" del 17 maggio  1995,  p.  3:  "non  avevo,  dunque,  il
 diritto  di regolamentare in materia, ma il dovere di farlo, peraltro
 sollecitato dal Governo e da tante forze politiche").
    Successivamente, in data 19 maggio 1995,  il  Governo  emanava  il
 nuovo  d.-l.  n.  182,  recante  "Disposizioni urgenti per la parita'
 d'accesso ai mezzi di informazione durante le campagne  elettorali  e
 referendarie",  il  cui  art.  3,  sesto  comma, dopo aver sancito il
 divieto di pubblicita' elettorale nei trenta giorni  precedenti  alle
 elezioni,  cosi' recita all'ultimo periodo: "La presente disposizione
 non si applica alle  consultazioni  referendarie,  per  le  quali  e'
 ammessa  la  pubblicita'  elettorale fino a tutto il penultimo giorno
 prima della data della consultazione referendaria".
    Il 22 maggio 1995  il  Garante  emanava  infine  un  provvedimento
 recante  "Disposizioni  relative  alle  campagne  referendarie  sulla
 stampa e sulla radiotelevisione",  attraverso  il  quale  -  con  una
 procedura  discutibile  e  innovativa  -  introduceva  un  rinvio  al
 precedente provvedimento del 13 maggio,  limitativo  del  diritto  di
 pubblicita' in materia referendaria.
    I  provvedimenti impugnati sono gravemente lesivi delle competenze
 costituzionalmente ai promotori per le seguenti ragioni di
                             D I R I T T O
    1. - Circa la legittimazione soggettiva dei promotori.
    Non sussiste  alcun  dubbio  circa  la  possibilita'  di  proporre
 ricorso  per  conflitto d'attribuzione per i promotori dei referendum
 abrogativi: gia' con il ricorso proposto  contro  il  primo  decreto-
 legge  sulla par condicio era stato posto in evidenza il fatto che la
 Corte, per giurisprudenza ormai consolidata,  riconosce  i  promotori
 quali potere dello Stato nei conflitti di attribuzione.  Tant'e' che,
 nonostante  il  fatto  che in quella circostanza il ricorso non fosse
 stato proposto contro l'Ufficio centrale per il referendum, la  Corte
 stessa ha riconosciuto la legittimazione attiva dei promotori poiche'
 "le   restrizioni   disposte   alla  campagna  referendaria  appaiono
 suscettibili  di  incidere  sulla formazione della volonta' di coloro
 che esprimono il loro voto nel referendum e,  di  conseguenza,  nella
 sfera   di  attribuzioni  garantita,  ai  sensi  dell'art.  75  della
 Costituzione, ai ricorrenti". (Corte cost., sent.  n. 161/1995).   E'
 quindi  ormai  pacifico  che  i promotori possono sollevare conflitto
 contro ogni altro potere dello Stato che comprima le attribuzioni  ad
 essi costituzionalmente garantite.
    2. - Circa la legittimazione soggettiva del Garante.
    E'  noto  alla  Corte  costituzionale  come, nella evoluzione piu'
 recente - a partire  dagli  anni  '70  -  del  sistema  istituzionale
 italiano,  si sia andata delineando la tendenza ad affidare poteri di
 regolamentazione e disciplina di segmenti "sensibili" del sistema  ad
 organi  caratterizzati  da autonomia ed indipendenza dal Governo e da
 tutta l'amministrazione (nel caso del Garante per la  radiodiffusione
 e  l'editoria,  vd. le disposizioni contenute nell'art. 6 della legge
 n. 223/1990, che disegnano una peculiare collocazione del Garante, al
 quale e' attribuita autonomia organizzativa e contabile, nonche' "una
 retribuzione  pari  a  quella  spettante  ai  giudici   della   Corte
 costituzionale";   v.   anche   art.  10  della  legge  n.  287/1990,
 sull'Autorita' Garante del mercato e della concorrenza).  L'autonomia
 e l'indipendenza di tali organi  appare,  di  converso,  strettamente
 legata  al  tipo  di  funzioni che le leggi attribuiscono ad essi: si
 tratta, in larga misura, di  poteri  di  immediata  attuazione  della
 Costituzione   o   di   quei  principi  generalissimi,  anch'essi  di
 attuazione della  Costituzione,  contenuti  nelle  leggi  istitutive.
 Secondo  la  dottrina  tradizionale, proprio "posizione" e "funzioni"
 sono i criteri ai quali fare riferimento al fine  di  individuare  la
 natura  di  organo costituzionale e la collocazione dell'organo tra i
 poteri dello  Stato  (A.M.  Sandulli,  Sulla  posizione  della  Corte
 costituzionale  nel  sistema degli organi costituzionali dello Stato,
 in  Riv.  trim.  dir.  pubbl.,  1960,  705  ss.;  E.  Cheli,   Organi
 costituzionali  e organi di rilevanza costituzionale, in Arch.  giur.
