Ricorso per conflitto di attribuzione dei signori on. Giuseppe Calderisi, Lorenzo Strik Lievers, Elio Vito, promotori dei referendum in materia di commercio, di elezioni comunali e di contributi sindacali, ammessi dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 3, 4, 10 e 13 del 1995 e fissati in data 11 giugno 1995 con decreti del Presidente della Repubblica 5 aprile 1995, rappresentati e difesi, come da delega in calce al presente atto, dal prov. avv. Beniamino Caravita di Toritto, e presso lo stesso elettivamente domiciliati, in Roma, via T. Taramelli n. 22, contro il Garante per la radiodiffusione e l'editoria, in persona del Garante pro-tempore; nonche' contro il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore; per l'annullamento, previa sospensione: del provvedimento del Garante del 12 aprile 1995, recante "Regolamento per la disciplina della comunicazione sulla stampa e sulla radiotelevisione relativa ai referendum abrogativi per la cui votazione e' fissata la data del giorno 11 giugno 1995"; del provvedimento del Garante del 13 maggio 1995, recante "Integrazioni e modifiche delle disposizioni 12 aprile 1995 relative alle campagne referendarie sulla stampa e sulla radiotelevisione"; del provvedimento del Garante del 22 maggio 1995, recante "Disposizioni relative alle campagne referendarie sulla stampa e sulla radiotelevisione"; del d.-l. 19 maggio 1995, n. 182, recante "Disposizioni urgenti per la parita' di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie". F A T T O A seguito dell'emanazione del primo decreto-legge sulla par condicio (d.-l. 20 marzo 1995, n. 83) i promotori dei referendum indicati in epigrafe sollevavano conflitto di attribuzioni contro il Governo e contro il Garante, per l'annullamento del decreto-legge e del conseguente provvedimento del Garante 22 marzo 1995. I promotori proponevano tale ricorso in considerazione del grave ed intollerabile pregiudizio che essi avrebbero ricevuto da un provvedimento legislativo che non soltanto di fatto impediva del tutto la campagna elettorale referendaria - in relazione al divieto della medesima durante le campagne elettorali -, ma introduceva un assoluto divieto di pubblicita' (costituzionalmente illegittimo|) che avrebbe bloccato il circolare delle informazioni relative al contenuto e al significato delle proposte referendarie sulle quali il corpo elettorale era stato chiamato a pronunciarsi. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 118 del 7 aprile 1995, dichiarava ammissibile il conflitto nella parte in cui questo aveva ad oggetto il d.-l. n. 83 del 1995, mentre dichiarava l'inammissibilita' nella parte in cui tale ricorso riguardava il provvedimento 22 marzo 1995 del Garante per la radiodiffusione e l'editoria. La motivazione di tale inammissibilita' si rintracciava nel difetto di legittimazione oggettiva "stante la palese inidoneita' dell'atto in relazione al quale il conflitto viene sollevato - atto che si riferisce alla tornata elettorale del 23 aprile 1995 e che non e' destinato a incidere sotto alcun profilo nella disciplina della campagna referendaria - a ledere la sfera di attribuzioni dei ricorrenti" (Corte cost., ord. n. 118/1995). Con successiva sentenza n. 161 del 10 maggio 1995 la Corte dichiarava la non spettanza al Governo del potere di adottare la disposizione di cui all'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995 in riferimento alle campagne referendarie e, conseguentemente, annullava la disposizione suddetta nella parte in cui si applicava alle campagne referendarie. Soltanto tre giorni dopo tale pronuncia di codesta eccellentissima Corte il Garante emanava il provvedimento 13 maggio 1995, recante "Integrazioni e modifiche delle disposizioni 12 aprile 1995 relative alle campagne referendarie sulla stampa e sulla radiotelevisione", con il quale dettava una disciplina dei messaggi pubblicitari aventi ad oggetto i referendum dell'11 giugno 1995, limitandoli sotto molteplici ed irragionevoli profili. Il provvedimento del Garante era il risultato di una precisa scelta governativa - orientata nel senso del non intervento - in un settore nel quale i vincoli del decreto-legge sulla par condicio erano stati eliminati per effetto della pronuncia costituzionale. Infatti, in base a dichiarazioni rilasciate dallo stesso Presidente del Consiglio Dini ai mezzi d'informazione, il provvedimento del Garante nasceva dalla decisione del Governo di non intervenire ne' nella forma piu' corretta del disegno di legge di iniziativa governativa, ne' con la (piu' discutibile procedura della) decretazione d'urgenza (vd. "Dini: il Garante sapra' trovare l'equilibrio" in "Il Popolo", 13 maggio 1995; "Referendum, spot col contagocce", in "Il Giornale", 13 maggio 1995; Intervista al Garante, in "L'Unita'" del 17 maggio 1995, p. 3: "non avevo, dunque, il diritto di regolamentare in materia, ma il dovere di farlo, peraltro sollecitato dal Governo e da tante forze politiche"). Successivamente, in data 19 maggio 1995, il Governo emanava il nuovo d.