IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza dibattimentale nel procedimento penale n. 595/94 reg. dibattimento a carico di Pulcini Francesco, imputato del reato di cui agli artt. 21, primo comma, e 21, terzo comma, legge n. 319/1976, osserva che gia' in precedenza questo pre- tore si e' pronunciato in ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 17 settembre 1994, n. 537 con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, argomentando che detto articolo che modificava il terzo comma dell'art. 21 legge Merli prevedeva una manifesta disparita' di trattamento tra coloro che scaricando non osservavano i limiti di accettabilita' previsti dalle tabelle, e coloro che ai sensi del primo comma dell'art. 21 legge Merli scaricavano in difetto di prescritta autorizzazione, fattispecie per la quale il legislatore aveva previsto l'obbligatorieta' della sanzione penale. A parere dello scrivente la norma citata si poneva in contrasto con l'art. 3 della Costituzione per manifesta disparita' di trattamento sanzionatorio che il legislatore prevedeva per fattispecie analoghe ed anzi di maggiore gravita' sostanziale per quanto in particolare concerneva la modifica del terzo comma dell'art. 21 legge Merli come novellato dal decreto-legge citato. In contrasto altresi' con l'art. 9 della Costituzione in relazione al secondo comma dell'articolo stesso in quanto la mancata applicazione della sanzione penale nella fattispecie prevista dall'art. 3 del decreto-legge citato appariva insufficiente a tutelare il paesaggio nell'accezione piu' lata che recenti pronuncie delle Corti supreme hanno dato alla nozione del paesaggio; infine la norma in questione appariva in contrasto altresi' con l'art. 10 della Costituzione che impone allo Stato italiano di conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute laddove omette la sostanziale applicazione e attuazione delle direttive CEE in materia di inquinamento ambientale. Osserva il pretore che le argomentazioni richiamate possono riproporsi con riferimento all'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9 e si ritiene, pertanto, di dover dichiarare rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9 il quale, nella sua integrale stesura prevede, in modifica globale del terzo comma dell'art. 21 della legge n. 319/1976 e successive modificazioni che "Fatte salve le disposizioni penali di cui al primo e al secondo comma, l'inosservanza dei limiti di accettabilita' stabiliti dalle regioni ai sensi dell'art. 14, secondo comma, ove non costituisca reato o circostanza aggravante, e' punita con la sola sanzione amministrativa pecuniaria da lire tre milioni a lire trenta milioni, salvo diversa disposizione della legge regionale. Per gli scarichi da insediamenti produttivi, in caso di superamento dei limiti di accettabilita' delle tabelle allegate alla presente legge e, se recapitano in pubbliche fognature, di quelli fissati ai sensi del n. 2, del primo comma, dell'art. 12, si applica la pena dell'ammenda da lire quindici milioni a lire centocinquanta milioni o dell'arresto fino ad un anno. Si applica la pena dell'ammenda da lire venticinque milioni a lire duecentocinquanta milioni o la pena dell'arresto da due mesi a due anni qualora siano superati i limiti di accettabilita' inderogabili per i parametri di natura tossica persistente e bioaccumulabile, di cui al n. 4 del documento unito alla delibera 30 dicembre 1980 del Comitato interministeriale previsto dall'art. 3 della presente legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 9 del 10 gennaio 1981, e di cui all'elenco dell'allegato 1 alla delibera medesima. Ai fini della quantificazione della pena e dell'ammissibilita' dell'oblazione ai sensi dell'art. 162-bis del codice penale, il giudice tiene conto dell'entita' del superamento dei limiti di accettabilita'". La valutazione del caso in questione richiede un riesame degli aspetti giuridici della tutela ambientale, cosa non agevole per la vastita' dei problemi sollevati dalle due fondamentali leggi che sono state promulgate in merito, e precisamente dalla legge 10 maggio 1976, n. 319, meglio conosciuta sotto il nome di legge Merli, e della successiva legge 24 dicembre 1979, n. 650, comunemente denominata Merli bis. La citata legislazione speciale non si inseriva in un vuoto normativo, poiche' gia' prima della legge Merli, e della successiva legge 24 dicembre 1979, n. 650, comunemente denominata Merli bis. La citata legislazione speciale non si inseriva in un vuoto