IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 1153/1994, proposto dai signori Salvatore Bella, Giuseppe Longo, Antonino Messina, Cirino Sorace, Vincenzo Leotta Anastasi, Gaetano Sorbello e Salvatore Grasso, tutti rappresentati e difesi dal prof. Enzo Silvestri e dall'avv. Stefano Massimino e domiciliati per legge in Catania, presso la segreteria di questo tribunale amministrativo regionale, contro il comune di Acireale, in persona del sig. sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dal prof. Michele Ali' e dall'avv. Gaetano Grasso Romeo ed elettivamente domiciliato in Catania, alla via Crociferi n. 60, per l'annullamento previa sospensione, della deliberazione della giunta municipale di Acireale n. 1146 del 14 ottobre 1993, con la quale sono stati annullati in autotutela i provvedimenti d'inquadramento dei ricorrenti nella qualifica di "Vicebrigadiere dei VV.UU." ex art. 40 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347; nonche' d'ogni altro atto presupposto, connesso o conseguenziale, ivi compresa la deliberazione della giunta municipale di Acireale n. 571 del 7 giugno 1993; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione nel presente giudizio dell'intimata amministrazione comunale datrice di lavoro; Visti gli atti tutti della causa; Relatore alla camera di consiglio del 15 dicembre 1994 il consigliere dott. Silvestro Maria Russo e uditi altresi', per i ricorrenti, l'avv. Massimino e, per il comune di Acireale, il prof. Ali'; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F A T T O 1. - Gli odierni ricorrenti, tutti dipendenti del convenuto comune di Acireale ed appartenenti al locale Corpo dei VV.UU., furono inquadrati, a' sensi dell'art. 40 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, nella qualifica di "Vicebrigadiere dei VV.UU." (sesta q.f.), in forza delle deliberazioni della giunta municipale nn. 21, 23, 24, 25, 27, 26 e, rispettivamente 29 del 4 gennaio 1989. Nondimeno, con sentenza n. 37/1992 del 10 marzo 1992 - e pervenuta in copia dalla segreteria per l'esecuzione, in data 8 luglio 1992 -, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana condanno' alcuni ex-amministratori comunali, in solido tra loro, al pagamento, a favore dello stesso comune di Acireale, delle somme cola' indicate per il danno derivante dall'adozione delle citate deliberazioni ed in violazione dell'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983, per aver riconosciuto agli odierni ricorrenti un inquadramento superiore a quello loro giuridicamente spettante, in relazione a pretese mansioni superiori da loro stessi effettuate. In relazione a cio' e dietro conforme parere dei legali dell'ente in ordine alla necessita' di restituire i ricorrenti ala qualifica funzionale in effetti loro spettante, veniva emanata l'impugnata deliberazione giuntale n. 571 del 7 giugno 1993, con la quale, prendendo atto della citata sentenza della Corte dei conti, il comune convenuto iniziava il procedimento amministrativo per l'annullamento in autotutela delle predette deliberazioni giuntali del 1989, dandone formale comunicazione agli interessati a' sensi degli artt. 7 e 8 della legge 7 agosto 1990, n. 241. I ricorrenti, con nota prot. n. 17734 del 14 luglio 1993, produssero alla p.a. procedente un'unica memoria difensiva della loro posizione giuridica e di lavoro, significando, per un verso, che essi erano rimasti estranei nel giudizio di responsabilita' reso dal giudice contabile e, quindi, nessuna valenza poteva inferirsi da esso in ordine agli inquadramenti; per altro verso, che la motivazione resa dalla Corte dei conti era erronea e, percio', non inficiava gli inquadramenti stessi; e, infine, l'eventuale annullamento di questi ultimi, ben lungi dall'arrecare alcun beneficio all'interesse pubblico, ne avrebbe determinato solo un grave danno, fermo comunque restando che il lungo periodo di tempo ormai trascorso aveva di gia' consolidato le loro posizioni di lavoro. Il comune intimato, con l'impugnata deliberazione giuntale n. 1146 del 14 ottobre 1993, statuiva l'annullamento in autotutela degli inquadramenti dei ricorrenti, non solo in relazione alle vicende teste' descritte ed alla ormai pacifica giurisprudenza sull'illegittimita' degli inquadramenti ricognitori di mansioni superiori svolte di fatto dai dipendenti, ma anche in relazione all'effetto permanente dannoso sul denaro pubblico derivante dall'eventuale mantenimento degli inquadramenti illegittimi, ferma, pero', restando l'insussistenza di altrettanto valide ragioni di pubblico interesse alla ripetizione delle maggioni somme finora percette dai ricorrenti grazie al loro maggior inquadramento. 2. - Avverso le deliberazioni giuntali n. 571/1993 e 1146/1993, i ricorrenti, con gravame notificato il 28 febbraio 1994 e depositato il successivo 2 marzo, adiscono questo Tribunale amministrativo regionale, deducendo in punto di diritto: A) violazione dei principi generali in materia d'efficacia delle sentenze giurisdizionali e dell'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983 ed eccesso di potere per difetto d'istruttoria, carenza dei presupposti e per travisamento dei fatti in quanto la p.a. convenuta non ha dato un autonomo apprezzamento della fattispecie - in ordine, cioe', alla legittimita' delle deliberazioni d'inquadramento -, ma s'e' limitata a prender atto della citata sentenza della Corte dei conti - che solo incidentalmente ha reputato illegittime le deliberazioni stesse -, fermo restando che, per un verso, l'oggetto del giudizio di responsabilita' non era incentrato su dette deliberazioni, bensi' sul comportamento dannoso degli amministratori comunali e, per altro verso, che non sussiste un'estensione del relativo giudicato nei confronti degli odierni ricorrenti, rimasti estranei al relativo giudizio; B) violazione dei principi generali in materia d'autotutela, carenza dell'interesse pubblico e travisamento dei fatti, atteso che, nella specie, non puo' ravvisarsi nel perdurante esborso di pubblico denaro un interesse pubblico in re ipsa all'annullamento in autotutela, perche' esso non e' sine titulo, ma e' fondato sull'effettivita' della prestazione lavorativa, nella misura in cui la p.a. convenuta trae vantaggio dalla maggiore qualita' del lavoro prestato dai ricorrenti, mentre l'eventuale loro declassamento implicherebbe uno stravolgimento della pianta organica, con conseguente eventuale soprannumerarieta' di quei dipendenti che avevano occupato le posizioni lasciate libere dai ricorrenti stessi per effetto del loro maggior inquadramento; C) eccesso di potere per illogicita' ed ingiustizia manifesta, per difetto assoluto di motivazione e per travisamento dei fatti, considerato che, con l'impugnata deliberazione, la p.a. convenuta ha reputato di rimettere in discussione ogni altro inquadramento ex art. 40 del d.P.R. n. 347/1983, di talche' l'atto gravato e' perlomeno intempestivo, perche' non ha tenuto conto dell'intera situazione di tutti i dipendenti e non s'e' basato su alcun vero motivo di necessita' ed urgenza del provvedere, fermo restando che l'eventuale retrocessione dei ricorrenti non determinerebbe analoghe statuizioni nei riguardi di altri dipendenti che versino in situazione d'inquadramento illegittimo. Resiste nel presente giudizio l'intimato comune di Acireale, il quale conclude per la manifesta infondatezza della pretesa attorea, anche ai fini della concessione dell'invocata misura cautelare, segnatamente considerato che non si procedette alla ripetizione dei maggiori emolumenti a suo tempo concessi ai ricorrenti. 