 Filippo Serafini, 1965, II, 60 ss.).   Ne'  a  definire  -  in  senso
 negativo  -  la  natura di tali organi come "poteri dello Stato" puo'
 valere il  richiamo  alla  tradizionale  dottrina  che  vuole  basare
 l'individuazione  dei  poteri dello Stato sulla capacita' di influire
 sull'indirizzo politico: come veniva gia' messo in luce da C. Schmitt
 (Das Problem der innerpolischen  Neutralitaet  des  Staates,  ora  in
 Verfassungsrechtliche  Aufsaetze  aus  den Jahren 1924- 1954, Berlin,
 1958, 41 ss.) la caratteristica peculiare di  alcune  amministrazioni
 indipendenti  e'  quella  della  loro neutralizzazione, e cioe' della
 loro sottrazione all'indirizzo politico  in  ragione  e  in  funzione
 della  espressione  di  un  indirizzo  politico  autonomo legato alle
 funzioni che l'organo e' chiamato a svolgere (Schmitt delineava  tale
 posizione facendo riferimento alla Banca centrale: e certo, anche nel
 nostro  ordinamento,  non  puo'  non  sorgere  almeno il dubbio sulla
 natura di potere dello Stato della Banca d'Italia).   Ne', ancora,  a
 negare  la  natura di "poteri dello Stato" di tali organi puo' valere
 il  semplicistico  elemento  della   loro   mancata   previsione   in
 Costituzione:   in  realta',  in  uno  Stato  pluralista  e  liberale
 l'esigenza  dell'affidamento  di  settori   "sensibili"   ad   organi
 indipendenti  (nel  senso  sopra  precisato)  puo' trovare una tutela
 costituzionale (e quindi una garanzia costituzionale delle  funzioni)
 nella   lettura   congiunta   delle  disposizioni  costituzionali  di
 riferimento  (art.  21  per il Garante per l'editoria; art. 41 per il
 Garante antitrust; art. 47 per la Banca d'Italia) con gli  artt.  94,
 95 e 97 della Costituzione.  L'evoluzione dell'ordinamento pluralista
 puo'  spingere  cosi'  -  con la forza di un vero e proprio principio
 costituzionale - alla sottrazione della disciplina di alcuni  settori
 alla  soggezione  al  contingente  indirizzo politico di maggioranza,
 espresso nel circuito costituzionale disegnato dagli artt.  94  e  95
 della Costituzione (fiducia delle Camere al Governo e attribuzioni al
 Presidente  del Consiglio della direzione della politica generale del
 Governo) e ad una rilettura,  con  categorie  diverse,  dei  principi
 costituzionali    dell'imparzialita'    e    del    buon    andamento
 dell'amministrazione.  Anche in questi casi, comunque,  rimane  ferma
 l'esigenza  che  almeno  i  principi  della  disciplina delle materie
 affidate alla tutela di autorita'  indipendenti  -  materie  che  per
 solito  toccano  i  diritti  di liberta' fondamentali - siano fissati
 dalla legge: la sottrazione all'indirizzo politico di maggioranza non
 puo' significare affidamento della  disciplina  del  settore  ad  una
 discrezionalita'  priva di riferimenti normativi (che facilmente puo'
 sconfinare nell'arbitrio) o ad una attivita' di mera composizione  di
 interessi, quasi in funzione di arbitraggio.
    2.1.  - Al di la' del fatto che nella precedente sentenza la Corte
 ha dichiarato l'inammissibilita' del conflitto non gia' in  relazione
 al  profilo  soggettivo,  bensi' in relazione al profilo (logicamente
 successivo)  della  inidoneita'  dell'atto  a  ledere  le   posizioni
 soggettive  dei  ricorrenti,  valga  infine,  in merito alla concreta
 vicenda qui sottoposta al  giudizio  di  ammissibilita'  della  Corte
 costituzionale,  la  considerazione  del tipo di poteri concretamente
 esercitati dal Garante: il quale, come meglio vedremo  nel  merito  -
 dopo  la  sentenza  della Corte n. 161 e senza nemmeno il supporto di
 una  previa  intermediazione  legislativa  -  ha  ritenuto  di  poter
 disciplinare,  andando in contrario avviso alla decisione, la materia
 della pubblicita' referendaria, esercitando - o meglio  arrogandosene
 l'esercizio  -  poteri che incidono, in modo gravemente lesivo, sulla
 sfera di attribuzioni  costituzionalmente  garantite  a  quel  potere
 dello Stato costituito dai promotori del referendum.
    2.2.  -  Il  Garante  -  come la lettura degli atti impugnati puo'
 confermare  -  si  e'  arrogato  un  potere  a  lui  non  attribuito,
 esercitando   funzioni   lesive   di   posizioni   costituzionalmente
 garantite: la strada piu' auspicabile e', allora, quella per  cui  la
 Corte  costituzionale  -  riservata ogni pronuncia sul merito e sulla
 stessa ammissibilita' del conflitto  contro  il  Garante  -  dichiari
 prima  facie  ammissibile  il  conflitto anche contro il Garante, per
 poter poi verificare funditus - e solo eventualmente in  quella  sede
 negare  la  natura  di potere dello Stato del Garante - la natura dei
 poteri  esercitati  e  l'eventuale  illegittimita'  degli   atti   di
 esercizio  di tale potere o, se del caso, l'incostituzionalita' degli
 atti che tali poteri attribuiscono al Garante.
