ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 595 del  codice
 di  procedura  penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1994
 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da  Tramannoni  Renzo,
 iscritta  al  n.  415  del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  28,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1994;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri;
    Udito nella camera di consiglio  del  5  aprile  1995  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - La Corte di cassazione - 3a Sezione penale, nell'ambito di un
 giudizio  su  ricorso  avverso  sentenza  della  Corte  di appello di
 Ancona, con la quale, a seguito di appello incidentale  proposto  dal
 pubblico  ministero,  la  pena  inflitta  dal  primo  giudice  per la
 contravvenzione di cui all'art. 21,  primo  e  secondo  comma,  della
 legge 16 maggio 1976, n. 319, determinata nel giudizio di primo grado
 in due mesi e venti giorni di arresto, era stata aumentata a sei mesi
 di  reclusione (sic), ha sollevato, in riferimento all'art. 112 della
 Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  595
 del  codice  di procedura penale nella parte in cui prevede il potere
 del pubblico ministero di proporre appello in via incidentale.
   L'ordinanza  del  giudice  a  quo  premette  che  la  questione  di
 costituzionalita'  dell'art.  595  nei  sensi  suaccennati  era stata
 sollevata,  in  via  subordinata,  dal  ricorrente   sostenendo   che
 l'appello  incidentale del pubblico ministero nel processo penale "si
 pone in palese contrasto con i princi'pi di cui agli articoli 3,  24,
 comma  secondo  e  112  della Costituzione". In particolare, sotto il
 profilo dell'art. 3 della  Costituzione,  il  ricorrente  negava  che
 l'esistenza  dell'appello  incidentale  dell'imputato, introdotto nel
 codice vigente, avesse eliminato  la  disparita'  tra  le  due  parti
 processuali,   in   quanto   l'istituto  "giova  esclusivamente  alla
 posizione del p.m., per il rischio dell'imputato di una reformatio in
 peius, mentre nessuna conseguenza negativa  puo'  derivare  al  p.m.,
 appellante   principale,   se   e'   l'imputato  a  proporre  appello
 incidentale". Inoltre - prosegue  l'ordinanza,  sempre  riferendo  la
 posizione  del  ricorrente,  -  "il potere d'impugnazione costituisce
 esplicazione della funzione d'accusa del p.m.: potere che deve essere
 esercitato per la sua piena soddisfazione della pretesa punitiva,  in
 base   ad   una   valutazione  che  deve  prescindere  dall'eventuale
 proposizione del gravame dell'imputato".
    2. -  Cio'  premesso,  la  Corte  di  cassazione  osserva  che  la
 questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente non
 appare  manifestamente  infondata,  "ma  soltanto  nella parte in cui
 viene prospettato il contrasto con l'art. 112 della Costituzione".
    Al riguardo ricorda la Corte che,  vigente  il  codice  del  1930,
 quando  il  potere  di  appello incidentale era conferito soltanto al
 pubblico ministero (art. 515, comma quarto), vari giudici  di  merito
 avevano    sollevato   incidente   di   legittimita'   costituzionale
 dell'istituto perche' ritenuto contrastante con gli articoli 3  e  24
 della  Costituzione,  mentre altro giudice di merito (il Tribunale di
 Venezia) aveva profilato, oltre alle  questioni  suddette,  anche  il
 contrasto  dell'istituto  con l'art. 112 della Costituzione; e che la
 questione era stata da questa Corte costituzionale, con  sentenza  n.
 177  del  10  novembre 1971, dichiarata fondata per la "disparita' di
 trattamento nell'esercizio del diritto di difesa  (artt.  3  e  24)",
 perche'  "l'appello  incidentale,  consentito  ad una delle parti del
 processo, turba l'equilibrio del contraddittorio".
    "Tuttavia" - prosegue l'ordinanza del giudice a quo - nella stessa
 sentenza la Corte costituzionale aveva  considerato  "assorbente"  il
 profilo  della  violazione dell'art. 112 (dovere di impugnazione come
 estrinsecazione  di   quello,   non   discrezionale,   dell'esercizio
 dell'azione    penale;   e   quindi   comportamento   contraddittorio
 nell'esperire  il  gravame  dopo  aver  lasciato  scadere  i  termini
 dell'appello   principale,  allo  scopo  di  "contenere  l'iniziativa
 dell'imputato", ostacolando, in pratica, il diritto  di  quest'ultimo
 alla  tutela giurisdizionale. "Quanto meno" questo profilo - sostiene
 l'ordinanza del giudice rimettente - sopravvive anche nel sistema del
 nuovo codice, risultante dagli artt. 595 e seguenti, attuativi  della
 direttiva  n.  90 dell'art. 2 n. 3 della legge-delega del 16 febbraio
 1987. "Si rende quindi necessaria - sempre ad avviso della  Corte  di
 cassazione - una nuova pronuncia della Corte costituzionale, dato che
 -  come  si  evince  chiaramente  dalla  motivazione della precedente
 sentenza ablativa (n. 177/1971) - l'obbligo del p.m.  di  attuare  la
 pretesa  punitiva  dello  Stato  non  puo'  ritenersi esaurito con il
 promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del
 procedimento, in modo particolare quando si tratta di 'verificare' un
 giudizio   di   insostenibilita'   dell'accusa   e    decidere    per
 l'acquiescenza o per l'impugnazione".
