IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  sul  ricorso  n.  1153/1994,
 proposto  dai  signori  Salvatore  Bella,  Giuseppe  Longo,  Antonino
 Messina, Cirino Sorace, Vincenzo Leotta Anastasi, Gaetano Sorbello  e
 Salvatore  Grasso,  tutti  rappresentati  e  difesi  dal  prof.  Enzo
 Silvestri e dall'avv. Stefano Massimino e domiciliati  per  legge  in
 Catania,  presso  la  segreteria  di  questo tribunale amministrativo
 regionale, contro il comune di Acireale, in persona del sig.  sindaco
 pro-tempore,   rappresentato  e  difeso  dal  prof.  Michele  Ali'  e
 dall'avv.  Gaetano  Grasso  Romeo  ed  elettivamente  domiciliato  in
 Catania,   alla  via  Crociferi  n.  60,  per  l'annullamento  previa
 sospensione, della deliberazione della giunta municipale di  Acireale
 n.  1146  del  14  ottobre 1993, con la quale sono stati annullati in
 autotutela  i  provvedimenti  d'inquadramento  dei  ricorrenti  nella
 qualifica  di  "Vicebrigadiere  dei  VV.UU." ex art. 40 del d.P.R. 25
 giugno 1983, n. 347; nonche' d'ogni altro atto presupposto,  connesso
 o   conseguenziale,   ivi  compresa  la  deliberazione  della  giunta
 municipale di Acireale n. 571 del 7 giugno 1993;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione nel presente  giudizio  dell'intimata
 amministrazione comunale datrice di lavoro;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Relatore  alla  camera  di  consiglio  del  15  dicembre  1994  il
 consigliere dott. Silvestro Maria  Russo  e  uditi  altresi',  per  i
 ricorrenti,  l'avv.  Massimino e, per il comune di Acireale, il prof.
 Ali';
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                               F A T T O
    1. - Gli odierni ricorrenti, tutti dipendenti del convenuto comune
 di  Acireale  ed  appartenenti  al  locale  Corpo  dei VV.UU., furono
 inquadrati, a' sensi dell'art. 40 del d.P.R. 25 giugno 1983, n.  347,
 nella qualifica di "Vicebrigadiere dei VV.UU." (sesta q.f.), in forza
 delle  deliberazioni  della giunta municipale nn. 21, 23, 24, 25, 27,
 26 e, rispettivamente 29 del 4 gennaio 1989.
    Nondimeno, con sentenza n. 37/1992 del 10 marzo 1992 - e pervenuta
 in copia dalla segreteria per l'esecuzione, in data 8 luglio 1992  -,
 la  Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana
 condanno' alcuni
  ex-amministratori comunali, in solido  tra  loro,  al  pagamento,  a
 favore  dello  stesso  comune di Acireale, delle somme cola' indicate
 per il danno derivante dall'adozione delle citate deliberazioni ed in
 violazione dell'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983, per aver riconosciuto
 agli odierni ricorrenti un  inquadramento  superiore  a  quello  loro
 giuridicamente  spettante,  in relazione a pretese mansioni superiori
 da loro stessi effettuate. In relazione  a  cio'  e  dietro  conforme
 parere dei legali dell'ente in ordine alla necessita' di restituire i
 ricorrenti ala qualifica funzionale in effetti loro spettante, veniva
 emanata  l'impugnata deliberazione giuntale n. 571 del 7 giugno 1993,
 con la quale, prendendo atto della citata sentenza  della  Corte  dei
 conti,  il  comune  convenuto iniziava il procedimento amministrativo
 per  l'annullamento  in  autotutela  delle   predette   deliberazioni
 giuntali  del 1989, dandone formale comunicazione agli interessati a'
 sensi degli artt. 7 e  8  della  legge  7  agosto  1990,  n.  241.  I
 ricorrenti,  con  nota  prot. n. 17734 del 14 luglio 1993, produssero
 alla p.a. procedente un'unica memoria difensiva della loro  posizione
 giuridica  e  di  lavoro,  significando, per un verso, che essi erano
 rimasti estranei nel giudizio di  responsabilita'  reso  dal  giudice
 contabile  e,  quindi,  nessuna  valenza  poteva inferirsi da esso in
 ordine agli inquadramenti; per altro verso, che la  motivazione  resa
 dalla  Corte  dei  conti  era  erronea  e, percio', non inficiava gli
 inquadramenti stessi; e, infine, l'eventuale annullamento  di  questi
 ultimi,   ben   lungi  dall'arrecare  alcun  beneficio  all'interesse
 pubblico, ne avrebbe determinato solo un grave danno, fermo  comunque
 restando  che il lungo periodo di tempo ormai trascorso aveva di gia'
 consolidato le loro posizioni di lavoro.
    Il comune intimato, con l'impugnata deliberazione giuntale n. 1146
 del 14 ottobre 1993,  statuiva  l'annullamento  in  autotutela  degli
 inquadramenti  dei  ricorrenti,  non  solo  in relazione alle vicende
 teste'   descritte   ed   alla    ormai    pacifica    giurisprudenza
 sull'illegittimita'   degli  inquadramenti  ricognitori  di  mansioni
 superiori svolte di fatto  dai  dipendenti,  ma  anche  in  relazione
 all'effetto   permanente   dannoso   sul  denaro  pubblico  derivante
 dall'eventuale mantenimento degli inquadramenti  illegittimi,  ferma,
 pero',  restando  l'insussistenza  di  altrettanto  valide ragioni di
 pubblico interesse  alla  ripetizione  delle  maggioni  somme  finora
 percette dai ricorrenti grazie al loro maggior inquadramento.