    3.  -  Circa  la  legittimazione  soggettiva  del  Governo   della
 Repubblica.    Nessun dubbio puo' sussistere sulla legittimazione del
 Governo della Repubblica ad esser parte - in persona  del  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri  -  in un conflitto di attribuzione tra
 poteri dello Stato.
    4.  -  Circa l'idoneita' degli atti impugnati a costituire oggetto
 del conflitto (legittimazione oggettiva).    Sussistono  i  requisiti
 previsti  dall'art.  37  della  legge  11  marzo 1953, n. 87, recante
 "Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
 costituzionale", in relazione al quale i conflitti insorti fra poteri
 dello  Stato  devono avere ad oggetto la delimitazione della sfera di
 attribuzione costituzionalmente garantita.  I promotori dei  referen-
 dum  indicati  in epigrafe hanno impugnato i provvedimenti 12 aprile,
 13 maggio e 22 maggio 1995, atti normativi che sono  espressione  del
 potere  in  concreto  esercitato  da  parte  del Garante stesso.   Il
 contenuto dei  provvedimenti  impugnati,  inoltre,  rivela  il  rango
 costituzionale  della  materia disciplinata ed elimina ogni possibile
 dubbio inerente all'ammissibilita' del conflitto  in  relazione  alla
 natura dell'atto impugnato; tant'e' che nello stesso provvedimento 13
 maggio  1995  il Garante esplicita le esigenze sottese all'emanazione
 dello stesso: "fissare nuovi limiti temporali e le connesse modalita'
 di presentazione dell'offerta di spazi pubblicitari per  la  campagna
 referendaria  e  di  rivedere  i  limiti  delle  relative tariffe per
 favorire  per  quanto   possibile   l'accesso   a   tale   forma   di
 comunicazione,   ritenuta   dalla   Corte   costituzionale   inerente
 all'esercizio di un diritto politico fondamentale".
    4.1. -  I  dubbi  sulla  possibilita'  di  impugnare  in  sede  di
 conflitto  di  attribuzione un decreto-legge sono stati risolti dalla
 sentenza n. 161/1995 ed e' dunque inutile spendere  ulteriori  parole
 in   proposito.      Alle  perspicue  e  assolutamente  condivisibili
 argomentazioni della Corte costituzionale se ne aggiungono in  questa
 occasione  altre  due,  ambedue rilevanti anche per quanto attiene al
 merito  della   questione   e   in   quella   sede   esaminate   piu'
 dettagliatamente.    Da  un  lato,  infatti,  siamo  di fronte ad una
 reiterazione del primo decreto-legge; dall'altro, va  ricordato  come
 il  secondo  decreto-legge abbia omesso di tener conto della sentenza
 della Corte costituzionale.
    4.2. - Quanto poi ai provvedimenti del Garante, occorre notare una
 contraddizione  tra  i  primi   due   provvedimenti   e   il   terzo,
 contraddizione  causata  dal  regime  precario  della fonte su cui il
 Garante pretende di fondare il potere da lui esercitato; e,  infatti,
 il   terzo   provvedimento  pretende  di  disporre  la  continuazione
 dell'applicazione delle disposizioni dei provvedimenti del 12  aprile
 e del 13 maggio 1995.  Delle due, pero', l'una: o i due provvedimenti
 del  12  aprile e del 13 maggio 1995 sono tuttora validi ed efficaci,
 nonostante il fatto che trovino la loro fonte in un atto che piu' non
 esiste nell'ordinamento (il primo decreto-legge  decaduto)  e  allora
 non  v'e'  nessun  bisogno di prevedere da parte di un terzo atto che
 tali atti si continuano ad applicare; oppure tali atti sono  decaduti
 con  la decadenza del decreto-legge e allora non si puo' disporre, da
 parte di un atto dello stesso rango, la protrazione dell'applicazione
 di disposizioni contenute in atti non  piu'  esistenti.    Non  puo',
 allora,   non   essere   sottolineato   come  il  Garante  -  con  il
 provvedimento del 22 maggio - abbia fatto cio' nemmeno il  d.-l.  del
 19  maggio  ha  osato  fare,  proprio  perche' costituzionalmente non
 poteva fare, essendo tale competenza attribuita alla  sola  legge  di
 conversione:  far salvi gli effetti (vale a dire, gli atti su di essi
 basati) del decreto-legge decaduto.
    5. - Circa il merito del ricorso: premessa.