    3.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  che  ha  chiesto  che  la questione sia dichiarata infondata,
 riportandosi a un  proprio  atto  di  intervento  relativo  ad  altro
 giudizio  (r.o. n. 339 del 1993), riguardante la mancata attribuzione
 al pubblico ministero del  potere  di  proporre  appello  incidentale
 avverso  le  sentenze  -  inappellabili,  per  tale  organo,  in  via
 principale - pronunciate a seguito di rito abbreviato.
                        Considerato in diritto
    1.  -  La  Corte   di   cassazione   dubita   della   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  595  del  codice di procedura penale nella
 parte in cui detto articolo prevede il potere del pubblico  ministero
 di  proporre  appello  incidentale  quando non abbia proposto appello
 principale: e cio' in relazione all'art. 112 della  Costituzione,  in
 quanto l'obbligo di esercitare l'azione penale, ivi sancito, non puo'
 ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane
 nelle fasi successive del procedimento, in modo particolare quando si
 tratta di verificare un giudizio di insostenibilita' dell'accusa e di
 decidere per l'acquiescenza o per l'impugnazione.
    Sotto tale profilo, secondo il giudice rimettente, il fatto che il
 codice  vigente  -  diversamente da quello del 1930, che prevedeva il
 solo appello incidentale del pubblico ministero -  abbia  esteso,  in
 conformita' di esplicita direttiva della legge-delega del 16 febbraio
 1987,  n.  81,  il  diritto  di  appello incidentale a tutte le parti
 processuali, non avrebbe rilievo.  Varrebbero  infatti,  tuttora,  le
 enunciazioni  che  il giudice rimettente coglie nella sentenza n. 177
 del 1971, con le quali l'appello incidentale, allora previsto per  il
 solo pubblico ministero, fu dichiarato costituzionalmente illegittimo
 anche per contrasto con l'art. 112 della Costituzione.
    2. - La questione non e' fondata.
    3.  -  L'appello  incidentale  nel processo penale - ancorche' sia
 risultato statisticamente marginale tanto sotto l'impero  del  codice
 abrogato  quanto  sotto  l'impero  di  quello  vigente  - e' istituto
 segnato da una storia complessa e controversa ed e' stato oggetto  di
 adesioni e di critiche variamente motivate. Per quanto in particolare
 riguarda l'appello del pubblico ministero, e' da ricordare che il suo
 ingresso  nel  sistema  del  diritto  processuale  penale italiano fu
 propugnato per la prima volta all'epoca della  formazione  di  quello
 che  poi divenne il codice del 1913; ma la proposta non venne accolta
 ne' nel progetto definitivo ne' nel codice.  L'art.  480  del  codice
 medesimo   contemplo'  invece,  nel  comma  secondo,  il  divieto  di
 reformatio in peius in danno dell'imputato  quando  appellante  fosse
 soltanto  l'imputato  stesso  o  alcuna  delle  altre  parti  private
 abilitate a proporre appello a' sensi dell'art. 128, e non  vi  fosse
 invece appello del pubblico ministero. Tuttavia il giudice d'appello,
 che  avesse  ritenuto di dover dare del reato una diversa definizione
 anche piu' grave, purche' nei limiti della competenza del giudice  di
 primo  grado,  poteva stabilire la nuova definizione, pronunciando in
 conformita' ad essa il dispositivo della sentenza  (art.  480,  comma
 terzo).
    Il  divieto  di  reformatio  in  peius, inteso nel contenuto e nei
 limiti sanciti dal codice del 1913, fu oggetto di aspra contestazione
 al momento della formazione del codice del 1930. In  particolare,  il
 Guardasigilli dell'epoca sostenne in un discorso al Senato, e scrisse
 nella   relazione   al  Progetto  preliminare,  che  "una  volta  che
 l'imputato appella e che il processo viene portato avanti al  giudice
 di  secondo grado, questo, se ritiene inadeguata la pena inflitta dal
 primo giudice, deve avere il potere di aumentarla; altrimenti il  suo
 giudizio  sarebbe  incompleto  e  incoerente".  E  ancora: "Quando il
 rapporto processuale venga mantenuto in vita  mediante  un  atto  sia
 pure del solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere
 di  conoscere  e  di decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o
 privarnelo, fuori dei casi eccezionalmente consentiti dalla legge". E
 a queste  considerazioni,  chiamate  di  "ragione  logico-giuridica",
 altre   ne   aggiungeva   "d'ordine   pratico":   "conviene  togliere
 all'imputato la facolta' d'appellare senza alcun  rischio,  anzi  col
 vantaggio,  nella  peggiore  delle  ipotesi,  di differire il momento
 dell'esecuzione della condanna. Cosi' facendo si ridurra'  il  numero
 degli  appelli  a  quei  soli casi che possono apparire meritevoli di
 riesame, perche' l'imputato, conscio della possibilita' di reformatio
 in peius, si guardera' bene dal proporre la impugnazione, quando  non
 abbia  la  coscienza  di  meritare  l'assoluzione,  o quanto meno una
 diminuzione  di  pena.  Se  egli  reclama  un  nuovo  giudizio,  deve
 assoggettarvisi completamente; se non vuole correre alcun rischio, si
 accontenti della prima sentenza".