    2.  - Avverso le deliberazioni giuntali n. 571/1993 e 1146/1993, i
 ricorrenti, con gravame notificato il 28 febbraio 1994  e  depositato
 il  successivo  2  marzo,  adiscono  questo  Tribunale amministrativo
 regionale, deducendo in punto di diritto:
       A) violazione dei  principi  generali  in  materia  d'efficacia
 delle  sentenze giurisdizionali e dell'art. 40 del d.P.R. n. 347/1983
 ed  eccesso  di  potere  per  difetto  d'istruttoria,   carenza   dei
 presupposti  e per travisamento dei fatti in quanto la p.a. convenuta
 non  ha dato un autonomo apprezzamento della fattispecie - in ordine,
 cioe', alla legittimita' delle deliberazioni  d'inquadramento  -,  ma
 s'e'  limitata  a  prender atto della citata sentenza della Corte dei
 conti  -  che  solo  incidentalmente  ha  reputato   illegittime   le
 deliberazioni  stesse  -, fermo restando che, per un verso, l'oggetto
 del  giudizio  di  responsabilita'  non  era  incentrato   su   dette
 deliberazioni,  bensi' sul comportamento dannoso degli amministratori
 comunali e, per altro  verso,  che  non  sussiste  un'estensione  del
 relativo  giudicato  nei  confronti degli odierni ricorrenti, rimasti
 estranei al relativo giudizio;
       B) violazione dei principi generali  in  materia  d'autotutela,
 carenza dell'interesse pubblico e travisamento dei fatti, atteso che,
 nella  specie, non puo' ravvisarsi nel perdurante esborso di pubblico
 denaro  un  interesse  pubblico  in  re  ipsa   all'annullamento   in
 autotutela,   perche'   esso  non  e'  sine  titulo,  ma  e'  fondato
 sull'effettivita' della prestazione lavorativa, nella misura  in  cui
 la  p.a.  convenuta trae vantaggio dalla maggiore qualita' del lavoro
 prestato  dai  ricorrenti,  mentre  l'eventuale  loro   declassamento
 implicherebbe   uno   stravolgimento   della   pianta  organica,  con
 conseguente  eventuale  soprannumerarieta'  di  quei  dipendenti  che
 avevano  occupato  le posizioni lasciate libere dai ricorrenti stessi
 per effetto del loro maggior inquadramento;
       C) eccesso di potere per illogicita' ed ingiustizia  manifesta,
 per  difetto  assoluto  di  motivazione e per travisamento dei fatti,
 considerato che, con l'impugnata deliberazione, la p.a. convenuta  ha
 reputato di rimettere in discussione ogni altro inquadramento ex art.
 40  del  d.P.R.  n.  347/1983, di talche' l'atto gravato e' perlomeno
 intempestivo, perche' non ha tenuto conto dell'intera  situazione  di
 tutti  i  dipendenti  e  non  s'e'  basato  su  alcun  vero motivo di
 necessita' ed urgenza del provvedere, fermo restando che  l'eventuale
 retrocessione  dei ricorrenti non determinerebbe analoghe statuizioni
 nei  riguardi  di  altri  dipendenti  che   versino   in   situazione
 d'inquadramento illegittimo.
    Resiste  nel  presente  giudizio l'intimato comune di Acireale, il
 quale conclude per la manifesta infondatezza della  pretesa  attorea,
 anche  ai  fini  della  concessione  dell'invocata  misura cautelare,
 segnatamente considerato che non si procedette alla  ripetizione  dei
 maggiori emolumenti a suo tempo concessi ai ricorrenti.
    3.  -  La  Sezione, con propria ordinanza n. 770/1994 del 25 marzo
 1994 ha rigettato la domanda di  sospensione  cautelare  -  posta  a'
 sensi  dell'art.  21, u.c., della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, dai
 sigg. Bella e consorti in una con  il  ricorso  in  epigrafe  -,  per
 l'infondatezza  di  quest'ultimo  e  per  difetto  di  danno grave ed
 irreparabile.
    Tuttavia,  i  ricorrenti  hanno  prodotto  una  nuova  istanza  di
 sospensione cautelare, notificata in data 14 novembre 1994, intesa ad
 ottenere  la  sospensione  dei  provvedimenti impugnati, in relazione
 alla sopravvenienza dell'art. 3, comma 6- bis della legge 24 dicembre
 1993, n. 537, nel testo introdotto dall'art. 2, comma 1, del d.-l. 27
 agosto 1994, n. 515, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  28
 ottobre  1994,  n.  596,  recante provvedimenti urgenti in materia di
 finanza locale per l'anno 1994. Invero,  la  disposizione  in  parola
 stabilisce  che i provvedimenti deliberativi riguardanti il personale
 degli  enti  locali  che,  adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano
 previsto profili  professionali  od  operato  inquadramenti  in  modo
 difforme  dalle  disposizioni contenute nel d.P.R. n. 347/1983 e suc-
 cessive modificazioni ed integrazioni, sono validi  ed  efficaci;  la
 disposizione  stessa  s'applica  a  tutti  gli enti locali, ancorche'
 dissestati,  i  cui   organici,   per   effetto   dei   provvedimenti
 d'inquadramento  di  cui  sopra,  non superino i rapporti dipendenti-
 popolazione previsti dall'art. 3, comma 14, della legge n.  537/1993,
 cosi' come modificato dall'art. 2 del d.-l. n. 515/1994.    Tale  ius
 superveniens  si  rende  ex se applicabile, ad avviso dei ricorrenti,
 anche alla loro situazione, risolvendola favorevolmente (per loro) in
 punto di diritto e conferendo al contempo legittimita' agli atti  del
 loro  inquadramento.  A tale domanda s'e' opposto il convenuto comune
 di Acireale, eccependo che la norma sopravveniente non e' efficace  a
 modificare   un   assetto   di  interessi  determinato,  grazie  alla
 deliberazione giuntale n. 1146/1993, oltre un anno  prima  della  sua
 entrata  in  vigore.  Pertanto, la nuova domanda cautelare, sulla cui
 ammissibilita' nessun dubbio puo' esprimere il Collegio -  stante  la
 rilevanza  e  l'importanza del jus superveniens, tale da rimettere in
 discussione il predetto assetto di interessi -, e' stata  rimessa  al
 giudizio  del Collegio alla camera di consiglio del 15 dicembre 1994,
 nella quale i  patroni  di  parte  insistono  nelle  rispettive  tesi
 difensive e, su loro conforme richiesta, la domanda stessa e' assunta
 in  decisione  dal Collegio, a' sensi del citato art.  21 della legge
 n. 1034/1971.