    In   occasione   della  recente  sentenza  n.  161/1995  la  Corte
 costituzionale ebbe ad affermare: "riguardando la materia l'esercizio
 di un diritto politico fondamentale, le limitazioni contestate.  .  .
 devono essere sottoposte ad un rigoroso scrutinio, tanto piu' perche'
 disposte  con  un  provvedimento  governativo  provvisorio non ancora
 approvato dalla maggioranza parlamentare".  La sentenza summenzionata
 ha offerto un insegnamento assolutamente chiaro: ha disposto  la  non
 spettanza  al  Governo  del  potere di adottare, con riferimento alle
 campagne referendarie, la disposizione contenuta nell'art.  3,  sesto
 comma,  del  d.-l. n. 83/1995, conseguentemente annullando il divieto
 di pubblicita' in vista delle campagne referendarie.   La  Corte  ha,
 altresi',  motivato la propria decisione sostenendo che il divieto di
 pubblicita'  non  trova  alcuna  giustificazione  se  riferito   alle
 campagne  referendarie, laddove "le forme espressive della propaganda
 vengono .. in larga parte a coincidere con  le  forme  proprie  della
 pubblicita', con la conseguenza che, per queste campagne, gli effetti
 delle   limitazioni   introdotte  in  materia  pubblicitaria  possono
 risultare aggravati fino a ridurre al di la' della ragionevolezza gli
 spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati
 alla promozione o  all'opposizione  ai  quesiti  referendari".    Per
 quanto riguarda lo svolgimento delle campagne referendarie il diritto
 costituzionalmente  protetto alla diffusione di messaggi pubblicitari
 non  trova  un  ragionevole  limite  nell'esigenza   di   "preservare
 l'elettore  dalla  suggestione  di  messaggi  brevi  e non motivati",
 esigenza che si rintraccia, ad  esempio,  nelle  campagne  elettorali
 (nelle  quali - sostiene la Corte - il diritto alla pubblicita' trova
 un  contemperamento  nell'esigenza  di  privilegiare  la   propaganda
 elettorale  e  cio'  puo'  giustificare  "la  presenza  di  un limite
 ragionevolmente contenuto  per  lo  svolgimento  della  pubblicita'":
 ragionevolmente  contenuto  - all'evidenza - rispetto al tempo in cui
 la  pubblicita'  puo'  essere  svolta,  cosicche'  mai  puo'   essere
 ragionevole  un  divieto  -  come  quello  attualmente in vigore - di
 trenta giorni, quando la  pubblicita'  puo'  essere  svolta  dopo  la
 presentazione  delle  liste,  quindi  negli ultimi 28-26 giorni prima
 delle elezioni).
    Dalla  recente  pronuncia  costituzionale  si  ricavano  dunque  i
 seguenti principi:
       a)   la   pubblicita'   durante  le  campagne  referendarie  e'
 espressione di un diritto politico fondamentale;
       b) l'esercizio di tale  diritto  non  puo'  essere  impedito  o
 limitato,  giacche' cio' lederebbe le attribuzioni costituzionalmente
 attribuite  ai  promotori  dei  referendum  (relative  alla  corretta
 formazione della volonta' del corpo elettorale).
    5.2.  -  L'interpretazione  della  normativa  primaria  in tema di
 poteri del Garante. Fatta tale premessa, e' necessario - ai  fini  di
 un piu' chiaro inquadramento degli elementi del conflitto - procedere
 ad  una interpretazione delle disposizioni del decreto-legge relative
 ai (presunti) poteri del Garante.    L'esame  dei  provvedimenti  del
 Garante  lascia gravemente perplessi su quale sia la fonte del potere
 esercitato  dal  Garante  stesso  nel  disciplinare  la   pubblicita'
 referendaria.  Nel primo provvedimento, quello del 12 aprile 1995, il
 Garante  rintraccia  la  fonte  del  potere  esercitato  direttamente
 nell'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995; nel provvedimento del
 13 maggio 1995 - emanato dopo la pubblicazione della  sentenza  della
 Corte costituzionale n. 161/1995 - il Garante non individua una fonte
 che legittimi il provvedimento limitativo del diritto di pubblicita'.
 Ed  ancora, per il provvedimento 22 maggio 1995, il Garante specifica
 che la  fonte  che  giustifica  l'esercizio  di  tale  potere  e'  da
 cogliersi  negli artt. 3, sesto comma, 4, terzo comma, e 16 del d.-l.
 n.  182/1995 (identici, tranne l'art. 3, sesto comma,  agli  articoli
 del  precedente  decreto-legge).    Di  fronte  a  questa  gravissima
 incertezza sulla fonte del potere, e' allora  opportuno  fornire  una
 interpretazione  piu'  rigorosa  della  normativa  di rango primario.
 Dopo la sentenza n. 161, di annullamento dell'art.  3,  sesto  comma,
 del  (primo)  decreto-legge,  il  provvedimento del Garante avente ad
 oggetto le campagne referendarie, fondato  sull'articolo  suindicato,
 non  aveva piu' ragion d'essere in considerazoine del contenuto della
 pronuncia della Corte costituzionale  che  eliminava  il  divieto  di
 spot.    Il  secondo  provvedimento  del Garante (13 maggio 1995) non
 trovava appoggio neppure formalmente in una disposizione contenuta in
 un atto legislativo: dal momento che era stato  annullato  l'art.  3,
 sesto  comma,  del  d.-l.  n.  83/1995,  non  sussisteva alcuna norma
 nell'ordinamento che prevedesse una limitazione numerica  degli  spot
 pubblicitari  e  che  autorizzasse  il  Garante a darne una specifica
 disciplina.  Il provvedimento del Garante  attualmente  in  vigore  -
 formulato, peraltro, attraverso un assai discutibile rinvio materiale
 -  rimanda agli artt. 3, sesto comma, 4, terzo comma, e 16 al fine di
 individuare  la  fonte  legittimante  l'esercizio  di  tale   potere.