3. - La Sezione, con propria ordinanza n. 770/1994 del 25 marzo 1994 ha rigettato la domanda di sospensione cautelare - posta a' sensi dell'art. 21, u.c., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, dai sigg. Bella e consorti in una con il ricorso in epigrafe -, per l'infondatezza di quest'ultimo e per difetto di danno grave ed irreparabile. Tuttavia, i ricorrenti hanno prodotto una nuova istanza di sospensione cautelare, notificata in data 14 novembre 1994, intesa ad ottenere la sospensione dei provvedimenti impugnati, in relazione alla sopravvenienza dell'art. 3, comma 6- bis della legge 24 dicembre 1993, n. 537, nel testo introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, recante provvedimenti urgenti in materia di finanza locale per l'anno 1994. Invero, la disposizione in parola stabilisce che i provvedimenti deliberativi riguardanti il personale degli enti locali che, adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano previsto profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 347/1983 e suc- cessive modificazioni ed integrazioni, sono validi ed efficaci; la disposizione stessa s'applica a tutti gli enti locali, ancorche' dissestati, i cui organici, per effetto dei provvedimenti d'inquadramento di cui sopra, non superino i rapporti dipendenti- popolazione previsti dall'art. 3, comma 14, della legge n. 537/1993, cosi' come modificato dall'art. 2 del d.-l. n. 515/1994. Tale ius superveniens si rende ex se applicabile, ad avviso dei ricorrenti, anche alla loro situazione, risolvendola favorevolmente (per loro) in punto di diritto e conferendo al contempo legittimita' agli atti del loro inquadramento. A tale domanda s'e' opposto il convenuto comune di Acireale, eccependo che la norma sopravveniente non e' efficace a modificare un assetto di interessi determinato, grazie alla deliberazione giuntale n. 1146/1993, oltre un anno prima della sua entrata in vigore. Pertanto, la nuova domanda cautelare, sulla cui ammissibilita' nessun dubbio puo' esprimere il Collegio - stante la rilevanza e l'importanza del jus superveniens, tale da rimettere in discussione il predetto assetto di interessi -, e' stata rimessa al giudizio del Collegio alla camera di consiglio del 15 dicembre 1994, nella quale i patroni di parte insistono nelle rispettive tesi difensive e, su loro conforme richiesta, la domanda stessa e' assunta in decisione dal Collegio, a' sensi del citato art. 21 della legge n. 1034/1971. 4. - Con l'ordinanza n. 3269/1994 del 15 dicembre 1994, la Sezione, pur nella consapevolezza della sussistenza del danno grave e irreparabile arrecato ai ricorrenti dagli atti impugnati, ha purtuttavia ritenuto che, essendo nelle more del giudizio intervenuto il citato art. 3, comma 6- bis della legge n. 537/1993, tale norma di "sanatoria" implica un giudizio di validita' e d'efficacia degli atti d'inquadramento dei ricorrenti e di conseguente illegittimita' sopravvenuta dell'impugnato annullamento in autotutela. Ma la predetta disposizione, vigente ed al contempo rilevante ai fini della decisione cautelare - nella misura in cui essa e' il parametro di legittimita' dell'impugnata deliberazione giuntale n. 1046/1993, per tutti gli altri versi legittima - s'appalesa pure manifestamente irretita da svariati vizi di legittimita' costituzionale, per cui il Collegio ha deliberato la presente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Pertanto, la Sezione ha nuovamente rigettato la questione incidentale di sospensione dei provvedimenti impugnati con il ricorso in epigrafe per la parte diversa dalla domanda d'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis della legge n. 537/1993, rinviando la trattazione inerente quest'ultima parte alla prima camera di consiglio immediatamente successiva all'intervenuto giudizio in soggetta materia da parte della Corte costituzionale e la restituzione dei relativi atti, senz'uopo d'ulteriore disamina della domanda cautelare prima di quella data, nonche' sospendendo il giudizio cautelare fino a quella data stessa. In tal caso, la sezione non potra' procedere in tale giudizio, ne' tampoco spogliarsi della propria potestas iudicandi sulla nuova domanda cautelare posta dai ricorrenti, prima dell'incidentale giudizio di legittimita' costituzionale sull'art. 3, comma 6- bis della legge n. 537/1993. D I R I T T O 1. - Come gia' diffusamente accennato in epigrafe e nelle premesse in fatto, la presente controversia concerne essenzialmente l'adizione di questo giudice da parte degli odierni ricorrenti, tutti dipendenti del convenuto comune di Acireale ed appartenenti al locale Corpo dei VV.UU., per l'annullamento, previa sospensione, dei provvedimenti comunali di revoca (rectius, d'autoannullamento) dei loro illegittimi inquadramenti, a' sensi dell'art. 40 del d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, nella qualifica di "Vicebrigadiere dei VV.UU." (quarta q.f.), in forza delle deliberazioni della giunta municipale nn. 21, 23, 24, 25, 27, 26 e rispettivamente 29 del 4 gennaio 1989. 2. - In relazione ai fatti di causa, reputa necessario il Collegio sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 6- bis della legge 24 dicembre 1993, n. 537,nel testo introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, recante provvedimenti urgenti in materia di finanza locale per l'anno 1994, di cui i ricorrenti hanno richiesto l'applicazione ai fini della risoluzione, a loro favorevole della nuova domanda cautelare in data 14 novembre 1994. Invero, la disposizione in parola stabilisce che i provvedimenti deliberativi riguardanti il personale degli enti locali che, adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano previsto profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. n. 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni, sono validi ed efficaci; la disposizione stessa s'applica a tutti gli enti locali, ancorche' dissestati, i cui organici, per effetto dei provvedimenti d'inquadramento di cui sopra, non superino i rapporti dipendenti- popolazione previsti dall'art. 3, comma 14, della legge n. 537/1993, cosi' come modificato dall'art. 2 del d.-l. n. 515/1994. Tale jus superveniens si rende ex se applicabile, ad avviso dei ricorrenti, anche alla loro situazione, risolvendola favorevolmente (per loro) in punto di diritto e conferendo al contempo legittimita' agli atti del loro inquadramento. A tale domanda s'e' opposto il convenuto comune di Acireale, eccependo che la norma sopravveniente non e' efficace a modificare un assetto di interessi determinato, grazie alla deliberazione giuntale n. 1146/1993, oltre un anno prima della sua entrata in vigore. Pertanto, la nuova domanda cautelare, sulla cui ammissibilita' nessun dubbio puo' esprimere il Collegio - stante la rilevanza e l'importanza del jus superveniens, tale da rimettere in discussione il predetto assetto interessi -, e' stata rimessa al giudizio del Collegio alla camera di consiglio del 15 dicembre 1994, nella quale i patroni di parte insistono nelle rispettive tesi difensive e, su loro conforme richiesta, la domanda stessa e' assunta in decisione dal Collegio, a' sensi del citato art. 21 della legge n. 1034/1971. Con l'ordinanza n. 3269/1994 del 15 dicembre 1994, la sezione ritiene che la sopravvenienza, in corso di giudizio, del citato art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, a guisa di norma di "sanatoria" implica un giudizio di validita' e d'efficacia degli atti d'inquadramento dei ricorrenti e di conseguente illegittimita' sopravvenuta dell'impugnato annullamento in autotutela. Si tratta d'una disposizione vigente ed al contempo rilevante ai fini della decisione cautelare, essendo appunto il parametro di legittimita' dell'impugnata deliberazione giuntale n. 1046/1993, che, pero', s'appalesa pure manifestamente irretita da svariati vizi di legittimita' costituzionale, tali da indurre il Collegio a deliberare la presente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Da cio' discende la ragione per cui, pur sussistendo il presupposto del danno grave e irreparabile, la Sezione ha nuovamente rigettato la questione incidentale di sospensione dei provvedimenti impugnati con il ricorso in epigrafe per la parte diversa dalla domanda d'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, rinviando la trattazione inerente quest'ultima parte alla prima camera di consiglio immediatamente successiva all'intervenuto giudizio in soggetta materia da parte della Corte costituzionale e la restituzione dei relativi atti, senz'uopo d'ulteriore disamina della domanda cautelare prima di quella data, nonche' sospendendo il giudizio cautelare fino a quella data stessa. Pertanto, la Sezione non potra' procedere in tale giudizio, ne' tampoco spogliarsi della propria potestas iudicandi sulla nuova domanda cautelare posta dai ricorrenti, prima dell'incidentale giudizio di legittimita' costituzionale sull'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/l993 (cfr., per tutti, Corte cost., 12 ottobre 1990, n. 444). 