    4. - Con  l'ordinanza  n.  3269/1994  del  15  dicembre  1994,  la
 Sezione, pur nella consapevolezza della sussistenza del danno grave e
 irreparabile   arrecato   ai  ricorrenti  dagli  atti  impugnati,  ha
 purtuttavia ritenuto che, essendo nelle more del giudizio intervenuto
 il citato art. 3, comma 6- bis della legge n. 537/1993, tale norma di
 "sanatoria" implica un giudizio di validita' e d'efficacia degli atti
 d'inquadramento  dei  ricorrenti  e  di  conseguente   illegittimita'
 sopravvenuta dell'impugnato annullamento in autotutela.
    Ma  la  predetta disposizione, vigente ed al contempo rilevante ai
 fini della decisione cautelare - nella  misura  in  cui  essa  e'  il
 parametro  di  legittimita'  dell'impugnata deliberazione giuntale n.
 1046/1993, per tutti gli altri  versi  legittima  -  s'appalesa  pure
 manifestamente    irretita   da   svariati   vizi   di   legittimita'
 costituzionale,  per  cui  il  Collegio  ha  deliberato  la  presente
 ordinanza  di  rimessione  alla  Corte  costituzionale.  Pertanto, la
 Sezione  ha  nuovamente  rigettato  la   questione   incidentale   di
 sospensione  dei  provvedimenti  impugnati con il ricorso in epigrafe
 per la parte diversa dalla domanda d'applicazione dell'art. 3,  comma
 6-  bis  della  legge  n. 537/1993, rinviando la trattazione inerente
 quest'ultima parte alla  prima  camera  di  consiglio  immediatamente
 successiva  all'intervenuto  giudizio  in  soggetta  materia da parte
 della Corte costituzionale  e  la  restituzione  dei  relativi  atti,
 senz'uopo  d'ulteriore  disamina  della  domanda  cautelare  prima di
 quella data, nonche' sospendendo il giudizio cautelare fino a  quella
 data stessa.
    In tal caso, la sezione non potra' procedere in tale giudizio, ne'
 tampoco  spogliarsi  della  propria  potestas  iudicandi  sulla nuova
 domanda  cautelare  posta  dai  ricorrenti,  prima   dell'incidentale
 giudizio  di  legittimita'  costituzionale  sull'art. 3, comma 6- bis
 della legge n. 537/1993.
                             D I R I T T O
    1. - Come gia' diffusamente accennato in epigrafe e nelle premesse
 in fatto, la presente controversia concerne essenzialmente l'adizione
 di questo giudice da parte degli odierni ricorrenti, tutti dipendenti
 del  convenuto comune di Acireale ed appartenenti al locale Corpo dei
 VV.UU., per l'annullamento,  previa  sospensione,  dei  provvedimenti
 comunali di revoca (rectius, d'autoannullamento) dei loro illegittimi
 inquadramenti,  a'  sensi  dell'art. 40 del d.P.R. 25 giugno 1983, n.
 347, nella qualifica di "Vicebrigadiere dei VV.UU." (quarta q.f.), in
 forza delle deliberazioni della giunta municipale nn. 21, 23, 24, 25,
 27, 26 e rispettivamente 29 del 4 gennaio 1989.
   2. - In relazione ai fatti di causa, reputa necessario il  Collegio
 sollevare  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 3,
 comma  6-  bis  della  legge  24  dicembre  1993,  n.  537,nel  testo
 introdotto  dall'art.  2,  comma 1, del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515,
 convertito, con modificazioni, dalla legge 28 ottobre 1994,  n.  596,
 recante provvedimenti urgenti in materia di finanza locale per l'anno
 1994,  di  cui  i  ricorrenti  hanno richiesto l'applicazione ai fini
 della risoluzione, a loro favorevole della nuova domanda cautelare in
 data 14 novembre 1994.  Invero, la disposizione in parola  stabilisce
 che  i provvedimenti deliberativi riguardanti il personale degli enti
 locali che, adottati prima  del  31  agosto  1993,  abbiano  previsto
 profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle
 disposizioni   contenute   nel   d.P.R.   n.  347/1983  e  successive
 modificazioni  ed  integrazioni,  sono   validi   ed   efficaci;   la
 disposizione  stessa  s'applica  a  tutti  gli enti locali, ancorche'
 dissestati,  i  cui   organici,   per   effetto   dei   provvedimenti
 d'inquadramento  di  cui  sopra,  non superino i rapporti dipendenti-
 popolazione previsti dall'art. 3, comma 14, della legge n.  537/1993,
 cosi' come modificato dall'art. 2 del d.-l. n. 515/1994.    Tale  jus
 superveniens  si  rende  ex se applicabile, ad avviso dei ricorrenti,
 anche alla loro situazione, risolvendola favorevolmente (per loro) in
 punto di diritto e conferendo al contempo legittimita' agli atti  del
 loro  inquadramento.  A tale domanda s'e' opposto il convenuto comune
 di Acireale, eccependo che la norma sopravveniente non e' efficace  a
 modificare   un   assetto   di  interessi  determinato,  grazie  alla
 deliberazione giuntale n. 1146/1993, oltre un anno  prima  della  sua
 entrata  in  vigore.  Pertanto, la nuova domanda cautelare, sulla cui
 ammissibilita' nessun dubbio puo' esprimere il Collegio -  stante  la
 rilevanza  e  l'importanza del jus superveniens, tale da rimettere in
 discussione il predetto assetto interessi  -,  e'  stata  rimessa  al
 giudizio  del Collegio alla camera di consiglio del 15 dicembre 1994,
 nella quale i  patroni  di  parte  insistono  nelle  rispettive  tesi
 difensive e, su loro conforme richiesta, la domanda stessa e' assunta
 in  decisione  dal Collegio, a' sensi del citato art.  21 della legge
 n. 1034/1971.  Con l'ordinanza n. 3269/1994 del 15 dicembre 1994,  la
 sezione  ritiene  che  la  sopravvenienza,  in corso di giudizio, del
 citato art.  3, comma 6- bis, della legge n.  537/1993,  a  guisa  di
 norma  di  "sanatoria" implica un giudizio di validita' e d'efficacia
 degli  atti  d'inquadramento  dei   ricorrenti   e   di   conseguente
 illegittimita'    sopravvenuta    dell'impugnato    annullamento   in
 autotutela. Si tratta  d'una  disposizione  vigente  ed  al  contempo
 rilevante  ai  fini  della  decisione  cautelare,  essendo appunto il
 parametro di legittimita' dell'impugnata  deliberazione  giuntale  n.