 Dall'attuale formulazione dell'art. 3, sesto comma, non e' deducibile
 alcuna   attribuzione   di  funzioni  al  Garante  al  fine  disporre
 limitazioni  numeriche  ai  passaggi   pubblicitari:   "La   presente
 disposizione  non  si applica alle consultazioni referendarie, per le
 quali e' ammessa la pubblicita' elettorale fino a tutto il  penultimo
 giorno  prima  della  data  della  consultazione  referendaria".   La
 disposizione contenuta nell'art. 3, sesto comma,  a  proposito  della
 pubblicita' referendaria, e' - se correttamente letta alla luce della
 sentenza   della  Corte  -  costitutiva  di  un  diritto,  non  certo
 attributiva ad alcuna autorita' di poteri (innominati) di limitazione
 del diritto (se si voleva raggiungere tale risultato, si poteva  ins-
 erire un inciso del tipo: "nei modi e nei limiti di cui all'art.
  ..").    Nell'art.  4,  terzo  comma  (del  vecchio  come  del nuovo
 decreto), vi e' si' l'attribuzione al Garante del potere di dettare i
 criteri  per  l'esercizio  del  diritto  di  pubblicita',  anche  con
 riferimento  al  numero  massimo  di  spot  pubblicitari:  ma,  a ben
 guardare, appare evidente che tale  disposizione  ha  ad  oggetto  le
 "modalita'  di propaganda e pubblicita' elettorali" e non le campagne
 referendarie.   La stessa  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
 161/1995  ha  evidenziato  che  "i  limiti  segnati  dal  primo comma
 dell'art. 3 (del d.-l. n. 83/1995) per  la  'pubblicita'  elettorale'
 non   risultano   applicabili,  per  la  loro  stessa  configurazione
 (modulata con riferimento specifico alle campagne  elettorali),  alla
 pubblicita'  referendaria".    Proprio  la  dizione  testuale orienta
 necessariamente nel senso che l'art. 4,  terzo  comma,  si  riferisca
 alla  sola  pubblicita'  elettorale  e  non gia' quella referendaria:
 cosicche' di fronte ad un testo  normativo  che  esclude  (a  seguito
 della  sentenza della Corte costituzionale) il divieto di pubblicita'
 per i  referendum,  non  e'  certo  possibile  interpretare  in  modo
 estensivo  i  poteri del Garante di limitare i passaggi pubblicitari,
 ritenendo   che   essi  si  riferiscano  non  solo  alla  pubblicita'
 elettorale, bensi' anche a quella referendaria, cioe' a quella  forma
 di  pubblicita'  che espressamente il decreto-legge permette.  Ne' si
 puo'  pensare  che  poteri  limitativi  del  diritto  a   trasmettere
 pubblicita'  referendaria  si  basino sull'art. 16 del (vecchio, come
 del nuovo) decreto-legge, che attribuisce al Garante solo  il  potere
 di  prescrivere "le regole atte a garantire la concreta realizzazione
 della parita' di trattamento e l'idonea accesso ai predetti spazi  da
 parte  delle  forze  sociali interessate": il che e' cosa ben diversa
 dal fissare limiti di tempo, di durata, di  orario,  ecc.,  cosi'  ha
 preteso di fare il Garante|
    6. - Assoluta carenza di potere del Garante.