3. - Tale jus superveniens si rende ex se applicabile, ad avviso del Collegio, indipendentemente dalle ragioni specifiche per cui gli atti d'inquadramento furono disposti o per cui gli stessi vennero annullati dagli organi tutori, in quanto tali atti vengono considerati ope legis validi (ossia, comunque conformi al modello legale proprio dei procedimenti amministrativi d'inquadramento del personale degli ee.ll., aldila' dell'applicazione nella specie del d.P.R. n. 347/1983 o di altre disposizioni limitative al reclutamento ed agli inquadramenti del personale stesso) ed efficaci (ossia, aldila' delle regole proprie d'esecutivita' e di quelle inerenti ai loro controlli). Con cio' s'oblitera, per l'evidente funzione di diritto speciale e transitorio che si puo' riconoscere alla norma sopravveniente, ogni vizio di legittimita' che potrebbe affliggere gli atti de quibus, per cui, ogniquavolta non si sia verificata l'esaurimento della fattispecie inerente all'inquadramento, la predetta norma esclude l'applicabilita' alla fattispecie stessa delle norme, per cosi' dire "ordinarie" che reggono il procedimento amministrativo d'inquadramento e, quindi, essa non puo' essere disattesa da questo giudice, ma, anzi, applicata in sostituzione d'ogni altra difforme. E a tale risultato si perviene anche nel caso in cui, come nella specie, l'inquadramento illegittimo sia stato eliminato da un atto d'autotutela tempestivamente impugnato, perche' la norma sopravveniente ha sanato integralmente l'inquadramento stesso, rendendosi applicabile al procedimento amministrativo di secondo grado in autotutela non ancora definito e determinando allo stesso tempo tanto la cessazione del presupposto dell'annullamento in autotutela, quanto l'illegittimita' sopravvenuta del relativo provvedimento. La norma sopravveniente ben puo' definirsi a guisa di "condono tombale" degli inquadramenti illegittimi (o, comunque, inefficaci) operati fino al 31 agosto 1993, purche' non definiti in altro modo e con contestuale abbandono da parte della p.a. di tutti i giudizi inerenti all'inquadramento del personale degli enti locali e, ovviamente, con conseguente elisione d'ogni responsabilita' giuridica e patrimoniale in capo agli amministratori che hanno disposto gli atti sanati con il jus superveniens. L'unico presupposto minimo per l'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, oltre il termine ad quem dianzi accennato, s'individua nell'illegittimita' degli inquadramenti disposti per violazione del d.P.R. n. 347/1983 e delle altre norme collaterali. Gli enti locali dissestati (e, per assimilazione a' sensi dell'art. 2, comma 2, del d.-l. n. 515/l994, gli enti che hanno dichiarato il dissesto, ma non hanno ancora ottenuto dal Ministero dell'interno l'ipotesi di bilancio riequilibrato) possono godere del predetto "condono" al pari degli altri enti, a condizione, pero', che i loro organici, come integrati dalle assunzioni "condonate", non superino il rapporto medio dipendenti-popolazione, fissato per ciascuna categoria demografica di comune o provincia dall'art. 3, comma 14, della legge n. 537/1993, come novellato dall'art. 2, comma 1, del d.-l. n. 515/1994. La disposizione non e' perspicua e tale non immediata intellegibilita', che si segnala per corroborare (ove mai ve ne fosse ancora bisogno) la non manifesta infondatezza del dubbio di incostituzionalita' del ripetuto jus superveniens per le ragioni in- dicate infra, non consente di verificare se il beneficio da essa recato possa o no concernere gli enti locali dissestati, il cui rapporto dipendenti-popolazione sia eccedentario, ma di cui si sia gia' provveduto a disporne la mobilita'. Cio' premesso, deve il Collegio sollevare, d'ufficio, la questione di legittimita' costituzionale della disposizione in parola, essendo rilevante e non manifestamente infondata, nei limiti e per le considerazioni qui di seguito indicati. 4. - Per quanto concerne la rilevanza della norma sopravveniente, non e' chi non veda come essa vada valutata allo stato degli atti, ossia nella sua attualita' in relazione alla domanda cautelare notificata dai ricorrenti il 14 novembre 1994, nonche' ai poteri che a questo giudice attribuisce nel processo cautelare ex art. 21, u.c., della legge n. 1034/1971. E, invero, il tenore della nuova domanda cautelare attorea, nella sua duplice accezione di petitum (il bene della vita preteso, ossia la sospensione dei provvedimenti impugnati e meglio specificati in epigrafe) e di causa petendi (il fatto determinativo dell'azione: la lesione, rectius, il danno grave ed irreparabile che l'esecuzione attuale dei provvedimenti stessi provoca sulla posizione di lavoro e sul prestigio personale dei ricorrenti), e inequivocabilmente tutto basato sull'applicabilita' nella specie dell'art 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, con assorbimento di altre censure (che neppure vengono menzionate). E cio' per l'evidente ragione che la citata disposizione sarebbe in grado, ad avviso dei ricorrenti stessi e del Collegio, di ribaltare il giudizio d'insussistenza del fumus boni juris (la cui totale assenza condiziona, per pacifica giurisprudenza, ogni altra e/o diversa considerazione sul danno grave ed irreparabile), a suo tempo formulato sulla prima domanda di sospensione. In altri termini, i ricorrenti reputano ed il Collegio afferma che la disposizione invocata sia l'unica rilevante per decidere (addirittura, in senso positivo per la pretesa attorea) la sospendibilita', o meno degli atti impugnati: in suo difetto del quid novi individuato dal ripetuto art. 3, comma 6-bis, la nuova domanda cautelare del 14 novembre 1994 sarebbe non solo infondata, ma manifestamente improponibile. Quanto all'applicabilita' che questo giudice deve fare nella specie della disposizione in argomento, essa e' fuori discussione, posto che la fattispecie d'inquadramento dei ricorrenti corrisponde integralmente al modello legale cola' individuato, fermo restando che, una volta tale fattispecie soggetta alla disposizione stessa, concorrerebbero i presupposti per l'accoglimento della domanda cautelare. Cio' s'appalesa vieppiu' necessario nella specie, ove questo giudice, che dubita della costituzionalita' della norma, non potrebbe risolvere senza di essa il presente giudizio cautelare, il quale, pur essendo a sommaria cognitio, non per questo e' arbitrario o di mero fatto. Infatti, il citato art. 3, comma 6-bis, per la sua stessa ratio, ha recato un beneficio, un ampliamento della sfera giuridica dei destinatari, i quali restano, cosi', svincolati dalle rigorose regole d'inquadramento ex art. 40 del d.P.R. n. 347/1983. Si tratta d'un beneficio, che induce una sorta d'illegittimita' sopravvenuta (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 6 marzo 1989, n. 1150; Cass. I, 7 marzo 1989, n. 1231) dei provvedimenti impugnati in questa sede - a causa della definitiva loro incompatibilita' con la nuova valutazione ex lege degli inquadramenti stessi - posto che alla stregua di tale consolidato orientamento giurisprudenziale anche nel giudizio di annullamento o di legittimita' il giudice amministrativo deve applicare il jus superveniens vigente al momento in cui la causa perviene a decisione (sia in sede di merito che nella fase cautelare) allorche' la normativa sopravvenuta sia retroattiva e piu' favorevole per gli interessati. L'effetto di tale applicazione, nella specie, importerebbe o l'accoglimento della domanda attorea, oppure, secondo un'altra scuola di pensiero presente in giurisprudenza, la declaratoria, sostanzialmente satisfattoria, d'improcedibilita' per sopravvenuta carenza d'interesse (avendo la legge sostituito ex se l'assetto di interessi, dapprima spettante agli atti impugnati): nell'uno come nell'altro caso, il risultato sarebbe un ribaltamento dell'esito reso a suo tempo dalla Sezione con l'ordinanza n. 770/1994 e perverrebbe al sostanziale soddisfacimento della pretesa