 1046/1993,  che,  pero',  s'appalesa  pure manifestamente irretita da
 svariati vizi di legittimita'  costituzionale,  tali  da  indurre  il
 Collegio  a deliberare la presente ordinanza di rimessione alla Corte
 costituzionale.  Da cio' discende la ragione per cui, pur sussistendo
 il  presupposto  del  danno  grave  e  irreparabile,  la  Sezione  ha
 nuovamente  rigettato  la  questione  incidentale  di sospensione dei
 provvedimenti impugnati con il  ricorso  in  epigrafe  per  la  parte
 diversa dalla domanda d'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis, della
 legge  n.    537/1993, rinviando la trattazione inerente quest'ultima
 parte  alla  prima  camera  di  consiglio  immediatamente  successiva
 all'intervenuto  giudizio  in  soggetta  materia da parte della Corte
 costituzionale  e  la  restituzione  dei  relativi  atti,   senz'uopo
 d'ulteriore  disamina  della  domanda cautelare prima di quella data,
 nonche' sospendendo il giudizio cautelare fino a quella data  stessa.
 Pertanto,  la  Sezione  non  potra'  procedere  in tale giudizio, ne'
 tampoco spogliarsi  della  propria  potestas  iudicandi  sulla  nuova
 domanda   cautelare  posta  dai  ricorrenti,  prima  dell'incidentale
 giudizio di legittimita' costituzionale sull'art. 3,  comma  6-  bis,
 della  legge  n.  537/l993  (cfr., per tutti, Corte cost., 12 ottobre
 1990, n. 444).
    3. - Tale jus superveniens si rende ex se applicabile,  ad  avviso
 del  Collegio, indipendentemente dalle ragioni specifiche per cui gli
 atti d'inquadramento furono disposti o per  cui  gli  stessi  vennero
 annullati   dagli   organi   tutori,  in  quanto  tali  atti  vengono
 considerati ope legis validi (ossia,  comunque  conformi  al  modello
 legale  proprio  dei  procedimenti amministrativi d'inquadramento del
 personale degli ee.ll., aldila' dell'applicazione  nella  specie  del
 d.P.R. n. 347/1983 o di altre disposizioni limitative al reclutamento
 ed  agli  inquadramenti  del  personale  stesso)  ed efficaci (ossia,
 aldila' delle regole proprie d'esecutivita' e di quelle  inerenti  ai
 loro  controlli).  Con  cio'  s'oblitera,  per l'evidente funzione di
 diritto speciale e transitorio che si  puo'  riconoscere  alla  norma
 sopravveniente,  ogni  vizio  di legittimita' che potrebbe affliggere
 gli atti de quibus, per  cui,  ogniquavolta  non  si  sia  verificata
 l'esaurimento   della   fattispecie  inerente  all'inquadramento,  la
 predetta norma esclude l'applicabilita' alla fattispecie stessa delle
 norme,  per  cosi'  dire  "ordinarie"  che  reggono  il  procedimento
 amministrativo  d'inquadramento  e,  quindi,  essa  non  puo'  essere
 disattesa da questo giudice,  ma,  anzi,  applicata  in  sostituzione
 d'ogni  altra difforme. E a tale risultato si perviene anche nel caso
 in cui, come nella  specie,  l'inquadramento  illegittimo  sia  stato
 eliminato  da un atto d'autotutela tempestivamente impugnato, perche'
 la  norma  sopravveniente  ha  sanato  integralmente  l'inquadramento
 stesso,  rendendosi  applicabile  al  procedimento  amministrativo di
 secondo grado in autotutela non ancora definito e  determinando  allo
 stesso tempo tanto la cessazione del presupposto dell'annullamento in
 autotutela,   quanto   l'illegittimita'   sopravvenuta  del  relativo
 provvedimento.  La norma sopravveniente ben puo' definirsi a guisa di
 "condono  tombale"  degli  inquadramenti  illegittimi  (o,  comunque,
 inefficaci)  operati  fino al 31 agosto 1993, purche' non definiti in
 altro modo e con contestuale abbandono da parte della p.a. di tutti i
 giudizi inerenti all'inquadramento del personale degli enti locali e,
 ovviamente, con conseguente elisione d'ogni responsabilita' giuridica
 e  patrimoniale  in  capo  agli amministratori che hanno disposto gli
 atti sanati con il jus superveniens. L'unico presupposto  minimo  per
 l'applicazione  dell'art.  3,  comma 6- bis, della legge n. 537/1993,
 oltre   il   termine   ad   quem   dianzi   accennato,    s'individua
 nell'illegittimita'  degli  inquadramenti disposti per violazione del
 d.P.R. n. 347/1983 e delle altre norme collaterali. Gli  enti  locali
 dissestati  (e,  per assimilazione a' sensi dell'art. 2, comma 2, del
 d.-l. n. 515/l994, gli enti che hanno dichiarato il dissesto, ma  non
 hanno   ancora  ottenuto  dal  Ministero  dell'interno  l'ipotesi  di
 bilancio riequilibrato) possono godere del predetto "condono" al pari
 degli altri enti, a condizione, pero',  che  i  loro  organici,  come
 integrati  dalle  assunzioni  "condonate",  non  superino il rapporto
 medio  dipendenti-popolazione,   fissato   per   ciascuna   categoria
 demografica  di comune o provincia dall'art. 3, comma 14, della legge
 n. 537/1993, come novellato  dall'art.  2,  comma  1,  del  d.-l.  n.