normativo, poiche' gia' prima della legge Merli esistevano degli scarichi inquinanti, anche se il bene giuridico protetto era il piu' vario. Basti pensare alle norme del testo unico delle leggi sulla pesca del 1931, che nell'art. 9 prescrivevano l'autorizzazione del presidente della giunta provinciale per l'effettuazione degli scarichi industriali in acque pubbliche, conferendo alla predetta autorita' il potere di imporre prescrizioni atte ad impedire danni all'ittio fauna e ad obbligare chi determinava fenomeni di inquinamento ad eseguire opere di ripopolamento ittico. L'art. 6 della stessa legge, poi, vietava, tra l'altro di gettare o di infondere nelle acque materie atte ad intorpidire, stordire od uccidere i pesci, con la conseguenza che attraverso la tutela dell'ittiofauna veniva preservato il corso dell'acqua dall'inquinamento o comunque da forme di inquinamento che non consentissero la vita dei pesci. Le norme del testo unico sanitario che disciplinavano direttamente l'igiene e la salubrita' dell'ambiente svolgevano parimenti un ruolo importante, ad esempio in relazione allo smaltimento delle acque immonde, delle materie escrementizie e di altri rifiuti che ai sensi dell'art. 218 dovevano avvenire in modo da non inquinare il sottosuolo, o in relazione al divieto di immissione nei corsi d'acqua che attraversavano l'abitato di fogne o canali di raccolta di acque immonde, tra cui le acque inquinate provenienti da scarichi industriali, previsto dall'art. 227. Il codice penale, infine sotto il titolo VI dedicato ai delitti contro l'incolumita' pubblica sanzionava penalmente l'avvelenamento doloso o colposo di acque destinate all'alimentazione umana, prima che fossero attinte o distribuite per il consumo (vedi i problemi collegati all'uso di atrazina). Altre norme del codice penale che non sembrano disciplinare il fenomeno dell'inquinamento, neanche indirettamente, furono applicate dai pretori cosiddetti di "assalto", attraverso un'opera di intelligente interpretazione giurisprudenziale, sostanzialmente recepita dalla suprema Corte di cassazione. Fu cosi' ritenuto applicabile l'art. 635 del codice penale che sanziona la condotta di chiunque distrugge, disperde deteriora o rende, in tutto o in parte inservibili come mobili o immobili altrui, con la contestazione frequente dell'aggravante di cui al n. 3, secondo comma, della norma, in relazione all'ipotesi prevista dall'art. 625, n. 7, c.p., per la natura pubblica, la destinazione ad uso pubblico o per la esposizione alla pubblica fede del corso d'acqua inquinata. Fu la stessa giurisprudenza di merito a ritenere applicabile anche l'art. 674 c.p. che unisce il getto pericoloso di cose e in particolare la condotta di colui che getta o versa in un luogo di pubblico transito o in luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte ad offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, in tutti i casi in cui dallo svernamento delle sostanze inquinanti potesse derivare un pericolo per la salute o anche per la decorosa parvenza esteriore della persona umana. Ora appare evidente che tutte le norme richiamate, la maggior parte delle quali devono ritenersi ancora vigenti, non assolvevano pero' all'esigenza, da piu' parti sentita, di disciplinare in modo organico la materia degli scarichi per una migliore tutela dell'ambiente. Questo obiettivo risulta appunto consacrato nell'art. 1 della legge 10 maggio 1976, n. 319, il quale alla lettera A), testualmente recita "la presente legge ha per oggetto la disciplina degli scarichi di qualsiasi tipo, pubblici e privati diretti e indiretti in tutte le acque superficiali e sotterranee interne e merine, sia pubbliche che private, nonche' in fognature, sul suolo e nel sottosuolo". Occorre subito chiarire che la legge non fornisce la nozione di scarico e che, contrariamente a quanto potrebbe apparire, il significato del termine non e' riferibile a tutti i tipi di scarico in senso assoluto. La giurisprudenza e la dottrina, attraverso lo studio sistematico della normativa, compresa la legge di parziale modifica dell'8 ottobre 1976, n. 690, e la delibera del comitato dei Ministri per il rilevamento delle caratteristiche dei corpi idrici e dei criteri metodologici per la formazione e l'aggiornamento dei catasti del 4 febbraio 1977, hanno precisato il concetto nei seguenti termini: a) deve trattarsi innanzitutto di sostanze di scarto, cioe' di rifiuti derivanti dall'utilizzazione di altre sostanze, b) in secondo luogo, le sostanze devono essere