cautelare attorea. Ora, ritiene il Collegio che, in assenza della citata norma sopravveniente, il ricorso in epigrafe e la domanda cautelare proposta non sfuggirebbero ad un giudizio di manifesta infondatezza, in applicazione dell'ormai pacifica giurisprudenza sull'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983, che esclude ogni giuridica rilevanza, ai fini del corretto e legittimo inquadramento del personale dipendente degli enti locali, delle mansioni superiori svolte di fatto (tra cui vanno comprese quelle inutili all'attivita' dell'ente, quelle illecite e quelle invito domino) da detti dipendenti; e che, viceversa, l'applicazione della norma stessa determinerebbe un giudizio affatto diverso, fermo, pero', restando che detta norma appare irretita da numerosi vizi d'incostituzionalita', che non consentono al Collegio di prestarvi la doverosa applicazione con siffatta consapevolezza, per cui occorre sollevarne d'ufficio la relativa questione di legittimita'. Non sfugge al Collegio che, nella specie, il giudizio cautelare amministrativo non e' che una mera anticipazione del giudizio sul merito della controversia, la quale, pur essendo assunta nell'ambito della giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, afferisce a provvedimenti autoritativi innanzi ai quali non si possono configurare che situazioni soggettive d'interesse legittimo, per cui e' dubbio che questo giudice possa direttamente conoscere del rapporto giuridico sottostante ai provvedimenti impugnati. Nondimeno, nella specie, la controversia, pur manifestandosi comunque in forma di pretesa, ha per oggetto essenziale la tutela di interessi oppositivi, di talche' l'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993 darebbe luogo al soddisfacimento dell'interesse attoreo, senz'uopo d'ulteriore attivita' (neppure interianale) di riemanzione da parte della p.a. convenuta, la quale si vedrebbe cosi' confermati ope legis gli inquadramenti dei sigg. Bella e consorti, a disdoro dell'esborso maggiore di pubblico denaro e delle posizioni di lavoro degli altri dipendenti comunali. Non puo', percio', il Collegio non darsi carico della presente questione di legittimita' costituzionale, essendo nella specie prevedibile non solo la necessita' dell'applicazione del ripetuto art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, ma addirittura che quest'ultimo diventi la fonte normativa dell'assetto di interessi favorevole ai ricorrenti. 5. - La questione de qua s'appalesa, ad avviso del Collegio, non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 77, 81, 97 e 113 della Costituzione, che sono immediatamente violati dal tenore e dagli effetti dell'art. 3, comma 6-bis, della legge n. 537/1993. A parte cio', non puo' fin d'ora il Collegio esimersi dall'osservare che la predetta disposizione esprima un caso esemplare di sviamento della funzione legislativa e cio' per due distinte, ma collegate ragioni. Nel definire "validi ed efficaci" gli atti d'inquadramento ex art. 40 del d.P.R. n. 347/1983 purchessiano - non importa, cioe', se attuali o risalenti, impugnati o definiti, annullati o revocati, sub judice o gia' decisi, con efficacia di giudicato, oppure no -, in realta' da' a tali atti una qualificazione definitiva, sostanzialmente pari alla legge, che li sottrae a qualsivoglia controllo, della giurisdizione ordinaria (quanto agli eventuali reati loro sottesi, oppure a responsabilita' civili per danno da loro provocate), contabile ed amministrativa, ciascuno nel proprio ambito. Ne' basta: la disposizione in parola e' stata emanata in un contesto normativo estemporaneo ed estraneo (la legge per la finanza locale per l'anno 1994), all'evidente scopo d'influire su tutti i giudizi ancora pendenti in soggetta materia - quale quello di specie -, parecchi dei quali ancora si trascinano grazie a compiacenti ritardi con cui molti comuni hanno applicato il ripetuto decreto n. 347 e ad attivita' defatigatorie di molti dipendenti, ad onta della copiosissima e fermissima giurisprudenza del giudice amministrativo sulla irrilevanza giuridica alle mansioni superiori svolte di fatto, ai fini dell'attribuzione della relativa qualifica (ferma restando, com'e' noto, la loro eventuale rilevanza ai fini meramente conomici, ai sensi e per gli effetti dell'art. 57, secondo comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993, n. 29, e dell'art. 2126 del c.c.). Non sfugge al Collegio remittente che, nella specie, non si possa parlare, secondo canoni di logica formale, di vera e propria "irragionevolezza", perche' il fine cui il legislatore tende e' fin troppo ben comprensibile, essendo appunto rivolto a ribaltare l'interpretazione corrente dell'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983 da parte dei giudici che, ciascuno per la propria competenza, se ne son dovuti occupare. Ma la scelta operata dal legislatore e' meramente arbitraria sotto il profilo giuridico, non tanto (o non solo) perche' essa mira a sovvertire un certo qual indirizzo ermeneutico, evidentemente sgradito, ancorche' ictu oculi corretto e coerente con i principi costituzionali dell'organizzazione amministrativa e del pubblico concorso quale strumento sia per l'accesso agli impieghi, sia per l'accertamento del grado di professionalita' e d'attitudine agli impieghi stessi; ma soprattutto perche' il risultato che si prefigge si fonda su un valore giuridico negativo, ossia quello di far lucrare ai dipendenti (e, di regola, ad alcuni dipendenti, piuttosto che ad altri, o a tutti) l'ingiusto vantaggio d'un inquadramento superiore a quello da loro ritraibile in base alla loro preparazione culturale e/o attitudinale ed in relazione all'organizzazione della p.a. datrice di lavoro. E tale arbitrarieta' s'appalesa tanto piu' evidente, sol che si pensi che, in materia d'organizzazione del lavoro subordinato pubblico, il legislatore, oltreche' dai vincoli di ragionevolezza e dai canoni ex artt. 3 e 97 della Costituzione, non sarebbe legato ad alcune strutture giuridico- organizzatorie, piuttosto che ad altre: ebbene, nella specie, la norma censurata non propone un assetto che, seppur parzialmente o episodicamente, intende superare il sistema degli inquadramenti ex d.P.R. n. 347/1983 (che discendono dalla legge 11 luglio 1980, n. 312 e dalla legge 29 marzo 1983, n. 93), proponendone una forma alternativa, ma si limita soltanto ad elidere l'antigiuridicita' di inquadramenti che ontologicamente restano pur sempre illegittimi, oltreche' forieri di gravi problemi organizzativi nelle piante organiche degli enti. Di cio' si ha prova, se mai ce ne fosse bisogno, grazie ai resoconti parlamentari, da cui ben puo' evincersi che la finalita' perseguita non e' certo quella di non rimettere in discussione inquadramenti risalenti (cfr., p.es., C. cost., 30 dicembre 1994, n. 459, su cui appresso). La norma in questione e' stata inserita nel corso della discussione, in aula al Senato della Repubblica, del disegno di legge di conversione del d.-l. n. 515/1994 (Atto Senato n. 969), dopo che gia' esso era stato approvato dalla Camera di deputati il 10 ottobre 1994 (Atto Camera n. 1179). Ebbene, nella seduta del 19 ottobre 1994 - senza che di cio' vi fosse stato sentore nella sede referente presso la VI Commissione permanente "Finanze" (sedute dell'11 e del 12 ottobre 1994) -, il sen. Napoli (Gruppo "Polo del buon governo") illustro' l'emendamento n. 2.100 il cui contenuto e' appunto quello dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, da lui firmato insieme ai senatori Campo (Gruppo "Progressista-federativo"), La Russa (Gruppo "Alleanza nazionale"), Belloni (Gruppo "Polo del buon governo"), De Corato (Gruppo "Alleanza nazionale"), Di Benedetto (Gruppo "Centro cristiano-democratico"), Manis (Gruppo "Polo del buon governo"), Grippaldi (Gruppo "Polo del buon governo"), Briccarello (Gruppo "Polo delle liberta'"), Favilla (Gruppo "Patto per l'Italia") e Florino (Gruppo "Polo delle Liberta'"), ottenendo il parere favorevole del sen. Costa (Gruppo "Patto per l'Italia"), relatore del provvedimento. Nonostante il parere contrario dell'on. Gasparri, sottosegretario di Stato per l'interno, per il Governo, l'assemblea approvo' il predetto emendamento, anche con il voto favorevole del (Gruppo "Progressista- federativo"), che, a bocca del rappresentante sen. Londei, manifesto' disappunto nei riguardi del predetto parere contrario. Al riguardo, il sen. Napoli ebbe modo di far presente che un analogo emendamento fu gia' (infruttuosamente) votato nel corso della discussione del precedente d.