 515/1994.  La  disposizione  non  e'  perspicua  e tale non immediata
 intellegibilita', che si segnala per corroborare (ove mai ve ne fosse
 ancora  bisogno)  la  non  manifesta  infondatezza  del   dubbio   di
 incostituzionalita'  del ripetuto jus superveniens per le ragioni in-
 dicate infra, non consente di verificare  se  il  beneficio  da  essa
 recato  possa  o  no  concernere  gli  enti locali dissestati, il cui
 rapporto dipendenti-popolazione sia eccedentario, ma di  cui  si  sia
 gia'  provveduto  a  disporne  la mobilita'.   Cio' premesso, deve il
 Collegio  sollevare,  d'ufficio,   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  della disposizione in parola, essendo rilevante e non
 manifestamente infondata, nei limiti e per le considerazioni  qui  di
 seguito indicati.
    4.  - Per quanto concerne la rilevanza della norma sopravveniente,
 non e' chi non veda come essa vada valutata allo  stato  degli  atti,
 ossia  nella  sua  attualita'  in  relazione  alla  domanda cautelare
 notificata dai ricorrenti il 14 novembre 1994, nonche' ai poteri  che
 a questo giudice attribuisce nel processo cautelare ex art. 21, u.c.,
 della  legge  n. 1034/1971.  E, invero, il tenore della nuova domanda
 cautelare attorea, nella sua duplice accezione di  petitum  (il  bene
 della  vita preteso, ossia la sospensione dei provvedimenti impugnati
 e meglio specificati in  epigrafe)  e  di  causa  petendi  (il  fatto
 determinativo  dell'azione:  la  lesione,  rectius, il danno grave ed
 irreparabile  che  l'esecuzione  attuale  dei  provvedimenti   stessi
 provoca  sulla  posizione  di  lavoro  e  sul prestigio personale dei
 ricorrenti), e inequivocabilmente  tutto  basato  sull'applicabilita'
 nella  specie  dell'art 3, comma 6- bis, della legge n. 537/1993, con
 assorbimento di altre censure (che  neppure  vengono  menzionate).  E
 cio'  per  l'evidente  ragione  che la citata disposizione sarebbe in
 grado, ad avviso dei ricorrenti stessi e del Collegio,  di  ribaltare
 il  giudizio  d'insussistenza  del  fumus  boni  juris (la cui totale
 assenza condiziona,  per  pacifica  giurisprudenza,  ogni  altra  e/o
 diversa  considerazione sul danno grave ed irreparabile), a suo tempo
 formulato sulla prima domanda di sospensione.  In  altri  termini,  i
 ricorrenti  reputano  ed  il  Collegio  afferma  che  la disposizione
 invocata sia l'unica rilevante per decidere  (addirittura,  in  senso
 positivo  per  la  pretesa  attorea) la sospendibilita', o meno degli
 atti impugnati: in suo difetto del quid novi individuato dal ripetuto
 art. 3, comma 6-bis, la nuova domanda cautelare del 14 novembre  1994
 sarebbe  non solo infondata, ma manifestamente improponibile.  Quanto
 all'applicabilita' che questo giudice deve fare  nella  specie  della
 disposizione  in  argomento,  essa e' fuori discussione, posto che la
 fattispecie d'inquadramento dei ricorrenti corrisponde  integralmente
 al  modello  legale  cola' individuato, fermo restando che, una volta
 tale fattispecie soggetta alla disposizione stessa, concorrerebbero i
 presupposti  per  l'accoglimento  della   domanda   cautelare.   Cio'
 s'appalesa  vieppiu' necessario nella specie, ove questo giudice, che
 dubita della costituzionalita' della norma,  non  potrebbe  risolvere
 senza di essa il presente giudizio cautelare, il quale, pur essendo a
 sommaria  cognitio,  non  per  questo  e' arbitrario o di mero fatto.