liquidate o quanto meno solubili in acqua, poiche' solo in tali condizioni e' possibile realizzare la misurazione dei limiti di accettabilita' degli scarichi con riferimento alle tabelle allegate alla legge cosi' come prescritto dall'art. 9. Cio' che viene misurato infatti, e' l'acqua la quale non puo' che essere l'acqua di rifiuto dell'insediamento. Cio' risulta evidente dalla lettura del titolo quarto della legge ed in particolare dagli artt. 9, 10, 12 e 15. Il primo stabilisce, in proposito, che la misurazione degli scarichi si intende effettuata subito a monte del punto di immissione nei corpi ricettori di cui all'art. 1, lettera A), che gli scarichi devono essere resi accessibili per il campionamento da parte dell'autorita' autorizzata ad effettuare all'interno degli insediamenti produttivi tutte le ispezioni che essa ritenga necessarie per l'accertamento delle condizioni che danno luogo alla formazione degli scarichi. Le altre norme poi, nel disciplinare le modalita' per il rilascio dell'autorizzazione allo scarico degli insediamenti produttivi e civili, esistenti o di nuova realizzazione presuppongono tutte che vi sia un impianto di scarico, funzionante con una certa continuita'. Cio' viene anche confermato dal contenuto dell'art. 5 della legge che attribuisce alle province il compito di effettuare il catasto di tutti gli scarichi pubblici e privati nei corsi d'acqua superficiali. La legge, pertanto, secondo taluni non trova applicazione nei casi di scarico di sostanze solide non solubili in acqua e nei casi di scarichi occasionali non ricollegabili immediatamente ad impianti stabili. Tali ipotesi sarebbero applicabili altre norme, sia di natura amministrativa, quali ad esempio la legislazione regionale in materia di rifiuti solidi, sia di natura penale qualora ne sussistono i presupposti (ad es. l'art. 674 del c.p. nel caso di pericolo di imbrattamento o comunque di offesa alla persona, gli artt. 439 e 452 del c.p., qualora dal fatto derivi l'avvelenamento delle falde acquifere, e secondo taluni, l'art. 6 del testo unico sulla pesca, se ne sia derivato un pericolo per la vita dei pesci e cosi' via). Secondo altri per definire il concetto di scarico occorre riconsiderare la nozione di scarichi che compare nella norma di cui all'art. 21 della legge n. 319, onde realizzare il superamento della definizione restrittiva prevalente in dottrina sino alla promulgazione della legge n. 650/1979. In effetti all'art. 1 il legislatore ha disciplinato, come si e' detto, gli scarichi ma tale previsione va collegata con quella contenuta nell'art. 26, che abroga ogni altra norma che disciplina la materia in questione, sia direttamente che indirettamente. Il precetto comune e' contenuto nell'art. 9, secondo il quale "tutti gli scarichi devono essere autorizzati". Dalla modifica operata da parte della legge 29 dicembre 1979, n. 650, all'art. 11 possono ricavarsi concreti elementi a sostegno della posizione che si sta illustrando, imponendosi una interpretazione lata dalla nozione di scarico, e quindi dell'ambito di applicazione dell'intera normativa dell'inquinamento idrico. La modifica in questione ha determinato la soppressione dell'espressione "immissione diretta di rifiuti di lavorazioni industriali o provenienti da servizi pubblici o da insediamenti di qualsiasi specie" con quella innicomprensiva di "scarichi". Ove si sia d'accordo nel ritenere che la nozione soppressa sia compresa nel termine con il quale si e' operata la sostituzione, la conseguenza sul piano pratico sara' che nel concetto di scarico andra' compreso anche quello derivante da singoli episodi isolati o periodici, oltre quello proveniente da insediamento. Tutto cio' comporta la positiva conseguenza di un allargamento della sfera di applicazione delle norme antinquinamento, dotando gli operatori di sempre maggior strumenti. Quanto alla disciplina degli scarichi, la legge prescrive in particolare che: a) gli scarichi degli insediamenti produttivi (art. 12 e art. 13) devono rispettare direttamente le tabelle. Fanno eccezione i soli scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976 (data di entrata in vigore della legge) immessi in pubbliche fognature provviste di impianto di depurazione funzionante. In tal caso il comune che gestisce l'impianto puo' prescrivere limiti piu' permissivi; b) gli scarichi degli insediamenti civili in pubbliche fognature sono sempre ammessi purche' osservino i regolamenti comunali (art. 14, primo comma); c) gli scarichi da pubbliche