    Queste  proposizioni,  nella  loro  durezza  e  categoricita', non
 incontrarono il favore degli organismi interpellati sui contenuti del
 progetto  preliminare.  Di  conseguenza  il  ministro   Guardasigilli
 modifico' le proprie vedute originarie; e - come volle scrivere nella
 relazione  al  progetto definitivo - non per le querimonie sprovviste
 di buone ragioni, che mai sarebbero state idonee a  rimuoverlo  dalla
 sua  prima  idea,  ma  per  essersi  convinto che "se la possibilita'
 pratica della reformatio in  peius  appare  come  freno  efficace  al
 dilagare  degli  appelli,  l'istituto giuridico, che vorrebbe porsi a
 base di tale  pratica  conseguenza,  cioe'  il  carattere  pienamente
 devolutivo  dell'appello,  non puo' andare esente da critiche. Questo
 carattere dell'appello, infatti, implica la facolta', data anche alle
 parti private, di far cadere in tutto la sentenza,  con  un  semplice
 atto   unilaterale  di  volonta',  negando  cosi'  la  natura  stessa
 decisoria della sentenza, e trasformando il giudizio di  primo  grado
 in  una  specie di procedimento preparatorio, duplicato superfluo del
 procedimento d'istruzione".  E  proseguiva:  "Ho  percio'  modificato
 l'art.   520  (divenuto  poi  l'art.    515  del  codice  del  1930),
 riconoscendo al pubblico ministero la facolta'  di  proporre  appello
 incidentale,  quando  l'impugnazione  sia  stata  proposta  dal  solo
 imputato. In questo modo le  temerarieta'  degli  imputati  rimangono
 frenate  dalla  possibilita'  dell'appello  incidentale  del pubblico
 ministero  (che  naturalmente  ha  tutti  gli  effetti   dell'appello
 principale dello stesso pubblico ministero), e si conserva il divieto
 della  riforma  in peggio in quel caso in cui, essendo stato proposto
 l'appello dal solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto
 che mettesse conto d'appellare a sua volta".
    Gli  stessi  concetti il Guardasigilli ripeteva nella relazione al
 Re (n. 188), osservando che, mentre la Commissione parlamentare aveva
 espresso il parere che l'appello incidentale del  pubblico  ministero
 fosse  da abolire, egli aveva "ammesso codesto appello esclusivamente
 per  attenuare  il   rigore   della   regola   della   incondizionata
 possibilita'   della   reformatio   in  peius  accolta  nel  progetto
 preliminare".
    L'istituto  dell'appello  incidentale  del  pubblico  ministero  -
 adottato, come si e' visto, nell'intento di permettere una reformatio
 in  peius  della  sentenza  dopo  che  fosse  stato  proposto appello
 principale da parte del solo imputato - non ando' esente da  critiche
 neanche  dopo l'entrata in vigore del codice del 1930. Da taluno esso
 fu chiamato "istituto anacronistico e antigiuridico",  criticandosene
 soprattutto   la   strumentalita'   vantata   nelle   relazioni   del
 Guardasigilli in funzione di "mezzo di ritorsione" contro gli appelli
 dell'imputato. Da altri fu messo invece in rilievo il  suo  carattere
 sostitutivo rispetto alla soluzione della piena devolutivita' di ogni
 appello,  intravvista  ad  un  certo  momento con favore da una certa
 corrente di pensiero, come soluzione globale  e  non  compromissoria.
 Altri  invece,  severamente criticando l'enunciazione dello "appello-
 spauracchio"  fatta  nelle  relazioni  ufficiali  sopra   menzionate,
 sostenne  la  piena  validita'  logica e giuridica dell'istituto come
 "esercizio  di  un  potere  giuridico   tendente   ad   impedire   la
 definitivita'  di  una  determinata situazione giuridica".  Queste ed
 analoghe valutazioni si collegavano alla definizione, pure oggetto di
 dibattito, dei limiti dell'appello incidentale, visto come  un  mezzo
 diretto  a  permettere  l'aumento  della pena, la revoca di eventuali
 benefici e l'applicazione di pene accessorie, misure di  sicurezza  e
 ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge, ma non mai
 come  un  mezzo  diretto  ad  investire anche capi della decisione di
 primo grado ai quali non fosse  riferibile  l'appello  dell'imputato:
 cio'  che  veramente  avrebbe  convertito l'appello incidentale in un
 "appello  di  dispetto".  Altri,  e  con   essi   la   giurisprudenza
 prevalente, sostenevano invece che l'appello incidentale del pubblico
 ministero  potesse  investire  anche  punti  di  decisione diversi da
 quelli cui si riferiva l'appello dell'imputato e del tutto autonomi.