-l. 27 giugno 1994, n. 410, non tempestivamente convertito, con conforme parere della V Commissione permanente "Bilancio", all'uopo affermando che esso non avrebbe comportato oneri aggiuntivi e che sarebbe servito agli enti locali per regolare situazioni giuridiche pregresse, evitando un dispendioso contenzioso giurisdizionale. Dai lavori parlamentari, non solo non evincesi la ragione per cui mantenere inquadramenti superiori a quelli effettivi (o, addirittura, ricostituirli) non dovrebbe implicare maggiori oneri al pubblico erario, ma soprattutto non e' chiaro come una giurisprudenza ben rigorosa contro i predetti inquadramenti (e, quindi, contro i dipendenti che vorrebbero lucrarli) costituirebbe un "dispendioso" contenzioso, piuttosto che la tutela delle scelte legittime (o viceversa, la repressione di quelle illegittime o illecite). La tacitiana brevita', con cui il Parlamento nazionale ha trattato la materia - peraltro contemporaneamente alla sessione di bilancio per il 1995 - dimostra, ad avviso del Collegio, che il legislatore, pur muovendosi in un ambito di scelte normative strutturalmente discrezionali, non s'e' curato di non oltrepassare gli estremi limiti logico-giuridici che sono contenuti dalle pur elastiche formule dell'art. 97 della Costituzione, nella misura in cui ha assimilato a legittimita' vicende che, sempre, sono state giudicate e sentite esattamente all'opposto e che, si badi, tali permangono tuttora in qualunque altro contesto identico a quello della disciplina per qualifiche funzionali del lavoro subordinato pubblico, come stabilito dalla legge n. 93/1983 o, da ultimo, dal d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29. Certo, non e' in contestazione l'eventuale (e, oggidi', auspicabile) scelta legislativa, per cui la struttura del lavoro subordinato pubblico, aldila' di alcuni principi comuni, dovrebbe essere parte integrante dell'(auto)organizzazione amministrativa e, quindi, dovrebbe morfologicamente aderire alle strutture degli uffici, queste ultime, a loro volta variabili dipendenti delle funzioni pubbliche. In altri termini, sarebbe stato nella discrezione del legislatore prevedere una tipologia di rapporti d'impiego tipici per le autonomie locali, tali, dunque, da superare il divieto sancito dall'art. 2, comma 2, e dell'art. 57, comma 2, del d.lgs. n. 29/1993 e da permettere l'applicazione dell'art. 2103 del codice civile. Ma non e' questo il tenore della scelta operata: il legislatore ha semplicemente estrapolato il dato riguardante i dipendenti degli enti locali, inquadrati in qualifiche loro non spettanti e, senza dar una diversa configurazione al loro rapporto di lavoro, ha "condonato", peraltro senza alcuna contropartita, l'illegittimita' de qua, con cio' arbitrariamente preferendo (e premiando) costoro, a detrimento di tutti gli altri dipendenti e delle altre amministrazioni locali, piu' ligi ai valori d'organizzazione e d'equita' sottesi alla legge n. 93/1983 ed al d.P.R. n. 347. E' per questo che la disposizione censurata non e' (soltanto) inopportuna, e' del tutto arbitraria, perche' appare rivolta a bilanciare o a conciliare non una serie di valori costituzionali tra loro interferenti, ne' tampoco ad esprimere una possibilita' tra le scelte libere ipotizzabili in soggetta materia, ma cerca di pervenire alla legittimazione di comportamenti, il cui disvalore e' palese e non e' giuridicamente eliso. Si tratta, cioe', di dar prestigio a pratiche del piu' vieto e deteriore clientelismo, il quale, com'e' noto, e' uno dei piu' poderosi ostacoli (da rimuovere e non da ribadire) che limitano di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini e dei lavoratori (artt. 3, secondo comma, e 4, primo comma, della Costituzione). Si tratta, inoltre, della volonta' del legislatore di svincolarsi dalla regola del pubblico concorso - che, invece, e' la regola essenziale per l'accertamento della professionalita' dell'aspirante ad un impiego pubblico e della di lui attitudine al lavoro pubblico -, attribuendo, in buona sostanza, a ciascuna p.a. datrice di lavoro la fattuale discrezionalita' d'attribuire ai propri dipendenti, secondo schemi tutt'altro che trasparenti (perche' non conoscibili a priori e non verificabili ex post), la qualifica funzionale che piu' le aggrada, non solo indipendentemente, ma anche contro le risultanze della propria dotazione organica e, quindi, le proprie stesse scelte organizzative. Ne' si potrebbe, nella specie, invocare una sorta d'interpretazione ad usum Delphini del principio di buon andamento, nel senso, cioe', d'escludere ogni irragionevolezza della disciplina censurata rispetto al fine indicato dal precetto costituzionale. Infatti, e' appena da far presente che, in virtu' dell'art. 97, terzo comma, della Costituzione e dell'art. 36 del d.-l. n. 29/1993, l'accesso ai pubblici impieghi deve avvenire o per pubblico concorso, oppure nelle forme espressamente (cioe', effettivamente dettate ai soli ed esclusivi fini del pubblico impiego) stabilite dalla legge; mentre, dal canto loro, gli artt. 2, comma 3, e 56 dello stesso decreto n. 29 regolano il rapporto individuale di lavoro subordinato pubblico, individuandone le fonti, tra l'altro, nel contratto individuale, in cui ciascun dipendente ritrova il titulus della sua prestazione lavorativa e, piu' precisamente, la corrispondenza tra inquadramento ad un certo livello retributivo (e di professionalita'), mansioni proprie del livello e oggetto concreto della prestazione lavorativa nell'ambito dell'organizzazione in cui egli e' incardinato. Pertanto, fuori dai casi or ora mentovati e coerenti con il disposto costituzionale, nessun'altra possibilita' lecita (ma si potrebbe dire, di comune buon senso) esiste nell'attribuire a chicchessia un livello di professionalita' piu' alto di quello che la sua cultura e la sua formazione lavorativa potrebbero dargli, che, in caso contrario, tale dipendente dovrebbe essere obbligato a fare quanto la nuova qualifica gli impone, con obbligo per la p.a. di risolvere il rapporto laddove egli non se ne mostri capace. Tale conclusione appare ineludibile agli occhi del Collegio, in quanto in ogni caso e' preminente l'interesse pubblico sotteso dal combinato disposto dei commi primo e terzo dell'art. 97 della Costituzione su ogni forma anomala e/o fattuale di costituzione del rapporto di pubblico impiego o di ribellione all'art. 56 del d.lgs. n. 29/1993. Da una parte, riconducibile al valore costituzionale del "buon andamento", v'e' l'interesse delle amministrazioni di provvedersi di impiegati solo attraverso le proce- dure concorsuali, o forme equipollenti, mediante cui l'idoneita' all'impiego venga accertata con procedure formali ed aperte ad un'indefinita pluralita' di concorrenti, dalle quali, in base ad una graduatoria, possano essere avviati al lavoro i soggetti presumibilmente piu' idonei, capaci e meritevoli. Dall'altra parte, riconducibile al valore dell'"imparzialita'", v'e' l'interesse di tutti coloro i quali (dipendenti o esterni), possedendo i prescritti requisiti e titoli, sono i potenziali candidati alla selezione per il livello di professionalita' reclutando, che possono, cosi', parteciparvi in condizioni di parita', senza dover sottostare a/o senza dover sollecitare pratiche clientelari, oppure mendicare protezioni politiche. Inoltre, se e' principio costituzionale che i pubblici uffici siano organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialita' della p.a., e' percio' necessario affermare l'attuazione del valore costituzionale dell'eguaglianza nell'ambito del lavoro subordinato pubblico, valore che costituisce il cardine del relativo ordinamento come, da ultimo, regolato dal d.lgs. n. 29/1993, il quale, a sua volta, e' il momento di collegamento tra struttura e funzione. Oltre che ad obbedire ad obbiettive esigenze di perequazione, il principio d'eguaglianza mira a prevenire e/o ad eliminare, nella disciplina del lavoro subordinato pubblico, posizioni soggettive differenziate (a parita' di situazioni giuridicamente prottette o regolate), suscettibili di determinare rendite a favore di alcuni, piuttosto che di altri dipendenti, oppure di influire negativamente sul rendimento complessivo dei dipendenti dell'ente locale (a causa d'un inquadramento a posizioni di lavoro superiori e, percio', non sostenibili dalla professionalita', dall'esperienza e dal livello culturale dell'interessato). Non e' chi non veda come una siffatta - e improvvida - scelta, ossia come il mantenere comunque posizioni di lavoro immeritate, non solo determini situazioni sperequative nocive nell'ambiente di lavoro, ma soprattutto si riverberi negativamente sulla capacita' di rendimento dell'ente, a detrimento di tutta la collettivita'. 