fognature (art. 14, secondo comma) sono disciplinati dalle regioni, le quali devono tener conto delle direttive statali (emesse con delibera del 30 dicembre 1980), dei limiti delle tabelle e delle situazioni locali. In particolare, le citate direttive statali, mentre sono molto elastiche e nulla di preciso prescrivono in relazione a questi insediamenti civili (salvo la predisposizione di incentivi per favorirne l'allaccio in fogna), stabiliscono invece per le pubbliche fognature che le regioni non possono mai derogare ai limiti piu' restrittivi previsti dalle tabelle in relazione ai parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile (specificati in un elenco) e che, quanto agli altri parametri, deroghe (permissive) alle tabelle sono consentite solo quando "la presenza degli scarichi provenienti da insediamenti produttivi non sia tale da conferire il liquame in ingresso all'impatto di depurazione caratteristiche qualitative sostanzialmente diverse da quelle attribuibili agli scarichi provenienti da soli insediamenti civili". Solo quando, cioe', gli scarichi industriali siano di minima entita' o siano stati efficacemente pretrattati a monte. Quanto alle sanzioni, la omessa richiesta di autorizzazione e' punita alternativamente con l'ammenda da 1.500.000 a 10.000.000 o con l'arresto da due mesi a due anni (art. 21, primo e secondo comma), mentre, per il superamento dei limiti, l'art. 21, terzo comma, prevede che "si applica sempre la pena dell'arresto (da due mesi a due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di cui alle tabelle allegate alla legge, nei rispettivi limiti e modi di applicazione", con l'ulteriore pena accessoria dell'incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione. In conclusione, la legge Merli basa la sua operativita' su tre ordini di obblighi, tutti penalmente sanzionati e tutti fra loro connessi, nei confronti dei titolari di scarichi: l'obbligo di richiedere l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le prescrizioni dell'autorizzazione e l'obbligo di rispettare limiti prefissati, direttamente o indirettamente, dalla legge. Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una serie di decreti-legge l'ultimo dei quali redatto dal governo Berlusconi il 16 settembre 1995 con il n. 9. Le principali modifiche apportate alla legge Merli dal citato decreto sono: A) in relazione all'obbligo di richiedere autorizzazione dopo 18 anni, si riaprono i termini per tutti gli inadempimenti e, per il passato, si riazzera tutto e si estingono i reati di commessi purche' i contravventori presentino, oggi, domanda di autorizzazione in sanatoria entro 90 giorni dalla legge di conversione e paghino da 500.000 a 3.000.000 (art. 7); B) quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una serie di obblighi (validi a livello nazionale). Ad esempio gli scarichi da pubbliche fognature e quelli degli insediamenti civili non in pubbliche fognature devono rispettare limiti non piu' prefissati ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni, che possono tranquillamente derogare alle tabelle; anche se per l'immediato e fino a nuove direttive, "restano ferme le prescrizioni adottate anteriormente ed in particolare quelle di cui alla delibera del 30 dicembre 1980". Di modo che vengono penalizzate le regioni che a questa delibera si erano adeguate e vengono premiate le inadempienti; C) la inosservanza dei limiti tabellari e non e' punita, di regola, non piu' con l'arresto ma con sanzione alternativa. Quanto alle ulteriori conseguenze per il superamento di limiti, venuta gia' meno con il nuovo codice di procedura penale la possibilita' di costudia cautelare in caso di recidiva, il decreto- legge in esame cancella della legge Merli anche la pena accessoria della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione; D) analogamente, l'inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge Merli con arresto o ammenda, comporta, con il decreto-legge in esame solo una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni. In conclusioni, limiti certi vengono sostituiti da limiti rimessi alla discrezionalita' quasi totale di regioni e comuni, con il pericolo di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela; in piu', l'inosservanza di questi limiti, con il conseguente inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa pecuniaria ovvero una ammenda oblabile senza vero rischio penale. Questo rischio, paradossalmente, resta solo per violazioni soprattutto formali e "burocratiche" (quali la omessa richiesta di autorizzazione allo scarico). Ma, comunque, per esse dopo 18 anni, scatta una totale sanatoria rispetto al passato, premiando gli inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge. Appare evidente che il d.