    Altro punto oggetto di controversia fu, sempre sotto il vigore del
 codice del  1930,  quello  concernente  la  limitazione  dell'effetto
 devolutivo   dell'appello   incidentale  del  pubblico  ministero  al
 coimputato appellante  e  al  coimputato  non  appellante  che  abbia
 partecipato   al   giudizio   d'appello,  evidentemente  intervenuto,
 quest'ultimo,  per  giovarsi  dell'effetto   estensivo   dell'appello
 principale.   Secondo  alcuni  questa  regola  avrebbe  vulnerato  il
 principio della "indivisibilita' dell'azione penale".
    Nonostante  queste  ed  altre  critiche,  l'istituto  dell'appello
 incidentale del pubblico ministero rimase indenne nella vasta riforma
 del  processo penale attuata con la legge 18 giugno 1955, n. 517, che
 estese una quantita' di diritti dell'imputato e dette maggiore spazio
 alla sua difesa.  Esso  cadde  soltanto  in  virtu'  della  ricordata
 sentenza  n. 177 del 1971 di questa Corte costituzionale, della quale
 piu' oltre si dira'.
    4. - Nei progetti susseguitisi durante piu' di un quarto di secolo
 per la riforma del codice di  procedura  penale  del  1930  l'appello
 incidentale  del  pubblico ministero subi' alterne vicende. Nel 1969,
 durante  i  lavori  parlamentari  per  la  prima  legge-delega  -   e
 precisamente  durante  l'esame del disegno di legge di iniziativa del
 Governo  n.  380  presentato  dal  Guardasigilli  alla  Camera  il  5
 settembre  1968  -  fu proposto, in seno alla Camera dei Deputati (IV
 Commissione giustizia, seduta antimeridiana del 27 febbraio 1969), ed
 approvato con  il  parere  favorevole  del  Governo,  un  emendamento
 aggiuntivo  volto ad introdurre, nell'art. 2, contenente le direttive
 per il legislatore  delegato,  il  punto  51  del  seguente  testuale
 tenore:  "Parita'  tra  il  pubblico ministero e l'imputato in ordine
 all'eventuale appello incidentale". Il Parlamento devolveva dunque al
 Governo la scelta tra il mantenimento e la soppressione dell'istituto
 dell'appello  incidentale  nel  processo  penale,  ma  imponeva  allo
 stesso,  nel  caso  di  scelta  positiva,  di  estendere  il  diritto
 d'appello anche all'imputato e  in  condizioni  di  parita'  rispetto
 all'appello incidentale lasciato al pubblico ministero.
    Detta  direttiva,  approvata  dall'Assemblea  della  Camera  il 22
 maggio 1969, ivi divenuta il punto 59 ed integrata con  il  punto  61
 "divieto  di  reformatio  in  peius  nel  caso  di  appello  del solo
 imputato"), fu approvata anche  dal  Senato  della  Repubblica  il  4
 dicembre  1970,  quando il punto relativo assunse il n. 65, divenendo
 poi (sempre nello  stesso  letterale  tenore)  il  n.  63  nel  testo
 riapprovato  dalla  Camera  dei Deputati nelle sedute del 18, 19 e 20
 ottobre 1971 e successivamente ritrasmesso dal Senato alla Camera.
    Scioltasi anticipatamente la quinta legislatura, e insediatesi  le
 Camere   della  sesta,  in  data  5  ottobre  1972  il  Guardasigilli
 presentava alla nuova Camera dei Deputati il disegno di legge n. 864,
 contenente il nuovo testo  di  legge-delega.  In  esso  la  direttiva
 soprariportata  piu'  non  figura,  risultando  anzi sostituita dalla
 seguente   (n.   67):    "esclusione    dell'istituto    dell'appello
 incidentale".  Veniva  invece  mantenuto il "divieto di reformatio in
 peius nel caso di appello del solo imputato" (direttiva  69).  Frutto
 dichiarato,  questa  nuova scelta abolitiva dell'appello incidentale,
 della sentenza n. 177 del  1971  di  questa  Corte,  intervenuta  nel
 frattempo,  come si e' detto. Le due direttive ora riportate rimasero
 immutate nella legge-delega 3 aprile 1974 n. 108,  dove  assunsero  i
 numeri, rispettivamente, 72 e 74; e ad esse si uniformo', ovviamente,
 il  progetto preliminare del codice di procedura penale divulgato nel
 1978 ma non divenuto mai legge dello Stato. La relazione al  Progetto
 stesso   sottolinea   peraltro   nettamente   di  avere  escluso,  in
 conformita'  dei  lavori  preparatori   della   legge-delega,   anche
 l'effetto  pienamente  devolutivo  dell'impugnazione  "scelta  che e'
 sembrata alla Commissione (ministeriale) del tutto preclusa".
    Del  tutto  diverse  furono   invece,   in   merito   all'istituto
 dell'appello   incidentale,   le  scelte  del  Parlamento  nel  corso
 dell'ottava e della nona legislatura, i cui lavori  approdarono  alla
 nuova  legge-delega  del 16 febbraio 1987 n. 81 e, attraverso questa,
 al codice vigente. Nel testo unificato  approvato  dalla  Camera  dei
 Deputati il 18 luglio 1984 e trasmesso al Senato il 3 agosto 1984 (n.
 916),  sotto  il  punto 87 dell'art. 2 compare la seguente direttiva:
 "potere delle parti  di  proporre  appello  incidentale;  perdita  di
 efficacia   dell'appello  incidentale  in  caso  di  inammissibilita'
 dell'appello principale": una disciplina, come si vede,  contrastante
 con  quella  del  codice  del 1930, sia per l'estensione dell'appello
 incidentale a tutte le parti, anche diverse dal  pubblico  ministero,
 sia  per la prevista perdita di efficacia dell'appello incidentale in
 tutti  i  casi  di  inammissibilita'  (dunque  anche   di   rinuncia)
 dell'appello  principale  (il  codice abrogato, nell'art. 515, ultimo
 comma, manteneva  invece  l'efficacia  dell'appello  incidentale  del
 pubblico  ministero  anche  nel  caso  di rinuncia dell'imputato alla
 propria impugnazione). Al punto 89 di detto testo unificato  rimaneva
 sancito  il  "divieto  di  reformatio in peius in caso di appello del
 solo imputato". Queste direttive rimasero immutate attraverso l'esame
 condotto dal Senato della Repubblica, essendosi ritenuto soltanto  di
 dovere aggiungere nella seconda parte del punto 87 (divenuto punto 88
 e  successivamente  punto  90)  l'espressa  menzione della rinuncia a
 fianco di quella della inammissibilita' dell'appello  principale.  La
 Camera non modifico' il testo emendato dal Senato, con la conseguenza
 che  il  punto 90 dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n.
 81, risulto' del seguente tenore: "potere  delle  parti  di  proporre
 appello incidentale; perdita di efficacia dell'appello incidentale in
 caso  di  inammissibilita'  o di rinuncia all'appello principale". Da
 questa  direttiva  scaturi'  il  testo  dell'art.  587  del  progetto
 preliminare  e  del  progetto definitivo, divenuto poi l'art. 595 del
 codice di procedura penale del 1989, sottoposto all'odierno scrutinio
 di costituzionalita'.
    5.  -  Cosi'  ricordati  i   precedenti   e   l'iter   legislativo
 dell'articolo  595 del codice di procedura penale, giova ora definire
 la  ragion  d'essere  dell'istituto  dell'appello   incidentale   nel
 processo   penale,   quale   e'  dato  desumerla  sia  dal  dibattito
 parlamentare che  dall'elaborazione  dottrinale  e  giurisprudenziale
 sull'argomento.
    Par  chiaro  che la ragion d'essere dell'istituto trova le proprie
 radici nel sistema generale delle impugnazioni, e piu' specificamente
 in  quello  dell'appello,  intendendosi  con  l'appello   incidentale
 assicurare  a  ciascuna  delle  parti  (od  anche, in ipotesi, ad una
 soltanto di esse) il potere di esprimere le proprie scelte dopo avuta
 la piena conoscenza della posizione  assunta  dalle  altre  parti  in
 ordine  alla  sentenza  di  primo  grado. Ogni parte, nel sistema del
 processo, puo', alla luce della sentenza di primo grado, mantenere le
 posizioni originariamente assunte e quindi, ove la sentenza non abbia
 dato ad esse piena soddisfazione, impugnare la decisione  stessa:  ed
 e' qui che si colloca il rimedio dell'appello principale. Ma la parte
 stessa   puo'   anche  decidere  di  rivedere  le  proprie  posizioni
 originarie e di fare acquiescenza alla sentenza che  non  abbia  dato
 soddisfazione   alle  proprie  ragioni  o  abbia  dato  ad  esse  una
 soddisfazione soltanto parziale.  Diversa  e'  invece  la  situazione
 della parte rispetto alle prospettive di una sentenza futura quale e'
 quella  del  giudice  di  secondo  grado,  quando  una  divergenza di
 quest'ultima rispetto a quella resa dal giudice di  primo  grado  sia
 divenuta  possibile  per effetto dell'appello proposto da altra parte
 processuale, in particolare da quella le cui ragioni od istanze siano
 contrapposte alle proprie. In questo caso appare equo  e  ragionevole
 assicurare  alla  parte,  che si era risolta a fare acquiescenza alla
 sentenza del primo giudice, il mezzo per impedire che la sentenza  di
 secondo  grado  possa  sacrificare  le  proprie  ragioni al di la' di
 quanto gia' accaduto per effetto della sentenza di  primo  grado.  In
 modo  particolare, per stare al tema, il pubblico ministero puo' bene
 accettare una sentenza che abbia  concesso  all'imputato  circostanze
 attenuanti  da  lui contrastate o una pena meno alta di quella da lui
 richiesta; ma ben puo', viceversa, non essere disposto  ad  accettare
 che  quella pena sia nel giudizio d'appello ulteriormente diminuita o
 che alle circostanze attenuanti riconosciute in primo grado altre  se
 ne  aggiungano  per  effetto  della  sentenza  d'appello:  si' che se
 ritiene  di  avere  un  mezzo  piu'  efficace  per  impedire   questo
 risultato,  facendo  valere  proprie  doglianze autonome e diverse da
 quelle consistenti nella semplice  resistenza  contro  l'accoglimento
 dell'appello  principale dell'imputato, e' equo e ragionevole che gli
 sia  consentito  di  usarlo.  E  cio'   tanto   piu'   in   relazione
 all'esistenza  di  un  espresso divieto, sancito nell'ordinamento, di
 una reformatio in peius da parte del giudice di secondo grado che sia
 investito del solo appello dell'imputato.