6. - Insegna la Corte costituzionale, nella dianzi citata sentenza n. 459/1994 che non e' fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge 21 febbraio 1989, n. 63, per irragionevolezza in relazione all'art. 97 della Costituzione, perche' tale norma si proponeva d'attribuire stabilita' agli assetti organizzativi delle strutture delle Universita' della Repubblica, considerando ormai irreversibili, a distanza di anni, gli effetti dei provvedimenti d'inquadramento del personale adottati a' sensi dell'art. 85 della legge n. 312/1980, all'evidente scopo d'evitare la caducazione di provvedirmenti in base ai quali e' stato comunque garantito lo svolgimento della funzione pubblica. Giova, pero', osservare che il predetto art. 2 dispone il mantenimento dell'efficacia dei provvedimenti d'inquadramento nelle qualifiche funzionali e nei relativi profili professionali del personale amministrativo delle universita' originariamente adottati, con conseguente inefficacia di altri e/o eventuali provvedimenti, anche successivi, tranne che non abbiano gia' prodotto effetti piu' favorevoli ai dipendenti. La dizione della norma, il cui contenuto non e' omogeneo, anzi, e' di gran lunga piu' sommesso rispetto a quello dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, giustifica, ad avviso del Collegio, il rigetto della predetta questione, atteso che proprio l'osservanza del principio del buon andamento rende prevalente nella comparazione degli interessi, il mantenimento degli effetti ormai consolidatisi nel tempo, con il sicuro vantaggio d'un servizio garantito, rispetto all'eventuale recupero della pura regolarita' formale degli inquadramenti. La norma in parola ha una sua valenza del tutto straordinaria ed eccezionale (in tal senso, cfr., da ultimo, Corte conti, sez. contr., 26 aprile 1993, n. 66), considerato, peraltro, che l'inquadramento ex art. 2 della legge n. 63/1989 si basa sulle mansioni superiori effettivamente e stabilmente svolte (t.a.r. Bologna, II, 18 marzo 1993, n. 97) e fermo restando che esso non ha efficacia retroattiva (Corte cost., 27 maggio 1992, n. 236; t.a.r. Veneto, I, 8 ottobre 1991, n. 883), con effetti non deteriori per il pubblico erario. Inoltre, la piu' parte delle Universita' della Repubblica, appunto in relazione alla rilevanza dell'attivita' lavorativa effettivamente prestata dai singoli addetti in un ambito assai delicato ed in continua trasformazione qual e' quello universitario - la cui organizzazione e' condizionata, tra l'altro, dalle necessita' della ricerca scientifica e dalle esigenze (e dal numero) dei discenti -, provvide opportunamente ad assumere le misure organizzatorie piu' acconce all'esatta valutazione, anche comparativa, delle singole posizioni di lavoro, di talche', in questo caso, tecnicamente non si sarebbe mai potuto parlare di "riconoscimento" di mansioni superiori svolte di fatto, quanto, piuttosto, d'inquadramento del personale secondo la sua esperienza e professionalita' maturate. D'altronde, lo stesso art. 1 della legge n. 63/1989 stabiliva, nei riguardi del personale tecnico ed amministrativo delle Universita' della Repubblica (e di altre amministrazioni), che i dipendenti possono produrre istanza di (re)inquadramento per il profilo professionale per cui essi ritengono d'aver titolo sulla base del lavoro svolto, anche a prescindere dal possesso del titolo di studio richiesto per l'accesso a detto profilo. E cio' implica un accertamento, di tipo costitutivo, da parte del consiglio d'amministrazione dell'Universita' sulla congruenza tra le mansioni espletate ed il profilo preteso, merce' l'espletamento d'una prova idoneativa diretta ad accertare la formazione culturale e la specifica esperienza lavorativa. Tutto cio' non esiste ne' nella legge n. 93/1983, ne' nel d.P.R. n. 347/1983, ne' tampoco nel d.lgs. n. 29/1993: insomma, cio' che qui rileva non e' la discrezionalita' organizzatoria del legislatore in ordine alla strutturazione del lavoro subordinato pubblico, bensi', in realta', l'uso strumentale di tale discrezionalita' per il raggiungimento di fini irrazionali e sperequativi. L'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, invece, non tende a risolvere alcunche' di tutto cio' e possiede un rigore logico-giuridico ben inferiore alla legge n. 63/1989, in quanto, sebbene sia intervenuto formalmente undici anni dopo l'entrata in vigore del d.P.R. n. 347/1983, in realta' non puo' certo regolare quell'ampio ventaglio di situazioni pregresse ed ormai fattualmente stabilizzate per il lungo decorso del tempo. Sebbene, e' ovvio, non tutti gli inquadramenti illegittimi del personale degli enti locali siano stati soggetti al controllo del giudice contabile o amministrativo, essi hanno purtuttavia determinato reazioni da parte o degli organi regionali di controllo, o degli stessi enti locali datori di lavoro, o delle pronunce giurisdizionali, le quali mai, come in soggetta materia, sono state compattamente rivolte a denegare le pretese di maggior inquadramento. In parole semplici, l'efficacia di questi ultimi non solo e' sempre stata precaria, ogniqualvolta essa sia stata attratta nell'orbita d'uno dei predetti controlli; ma soprattutto non ha avuto mai modo di stabilizzarsi realmente e per lungo tempo, a causa soprattutto dei lunghi ritardi con cui gli enti datori di lavoro hanno dato applicazione al d.P.R. n. 347/1983, non considerando i tempi dei controlli e delle liti. Anzi, si puo' tranquillamente affermare che solo la piu' parte di queste ultime e' intervenuta da gran tempo alla data d'entrata in vigore della novella alla legge n. 537/1993, per cui, se del caso, la stabilizzazione concerne la cosa giudicata sfavorevole agli inquadramenti illegittimi. E poiche' la richiesta di maggior inquadramento s'e' rivelata inattuabile, o precaria, o destituita di fondamento - e, percio', e' rimasta praticamente inefficace verso coloro i quali la pretendevano -, di regola non ha dato luogo ad alcuna diversa e maggiore prestazione di lavoro, ne' all'accertamento fattuale d'una maggior (rispetto alla qualifica) professionalita', fermo restando che non consta al Collegio l'esistenza, neppure in sede di contrattazioni atipiche con le organizzazioni sindacali, di formule organizzatorie tendenti ad accertare con serieta' le mansioni superiori, secondo metodologie analoghe a quelle teste' accennate in ambito universitario. Inoltre, la questione problematica, pur presente perlomeno gia' in sede di formazione del c.c.n.l. del personale degli enti locali poi approvato con il d.P.R. 3 agosto 1990, n. 333, non venne affrontata in quella sede e, anzi, fu risolta dalla legge 23 ottobre 1992, n. 421 e dal d.lgs. n. 29/1993 in senso diametralmente opposto a quello qui censurato. Ne' sfugge all'attenzione di chiunque come, nella piu' parte dei casi, le mansioni c.d. "superiori", in virtu' delle quali i dipendenti interessati hanno preteso il maggior inquadramento, non siano altro che l'espletamento mero del contenuto proprio del profilo e delle qualifiche funzionali spettanti in relazione alla loro professionalita' ed al loro livello culturale. Da cio' discende che quella, dell'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, e' una situazione esattamente opposta