-l. n. 9/1995, scardina, o quanto meno depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la legge Merli (obbligo di richiedere autorizzazione, obbligo di rispettare le prescrizioni dell'autorizzazione ed obbligo di rispettare limiti prefissati). Per tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia' rilevato per i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza del 2 agosto 1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di Grosseto 11 ottobre 1994, pretore di Grosseto 28 ottobre 1994), pretore di Grosseto 30 gennaio 1995 e lucidamente sostenuto in scritti (G. Amendola) viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della legge fondamentale dello Stato. Appare evidente che, dopo le modifiche introdotte dal decreto nel sistema sanzionatorio della legge Merli, la violazione di obblighi "burocratici" e formali, certamente non ricollegabili ad un danno all'ambiente quali la omessa richiesta di autorizzazione allo scarico, viene punita, ai sensi dell'art. 21, primo comma, come reato con la pena dell'arresto o dell'ammenda; mentre la fattispecie di ben maggiore gravita' sostanziale, quale l'inquinamento dell'ambiente provocato con il superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo comma, e proprio per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame con la pena piu' severa di tutta la legge (solo arresto, pena accessoria), viene punita come illecito amministrativo con una sanzione pecuniaria ovvero, con la pena alternativa dell'ammenda o dell'arresto (con tutte le conseguenze piu' favorevoli che questo comporta). Insomma, in tal modo, fatti gravi vengono illogicamente puniti in modo molto piu' benevolo di fatti certamente piu' lievi. Peraltro, in tal modo si introduce una disparita' di trattamento anche rispetto al sistema complessivo della normativa di tutela ambientale che si e' rappresentato in precedenza (cfr. ad esempio, il d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, sull'inquinamento atmosferico da industrie), ed in particolare con le altre leggi che si occupano, come la Merli, di inquinamento delle acque (quale la legge a difesa del mare n. 979 del 31 dicembre 1981 e il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 133, sugli scarichi di sostanze pericolose), le quali prevedono tutte sanzioni penali (e non amministrative) per fatti di inquinamento o per violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione. In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di eguaglianza consente al legislatore di emanare norme differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo a condizione che tali norme rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del 1963). Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che prevedevano un trattamento sanzionatorio irrazionalmente differenziato rispetto a quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena edittale minima per l'oltraggio (n. 341 del 1994); ovvero, con una decisione proprio relativa all'art. 21 della legge Merli (ove si fa espresso riferimento anche al complesso della normativa ambientale), eliminando il divieto di applicazione di sanzioni sostitutive (sentenza n. 25 del 20-23 giugno 1994). Orbene, in questa sentenza, ricorda la Corte che si viola il principio di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad un "sistema normativo assolutamente squilibrato", come avviene, ad esempio, quando si favorisce "chi ha posto in essere, fra due condotte gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata da maggiore gravita', discriminando invece che ha realizzato il fatto che meno offende lo stesso valore giuridico (sentenza n. 249 del 1993)". Esattamente quello che ha fatto il governo con il decreto- legge in esame. Ma l'art. 3 della Costituzione risulta violato anche sotto altri profili. La nuova formulazione dell'art. 14, concedendo ampia discrezionalita' alle regioni per la fissazione di limiti comporta, con ogni evidenza, la possibilita' che vi siano marcate ed irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione. In detto svuotamento sanzionatorio di uno dei reati piu' importanti in materia di tutela ambientale (forse il reato piu' importante in assoluto in materia di inquinamenti) si profila ad avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art. 9, secondo comma, della Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu' recenti pronunce della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da cartolina ma come ambiente naturale in senso lato, quindi comprensivo anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici. Per gli stessi motivi esposti in relazione all'art. 9 della Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto anche con l'art. 32 della carta costituzionale. Infatti, nel concetto di tutela della salute come principio costituzionalmente garantito deve, per forza di cose ricomprendersi, il piu' vasto concetto della salute pubblica nel senso delle salubrita' dell'ambiente naturale ed urbano ove ciascun cittadino vive. Il diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza (si veda per tutte la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale in data 31 dicembre 1987, n. 641, ed in data 16 marzo 1990, n. 17). E' fuor dubbio che la diminuita, ed anzi per certi versi di fatto del tutto caducata, possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da inquinamento idrico crea i presupposti per una evoluzione incontrollata del fenomeno, incoraggiata dall'abbassamento della guardia in sede di controlli di p.g. e possibilita' di intervento processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per la salute e salubrita' pubblica in un ambiente che resta cosi' maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante. Va ancora rilevato che la norma in esame pare porsi in totale contrasto con gli obblighi che derivano al nostro Paese per l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di giustizia ha condannato il nostro Paese per il contrasto tra la "legge Merli" e le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la permissivita' del sistema autorizzatorio previsto e per la "insufficienza" delle sanzioni penali previste dall'art. 22 in relazione all'inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione (Corte di giustizia 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra esposta generale regressione sanzionatoria creata dal decreto-legge in esame concretizza di conseguenza una ulteriore evoluzione del grado di inadempienza italiana verso le direttive CEE e verso le sentenze della Corte europea. Peraltro il decreto stesso, si pone in evidente contrasto con la direttiva CEE n. 271 del 21 maggio 1991 sul trattamento delle acque reflue urbane, che lo Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire entro lo scorso giugno 1993 e che fissa obblighi e limiti ben precisi, con ben pochi margini di discrezionalita' specie per le "aree sensibili". E del resto il contrasto e' apparso evidentemente gia' in sede di redazione del testo in esame se il decreto richiama espressamente nell'art. 1 la direttiva 91/217/CEE del 21 maggio 1991". Dunque da un lato l'Italia non ha recepito la direttiva CEE nei termini stabiliti e dall'altro ha adottato un decreto-legge in antitesi ai prinicpi della direttiva stessa, con una mora temporale applicata illogica. Ove il decreto 9 dovesse essere convertito in legge, le sue prescrizioni si applicheranno dunque finche' non si sara' data attuazione alla citata direttiva; attrazione che dovrebbe avvenire, secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 febbraio 1994, entro il marzo 1995 e, peraltro, con rigidi principi di attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37, primo comma) in evidente contrasto con la elasticita' e genericita' del decreto in esame, il che provochera' ulteriore confusione ed incertezza del diritto. Ed in ogni caso va sottolineato che, secondo la citata legge comunitaria, il Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva provvedendo all'"adeguamento della normativa vigente alla disciplina comunitaria, apportando alla prima ogni necessaria modifica ed integrazione allo scopo di definire un quadro omogeneo ed organico delle disposizioni di settore" (art. 36, lett. c)). Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto n. 9/1995, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art. 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del diritto internazionale. Da quanto sopra esposto emerge la rilevanza della sollevata eccezione sul caso in esame, ove risulta contestato il superamento dei limiti tabellari, con le differenze normative richiamate e le di- verse strategie processuali percorribili da parte della difesa, sia in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione.