Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione fra poteri dello Stato ai
 sensi dell'art. 134 della Costituzione e dell'art. 37 della legge  11
 marzo  1953, n. 87, sollevato dal procuratore della Repubblica presso
 il tribunale di Napoli nei confronti dei Ministri dell'interno  e  di
 grazia  e  giustizia,  con  riferimento  al decreto n. 687 emanato di
 concerto il 24 novembre 1994 (artt. 1, 2, 3, 4, 5 e 8)  e  pubblicato
 nella Gazzetta Ufficiale n. 294 del 17 dicembre 1994), per violazione
 degli  artt. 13, 101, ultimo comma, 104, primo comma, 108 e 112 della
 Costituzione e  delle  altre  norme  primarie  indicate  nella  parte
 motiva.
    L'art.  10,  terzo  comma,  del  d.-l.  15  gennaio  1991,  n.  8,
 convertito con modificazioni nella legge 15 marzo 1991, n. 82, recita
 testualmente: "Le misure di protezione e di assistenza a favore delle
 persone ammesse allo speciale programma di protezione di cui al primo
 comma, nonche' i criteri di formulazione del programma medesimo e  le
 modalita'  di  attuazione,  sono  stabilite  con decreto del Ministro
 dell'interno, di concerto con il  Ministro  di  grazia  e  giustizia,
 sentiti  il Comitato nazionale dell'ordine e della sicurezza pubblica
 e la Commissione centrale di cui al secondo  comma.  Non  si  applica
 l'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400".
    In  attuazione - con un articolato che si ritiene illegittimo - di
 tale norma, nella Gazzetta Ufficiale n. 294 del 17 dicembre  1994  e'
 stato  emanato il decreto 24 novembre 1994, n. 687, di concerto ed, a
 firma congiunta dei Ministri di cui sopra (per cui formalmente appare
 un decreto  interministeriale),  la  cui  intitolazione  (regolamento
 recante  norme  dirette  ad individuare i criteri di formulazione del
 programma di protezione di coloro che collaborano con la giustizia  e
 le  relative modalita' di attuazione), di per se' dovrebbe servire ad
 individuare il contenuto  e,  nel  contempo,  i  limiti  del  decreto
 stesso.
    Tuttavia,  talune  disposizioni  del  regolamento,  in particolare
 quelle contenute negli artt. 1, 2, 3, 4, 5 ed 8, ad avviso di  questa
 Procura   incidono   nella  sfera  delle  attribuzioni  del  pubblico
 ministero quali a lui  riconosciute  dalla  Carta  costituzionale,  e
 violano  gli  artt.  13,  101,  secondo comma, 104, 108 e 112 di tale
 Carta,  sia  sotto  l'aspetto  di  interferenze   e   condizionamenti
 frapposti   all'indipendenza   ed   autonomia  della  magistratura  e
 all'esercizio dell'attivita'  giudiziaria,  sia  sotto  quello  della
 violazione  di  norme  primarie, come quelle delle preleggi (art. 4),
 dell'ordinamento giudiziario per le quali e' fatta  espressa  riserva
 di  legge  dall'art. 108 della Costituzione, e del codice processuale
 penale, alcuni articoli del quale sono state modificati o derogati da
 tale regolamento.
    Per  tali  ragioni,  ritiene  il  ricorrente  che,  nella  specie,
 legittimato  a  denunciare  il  conflitto  sia  proprio  il  pubblico
 ministero,   organo   competente,   nell'esercizio   delle   funzioni
 giurisdizionali,  a  dichiarare la volonta' del potere (c.d. diffuso)
 cui appartiene.
    Non ignora il deducente le determinazioni assunte al  riguardo  da
 codesta  ecc.ma Corte ed, in particolare, le considerazioni contenute
 nell'ordinanza n. 16 del 10 maggio 1979. Tuttavia, proprio successive
 pronunzie  della  Corte  stessa  e  gli   approfonditi   rilievi   di
 qualificata dottrina autorizzano a ritenere fondatamente che ormai la
 legittimazione   a   sollevare  conflitto,  in  una  riconsiderazione
 dell'indirizzo  assunto,  possa  e debba essere riconosciuta anche al
 rappresentante del p.m., quantomeno ove vengano denunciate violazioni
 degli artt. 112 o 108 della Costituzione.
    Se, infatti, la giurisdizionalita'  appare  il  presupposto,  come
 ritenuto  in linea generale da codesta Corte, per sollevare questioni
 incidentali di costituzionalita', richiedendosi, nello stesso  tempo,
 la  necessita'  che  il  soggetto  che  le  deduce abbia il potere di
 emettere provvedimenti decisori, non puo'  tuttavia  inferirsi  -  ad
 avviso  di  quest'ufficio  -  che  tale  considerazione  (a  parte la
 concezione del tipo di "potere" riconosciuto  all'organo  requirente)
 investa  tutta  l'attivita'  del  p.m.,  la  quale si presenta, sotto
 molteplici aspetti, con caratteri  squisitamente  propri  autonomi  e
 decisori;  e,  tanto  piu',  ove  la  denuncia  di conflitto concerna
 l'invasione di sfere attribuite costituzionalmente al p.m.
    Non puo' essere del resto  tralasciato  che,  proprio  secondo  la
 Corte  costituzionale,  anche  il p.m. e' una "autorita' giudiziaria"
 (sent. n. 114 del  6  agosto  1979)  e  che  alcune  decisioni  della
 medesima  Corte  hanno  rilevato  la  incostituzionalita' di norme di
 legge che  violavano  i  poteri  riconosciuti  al  p.m.  dalla  Carta
 costituzionale;  senza  contare  poi che la funzione requirente (art.
 112 della Costituzione) e' ricompresa tra le attribuzioni  riferibili
 al  potere  giudiziario  (v.  anche  l'art.  107, quarto comma, della
 Costituzione).
    Infine, come si  e'  giustamente  osservato,  potere  legislativo,
 potere   esecutivo  e  potere  giudiziario  sono  soltanto  locuzioni
 ellittiche che individuano in via puramente tendenziale il  contenuto
 dei poteri concretamente attribuiti.
    Quanto   ai   lamentati   profili  di  invasione  della  sfera  di
 attribuzioni del p.m., sottolinea il ricorrente che sfuggono  ad  una
 logica esclusivamente attuativa le disposizioni dell'art. 2 (e 4) del
 regolamento che prevedono e prescrivono:
      1)  l'indicazione  dei  principali  fatti criminosi sui quali il
 soggetto proposto sta rendendo le dichiarazioni  e  i  motivi  per  i
 quali  essi  sono ritenute attendibili e importanti per le indagini o
 per il giudizio, ecc.;
      2)  la  precisazione  circa  la  risultanza  di  "elementi   che
 confermano l'attendibilita' delle dichiarazioni acquisite", ecc.;
      3)  l'allegazione  alla proposta del verbale delle dichiarazioni
 preliminari  alla  collaborazione,  con  l'indicazione  tra  l'altro,
 quantomeno sommaria, dei dati utili per la ricostruzione dei fatti di
 maggiore  gravita'  ed  allarme  sociale  di  cui  e' a conoscenza il
 collaboratore, oltre che alla individuazione e alla cattura dei  loro
 autori;
      4)  per  le  ipotesi  di dichiarante non indagato, il verbale di
 informazioni ai fini delle indagini.
    Tali disposizioni appaiono violare l'art. 112  della  Costituzione
 in relazione agli artt. 73 e 74 dell'ord. giud. (ove si riconosce che
 il  p.m. "promuove la repressione dei reati") ed agli artt. 358 e 326
 del codice processuale penale.
    Se il p.m. puo' raccogliere le dichiarazioni  rese  dalla  persona
 sottoposta ad indagini, dall'imputato o dal collaborante non imputato
 o  indagato  solo  con le formalita' previste dal codice di procedura
 penale, la sua attivita'
 -  ex artt. 358 e 326 del c.p.p. - e' finalizzata alle determinazioni
 inerenti all'esercizio dell'azione  penale;  e'  di  tutta  evidenza,
 allora,  che  imporre  al  p.m.  di  raccogliere dichiarazioni a fini
 diversi e di portarle  a  conoscenza  di  un  organo  amministrativo,
 appare   lesivo   delle   sue   attribuzioni  quali  demandate  dalla
 Costituzione e dalla legge, ed in  aperta  violazione  dell'art.  112
 della Costituzione.
    Peraltro,  quanto  alla  indicazione  dei  "motivi per i quali" le
 dichiarazioni "sono ritenute attendibili e importanti per le indagini
 o per il giudizio" e' una valutazione esclusiva del p.m. ed attinente
 esclusivamente all'attivita' giudiziaria, per cui non e' suscettibile
 di spiegazioni all'organo amministrativo, che, dal  canto  suo,  deve
 solo  stabilire le misure di protezione e di assistenza, i criteri di
 formulazione del programma e le sue modalita' di attuazione (art.  10
 della  legge  n.  82/1991),  e  non giudicare se il collaboratore sia
 attendibile e quale  importanza  abbia  per  le  indagini  o  per  il
 giudizio.
    Inoltre,  la  prescritta  trasmissione  di  copia  del  verbale di
 dichiarazioni  preliminari  alla  Commissione  si  traduce   in   una
 indebita, poiche' introdotta con norma secondaria, compressione della
 potesta' del p.m. di disporre la segretazione di atti di indagine.
    Ne' appare possibile superare tale profilo di contrasto, ritenendo
 il presupposto dell'esercizio del potere di cui al terzo comma, lett.
 a),   dell'art.  329  del  c.p.p.  (la  ritenuta  necessita'  per  la
 prosecuzione delle indagini) coincidente con quelli della riserva  di
 trasmissione    (le    specifiche    ed   eccezionali   esigenze   di
 inopportunita') di cui alla prima parte del secondo comma dell'art. 2
 del d.m. n. 687/1994, e cio' in ragione  della  obiettiva  diversita'
 semantica  delle  diverse  formule  normative,  sia in considerazione
 della diversita' di efficacia  temporale  dell'esercizio  dell'uno  e
 dell'altro  potere  del  p.m. (potendo la segretazione protrarsi fino
 alla  chiusura  delle  indagini  preliminari  e  valendo  invece   la
 previsione   regolamentare   anzidetta   soltanto   a   ritardare  la
 "immediata" trasmissione  della  dichiarazione  d'intenti  all'organo
 amministrativo), sia, infine, perche' la norma di cui al terzo comma,
 dell'art. 2, esige che in ogni caso la proposta menzioni il contenuto
 del verbale di dichiarazioni preliminari (l'avvenuta acquisizione del
 quale  si deve attestare anche al fine della proposta o del parere di
 attivazione dei provvedimenti urgenti del Capo della polizia  di  cui
 all'art.  11  della legge n. 82/1991: cfr. art. 4, secondo comma, del
 reg.).
    E'  pur  vero  che  l'art.  118  del  c.p.p.  (e  in  materia   di
 stupefacenti   l'art.  102  del  d.P.R.  9  ottobre  1990,  n.  309),
 svincolando il p.m. dall'obbligo del segreto, dispone che il Ministro
 dell'interno direttamente o a mezzo di persone appositamente delegate
 puo' ottenere dall'autorita' giudiziaria competente copie di atti  di
 procedimenti  penali  e  informazioni  scritte sul loro contenuto; in
 ogni caso, pero', alla  facolta'  del  Ministro  non  corrisponde  un
 obbligo  di  trasmissione  da  parte  dell'a.g.  tanto  che essa puo'
 rigettare  la  richiesta  con  decreto  motivato  (e  in  materia  di
 stupefacenti procrastinarne la trasmissione).
    A  tal  proposito,  altri  motivi di conflitto sorgono dal secondo
 comma  dell'art.  1  circa  l'utilizzazione  degli   atti   e   delle
 informazioni trasmesse ex art. 118 del c.p.p.: utilizzazione ottenuta
 violando  tale  norma, che prevede la trasmissione da parte dell'a.g.
 al  Ministro  dell'interno, e non alla commissione, che ottiene cosi'
 gli atti e le informazioni per via trasversa, non  sussistendo  altra
 norma  primaria  che  consenta  cio'. Lo stesso dicasi per l'art. 102
 sopra citato e per l'art. 1-quinquies del d.-l. 6 settembre 1982,  n.
 629, conv. in legge 12 ottobre 1982, n. 726.
    In  tutti  tali  casi si ravvisano le gia' illustrate interferenze
 nell'attivita' giudiziaria.
    In  definitiva  -  si  ribadisce  -  nel  sistema  stabilito   dal
 regolamento  avviene  non  solo  che la commissione (ed il Capo della
 polizia nel caso  di  cui  all'art.  4)  possono  utilizzare  atti  e
 informazioni  trasmessi  dall'a.g.  ex  art.  118 del c.p.p. (art. 1,
 terzo comma, del reg.), ma, che essa ha il  diritto  di  ricevere  il
 "verbale  delle  dichiarazioni  preliminari alla collaborazione" o il
 "verbale di informazione ai fini della indagini" (art. 2,  secondo  e
 terzo   comma,   del  reg.):  questa  disciplina  (e  la  conseguente
 utilizzazione che dei verbali potra' fare detta commissione) convince
 ancor piu' che l'obbligo  imposto  in  questo  modo  al  p.m.  e  non
 finalizzato  all'esercizio dell'azione penale, viola l'art. 112 della
 Costituzione.
    Ad analoga conclusione si giunge relativamente agli artt. 1, 3 e 4
 del d.m.; l'invasione della sfera di attribuzione appare questa volta
 correlarsi al potere e alle prerogative previste dall'art. 108  della
 Costituzione   in  relazione  agli  artt.  70,  70-  bis  e  76-  bis
 dell'ordinamento giuridico, con riferimento  all'art.  371-  bis  del
 codice di procedura penale.
   Attribuendo  la  formulazione di un parere al procuratore nazionale
 antimafia nell'iter per l'approvazione del programma di protezione si
 incide   sulle   leggi   di   ordinamento   giudiziario    richiamate
 espressamente nella norma costituzionale, atteso che il predetto art.
 371-bis,  tra  le  funzioni ed i poteri del procuratore nazionale non
 prevede assolutamente tal genere di pareri.
    Ne' potrebbe rilevarsi che la legge sui collaboratori non  poteva,
 dal canto suo, prevederli, essendo anteriore (15 marzo 1991) a quella
 istitutiva della procura nazionale (20 gennaio 1992).
    Intanto,  questo  e' un dato di fatto che non puo' essere superato
 con un regolamento. In secondo luogo, allorquando si  istitui'  detta
 Procura,  il  legislatore  non ritenne di provvedere in tal senso. In
 terzo luogo, ubi  voluit  il  legislatore  lo  fece,  ed  esattamente
 integrando  l'art.  13-  bis  della  legge  15 marzo 1991, n. 82, col
 prevedere (art. 13 del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in legge  7
 agosto  1992, n. 356) il parere del procuratore generale d'intesa con
 il procuratore nazionale per i reati di cui all'art. 51, comma 3-bis,
 del c.p.p., limitatamente ai detenuti per espiazione di pena ed  agli
 internati  per  l'esecuzione  di  misure  di  sicurezza  per  cui sia
 richiesta in via  d'urgenza  la  custodia  in  luoghi  diversi  dagli
 istituti  penitenziari,  in  attesa  della definizione dello speciale
 programma di protezione.
    Ne discende quindi, a contrario,  che  il  parere  introdotto  dal
 regolamento non era proprio voluto dalla legge.
    E  tale parere presuppone l'utilizzazione di atti (l'art. 3 indica
 espressamente notizie, informazioni e dati) che vengono forniti  alla
 d.n.a.  per  finalita'  ben  diverse  dalla  trasmissione  ad  organi
 amministrativi, ove, come in concreto e' qui accaduto,  detta  d.n.a.
 non richieda copie di verbali di interrogatorio esplicitamente per la
 formulazione del parere.
    Anche  l'art.  5  del  regolamento incorre in censure dello stesso
 tipo di quelle  precedenti,  questa  volta  riflettenti  attribuzioni
 riservate al p.m. dagli artt. 101 e 104 della Costituzione.
    Nel  prevedere  le  ipotesi  che possono giustificare o imporre la
 revoca del programma (cessazione dell'esposizione a pericolo  -  art.
 5,   terzo   comma,   violazione  da  parte  del  collaborante  delle
 prescrizioni  del  programma  -  art.  5,  quinto  comma)  e   l'iter
 procedimentale   da   seguire   (prevedendo   ancora   una  volta  la
 partecipazione del procuratore nazionale antimafia) specifica  l'art.
 5,  quarto  comma,  che,  nella  valutazione  sull'attualita' e sulla
 gravita' del pericolo, la commissione tiene conto del tempo trascorso
 dall'inizio della collaborazione oltre che della fase e del grado  in
 cui  si trovano i procedimenti penali nei quali le dichiarazioni sono
 state rese e che  la  valutazione  delle  dichiarazioni  deve  essere
 svolta  con  riferimento  alla  loro  utilizzabilita'  nei  giudizi e
 tenendo conto delle indicazioni offerte dalle  autorita'  giudiziarie
 competenti  in  ordine  alle  verifiche compiute sulla attendibilita'
 delle dichiarazioni medesime.
    Ebbene, ad avviso del ricorrente proprio  quest'ultima  disciplina
 sovrappone   valutazioni   attinenti   al   pericolo  incombente  sul
 collaboratore di giustizia e valutazioni attinenti alla utilizzazione
 processuale delle sue dichiarazioni (riconosciute  ancora  una  volta
 dalla  Corte  costituzionale di esclusiva attribuzione dell'autorita'
 giudiziaria, cfr. sentenza  Corte  costituzionale  n.  357/1994),  le
 prime  sole  rientranti  nella  competenza  della  commissione,  come
 definita dalla legge  e  in  violazione  delle  norme  costituzionali
 ricordate.
    Infine,   quanto  all'art.  8  del  regolamento,  nell'ambito  del
 procedimento per l'applicazione della custodia extracarceraria, da un
 lato  attraverso  l'intervento  del  d.a.p.  con  il  suo  parere   e
 dall'altro  attraverso  l'obbligo  di  costante  rivalutazione  delle
 condizioni eccezionali di sicurezza che determinarono  la  detenzione
 extracarceraria,  appaiono  interferenze  con i poteri dell'autorita'
 giudiziaria in tema di liberta'  personale,  garantiti  dall'art.  13
 della Costituzione.
    Esulano   naturalmente   dalla   presente  denuncia  di  conflitto
 problematiche diverse  che  investono  la  discrezionale  valutazione
 della  Commissione  circa  il programma di protezione da predisporre;
 per  completezza  va   tuttavia   sottolineato   che   indirettamente
 valutazioni di un organo amministrativo interferiscono sulla funzione
 inquirente  del  p.m.  condizionando  l'esercizio dell'azione penale,
 posto  che,  a  seconda  del  grado  di  protezione  assicurato,   il
 collaborante  si  determinera',  a  sua volta, a fornire elementi che
 potranno portare ad un piu' o meno proficuo risultato investigativo.
    Ancora, va ricordata  la  diffidenza  ormai  acquisita  in  larghi
 strati  verso  i  collaboratori  di  giustizia, e che si sostanzia in
 norme  tendenti  a  delegittimarne   l'apporto   nella   lotta   alla
 criminalita' organizzata, ed in norma tendenti ad un piu' penetrante,
 e per alcuni aspetti fuorviante, controllo delle loro dichiarazioni.
    Ed   appaiono   altresi'  meritevoli  di  ogni  considerazione  le
 conseguenze cui potrebbe portare una  non  puntuale  applicazione  da
 parte  del  p.m.  della normativa predisposta dal regolamento, specie
 con riferimento ad obblighi e a comportamenti che anzitutto la  legge
 fondamentale  e poi il vigente sistema normativa gli fanno divieto di
 tenere.
    Le considerazioni fin qui  svolte  permettono  di  concludere  che
 attraverso  le  anzidette  norme  del  regolamento sono state violate
 attribuzioni costituzionalmente riconosciute al p.m. ed all'autorita'
 giudiziaria nel suo complesso.