a quella cui faceva riferimento l'art. 2 della legge n. 63/1989: la norma censurata non solo non darebbe stabilizzazione formale a situazioni illegittime, seppur sussistenti e come tali seriamente accertate secondo scelte autoorganizzative della p.a. datrice di lavoro; ma addirittura contrasterebbe ed annullerebbe i nuovi provvedimenti di diniego o di revoca degli inquadramenti illegittimi, facendo vivere o rivivere ex novo questi ultimi, ancorche' ormai da tempo abbandonati dalla p.a. stessa. D'altronde, se l'intendimento della norma censurata fosse stato veramente quello di stabilizzare le situazioni illegittime ormai convalescenti per il lungo tempo decorso, la legge sarebbe stata un mezzo di gran lunga sovradimensionato alla bisogna, poiche', per costante e fermissima giurisprudenza (si potrebbe dire, per diritto vivente), l'eliminazione in autotutela di atti illegittimi da gran lungo tempo efficaci, se non addirittura esauriti, resta subordinata al serio e congruamente motivato accertamento di un interesse pubblico specifico, concreto ed attuale, diverso dal mero riprostino della legalita' violata. Se poi, fosse stata intenzione del legislatore creare una causa di giustificazione ex lege quale scriminante di responsabilita', per il danno erariale derivante dagli inquadramenti illegittimi, allora sarebbe bastata una norma che, senza modificare il modello legale dell'inquadramento del personale degli enti locali ex d.P.R. n. 347/1983 o rimettere in discussione i giudicati negativi gia' emanati, dichiarasse estinti i procedimenti di responsabilita' - eventualmente esclusi quelli discendenti da reati -, in relazione anche ai problemi interpretativi sorti in sede di prima applicazione dell'art. 40 dello stesso decreto n. 347. Nell'un caso, come nell'altro, l'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993 si mostra a guisa d'irragionevole privilegium, che, in violazione all'art.3 della Costituzione, si prefigge di salvare inquadramenti illegittimi (quando non illeciti) e d'elidere le conseguenti responsabilita', senza, pero', modificare al contempo i principi regolatori del lavoro subordinato pubblico, ne' tampoco lo stesso giudizio di disvalore che, in altri campi della medesima materia, e' formulato avverso gli inquadramenti illegittimi. 7. - Ritiene il Collegio che la norma del ripetuto art. 3, comma 6-bis, della legge n. 537/1993 vada censurata anche sotto il profilo della violazione degli artt. 24 e 25, primo comma, della Costituzione. Osserva, anzitutto, il Collegio che l'effetto estintivo dei procedimenti giurisdizionali in corso sugli inquadramenti illegittimi depriva di fatto il convenuto comune di Acireale, in particolare e, piu' in generale, le amministrazioni interessate - siano esse le datrici di lavoro, oppure gli organi di controllo - d'ogni argomento di difesa e/o di resistenza avverso i provvedimenti d'inquadramento, indipendentemente dall'eventuale loro abnormita', con cio' determinandone la violazione del relativo diritto, in questo come in altri giudizi. Ma la paradossalita' della norma censurata e' cosi' evidente che, nella sua formulazione, elide in radice in chiunque la possibilita' d'adire il (o d'eccepire innanzi al) proprio giudice naturale, pure nel caso in cui la p.a. datrice di lavoro avesse stabilito un inquadramento inferiore o del tutto irrazionale, purche' in difformita' all'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983. E' proprio l'argumentum a contrariis, ossia non gia' la mera violazione del diritto di difesa delle predette amministrazioni anche per i giudizi in corso (se non anche per quelli ormai definiti), ma soprattutto l'impossibilita' di difesa pratica e giuridica anche in capo al dipendente avverso i provvedimenti "sanati" dalla norma censurata, a confortare il Collegio nel suo giudizio di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale nei riguardi d'una norma, che, estinguendo la lesivita' degli atti illegittimi, svuota la tutela della posizione giuridica soggettiva dei soggetti destinatari (privato, o, a seconda dei casi, p.a.) degli effetti negativi degli atti stessi. Osserva altresi' il Collegio che tale effetto estintivo non concerne soltanto la posizione delle parti nel presente, o in analoghi giudizi, ne' tampoco la loro situazione sostanziale fatta valere in via d'azione o d'eccezione; ma si riverbera anche sulla stessa precostituzione di questo Tribunale amministrativo, giudice naturale della presente lite, e del giudice amministrativo nell'esercizio della sua competenza esclusiva in materia di pubblico impiego, negli ovvi limiti di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 29/1993. Infatti, l'art. 25, primo comma, della Costituzione possiede una doppia valenza garantistica, tanto a favore delle parti (merce' l'assicurazione della precostituzione dell'organo giudicante e dell'immodificabilita' ex post della competenza, al fine di rendere effettiva l'obiettivita' e l'imparzialita' del giudizio), quanto nei riguardi dello stesso giudice (merce l'impossibilita' di sottrargli la causa innanzi a lui instaurata secundum jus). E' ben noto il fermissimo orientamento della Corte costituzionale, teso a denegare alla legge retroattiva sulla competenza del giudice, la quale in linea di principio non e' ex se censurabile, di fissare deroghe in vista di una o piu' determinate e specifiche controversie, a differenza dell'ipotesi, non ravvisabile nella specie, in cui venga fissato una nuova ed organica disciplina della materia devoluta alla competenza di questo giudice. Insomma, esiste un unico filo conduttore che lega, per evidente omogeneita' logico-giuridica, il principio d'eguaglianza con il diritto di difesa e le norme sul regolare svolgimento del processo, in modo che alla legge ordinaria sia inibito di porre, come nella specie, eccezioni radicali e non razionali alle regole sulla girisdizione e/o la competenza di questo (come d'ogni altro) giudice. Non sfugge al Collegio che vi possano essere ragionevoli motivi di contemperamento dei valori teste' accennati con l'esigenza, non meno rilevante, della continuita' e della prontezza dell'azione amministrativa, ma nella specie la norma censurata, che ha natura di legge-provvedimento (e, quindi, e' sostanzialmente priva delle caratteristiche di generalita' ed astrattezza) tenderebbe proprio a spezzettare e ad ingolfare la funzionalita' della p.a., determinando al contempo una variazione (vera e propria lex in privos lata) della capacita' di questo giudice di conoscere delle liti sugli inquadramenti, a differenza di cio' che accade nei comparti del pubblico impiego diverso dagli enti locali. In cio' risiede, peraltro, la violazione dell'art. 113 della Costituzione, nella misura in cui la norma censurata esclude la tutela, in capo a chi comunque e' stato pretermesso da un inquadramento illegittimo nelle proprie situazioni giuridiche soggettive d'interesse legittimo. Non e' chi non veda come la formulazione della predetta norma, nel determinare la legittimita' (validita') dei provvedimenti d'inquadramento, ha escluso in radice che colui, il quale abbia a dolersene, non possa trovare alcuna forma di giustizia amministrativa od ordinaria. E cio' per l'evidente ragione che la norma stessa non discrimina gli effetti del "condono" da essa recato, cioe' tra quelli che intendono sanare situazioni pregresse e quelle che, invece, chiudono sic et simpliciter le controversie con gli enti locali datori di lavoro, ancorche' producano risultati deteriori in capo ai dipendente. 8. - Osserva il Collegio che la norma censurata si pone in contrasto anche con l'art. 77, secondo comma, della Costituzione. Invero, il suo oggetto, pur se latamente inerente alla finanza lo- cale - non foss'altro per gli effetti deteriori che implica nei conti pubblici delle autonomie locali -, non ha nulla a che vedere con il contenuto precipuo del d.-l. n. 515/1994, che il Governo emano' affermandone la straordinaria necessita' ed urgenza e per il quale esso impegno' la propria responsabilita', fermo restando che su tali dati le Camere riconobbero la sussistenza dei presupposti di costituzionalita'. Ora, e' ben noto che, per prassi costituzionale ormai consolidata, le Camere hanno considerato il disegno di legge di conversione d'un decreto-legge come una qualunque iniziativa legislativa, da loro liberamente modificabile, indipendentemente da (e senza conseguenzialita' con) cio' che, per straordinari motivi di necessita' e urgenza, ha formato oggetto, da parte del Governo, del provvedimento provvisorio con forza di legge. Tuttavia, l'inserzione forzata in un decreto legge di novelle estemporanee, ossia non legate all'oggetto, costituisce un uso non soltanto impropri o d'una sedes materiae altrettanto impropria o inopportuna, ma soprattutto strumentale del procedimento d'urgenza, stabilito dai regolamenti per i decreti-legge, per materie o fattispecie per le quali i regolamenti potrebbero non prevedere procedure abbreviate o sottoporle ad apposite deliberazioni. In altri termini - e a parte ogni censura sulla ragionevolezza dei decreti-legge c.d. omnibus, o cosi' trasformati in sede di conversione -, nella specie i parlamentari proponenti hanno strumentalmente utilizzato la procedura d'urgenza specificamente dettate dalla Costituzione e dai regolamenti per la conversione del d.-l. n. 515/1994, allo scopo di far deliberare le Camere su una questione che, sotto il profilo procedimentale, sarebbe meglio dovuta essere anzitutto consacrata in un'apposita iniziativa e quindi sottoposta alla procedura all'uopo stabilita per i disegni o progetti di legge ordinari. La circostanza che, poi, una siffatta iniziativa abbia avuto il voto conforme delle Camere, nulla aggiunge o toglie alla censurabilita' dell'uso inaccettabile che, nella spe- cie, e' stato fatto della procedura di conversione del decreto n. 515, posto che la discrezionalita' del legislatore ordinario, contrariamente al comune sentire circa siffatta locuzione, non puo' spingersi, aldila' dell'oggetto (anch'esso ex se censurabile), fino all'utilizzazione fungibile di procedure diverse e funzionalmente rivolte a scopi non omogenei. Diversamente argomentando, si dovrebbe concludere nel senso che l'attivita' legislativa, che di regola non e' costituente (se non nelle forme e nei limiti ex art. 138 della Costituzione), bensi' e' costituita - e, percio', e' soggetta alle forme sostanziali previste dalla Costituzione -, possa concretare un abuso del diritto d'iniziativa ex art. 71, primo comma, della Costituzione, nel senso d'ammettere quest'ultima anche per ottenere vantaggi altrimenti non perseguibili con le procedure ordinarie, segnatamente per cio' che attiene al reperimento delle nuove e maggiori risorse occorrenti alla relativa copertura. La questione, come si vede, non consiste punto nella limitazione del potere d'emendabilita' dei decreti-legge, la quale in linea di principio non potrebbe essere modificata se non attraverso una revisione costituzionale. La vicenda concerne, piuttosto, l'osservazione per cui l'emendabilita' stessa non appare sorretta da dati testuali omogenei e perspicui - tranne che per tali non si vogliano considerare la prassi ed una dottrina, invero non prevalente - che le consentano disvincolarsi assolutamente tanto dalla procedura, quanto dal senso e/o dall'oggetto recato dal decreto-legge. 9. - Risulta violato dall'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, ad avviso del Collegio, anche l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, nella misura in cui l'effetto "condonatorio" recato dalla norma censurata non e' sorretto da alcuna previsione sulla copertura finanziaria dei maggiori oneri che esso implica. Anzi, siffatta copertura, nella specie, non solo non e' stata considerata dai lavori parlamentari, ma e' stata deliberatamente omessa, nella considerazione (cfr. Senato della Repubblica, 68 resoconto delle Commissioni permanenti, 19 ottobre 1994, pag. 44) che l'emendamento, che recava la norma censurata, non comportasse oneri aggiuntivi. Giova al riguardo far presente che l'obbligo di copertura non e' stato rispettato nella specie, in sede di conversione del d.-l. n. 515/1994, posto che le Camere sono partite dall'indimostrato e rigido presupposto che la norma censurata fesse a costo zero per l'erario pubblico, pur se essa definisce ineluttabilmente illegittime posizioni di lavoro maggiori (e, quindi, suscettibili di piu' alte retribuzioni) anche contro la volonta' dell'ente datore di lavoro e, percio', vale a dire anche senza la previsione di bilancio del le maggiori spese. Gia' solo quest'osservazione, la quale discende dalla circostanza che in molti casi, la norma censurata determinerebbe la reviviscenza di inquadramenti illegittimi (come nella specie), dimostra come il presupposto teste' accennato fosse manifestamente infondato. E tale nocivo risultato s'e' evidenziato, atteso che il legislatore, nell'innegabile fretta d'approvare la norma "condonatoria" censurata, non s'e' evidentemente reso conto del relativo effetto finanziario a cascata sui bilanci degli enti locali, pure su quelli di enti che, rigettando le pretese dei propri dipendenti e revisionandone le posizioni di lavoro, oppure conformandosi alle decisioni giustiziali o degli organi tutori, nulla avevano a tal proposito stanziato o previsto. Cio' implica l'aggravio dei costi di personale a carico degli enti locali, ancorche' dissestati o strutturalmente deficitari ex art. 45, comma 2, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, giusta quanto stabilito dallo stesso art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993. Non foss'altro per questa ragione, appare evidente come l'affermazione, nei lavori parlamentari, che la norma censurata non implicasse nuove o maggiori spese s'appalesa come una mera petizione di principio, del tutto irrealistica, nella misura in cui il legislatore, per primo, non ha reso espliciti (oggi si direbbe: "trasparenti") i parametri di riferimento attraverso cui s'e' pervenuto a quantificare gli oneri (o, nella specie, i mancati oneri) finanziari. E' ben vero che non vi sarebbe stata elusione o violazione del citato art. 81, quarto comma, della Costituzione, qualora il d.-l. n. 515/1994 avesse rinviato al bilancio per l'anno 1995, ai fini della copertura; ma e' altrettanto indubbio che una tale scelta e' stata del tutto disattesa, perche' il legislatore s'era pervicacemente (e fallacemente) convinto dell'insussistenza di nuovi o maggiori oneri a carico degli enti locali datori di lavoro. L'ovvia conclusione di cio' consiste nel fatto che il personale, che gode della norma censurata, resterebbe intatto da ogni questione sulla ristrutturazione delle piante organiche e sull'eventuale mobilita' dei dipendenti eccedentari di cui al combinato disposto dell'art. 25, comma 5, del d.-l. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144 e degli artt. 16- bis e 21, comma 4, del d.-l. 18 gennaio 1993, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 marzo 1993, n. 68, con le ovvie eccezioni ed agevolazioni di cui al combinato disposto dell'art. 3 del d.-l. 9 dicembre 1994, n. 676 e dell'art. 22, commi 11 (per gli enti "normali") e 14 (per gli enti dissestati che hanno ottenuto l'approvazione della pianta organica, del piano di risanamento e del bilancio riequilibrato) della legge 23 dicembre 1994, n. 724. Tanto a differenza, ad avviso del Collegio, del restante personale - specie se di anzianita' di ruolo inferiore a quella dei dipendenti destinatari degli inquadramenti illegittimi - che rimarrebbe invece coinvolto nei procedimenti teste' accennati, a causa delle minori disponibilita' finanziarie in capo agli enti datori di lavoro, con ulteriore evidenziazione della loro posizione illegittimamente deteriore rispetto ai soggetti beneficiari della norma censurata. 10. - In definitiva, ritiene il Collegio che ricorrano nella spe- cie i presupposti per la rimessione degli atti della presente causa alla Corte costituzionale, essendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sull'art. 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993. Va, percio', disposta la sospensione del presente giudizio cautelare e la trasmissione degli atti stessi alla Corte costituzionale, ai fini della risoluzione della sopra prospettata questione di costituzionalita'.