    Potrebbe dirsi, secondando una definizione dottrinale proposta  in
 relazione  al  sistema del codice del 1930, che l'appello incidentale
 e' per il pubblico ministero un onere, nel senso che egli deve  farvi
 ricorso solo se intende cercare di impedire quegli effetti favorevoli
 per   l'imputato   che   potrebbero   derivare   da  un  accoglimento
 dell'appello principale dall'imputato stesso proposto.
    Queste considerazioni svelano l'equivoco in cui cadono  i  critici
 dell'istituto   quando  ne  assumono  una  contraddittorieta'  logica
 asserendo che ogni sentenza debba essere guardata in se' e  per  se',
 per  cio'  che  essa rappresenta e che soltanto su questa valutazione
 possa fondarsi l'esercizio del potere d'appello. Essi trascurano  del
 tutto la visione, pur legittima e in qualche caso doverosa, di quella
 che  potrebbe  essere,  nella  stessa causa, una sentenza del giudice
 d'appello nonche' il correlativo diritto di premunirsi contro i  suoi
 possibili contenuti.
    Il  legislatore, con l'appello principale e l'appello incidentale,
 conferisce  alle  parti  due  poteri  diversi,  che  logicamente   si
 collocano  e  si  svolgono in due momenti diversi. Il primo potere e'
 quello di dolersi della sentenza impugnata in se'  stessa:  e  a  tal
 proposito  sono stabiliti i termini per l'impugnazione principale. Il
 secondo potere e' quello che si riferisce alla prevenzione di effetti
 non desiderati ma possibili ad opera della futura sentenza di secondo
 grado: e a cio' si riferisce il secondo momento, in quanto i  termini
 per   fare  uso  dell'appello  incidentale  decorrono  proprio  dalla
 conoscenza dell'esistenza e  del  contenuto  dell'appello  principale
 avversario.
    E'  pertanto  del  tutto  fuorviante  guardare,  come  taluno  fa,
 all'appello incidentale con  la  stessa  ottica  con  cui  si  guarda
 all'appello  principale.  L'appello  principale  attiene infatti alla
 posizione che l'avente diritto all'appello stesso  intende  assumere,
 dopo  la  propria  valutazione, nei confronti della sentenza di primo
 grado, mentre l'appello incidentale viene  valutato  e  proposto  con
 riguardo  a  quella che potrebbe essere una sentenza futura a seguito
 dell'appello principale dell'altra parte.
    Questa essendo la ragion d'essere dell'istituto, appare di  scarso
 rilievo  il  fatto, enfatizzato nei lavori preparatori del codice del
 1930 e al quale si fa riferimento anche  in  quelli  preparatori  del
 codice  vigente,  oltre  che  da  una  parte  della  dottrina e della
 giurisprudenza, che la previsione di un potere di appello incidentale
 conferito  dalla  legge  al  pubblico  ministero  possa  servire   da
 "deterrente"  per  l'imputato,  in  modo dal trattenerlo dal proporre
 appelli  principali  piu'  o  meno  fondati, intesi spesso non solo a
 migliorare la propria  sorte  nel  giudizio  d'appello,  ma  anche  a
 realizzare,  in  relazione  alla prevedibile lunghezza dei giudizi di
 impugnazione,  il  traguardo  della  prescrizione   del   reato.   La
 prevenzione  di siffatti pericoli non e' che un effetto collaterale e
 non necessario dell'istituto dell'appello  incidentale  del  pubblico
 ministero. Come rispetto ad altri istituti del diritto, bisogna saper
 distinguere  anche  in  questo caso quella che e' la giuridica ragion
 d'essere dell'appello incidentale da quelli che ne possono essere gli
 effetti.
    Comunque, il  doppio  grado  di  giurisdizione,  cosi'  diffuso  e
 tradizionale  nell'ordinamento italiano, non e' oggetto di un diritto
 elevato a rango costituzionale, si' che ogni scelta circa  l'adozione
 o  meno  dell'appello  incidentale  nel  processo penale non puo' che
 essere riservata al legislatore.
    6.  -  A  questo  punto  si  deve  esaminare   la   questione   di
 costituzionalita'  sollevata  dal  giudice  rimettente  sulla base di
 alcune proposizioni contenute nella  sentenza  n.  177  del  1971  di
 questa  Corte  e  del dispositivo con cui la stessa ebbe ad eliminare
 dall'ordinamento  processuale  del  tempo   l'istituto   dell'appello
 incidentale del pubblico ministero.