    Dalla  disamina  della  normativa  primaria,  appare chiaro come i
 provvedimenti del Garante del maggio 1995, relativi alla  pubblicita'
 referendaria,  siano stati emanati in assoluta carenza di potere, con
 invasione della sfera di competenze costituzionalmente attribuite  ai
 promotori   del  referendum.    Applicando,  infatti,  alcune  regole
 tradizionali relative alle limitazioni ai diritti  di  liberta',  dal
 dispositivo  e dalla motivazione della sentenza n. 161, se ne possono
 trarre alcune conseguenze.   Caduto il divieto  contenuto  nel  primo
 decreto-legge relativo alla pubblicita' referendaria, si riespande il
 diritto  di  liberta',  specie  se  relativo  ad  un diritto politico
 fondamentale (artt. 21, 48 e 75 della Costituzione).  Tale diritto di
 liberta', riguardando appunto "l'esercizio  di  un  diritto  politico
 fondamentale",  e'  in  via  generale  assoggettato ad una riserva di
 legge assoluta, per cui solo il  legislatore  -  senza  mai  giungere
 all'annullamento  del  diritto  e  bilanciando  le diverse situazioni
 soggettive  (ivi  comprese  quelle   relative   all'art.   41   della
 Costituzione)  -  puo'  individuare  gli  eventuali  limiti  ad  esso
 apponibili ed il soggetto abilitato ad applicare i limiti, che  hanno
 comunque  da  essere  indicati  con  rigorosa precisione da parte del
 legislatore stesso, senza rinvii in bianco.  Solo il legislatore -  e
 non un'altra autorita', sia pur indipendente - puo' individuare quale
 sia   il   ragionevole   bilanciamento   delle   diverse   situazioni
 costituzionali  coinvolte:  e  cio'  tanto  piu'  in  presenza  della
 sentenza  n.  161  che ha fatto riferimento ad un aggravamento "al di
 la' dei limiti della ragionevolezza" delle limitazioni  apposte  agli
 spazi  informativi  consentiti  ai  soggetti  interessati  ai quesiti
 referendari.  Con il provvedimento del 13 maggio 1995 e, ancor  piu',
 con  l'anomalo provvedimento del 22 maggio, il Garante si e' arrogato
 poteri - di rango costituzionale - che al suo ufficio non spettavano,
 il  cui   esercizio   e'   invasivo   e   lesivo   delle   competenze
 costituzionalmente garantite ai promotori.
    6.1.   -  La  concreta  disciplina  dettata  dal  Garante  con  il
 provvedimento  del  13  maggio  1995  -  con   la   intollerabile   e
 ingiustificata  limitazione a due spot favorevoli e due spot contrari
 per  ogni  referendum,  la  vincolante  previsione  degli  orari   di
 trasmissione,  della  durata  degli  spot,  ecc., la fissazione dello
 sconto sulle tariffe pubblicitarie al 35%  (a  meta'  strada  fra  la
 richiesta del Comitato per il Si, che chiedeva un costo del 20% delle
 tariffe,  e  della  Fininvest,  che  chiedeva  un  costo  del 50% ..)
 dimostra poi che la reale intenzione del Garante non  era  quella  di
 disciplinare tale attivita' - ammesso e non concesso che ne avesse il
 potere  -,  ma  di  limitare,  operando  una  impropria  e  irrituale
 mediazione (che il Governo non aveva voluto compiere) fra le esigenze
 dei   soggetti   forti,   gli  effetti  della  sentenza  della  Corte
 costituzionale.
    6.2. - L'incostituzionalita' dei provvedimenti del Garante  rileva
 in  maniera  ancora piu' marcata se si riflette sul fatto che in essi
 si fa riferimento solo  alle  posizioni  dei  soggetti  favorevoli  o
 contrari  all'istanza  abrogativa, senza mai prevedere spazi per quei
 soggetti che, in applicazione dell'art. 75, quarto  comma,  ritengano
 di  voler  far  propaganda  per l'astensione.   Sulla rilevanza della
 posizione astensionistica e' sufficiente ricordare, da un lato,  come
 il  risultato  di  importanti  referendum  sia  stato determinato dal
 mancato raggiungimento del quorum (caccia e  pesticidi);  dall'altro,
 come  in  altri casi (preferenza unica) le posizioni astensionistiche
 siano state clamorosamente sconfitte con significative conseguenze su
 tutto il sistema politico.   E non e' forse  inutile  ricordare  che,
 anche  in  occasione  dei  presenti  referendum,  si siano costituiti
 comitati per l'astensione,  con  il  preciso  obiettivo  di  non  far
 scattare  il quorum costituzionale della partecipazione al voto della
 maggioranza degli  aventi  diritto.    In  uno  di  questi  casi,  le
 motivazioni   astensionistiche   sono   peraltro  di  grande  rilievo
 costituzionale: tendono infatti a ribadire che la materia del  numero
 delle  concessioni radiotelevisive sia disciplinata dalla sentenza n.
 420/1994 della Corte costituzionale  e  non  gia'  dall'esito  di  un
 scontro referendario.
    7.  -  Qualora,  invece,  codesta  eccellentissima  Corte  dovesse
 ritenere che il d.-l. n. 182/1995 sia comunque attributivo di  poteri
 al Garante, e' doveroso rilevare che il suddetto decreto-legge appare
 lesivo  delle attribuzioni che l'art. 75 della Costituzione affida ai
 promotori dei referendum.
    E questo sotto molteplici aspetti.
    7.1.  -  Cattivo  uso  del  potere  di  cui  all'art.   77   della
 Costituzione  (sempre  in  relazione  alle  competenze  attribuite ai
 promotori dall'art. 75 della  Costituzione).    Il  decreto-legge  e'
 illegittimo  per  assoluta  carenza  dei presupposti di necessita' ed
 urgenza richiesti dall'art. 77 della Costituzione: giacche' non  sono
 all'orizzonte  - almeno in tempi brevi - elezioni politiche nazionali
 e le elezioni regionali si sono gia' svolte, cosi' come si e'  svolta
 la  tornata primaverile di elezioni comunali e provinciali (l'altra -
 secondo  la  legge  n.  142  del  1990  -  avra'  luogo  nell'autunno
 avanzato),  non vi era alcuna ragione di procedere all'emanazione del
 decreto-legge; ricorre quindi quella situazione di evidente  mancanza
 dei   requisiti,   in   cui  la  Corte  puo'  sindacare  l'uso  della
 decretazione d'urgenza.