-l. n. 182, recante "Disposizioni urgenti per la parita' d'accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie", il cui art. 3, sesto comma, dopo aver sancito il divieto di pubblicita' elettorale nei trenta giorni precedenti alle elezioni, cosi' recita all'ultimo periodo: "La presente disposizione non si applica alle consultazioni referendarie, per le quali e' ammessa la pubblicita' elettorale fino a tutto il penultimo giorno prima della data della consultazione referendaria". Il 22 maggio 1995 il Garante emanava infine un provvedimento recante "Disposizioni relative alle campagne referendarie sulla stampa e sulla radiotelevisione", attraverso il quale - con una procedura discutibile e innovativa - introduceva un rinvio al precedente provvedimento del 13 maggio, limitativo del diritto di pubblicita' in materia referendaria. I provvedimenti impugnati sono gravemente lesivi delle competenze costituzionalmente ai promotori per le seguenti ragioni di D I R I T T O 1. - Circa la legittimazione soggettiva dei promotori. Non sussiste alcun dubbio circa la possibilita' di proporre ricorso per conflitto d'attribuzione per i promotori dei referendum abrogativi: gia' con il ricorso proposto contro il primo decreto- legge sulla par condicio era stato posto in evidenza il fatto che la Corte, per giurisprudenza ormai consolidata, riconosce i promotori quali potere dello Stato nei conflitti di attribuzione. Tant'e' che, nonostante il fatto che in quella circostanza il ricorso non fosse stato proposto contro l'Ufficio centrale per il referendum, la Corte stessa ha riconosciuto la legittimazione attiva dei promotori poiche' "le restrizioni disposte alla campagna referendaria appaiono suscettibili di incidere sulla formazione della volonta' di coloro che esprimono il loro voto nel referendum e, di conseguenza, nella sfera di attribuzioni garantita, ai sensi dell'art. 75 della Costituzione, ai ricorrenti". (Corte cost., sent. n. 161/1995). E' quindi ormai pacifico che i promotori possono sollevare conflitto contro ogni altro potere dello Stato che comprima le attribuzioni ad essi costituzionalmente garantite. 2. - Circa la legittimazione soggettiva del Garante. E' noto alla Corte costituzionale come, nella evoluzione piu' recente - a partire dagli anni '70 - del sistema istituzionale italiano, si sia andata delineando la tendenza ad affidare poteri di regolamentazione e disciplina di segmenti "sensibili" del sistema ad organi caratterizzati da autonomia ed indipendenza dal Governo e da tutta l'amministrazione (nel caso del Garante per la radiodiffusione e l'editoria, vd. le disposizioni contenute nell'art. 6 della legge n. 223/1990, che disegnano una peculiare collocazione del Garante, al quale e' attribuita autonomia organizzativa e contabile, nonche' "una retribuzione pari a quella spettante ai giudici della Corte costituzionale"; v. anche art. 10 della legge n. 287/1990, sull'Autorita' Garante del mercato e della concorrenza). L'autonomia e l'indipendenza di tali organi appare, di converso, strettamente legata al tipo di funzioni che le leggi attribuiscono ad essi: si tratta, in larga misura, di poteri di immediata attuazione della Costituzione o di quei principi generalissimi, anch'essi di attuazione della Costituzione, contenuti nelle leggi istitutive. Secondo la dottrina tradizionale, proprio "posizione" e "funzioni" sono i criteri ai quali fare riferimento al fine di individuare la natura di organo costituzionale e la collocazione dell'organo tra i poteri dello Stato (A.M. Sandulli, Sulla posizione della Corte costituzionale nel sistema degli organi costituzionali dello Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, 705 ss.; E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevanza costituzionale, in Arch. giur. Filippo Serafini, 1965, II, 60 ss.). Ne' a definire - in senso negativo - la natura di tali organi come "poteri dello Stato" puo' valere il richiamo alla tradizionale dottrina che vuole basare l'individuazione dei poteri dello Stato sulla capacita' di influire sull'indirizzo politico: come veniva gia' messo in luce da C. Schmitt (Das Problem der innerpolischen Neutralitaet des Staates, ora in Verfassungsrechtliche Aufsaetze aus den Jahren 1924- 1954, Berlin, 1958, 41 ss.) la caratteristica peculiare di alcune amministrazioni indipendenti e' quella della loro neutralizzazione, e cioe' della loro sottrazione all'indirizzo politico in ragione e in funzione della espressione di un indirizzo politico autonomo legato alle funzioni che l'organo e' chiamato a svolgere (Schmitt delineava tale posizione facendo riferimento alla Banca centrale: e certo, anche nel nostro ordinamento, non puo' non sorgere almeno il dubbio sulla natura di potere dello Stato della Banca d'Italia). Ne', ancora, a negare la natura di "poteri dello Stato" di tali organi puo' valere il semplicistico elemento della loro mancata previsione in Costituzione: in realta', in uno Stato pluralista e liberale l'esigenza dell'affidamento di settori "sensibili" ad organi indipendenti (nel senso sopra precisato) puo' trovare una tutela costituzionale (e quindi una garanzia costituzionale delle funzioni) nella lettura congiunta delle disposizioni costituzionali di riferimento (art. 21 per il Garante per l'editoria; art. 41 per il Garante antitrust; art. 47 per la Banca d'Italia) con gli artt. 94, 95 e 97 della Costituzione. L'evoluzione dell'ordinamento pluralista puo' spingere cosi' - con la forza di un vero e proprio principio costituzionale - alla sottrazione della disciplina di alcuni settori alla soggezione al contingente indirizzo politico di maggioranza, espresso nel circuito costituzionale disegnato dagli artt. 94 e 95 della Costituzione (fiducia delle Camere al Governo e attribuzioni al Presidente del Consiglio della direzione della politica generale del Governo) e ad una rilettura, con categorie diverse, dei principi costituzionali dell'imparzialita' e del buon andamento dell'amministrazione. Anche in questi casi, comunque, rimane ferma l'esigenza che almeno i principi della disciplina delle materie affidate alla tutela di autorita' indipendenti - materie che per solito toccano i diritti di liberta' fondamentali - siano fissati dalla legge: la sottrazione all'indirizzo politico di maggioranza non puo' significare affidamento della disciplina del settore ad una discrezionalita' priva di riferimenti normativi (che facilmente puo' sconfinare nell'arbitrio) o ad una attivita' di mera composizione di interessi, quasi in funzione di arbitraggio. 2.1. - Al di la' del fatto che nella precedente sentenza la Corte ha dichiarato l'inammissibilita' del conflitto non gia' in relazione al profilo soggettivo, bensi' in relazione al profilo (logicamente successivo) della inidoneita' dell'atto a ledere le posizioni soggettive dei ricorrenti, valga infine, in merito alla concreta vicenda qui sottoposta al giudizio di ammissibilita' della Corte costituzionale, la considerazione del tipo di poteri concretamente esercitati dal Garante: il quale, come meglio vedremo nel merito - dopo la sentenza della Corte n. 161 e senza nemmeno il supporto di una previa intermediazione legislativa - ha ritenuto di poter disciplinare, andando in contrario avviso alla decisione, la materia della pubblicita' referendaria, esercitando - o meglio arrogandosene l'esercizio - poteri che incidono, in modo gravemente lesivo, sulla sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite a quel potere dello Stato costituito dai promotori del referendum. 2.2. - Il Garante - come la lettura degli atti impugnati puo' confermare - si e' arrogato un potere a lui non attribuito, esercitando funzioni lesive di posizioni costituzionalmente garantite: la strada piu' auspicabile e', allora, quella per cui la Corte costituzionale - riservata ogni pronuncia sul merito e sulla stessa ammissibilita' del conflitto contro il Garante - dichiari prima facie ammissibile il conflitto anche contro il Garante, per poter poi verificare funditus - e solo eventualmente in quella sede negare la natura di potere dello Stato del Garante - la natura dei poteri esercitati e l'eventuale illegittimita' degli atti di esercizio di tale potere o, se del caso, l'incostituzionalita' degli atti che tali poteri attribuiscono al Garante. 3. - Circa la legittimazione soggettiva del Governo della Repubblica. Nessun dubbio puo' sussistere sulla legittimazione del Governo della Repubblica ad esser parte - in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri - in un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. 4. - Circa l'idoneita' degli atti impugnati a costituire oggetto del conflitto (legittimazione oggettiva). Sussistono i requisiti previsti dall'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante "Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale", in relazione al quale i conflitti insorti fra poteri dello Stato devono avere ad oggetto la delimitazione della sfera di attribuzione costituzionalmente garantita. I promotori dei referen- dum indicati in epigrafe hanno impugnato i provvedimenti 12 aprile, 13 maggio e 22 maggio 1995, atti normativi che sono espressione del potere in concreto esercitato da parte del Garante stesso. Il contenuto dei provvedimenti impugnati, inoltre, rivela il rango costituzionale della materia disciplinata ed elimina ogni possibile dubbio inerente all'ammissibilita' del conflitto in relazione alla natura dell'atto impugnato; tant'e' che nello stesso provvedimento 13 maggio 1995 il Garante esplicita le esigenze sottese all'emanazione dello stesso: "fissare nuovi limiti temporali e le connesse modalita' di presentazione dell'offerta di spazi pubblicitari per la campagna referendaria e di rivedere i limiti delle relative tariffe per favorire per quanto possibile l'accesso a tale forma di comunicazione, ritenuta dalla Corte costituzionale inerente all'esercizio di un diritto politico fondamentale". 