    La  sentenza  ora  menzionata consta di due parti ben distinte. In
 una prima parte (n. 3 della sentenza) la Corte, considerando  fondate
 le questioni sollevate dai giudici di merito sulla base degli artt. 3
 e  24  visti  nel  loro complesso, rileva che "l'appello incidentale,
 essendo consentito ad  una  sola  delle  parti  nel  processo,  turba
 l'equilibrio  del  contraddittorio, che si polarizza nell'imputato (e
 nel suo difensore), da un lato, e, dall'altro nel pubblico ministero,
 portatori di interessi solitamente contrapposti". Ed aggiunge che  la
 fondatezza delle censure mosse alla norma denunciata sotto il duplice
 riflesso  degli  artt.  3  e  24  della  Costituzione  "e' avvalorata
 dall'inciso, contenuto nello stesso  art.  515,  quarto  comma,  cod.
 proc.  pen.  ,  relativo  all'inefficacia,  ai fini del prosieguo del
 giudizio di secondo grado, della rinuncia  dell'imputato  al  proprio
 appello;   e   dall'ultima  parte  di  detto  articolo,  relativa  al
 coimputato non appellante".
    Nel successivo paragrafo (n. 4) la sentenza n. 177 del 1971 prende
 poi in considerazione la censura mossa all'art.  515,  quarto  comma,
 del codice di procedura penale del 1930 da uno dei giudici rimettenti
 in relazione all'asserito contrasto dell'articolo stesso non soltanto
 con  gli  artt. 3 e 24, ma anche con l'art. 112 della Costituzione. E
 considerando  "assorbente"  questo  profilo  di   incostituzionalita'
 rispetto   ai   due   profili   precedentemente   riconosciuti   come
 sufficienti,  sia  pure  nel  loro  insieme,  per  il   giudizio   di
 illegittimita' costituzionale della disposizione denunciata, contiene
 le  proposizioni  dalle  quali parte l'odierno giudice rimettente per
 rilevare   il   possibile   contrasto   dell'istituto    dell'appello
 incidentale  del  pubblico  ministero  reintrodotto nell'art. 595 del
 codice vigente in concomitanza con  il  riconoscimento  dello  stesso
 diritto alle altre parti processuali, ed in particolare all'imputato,
 con  l'art.  112  della Costituzione; e cio' a causa del collegamento
 tra la impugnazione  del  pubblico  ministero  in  materia  penale  e
 l'obbligo   di  esercitare  l'azione  penale  sancito  appunto  nella
 suddetta norma costituzionale, obbligo rispetto  al  quale  l'appello
 principale   del   pubblico  ministero  e'  dalla  sentenza  definito
 "estrinsecazione  ed  aspetto"  e  qualificato   "atto   conseguente,
 obbligatorio e non discrezionale".
    Di  tale paragrafo 4 della sentenza n. 177/1971 sono possibili due
 letture: la prima, rigorosamente  ancorata  ad  alcune  proposizioni,
 dalle  quali  puo' evincersi che convincimento della Corte sia che il
 potere di impugnazione del pubblico  ministero  e'  un  potere-dovere
 scaturente  direttamente  dall'obbligo  costituzionale  di esercitare
 l'azione penale; ed una seconda, per cui, pur sempre con  riferimento
 ai  doveri  nascenti  per  il  pubblico  ministero nel quadro segnato
 dall'art. 112, sembra che la Corte censuri  l'uso  improprio  che  il
 pubblico  ministero  puo'  fare  dell'appello incidentale "allo scopo
 pratico di contenere l'iniziativa dell'imputato, che e'  quanto  dire
 di ostacolarne l'esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e
 di  difesa  giudiziaria  (  ex  art. 24, primo e secondo comma, della
 Costituzione)". Con questa proposizione  finale  la  sentenza  sembra
 cosi'  tornare,  mediante  l'ulteriore  passaggio dell'art. 112, alla
 censura di incostituzionalita' dell'art. 515,  quarto  comma,  codice
 abrogato,  sotto  il  profilo  della violazione del diritto di difesa
 dell'imputato.
    7. - Ora, quale che sia l'interpretazione piu' corretta  da  darsi
 alla  citata  sentenza  n.  177/1971, deve ritenersi che il potere di
 appello del pubblico ministero non  puo'  riportarsi  all'obbligo  di
 esercitare  l'azione  penale come se di tale obbligo esso fosse - nel
 caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o  in
 parte   le   ragioni  dell'accusa  -  una  proiezione  necessaria  ed
 ineludibile.
    Nei lavori preparatori della Costituzione (resoconti delle  sedute
 della  Commissione  per la Costituzione, detta anche "Commissione dei
 settantacinque" e resoconti delle sedute dell'Assemblea Costituente),
 non e' dato rinvenire la benche' minima traccia  di  un  collegamento
 tra  obbligo di esercitare l'azione penale e potere di impugnazione -
 in particolare potere d'appello - del pubblico  ministero  quasi  che
 quest'ultimo  fosse un'estrinsecazione od una conseguenza necessaria,
 e pertanto configurante un nuovo dovere,  del  dovere  di  esercitare
 l'azione  penale.  Dall'esame  degli  atti  suddetti  risulta  che la
 costituzionalizzazione dell'obbligo di esercitare l'azione penale  fu
 trattata   sotto  i  tre  seguenti  profili:  rapporti  del  pubblico
 ministero con il potere esecutivo nel  momento  iniziale  dell'azione
 penale;  possibilita' di prevedere eccezioni a tale obbligo nel senso
 di possibili sospensioni o ritardi nel suo esercizio;  controllo  del
 giudice  sui  possibili  casi  di  mancata  attivazione  del pubblico
 ministero nei confronti di una determinata  notitia  criminis.  Tutti
 argomenti  attinenti al momento iniziale dell'azione penale, senza il
 minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto
 meno a giudizi d'impugnazione.