    7.2. - Per quanto attiene alla materia referendaria,  il  decreto-
 legge  e'  o inutile o incostituzionale, per violazione dell'art. 136
 della Costituzione. E, infatti, delle due l'una: o  il  decreto-legge
 non contiene alcuna disposizione relativa alla pubblicita' in materia
 referendaria (non l'art. 3, comma primo, e quindi non l'art. 4, comma
 terzo)  e  si  limita  - inutilmente - ad aggiungere il richiamo alla
 sentenza n. 161 del 1995 nell'ultima parte dell'art. 3, comma  sesto;
 oppure,  a  fronte  di  una  sentenza  della Corte costituzionale che
 costruisce la pubblicita' referendaria come espressione di un diritto
 fondamentale reintroduce poteri innominati di limitazione e riduzione
 di tale diritto.
    7.3.  -  Si  aggiunga  infine che il d.-l. n. 182 e' frutto di una
 reiterazione.  Nei  confronti  della  prassi  incostituzionale  della
 reiterazione  vale  sempre il giudizio dato dalla sentenza di codesta
 ecc.ma Corte costituzionale n. 302 del 1988: "in via di principio, la
 reiterazione dei decreti-legge suscita gravi dubbi relativamente agli
 equilibri istituzionali e  ai  principi  costituzionali,  tanto  piu'
 gravi  allorche'  gli effetti sorti in base al decreto reiterato sono
 praticamente irreversibili (come, ad esempio, quando  incidono  sulla
 liberta'  personale dei cittadini) o allorche' gli effetti sono fatti
 salvi, nonostante  l'intervenuta  decadenza,  ad  opera  dei  decreti
 successivamente  riprodotti".    Cosi'  come nella sentenza n. 302 la
 Corte costituzionale trasse - in concreto -  dalla  reiterazione  del
 decreto-legge una illegittima interferenza nelle competenze regionali
 (provocata dal continuo spostamento dei termini a decorrere dai quali
 le  Regioni  potevano  esercitare  le proprie competenze), cosi', nel
 caso odierno,  l'incertezza  sulle  modalita'  di  svolgimento  delle
 campagne   referendarie  (e  il  dubbio  circa  la  permanenza  delle
 disposizioni nell'ordinamento anche dopo lo svolgimento del  referen-
 dum)  non  puo' non provocare una illegittima interferenza nel potere
 del corpo elettorale di pronunziarsi sui  quesiti  elettorali  e  dei
 promotori   di   garantire   una   corretta   campagna  referendaria.
 Cosicche',  per  la  seconda  volta,  limitazioni   ad   un   diritto
 fondamentale  sono  state  introdotte  da  un  atto  provvisorio  del
 Governo; cosicche', per la seconda volta, il Governo - pur coprendosi
 dietro il paravento dell'intervento  del  Garante,  i  cui  atti  non
 richiedono  l'emanazione  da  parte del Presidente della Repubblica -
 produce lesioni irreversibili ad un diritto fondamentale.
    8. - Violazione dell'art. 75 in relazione agli articoli 21,  41  e
 48 della Costituzione.
    Il  d.-l.  n.  182  del 1995 e' illegittimo anche sotto il profilo
 contenutistico: infatti, l'aver attribuito al Garante poteri generici
 e privi di criteri - sempre che effettivamente li abbia atribuiti  ..