4.1. - I dubbi sulla possibilita' di impugnare in sede di conflitto di attribuzione un decreto-legge sono stati risolti dalla sentenza n. 161/1995 ed e' dunque inutile spendere ulteriori parole in proposito. Alle perspicue e assolutamente condivisibili argomentazioni della Corte costituzionale se ne aggiungono in questa occasione altre due, ambedue rilevanti anche per quanto attiene al merito della questione e in quella sede esaminate piu' dettagliatamente. Da un lato, infatti, siamo di fronte ad una reiterazione del primo decreto-legge; dall'altro, va ricordato come il secondo decreto-legge abbia omesso di tener conto della sentenza della Corte costituzionale. 4.2. - Quanto poi ai provvedimenti del Garante, occorre notare una contraddizione tra i primi due provvedimenti e il terzo, contraddizione causata dal regime precario della fonte su cui il Garante pretende di fondare il potere da lui esercitato; e, infatti, il terzo provvedimento pretende di disporre la continuazione dell'applicazione delle disposizioni dei provvedimenti del 12 aprile e del 13 maggio 1995. Delle due, pero', l'una: o i due provvedimenti del 12 aprile e del 13 maggio 1995 sono tuttora validi ed efficaci, nonostante il fatto che trovino la loro fonte in un atto che piu' non esiste nell'ordinamento (il primo decreto-legge decaduto) e allora non v'e' nessun bisogno di prevedere da parte di un terzo atto che tali atti si continuano ad applicare; oppure tali atti sono decaduti con la decadenza del decreto-legge e allora non si puo' disporre, da parte di un atto dello stesso rango, la protrazione dell'applicazione di disposizioni contenute in atti non piu' esistenti. Non puo', allora, non essere sottolineato come il Garante - con il provvedimento del 22 maggio - abbia fatto cio' nemmeno il d.-l. del 19 maggio ha osato fare, proprio perche' costituzionalmente non poteva fare, essendo tale competenza attribuita alla sola legge di conversione: far salvi gli effetti (vale a dire, gli atti su di essi basati) del decreto-legge decaduto. 5. - Circa il merito del ricorso: premessa. In occasione della recente sentenza n. 161/1995 la Corte costituzionale ebbe ad affermare: "riguardando la materia l'esercizio di un diritto politico fondamentale, le limitazioni contestate. . . devono essere sottoposte ad un rigoroso scrutinio, tanto piu' perche' disposte con un provvedimento governativo provvisorio non ancora approvato dalla maggioranza parlamentare". La sentenza summenzionata ha offerto un insegnamento assolutamente chiaro: ha disposto la non spettanza al Governo del potere di adottare, con riferimento alle campagne referendarie, la disposizione contenuta nell'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995, conseguentemente annullando il divieto di pubblicita' in vista delle campagne referendarie. La Corte ha, altresi', motivato la propria decisione sostenendo che il divieto di pubblicita' non trova alcuna giustificazione se riferito alle campagne referendarie, laddove "le forme espressive della propaganda vengono .. in larga parte a coincidere con le forme proprie della pubblicita', con la conseguenza che, per queste campagne, gli effetti delle limitazioni introdotte in materia pubblicitaria possono risultare aggravati fino a ridurre al di la' della ragionevolezza gli spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati alla promozione o all'opposizione ai quesiti referendari". Per quanto riguarda lo svolgimento delle campagne referendarie il diritto costituzionalmente protetto alla diffusione di messaggi pubblicitari non trova un ragionevole limite nell'esigenza di "preservare l'elettore dalla suggestione di messaggi brevi e non motivati", esigenza che si rintraccia, ad esempio, nelle campagne elettorali (nelle quali - sostiene la Corte - il diritto alla pubblicita' trova un contemperamento nell'esigenza di privilegiare la propaganda elettorale e cio' puo' giustificare "la presenza di un limite ragionevolmente contenuto per lo svolgimento della pubblicita'": ragionevolmente contenuto - all'evidenza - rispetto al tempo in cui la pubblicita' puo' essere svolta, cosicche' mai puo' essere ragionevole un divieto - come quello attualmente in vigore - di trenta giorni, quando la pubblicita' puo' essere svolta dopo la presentazione delle liste, quindi negli ultimi 28-26 giorni prima delle elezioni). Dalla recente pronuncia costituzionale si ricavano dunque i seguenti principi: a) la pubblicita' durante le campagne referendarie e' espressione di un diritto politico fondamentale; b) l'esercizio di tale diritto non puo' essere impedito o limitato, giacche' cio' lederebbe le attribuzioni costituzionalmente attribuite ai promotori dei referendum (relative alla corretta formazione della volonta' del corpo elettorale). 5.2. - L'interpretazione della normativa primaria in tema di poteri del Garante. Fatta tale premessa, e' necessario - ai fini di un piu' chiaro inquadramento degli elementi del conflitto - procedere ad una interpretazione delle disposizioni del decreto-legge relative ai (presunti) poteri del Garante. L'esame dei provvedimenti del Garante lascia gravemente perplessi su quale sia la fonte del potere esercitato dal Garante stesso nel disciplinare la pubblicita' referendaria. Nel primo provvedimento, quello del 12 aprile 1995, il Garante rintraccia la fonte del potere esercitato direttamente nell'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995; nel provvedimento del 13 maggio 1995 - emanato dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 161/1995 - il Garante non individua una fonte che legittimi il provvedimento limitativo del diritto di pubblicita'. Ed ancora, per il provvedimento 22 maggio 1995, il Garante specifica che la fonte che giustifica l'esercizio di tale potere e' da cogliersi negli artt. 3, sesto comma, 4, terzo comma, e 16 del d.-l. n. 182/1995 (identici, tranne l'art. 3, sesto comma, agli articoli del precedente decreto-legge). Di fronte a questa gravissima incertezza sulla fonte del potere, e' allora opportuno fornire una interpretazione piu' rigorosa della normativa di rango primario. Dopo la sentenza n. 161, di annullamento dell'art. 3, sesto comma, del (primo) decreto-legge, il provvedimento del Garante avente ad oggetto le campagne referendarie, fondato sull'articolo suindicato, non aveva piu' ragion d'essere in considerazoine del contenuto della pronuncia della Corte costituzionale che eliminava il divieto di spot. Il secondo provvedimento del Garante (13 maggio 1995) non trovava appoggio neppure formalmente in una disposizione contenuta in un atto legislativo: dal momento che era stato annullato l'art. 3, sesto comma, del d.-l. n. 83/1995, non sussisteva alcuna norma nell'ordinamento che prevedesse una limitazione numerica degli spot pubblicitari e che autorizzasse il Garante a darne una specifica disciplina. Il provvedimento del Garante attualmente in vigore - formulato, peraltro, attraverso un assai discutibile rinvio materiale - rimanda agli artt. 3, sesto comma, 4, terzo comma, e 16 al fine di individuare la fonte legittimante l'esercizio di tale potere. Dall'attuale formulazione dell'art. 3, sesto comma, non e' deducibile alcuna attribuzione di funzioni al Garante al fine disporre limitazioni numeriche ai passaggi pubblicitari: "La presente disposizione non si applica alle consultazioni referendarie, per le quali e' ammessa la pubblicita' elettorale fino a tutto il penultimo giorno prima della data della consultazione referendaria". La disposizione contenuta nell'art. 3, sesto comma, a proposito della pubblicita' referendaria, e' - se correttamente letta alla luce della sentenza della Corte - costitutiva di un diritto, non certo attributiva ad alcuna autorita' di poteri (innominati) di limitazione del diritto (se si voleva raggiungere tale risultato, si poteva ins- erire un inciso del tipo: "nei modi e nei limiti di cui all'art. .."). Nell'art. 4, terzo comma (del vecchio come del nuovo decreto), vi e' si' l'attribuzione al Garante del potere di dettare i criteri per l'esercizio del diritto di pubblicita', anche con riferimento al numero massimo di spot pubblicitari: ma, a ben guardare, appare evidente che tale disposizione ha ad oggetto le "modalita' di propaganda e pubblicita' elettorali" e non le campagne referendarie. La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 161/1995 ha evidenziato che "i limiti segnati dal primo comma dell'art. 3 (del d.-l. n. 83/1995) per la 'pubblicita' elettorale' non risultano applicabili, per la loro stessa configurazione (modulata con riferimento specifico alle campagne elettorali), alla pubblicita' referendaria". Proprio la dizione testuale orienta necessariamente nel senso che l'art. 4, terzo comma, si riferisca alla sola pubblicita' elettorale e non gia' quella referendaria: cosicche' di fronte ad un testo normativo che esclude (a seguito della sentenza della Corte costituzionale) il divieto di pubblicita' per i referendum, non e' certo possibile interpretare in modo estensivo i poteri del Garante di limitare i passaggi pubblicitari, ritenendo che essi si riferiscano non solo alla pubblicita' elettorale, bensi' anche a quella referendaria, cioe' a quella forma di pubblicita' che espressamente il decreto-legge permette. Ne' si puo' pensare che poteri limitativi del diritto a trasmettere pubblicita' referendaria si basino sull'art. 16 del (vecchio, come del nuovo) decreto-legge, che attribuisce al Garante solo il potere di prescrivere "le regole atte a garantire la concreta realizzazione della parita' di trattamento e l'idonea accesso ai predetti spazi da parte delle forze sociali interessate": il che e' cosa ben diversa dal fissare limiti di tempo, di durata, di orario, ecc., cosi' ha preteso di fare il Garante| 6. - Assoluta carenza di potere del Garante. Dalla disamina della normativa primaria, appare chiaro come i provvedimenti del Garante del maggio 1995, relativi alla pubblicita' referendaria, siano stati emanati in assoluta carenza di potere, con invasione della sfera di competenze costituzionalmente attribuite ai promotori del referendum. Applicando, infatti, alcune regole tradizionali relative alle limitazioni ai diritti di liberta', dal dispositivo e dalla motivazione della sentenza n. 161, se ne possono trarre alcune conseguenze. Caduto il divieto contenuto nel primo decreto-legge relativo alla pubblicita' referendaria, si riespande il diritto di liberta', specie se relativo ad un diritto politico fondamentale (artt. 21, 48 e 75 della Costituzione). Tale diritto di liberta', riguardando appunto "l'esercizio di un diritto politico fondamentale", e' in via generale assoggettato ad una riserva di legge assoluta, per cui solo il legislatore - senza mai giungere all'annullamento del diritto e bilanciando le diverse situazioni soggettive (ivi comprese quelle relative all'art. 41 della Costituzione) - puo' individuare gli eventuali limiti ad esso apponibili ed il soggetto abilitato ad applicare i limiti, che hanno comunque da essere indicati con rigorosa precisione da parte del legislatore stesso, senza rinvii in bianco. Solo il legislatore - e non un'altra autorita', sia pur indipendente - puo' individuare quale sia il ragionevole bilanciamento delle diverse situazioni costituzionali coinvolte: e cio' tanto piu' in presenza della sentenza n. 161 che ha fatto riferimento ad un aggravamento "al di la' dei limiti della ragionevolezza" delle limitazioni apposte agli spazi informativi consentiti ai soggetti interessati ai quesiti referendari. Con il provvedimento del 13 maggio 1995 e, ancor piu', con l'anomalo provvedimento del 22 maggio, il Garante si e' arrogato poteri - di rango costituzionale - che al suo ufficio non spettavano, il cui esercizio e' invasivo e lesivo delle competenze costituzionalmente garantite ai promotori. 6.1. - La concreta disciplina dettata dal Garante con il provvedimento del 13 maggio 1995 - con la intollerabile e ingiustificata limitazione a due spot favorevoli e due spot contrari per ogni referendum, la vincolante previsione degli orari di trasmissione, della durata degli spot, ecc., la fissazione dello sconto sulle tariffe pubblicitarie al 35% (a meta' strada fra la richiesta del Comitato per il Si, che chiedeva un costo del 20% delle tariffe, e della Fininvest, che chiedeva un costo del 50% ..) dimostra poi che la reale intenzione del Garante non era quella di disciplinare tale attivita' - ammesso e non concesso che ne avesse il potere -, ma di limitare, operando una impropria e irrituale mediazione (che il Governo non aveva voluto compiere) fra le esigenze dei soggetti forti, gli effetti della sentenza della Corte costituzionale. 6.2. - L'incostituzionalita' dei provvedimenti del Garante rileva in maniera ancora piu' marcata se si riflette sul fatto che in essi si fa riferimento solo alle posizioni dei soggetti favorevoli o contrari all'istanza abrogativa, senza mai prevedere spazi per quei soggetti che, in applicazione dell'art. 75, quarto comma, ritengano di voler far propaganda per l'astensione. Sulla rilevanza della posizione astensionistica e' sufficiente ricordare, da un lato, come il risultato di importanti referendum sia stato determinato dal mancato raggiungimento del quorum (caccia e pesticidi); dall'altro, come in altri casi (preferenza unica) le posizioni astensionistiche siano state clamorosamente sconfitte con significative conseguenze su tutto il sistema politico. E non e' forse inutile ricordare che, anche in occasione dei presenti referendum, si siano costituiti comitati per l'astensione, con il preciso obiettivo di non far scattare il quorum costituzionale della partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto. In uno di questi casi, le motivazioni astensionistiche sono peraltro di grande rilievo costituzionale: tendono infatti a ribadire che la materia del numero delle concessioni radiotelevisive sia disciplinata dalla sentenza n. 420/1994 della Corte costituzionale e non gia' dall'esito di un scontro referendario. 7. - Qualora, invece, codesta eccellentissima Corte dovesse ritenere che il d.-l. n. 182/1995 sia comunque attributivo di poteri al Garante, e' doveroso rilevare che il suddetto decreto-legge appare lesivo delle attribuzioni che l'art. 75 della Costituzione affida ai promotori dei referendum. E questo sotto molteplici aspetti. 7.1. - Cattivo uso del potere di cui all'art. 77 della Costituzione (sempre in relazione alle competenze attribuite ai promotori dall'art. 75 della Costituzione). Il decreto-legge e' illegittimo per assoluta carenza dei presupposti di necessita' ed urgenza richiesti dall'art. 77 della Costituzione: giacche' non sono all'orizzonte - almeno in tempi brevi - elezioni politiche nazionali e le elezioni regionali si sono gia' svolte, cosi' come si e' svolta la tornata primaverile di elezioni comunali e provinciali (l'altra - secondo la legge n. 142 del 1990 - avra' luogo nell'autunno avanzato), non vi era alcuna ragione di procedere all'emanazione del decreto-legge; ricorre quindi quella situazione di evidente mancanza dei requisiti, in cui la Corte puo' sindacare l'uso della decretazione d'urgenza. 7.2. - Per quanto attiene alla materia referendaria, il decreto- legge e' o inutile o incostituzionale, per violazione dell'art. 136 della Costituzione. E, infatti, delle due l'una: o il decreto-legge non contiene alcuna disposizione relativa alla pubblicita' in materia referendaria (non l'art. 3, comma primo, e quindi non l'art. 4, comma terzo) e si limita - inutilmente - ad aggiungere il richiamo alla sentenza n. 161 del 1995 nell'ultima parte dell'art. 3, comma sesto; oppure, a fronte di una sentenza della Corte costituzionale che costruisce la pubblicita' referendaria come espressione di un diritto fondamentale reintroduce poteri innominati di limitazione e riduzione di tale diritto. 7.3. - Si aggiunga infine che il d.-l. n. 182 e' frutto di una reiterazione. Nei confronti della prassi incostituzionale della reiterazione vale sempre il giudizio dato dalla sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 302 del 1988: "in via di principio, la reiterazione dei decreti-legge suscita gravi dubbi relativamente agli equilibri istituzionali e ai principi costituzionali, tanto piu' gravi allorche' gli effetti sorti in base al decreto reiterato sono praticamente irreversibili (come, ad esempio, quando incidono sulla liberta' personale dei cittadini) o allorche' gli effetti sono fatti salvi, nonostante l'intervenuta decadenza, ad opera dei decreti successivamente riprodotti". Cosi' come nella sentenza n. 302 la Corte costituzionale trasse - in concreto - dalla reiterazione del decreto-legge una illegittima interferenza nelle competenze regionali (provocata dal continuo spostamento dei termini a decorrere dai quali le Regioni potevano esercitare le proprie competenze), cosi', nel caso odierno, l'incertezza sulle modalita' di svolgimento delle campagne referendarie (e il dubbio circa la permanenza delle disposizioni nell'ordinamento anche dopo lo svolgimento del referen- dum) non puo' non provocare una illegittima interferenza nel potere del corpo elettorale di pronunziarsi sui quesiti elettorali e dei promotori di garantire una corretta campagna referendaria. Cosicche', per la seconda volta, limitazioni ad un diritto fondamentale sono state introdotte da un atto provvisorio del Governo; cosicche', per la seconda volta, il Governo - pur coprendosi dietro il paravento dell'intervento del Garante, i cui atti non richiedono l'emanazione da parte del Presidente della Repubblica - produce lesioni irreversibili ad un diritto fondamentale. 8. - Violazione dell'art. 75 in relazione agli articoli 21, 41 e 48 della Costituzione. Il d.-l. n. 182 del 1995 e' illegittimo anche sotto il profilo contenutistico: infatti, l'aver attribuito al Garante poteri generici e privi di criteri - sempre che effettivamente li abbia atribuiti .. - tali da permettere una assolutamente discrezionale fissazione di limiti quantitativi alla trasmissione e alla pubblicazione di pubblicita' referendaria si pone in assoluto contrasto con l'insegnamento della Corte costituzionale in materia di esercizio di diritti politici fondamentali. Non soltanto la piu' volte menzionata sentenza n. 161 del 1995 ha dichiarato che "le limitazioni contestate - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - devono essere sottoposte a un rigoroso scrutinio, tanto piu' perche' disposte con un provvedimento governativo provvisorio non ancora approvato dalla maggioranza