 Infatti, il citato art. 3, comma 6-bis, per la sua stessa  ratio,  ha
 recato  un  beneficio,  un  ampliamento  della  sfera  giuridica  dei
 destinatari, i quali restano, cosi', svincolati dalle rigorose regole
 d'inquadramento ex art. 40 del d.P.R. n.  347/1983.  Si  tratta  d'un
 beneficio,  che induce una sorta d'illegittimita' sopravvenuta (cfr.,
 per tutti, Cons. St., IV, 6 marzo 1989, n. 1150;  Cass.  I,  7  marzo
 1989,  n.  1231) dei provvedimenti impugnati in questa sede - a causa
 della definitiva loro incompatibilita' con la  nuova  valutazione  ex
 lege  degli  inquadramenti  stessi  -  posto che alla stregua di tale
 consolidato orientamento  giurisprudenziale  anche  nel  giudizio  di
 annullamento   o  di  legittimita'  il  giudice  amministrativo  deve
 applicare il jus superveniens vigente al  momento  in  cui  la  causa
 perviene a decisione (sia in sede di merito che nella fase cautelare)
 allorche' la normativa sopravvenuta sia retroattiva e piu' favorevole
 per  gli  interessati.  L'effetto di tale applicazione, nella specie,
 importerebbe o l'accoglimento della domanda attorea, oppure,  secondo
 un'altra   scuola   di   pensiero   presente  in  giurisprudenza,  la
 declaratoria, sostanzialmente satisfattoria,  d'improcedibilita'  per
 sopravvenuta  carenza  d'interesse  (avendo la legge sostituito ex se
 l'assetto di interessi,  dapprima  spettante  agli  atti  impugnati):
 nell'uno  come  nell'altro caso, il risultato sarebbe un ribaltamento
 dell'esito reso a suo tempo dalla Sezione con l'ordinanza n. 770/1994
 e perverrebbe al sostanziale soddisfacimento della pretesa  cautelare
 attorea.  Ora, ritiene il Collegio che, in assenza della citata norma
 sopravveniente,  il  ricorso  in  epigrafe  e  la  domanda  cautelare
 proposta non sfuggirebbero ad un giudizio di manifesta  infondatezza,
 in  applicazione  dell'ormai pacifica giurisprudenza sull'art. 40 del
 d.P.R. n. 347/1983, che esclude ogni giuridica rilevanza, ai fini del
 corretto e legittimo inquadramento  del  personale  dipendente  degli
 enti  locali, delle mansioni superiori svolte di fatto (tra cui vanno
 comprese quelle inutili all'attivita' dell'ente,  quelle  illecite  e
 quelle   invito  domino)  da  detti  dipendenti;  e  che,  viceversa,
 l'applicazione della norma stessa determinerebbe un giudizio  affatto
 diverso,  fermo,  pero',  restando che detta norma appare irretita da
 numerosi vizi d'incostituzionalita', che non consentono  al  Collegio
 di  prestarvi  la  doverosa applicazione con siffatta consapevolezza,
 per  cui  occorre  sollevarne  d'ufficio  la  relativa  questione  di
 legittimita'.  Non  sfugge al Collegio che, nella specie, il giudizio
 cautelare amministrativo  non  e'  che  una  mera  anticipazione  del
 giudizio sul merito della controversia, la quale, pur essendo assunta
 nell'ambito  della  giurisdizione  esclusiva  in  materia di pubblico
 impiego, afferisce a provvedimenti autoritativi innanzi ai quali  non
 si   possono   configurare   che  situazioni  soggettive  d'interesse
 legittimo,  per  cui  e' dubbio che questo giudice possa direttamente
 conoscere  del  rapporto  giuridico  sottostante   ai   provvedimenti
 impugnati.    Nondimeno,   nella   specie,   la   controversia,   pur
 manifestandosi  comunque  in  forma  di  pretesa,  ha   per   oggetto
 essenziale   la   tutela   di   interessi   oppositivi,   di  talche'
 l'applicazione dell'art. 3, comma 6- bis,  della  legge  n.  537/1993
 darebbe  luogo  al  soddisfacimento dell'interesse attoreo, senz'uopo
 d'ulteriore attivita' (neppure interianale) di riemanzione  da  parte
 della  p.a.    convenuta,  la  quale si vedrebbe cosi' confermati ope
 legis gli  inquadramenti  dei  sigg.  Bella  e  consorti,  a  disdoro
 dell'esborso  maggiore di pubblico denaro e delle posizioni di lavoro
 degli altri dipendenti comunali. Non puo', percio', il  Collegio  non
 darsi carico della presente questione di legittimita' costituzionale,
 essendo   nella   specie   prevedibile   non   solo   la   necessita'
 dell'applicazione del ripetuto art. 3, comma 6- bis, della  legge  n.
 537/1993,  ma addirittura che quest'ultimo diventi la fonte normativa
 dell'assetto di interessi favorevole ai ricorrenti.
    5. - La questione de qua s'appalesa, ad avviso del  Collegio,  non
 manifestamente  infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 77, 81,
 97 e 113 della Costituzione,  che  sono  immediatamente  violati  dal
 tenore  e  dagli  effetti  dell'art.  3,  comma 6-bis, della legge n.