    Ma, al di la' di queste constatazioni, si deve rilevare che  tutto
 il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello,
 tanto sotto il codice abrogato quanto sotto il codice vigente, depone
 nel  senso  che  il potere del pubblico ministero di proporre appello
 avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe  situazioni  ne
 possa   apparire   istituzionalmente  doveroso  l'esercizio,  non  e'
 riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale.
    Innanzi  tutto  il  pubblico  ministero e' abilitato dalla legge a
 fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state
 le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza.
 Questa acquiescenza e' testualmente prevista  dalla  legge  nell'art.
 570, primo comma, del codice di procedura penale (art. 191 del codice
 abrogato)  e  non  e'  concepibile  che  la legge processuale preveda
 istituti che possono essere in  contrasto  con  doveri  funzionali  o
 addirittura con obblighi elevati a rango costituzionale.
    Da  tale  possibile  acquiescenza  deriva,  come unica conseguenza
 prevista dall'ordinamento processuale, il potere di impugnazione  del
 procuratore  generale  presso la Corte d'appello (v. ancora il citato
 art. 570, comma primo). Di qui un secondo argomento  a  favore  della
 impossibilita'  di considerare il potere di impugnazione del pubblico
 ministero come inerente all'obbligo di esercitare l'azione penale. Ed
 infatti un potere conferito alternativamente a due  soggetti  mal  si
 concilia  con la doverosita' in capo ad uno solo di essi. Per di piu'
 uno dei due soggetti del diritto d'appello alternativamente  previsti
 dall'ordinamento - e cioe' il procuratore generale - non e' di regola
 il titolare dell'obbligo di esercitare l'azione penale.
    In  terzo  luogo  l'appello,  come  ogni  altra  impugnazione  del
 pubblico ministero in materia penale,  e'  rinunciabile  nelle  forme
 previste  dall'art.  589 del codice di procedura penale (art. 206 del
 codice del 1930), senza che la  legge  richieda  al  riguardo  alcuna
 motivazione.
    Non  risulta  che  siano stati ravvisati profili di illegittimita'
 costituzionale nei suddetti istituti;  ne'  sembra  che  i  ricordati
 comportamenti  del  pubblico ministero (acquiescenza, rinunzia) siano
 suscettibili di censura sotto il profilo della violazione di obblighi
 funzionali.
    Se di un dovere in senso lato si  puo'  parlare  per  il  pubblico
 ministero  di  fronte  all'esercizio  del potere d'impugnazione, tale
 dovere e' riconducibile a  quei  generali  doveri  che  competono  al
 pubblico  ministero  in  relazione  alle  funzioni ad esso demandate,
 doveri che nel vigente ordinamento giudiziario (art. 73 del  r.d.  30
 gennaio  1941,  n.  12)  sono indicati con riferimento alla vigilanza
 sull'osservanza delle leggi e sulla pronta e regolare amministrazione
 della giustizia e, con specifico riferimento al  campo  penale,  come
 promovimento della repressione dei reati. Nel suddetto ordinamento lo
 specifico  obbligo  di  iniziare  ed  esercitare  l'azione  penale e'
 indicato nel separato art. 74.
    Da questo insieme di riferimenti e' dato trarre la conclusione che
 quando il pubblico ministero deve decidere se impugnare  o  meno  una
 sentenza,  egli deve interrogare la propria coscienza in relazione al
 contenuto del provvedimento impugnabile e  determinarsi  secondo  gli
 interessi   generali  della  giustizia.  Questo  vale  per  l'appello
 principale;  ma  analoga  considerazione  puo'  farsi  per  l'appello
 incidentale,  con  il  correttivo  del  particolare profilo derivante
 dalla visione che il pubblico ministero possa essere indotto ad avere
 circa i contenuti della sentenza che  il  giudice  di  secondo  grado
 potrebbe  essere  tratto  a  pronunciare in accoglimento dell'appello
 principale dell'imputato pervenendo a conclusioni che  egli  ritiene,
 ove fossero adottate, contrarie a giustizia.
    Se  dunque  e' legittima l'acquiescenza del pubblico ministero nei
 confronti della sentenza di primo grado, non e' accoglibile  la  tesi
 secondo  la  quale  tutti  i  poteri che al pubblico ministero stesso
 competono  dovrebbero  esaurirsi  nella   proposizione   dell'appello
 principale,  con  cio' restandogli precluso, come incompatibile con i
 suoi doveri, il ricorso all'appello incidentale.
    Si deve pertanto escludere che l'art. 595 del codice di  procedura
 penale,  nella  parte  in  cui  prevede,  con  quello  di altre parti
 processuali, l'appello incidentale del  pubblico  ministero,  sia  da
 considerarsi  costituzionalmente illegittimo perche' in contrasto con
 l'art. 112 della Costituzione.