 -  tali  da  permettere una assolutamente discrezionale fissazione di
 limiti  quantitativi  alla  trasmissione  e  alla  pubblicazione   di
 pubblicita'   referendaria   si   pone   in  assoluto  contrasto  con
 l'insegnamento della Corte costituzionale in materia di esercizio  di
 diritti politici fondamentali.  Non soltanto la piu' volte menzionata
 sentenza n. 161 del 1995 ha dichiarato che "le limitazioni contestate
 -  secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - devono essere
 sottoposte a un rigoroso scrutinio, tanto piu' perche'  disposte  con
 un  provvedimento  governativo provvisorio non ancora approvato dalla
 maggioranza parlamentare", ma ha affermato  anche  che  "gli  effetti
 delle   limitazioni   introdotte  in  materia  pubblicitaria  possono
 risultare aggravati sino a ridurre al di la' della ragionevolezza gli
 spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati
 alla promozione o alla opposizione ai quesiti referendari".   Non  e'
 superfluo  ricordare,  in  proposito, che, sul presupposto per cui in
 caso di campagne referendarie la propaganda e la pubblicita' "vengono
 in larga parte a coincidere con le forme proprie della  pubblicita'",
 un'eventuale  compressione del diritto di pubblicita' non soltanto si
 pone in contrasto con l'articolo  41  della  Costituzione  (v.  Corte
 costituzionale,  sent. n. 231 del 1985, la quale recita testualmente:
 "l'apporto rappresentato dagli introiti pubblicitari  e'  considerato
 indispensabile  per  la  sopravvivenza  dei mezzi di comunicazione di
 massa,   si  tratti  di  organi  di  stampa  ovvero  delle  emittenti
 radiotelevisive, pubbliche o private"), ma finisce per  ledere  anche
 il   diritto   alla   libera   manifestazione  del  pensiero  di  cui
 all'articolo 21 della Costituzione.   Infatti, la Corte  gia'  alcuni
 anni  fa  affermava  che "la liberta' di propaganda e' espressione di
 quella manifestazione del pensiero, garantita dall'articolo 21  della
 Costituzione  e  pietra  angolare dell'ordine democratico. Gia' nella
 sentenza 22 giugno 1966, n. 87, la Corte, oltre ad inserire la propa-
 ganda  nella  protezione  cosi'  apprestata,  affermo'  che  essa  e'
 assicurata  fino  al  limite  oltre  il  quale risulti leso il metodo
 democratico" (Sent. n. 84 del 1969). E, ancora, essendo la propaganda
 "di per se' diretta a  convincere",  la  Corte  ammise  che  "rientra
 nell'art.  21  ogni espressione che miri a persuadere dell'utilita' e
 della necessita' di un  dato  contegno".    Le  conseguenze  appaiono
 lineari:  la  pubblicita'  referendaria  e' espressione di un diritto
 fondamentale, come tale disciplinabile, senza mai giungere ad una sua
 radicale negazione, solo dalla legge,  che  deve  prevedere  in  modo
 dettagliato  i limiti ad esso apponibili.  Tali basilari principi non
 sono stati rispettati dal d.-l. n. 182.
    8.1. - Il d.-l. n. 182 riproduce l'art. 22  sulla  definizione  di
 pubblicita':  in  realta',  tale definizione appare - anche alla luce
 della  sentenza  della  Corte  n.  161  incongrua   ed   irrazionale,
 identificando  la  pubblicita'  elettorale  con i soli messaggi brevi
 sulla stampa o con i soli spot radiotelevisivi, attribuendo  ad  essa
 una  finalita'  promozionale (che invece la pubblicita' condivide con
 la propaganda): e'  irragionevole  e  incongruo  (con  la  natura  di
 diritto  fondamentale  postulata  dalla  Corte) limitare le modalita'
 dell'esercizio di tale diritto ai soli spot e messaggi  brevi,  cosi'
 come  e'  irragionevole prevedere che tutte le forme della propaganda
 debbano essere gratuite, impedendo cosi' la possibilita' di  svolgere
 forme di propaganda, anche a pagamento, sui mezzi di comunicazione di
 massa.    In  realta',  e'  tutto  l'apparato  del d.-l. n. 182 e, in
 particolare,  la  parte  definitoria  che   avrebbe   dovuto   essere
 riconsiderato  alla  luce della sentenza della Corte ed affidato alla
 discussione parlamentare.  In definitiva, cio' di cui si lamentano  i
 promotori,  facendo  valere  la  lesione  della  sfera  di competenze
 costituzionalmente  loro  garantite,  cosi'  come   precisate   dalla
 sentenza n. 161 del 1995, e':
      l'emanazione da parte del Garante di provvedimenti, basati su di
 un  potere  ad  esso  non  attribuito; in subordine, l'emanazione del
 d.-l.  n.  182  del  1995,  invasivo  e   lesivo   delle   competenze
 costituzionalmente garantite ai promotori, e incostituzionale sia per
 violazione  dell'art.  77,  come meglio precisato, sia per violazione
 degli artt. 21, 48, e 75, limitatamente agli artt. 3, 4, terzo comma,
 16 e 22.
                         ISTANZA DI SOSPENSIVA
    E' difficile negare in questo quadro  che  il  decreto-legge  e  i
 provvedimenti  del  Garante  ledano  le competenze costituzionalmente
 spettanti ai  promotori.  D'altra  parte,  i  promotori  non  possono
 esimersi  dal  chiedere (in applicazione analogica dell'art. 40 della
 legge n. 87 del 1953, non esclusa dalle sentenze nn. 302 del  1988  e
 406   del   1989)   l'applicazione   della   misura  cautelare  della
 sospensione, in parte qua, dei provvedimenti impugnati.  E'  evidente
 infatti che se si dovessero attendere gli ordinari tempi di decisione
 della  controversia il diritto costituzionalmente garantito di cui si
 chiede  a  codesta  ecc.ma  Corte  tutela   e   protezione   verrebbe
 irrimediabilmente   leso:   i  tempi,  pur  rapidi,  della  giustizia
 costituzionale non permetterebbero al  comitato  promotore  di  poter
 svolgere  una  corretta  campagna  di  informazione sul referendum in
 presenza  delle  disposizioni  di  cui  ai  provvedimenti  impugnati;
 ricorrono  pertanto  i  requisiti del periculum in mora, sia sotto il
 profilo della irrimediabilita', sia sotto il profilo  della  gravita'
 del danno.