parlamentare", ma ha affermato anche che "gli effetti delle limitazioni introdotte in materia pubblicitaria possono risultare aggravati sino a ridurre al di la' della ragionevolezza gli spazi informativi complessivamente consentiti ai soggetti interessati alla promozione o alla opposizione ai quesiti referendari". Non e' superfluo ricordare, in proposito, che, sul presupposto per cui in caso di campagne referendarie la propaganda e la pubblicita' "vengono in larga parte a coincidere con le forme proprie della pubblicita'", un'eventuale compressione del diritto di pubblicita' non soltanto si pone in contrasto con l'articolo 41 della Costituzione (v. Corte costituzionale, sent. n. 231 del 1985, la quale recita testualmente: "l'apporto rappresentato dagli introiti pubblicitari e' considerato indispensabile per la sopravvivenza dei mezzi di comunicazione di massa, si tratti di organi di stampa ovvero delle emittenti radiotelevisive, pubbliche o private"), ma finisce per ledere anche il diritto alla libera manifestazione del pensiero di cui all'articolo 21 della Costituzione. Infatti, la Corte gia' alcuni anni fa affermava che "la liberta' di propaganda e' espressione di quella manifestazione del pensiero, garantita dall'articolo 21 della Costituzione e pietra angolare dell'ordine democratico. Gia' nella sentenza 22 giugno 1966, n. 87, la Corte, oltre ad inserire la propa- ganda nella protezione cosi' apprestata, affermo' che essa e' assicurata fino al limite oltre il quale risulti leso il metodo democratico" (Sent. n. 84 del 1969). E, ancora, essendo la propaganda "di per se' diretta a convincere", la Corte ammise che "rientra nell'art. 21 ogni espressione che miri a persuadere dell'utilita' e della necessita' di un dato contegno". Le conseguenze appaiono lineari: la pubblicita' referendaria e' espressione di un diritto fondamentale, come tale disciplinabile, senza mai giungere ad una sua radicale negazione, solo dalla legge, che deve prevedere in modo dettagliato i limiti ad esso apponibili. Tali basilari principi non sono stati rispettati dal d.-l. n. 182. 8.1. - Il d.-l. n. 182 riproduce l'art. 22 sulla definizione di pubblicita': in realta', tale definizione appare - anche alla luce della sentenza della Corte n. 161 incongrua ed irrazionale, identificando la pubblicita' elettorale con i soli messaggi brevi sulla stampa o con i soli spot radiotelevisivi, attribuendo ad essa una finalita' promozionale (che invece la pubblicita' condivide con la propaganda): e' irragionevole e incongruo (con la natura di diritto fondamentale postulata dalla Corte) limitare le modalita' dell'esercizio di tale diritto ai soli spot e messaggi brevi, cosi' come e' irragionevole prevedere che tutte le forme della propaganda debbano essere gratuite, impedendo cosi' la possibilita' di svolgere forme di propaganda, anche a pagamento, sui mezzi di comunicazione di massa. In realta', e' tutto l'apparato del d.-l. n. 182 e, in particolare, la parte definitoria che avrebbe dovuto essere riconsiderato alla luce della sentenza della Corte ed affidato alla discussione parlamentare. In definitiva, cio' di cui si lamentano i promotori, facendo valere la lesione della sfera di competenze costituzionalmente loro garantite, cosi' come precisate dalla sentenza n. 161 del 1995, e': l'emanazione da parte del Garante di provvedimenti, basati su di un potere ad esso non attribuito; in subordine, l'emanazione del d.-l. n. 182 del 1995, invasivo e lesivo delle competenze costituzionalmente garantite ai promotori, e incostituzionale sia per violazione dell'art. 77, come meglio precisato, sia per violazione degli artt. 21, 48, e 75, limitatamente agli artt. 3, 4, terzo comma, 16 e 22. ISTANZA DI SOSPENSIVA E' difficile negare in questo quadro che il decreto-legge e i provvedimenti del Garante ledano le competenze costituzionalmente spettanti ai promotori. D'altra parte, i promotori non possono esimersi dal chiedere (in applicazione analogica dell'art. 40 della legge n. 87 del 1953, non esclusa dalle sentenze nn. 302 del 1988 e 406 del 1989) l'applicazione della misura cautelare della sospensione, in parte qua, dei provvedimenti impugnati. E' evidente infatti che se si dovessero attendere gli ordinari tempi di decisione della controversia il diritto costituzionalmente garantito di cui si chiede a codesta ecc.ma Corte tutela e protezione verrebbe irrimediabilmente leso: i tempi, pur rapidi, della giustizia costituzionale non permetterebbero al comitato promotore di poter svolgere una corretta campagna di informazione sul referendum in presenza delle disposizioni di cui ai provvedimenti impugnati; ricorrono pertanto i requisiti del periculum in mora, sia sotto il profilo della irrimediabilita', sia sotto il profilo della gravita' del danno.