 537/1993.  A parte cio', non puo'  fin  d'ora  il  Collegio  esimersi
 dall'osservare che la predetta disposizione esprima un caso esemplare
 di  sviamento  della funzione legislativa e cio' per due distinte, ma
 collegate  ragioni.  Nel  definire  "validi  ed  efficaci"  gli  atti
 d'inquadramento  ex art. 40 del d.P.R. n. 347/1983 purchessiano - non
 importa,  cioe',  se  attuali  o  risalenti,  impugnati  o  definiti,
 annullati  o  revocati,  sub  judice  o gia' decisi, con efficacia di
 giudicato, oppure no -, in realta' da' a tali atti una qualificazione
 definitiva,  sostanzialmente  pari  alla  legge,  che  li  sottrae  a
 qualsivoglia  controllo,  della  giurisdizione ordinaria (quanto agli
 eventuali reati loro sottesi, oppure  a  responsabilita'  civili  per
 danno  da  loro provocate), contabile ed amministrativa, ciascuno nel
 proprio ambito. Ne' basta: la disposizione in parola e' stata emanata
 in un contesto normativo estemporaneo ed estraneo (la  legge  per  la
 finanza  locale  per  l'anno  1994), all'evidente scopo d'influire su
 tutti i giudizi ancora pendenti in soggetta materia - quale quello di
 specie  -,  parecchi  dei  quali  ancora  si  trascinano   grazie   a
 compiacenti  ritardi con cui molti comuni hanno applicato il ripetuto
 decreto n. 347 e ad attivita' defatigatorie di molti  dipendenti,  ad
 onta  della  copiosissima  e  fermissima  giurisprudenza  del giudice
 amministrativo sulla irrilevanza giuridica  alle  mansioni  superiori
 svolte  di  fatto, ai fini dell'attribuzione della relativa qualifica
 (ferma restando, com'e' noto, la loro  eventuale  rilevanza  ai  fini
 meramente  conomici, ai sensi e per gli effetti dell'art. 57, secondo
 comma, del d.P.R. 3 febbraio 1993, n. 29, e dell'art. 2126 del c.c.).
 Non sfugge al Collegio remittente che, nella  specie,  non  si  possa
 parlare,  secondo  canoni  di  logica  formale,  di  vera  e  propria
 "irragionevolezza", perche' il fine cui il legislatore tende  e'  fin
 troppo   ben  comprensibile,  essendo  appunto  rivolto  a  ribaltare
 l'interpretazione corrente dell'art. 40 del  d.P.R.  n.  347/1983  da
 parte  dei giudici che, ciascuno per la propria competenza, se ne son
 dovuti occupare. Ma la scelta operata dal  legislatore  e'  meramente
 arbitraria sotto il profilo giuridico, non tanto (o non solo) perche'
 essa   mira   a  sovvertire  un  certo  qual  indirizzo  ermeneutico,
 evidentemente sgradito, ancorche' ictu oculi corretto e coerente  con
 i  principi  costituzionali  dell'organizzazione amministrativa e del
 pubblico concorso quale strumento sia per  l'accesso  agli  impieghi,
 sia  per  l'accertamento del grado di professionalita' e d'attitudine
 agli impieghi stessi; ma soprattutto  perche'  il  risultato  che  si
 prefigge  si  fonda  su un valore giuridico negativo, ossia quello di
 far lucrare ai  dipendenti  (e,  di  regola,  ad  alcuni  dipendenti,
 piuttosto  che  ad  altri,  o  a  tutti)  l'ingiusto  vantaggio  d'un
 inquadramento superiore a quello da loro ritraibile in base alla loro
 preparazione   culturale   e/o   attitudinale   ed    in    relazione
 all'organizzazione della p.a. datrice di lavoro. E tale arbitrarieta'
 s'appalesa  tanto  piu'  evidente,  sol  che si pensi che, in materia
 d'organizzazione del lavoro  subordinato  pubblico,  il  legislatore,
 oltreche'  dai vincoli di ragionevolezza e dai canoni ex artt. 3 e 97
 della Costituzione, non sarebbe legato ad alcune strutture giuridico-
 organizzatorie, piuttosto che ad  altre:  ebbene,  nella  specie,  la
 norma  censurata  non  propone  un assetto che, seppur parzialmente o
 episodicamente, intende superare il sistema  degli  inquadramenti  ex
 d.P.R. n. 347/1983 (che discendono dalla legge 11 luglio 1980, n. 312
 e  dalla  legge  29  marzo  1983,  n.  93),  proponendone  una  forma
 alternativa, ma si limita soltanto ad elidere  l'antigiuridicita'  di
 inquadramenti  che  ontologicamente  restano  pur sempre illegittimi,
 oltreche'  forieri  di  gravi  problemi  organizzativi  nelle  piante
 organiche  degli  enti.    Di  cio'  si  ha prova, se mai ce ne fosse
 bisogno, grazie ai resoconti parlamentari, da cui ben puo'  evincersi
 che  la  finalita' perseguita non e' certo quella di non rimettere in
 discussione  inquadramenti  risalenti  (cfr.,  p.es.,  C.  cost.,  30
 dicembre  1994,  n.  459, su cui appresso).  La norma in questione e'
 stata inserita nel corso della discussione, in aula al  Senato  della
 Repubblica, del disegno di legge di conversione del d.-l. n. 515/1994
 (Atto  Senato  n.  969), dopo che gia' esso era stato approvato dalla
 Camera di deputati il 10 ottobre 1994 (Atto Camera n. 1179).  Ebbene,
 nella  seduta  del 19 ottobre 1994 - senza che di cio' vi fosse stato
 sentore nella sede referente  presso  la  VI  Commissione  permanente
 "Finanze"  (sedute  dell'11  e del 12 ottobre 1994) -, il sen. Napoli
 (Gruppo "Polo del buon governo") illustro' l'emendamento n. 2.100  il
 cui  contenuto  e'  appunto  quello  dell'art. 3, comma 6- bis, della
 legge n. 537/1993, da lui firmato insieme ai senatori  Campo  (Gruppo
 "Progressista-federativo"),  La  Russa (Gruppo "Alleanza nazionale"),
 Belloni (Gruppo "Polo del buon governo"), De Corato (Gruppo "Alleanza
 nazionale"), Di Benedetto  (Gruppo  "Centro  cristiano-democratico"),
 Manis  (Gruppo  "Polo del buon governo"), Grippaldi (Gruppo "Polo del
 buon governo"), Briccarello (Gruppo "Polo delle  liberta'"),  Favilla
 (Gruppo   "Patto   per  l'Italia")  e  Florino  (Gruppo  "Polo  delle
 Liberta'"), ottenendo il parere favorevole  del  sen.  Costa  (Gruppo
 "Patto  per  l'Italia"),  relatore  del  provvedimento. Nonostante il
 parere contrario dell'on.  Gasparri,  sottosegretario  di  Stato  per
 l'interno,   per   il   Governo,  l'assemblea  approvo'  il  predetto
 emendamento, anche con il voto favorevole del (Gruppo  "Progressista-
 federativo"), che, a bocca del rappresentante sen. Londei, manifesto'
 disappunto  nei  riguardi del predetto parere contrario. Al riguardo,
 il sen. Napoli ebbe modo di far presente che un  analogo  emendamento
 fu  gia'  (infruttuosamente)  votato  nel corso della discussione del
 precedente   d.-l.  27  giugno  1994,  n.  410,  non  tempestivamente
 convertito,  con  conforme  parere  della  V  Commissione  permanente
 "Bilancio", all'uopo affermando che esso non avrebbe comportato oneri
 aggiuntivi  e  che  sarebbe  servito  agli  enti  locali per regolare
 situazioni giuridiche pregresse, evitando un dispendioso  contenzioso
 giurisdizionale.  Dai  lavori  parlamentari, non solo non evincesi la
 ragione per cui mantenere inquadramenti superiori a quelli  effettivi
 (o, addirittura, ricostituirli) non dovrebbe implicare maggiori oneri
 al   pubblico   erario,   ma  soprattutto  non  e'  chiaro  come  una
 giurisprudenza ben  rigorosa  contro  i  predetti  inquadramenti  (e,
 quindi, contro i dipendenti che vorrebbero lucrarli) costituirebbe un
 "dispendioso"  contenzioso,  piuttosto  che  la  tutela  delle scelte
 legittime (o  viceversa,  la  repressione  di  quelle  illegittime  o
 illecite).  La tacitiana brevita', con cui il Parlamento nazionale ha
 trattato  la  materia  - peraltro contemporaneamente alla sessione di
 bilancio per il 1995 - dimostra,  ad  avviso  del  Collegio,  che  il
 legislatore,   pur  muovendosi  in  un  ambito  di  scelte  normative
 strutturalmente discrezionali, non s'e' curato  di  non  oltrepassare
 gli  estremi  limiti  logico-giuridici  che  sono contenuti dalle pur
 elastiche formule dell'art. 97 della Costituzione,  nella  misura  in
 cui  ha  assimilato  a  legittimita'  vicende che, sempre, sono state
 giudicate e sentite esattamente all'opposto  e  che,  si  badi,  tali
 permangono  tuttora  in  qualunque  altro  contesto identico a quello
 della disciplina per qualifiche  funzionali  del  lavoro  subordinato
 pubblico,  come  stabilito  dalla  legge n. 93/1983 o, da ultimo, dal
 d.lgs. 3 febbraio 1993, n.   29.   Certo,  non  e'  in  contestazione
 l'eventuale  (e, oggidi', auspicabile) scelta legislativa, per cui la
 struttura del lavoro subordinato pubblico, aldila' di alcuni principi
 comuni, dovrebbe essere  parte  integrante  dell'(auto)organizzazione
 amministrativa  e,  quindi,  dovrebbe  morfologicamente  aderire alle
 strutture  degli  uffici,  queste  ultime,  a  loro  volta  variabili
 dipendenti  delle funzioni pubbliche. In altri termini, sarebbe stato
 nella discrezione del legislatore prevedere una tipologia di rapporti
 d'impiego tipici per le autonomie locali, tali, dunque,  da  superare
 il divieto sancito dall'art. 2, comma 2, e dell'art. 57, comma 2, del
 d.lgs.  n.  29/1993 e da permettere l'applicazione dell'art. 2103 del
 codice civile. Ma non e' questo il tenore della  scelta  operata:  il
 legislatore  ha  semplicemente  estrapolato  il  dato  riguardante  i
 dipendenti degli enti  locali,  inquadrati  in  qualifiche  loro  non
 spettanti e, senza dar una diversa configurazione al loro rapporto di
 lavoro,   ha   "condonato",   peraltro  senza  alcuna  contropartita,
 l'illegittimita' de  qua,  con  cio'  arbitrariamente  preferendo  (e
 premiando)  costoro,  a  detrimento  di  tutti gli altri dipendenti e
 delle   altre   amministrazioni   locali,   piu'   ligi   ai   valori
 d'organizzazione  e  d'equita'  sottesi  alla  legge n. 93/1983 ed al
 d.P.R. n. 347. E' per questo che la  disposizione  censurata  non  e'
 (soltanto)  inopportuna,  e'  del  tutto  arbitraria,  perche' appare
 rivolta  a  bilanciare  o  a  conciliare  non  una  serie  di  valori
 costituzionali  tra  loro  interferenti, ne' tampoco ad esprimere una
 possibilita' tra le scelte libere ipotizzabili in  soggetta  materia,
 ma  cerca  di  pervenire alla legittimazione di comportamenti, il cui
 disvalore e' palese e non e' giuridicamente eliso. Si tratta,  cioe',
 di  dar prestigio a pratiche del piu' vieto e deteriore clientelismo,
 il quale,  com'e'  noto,  e'  uno  dei  piu'  poderosi  ostacoli  (da
 rimuovere  e  non  da  ribadire)  che limitano di fatto la liberta' e
 l'eguaglianza dei cittadini e dei lavoratori (artt. 3, secondo comma,
 e 4, primo comma, della  Costituzione).  Si  tratta,  inoltre,  della
 volonta'  del  legislatore  di  svincolarsi dalla regola del pubblico
 concorso - che, invece, e' la regola  essenziale  per  l'accertamento
 della  professionalita' dell'aspirante ad un impiego pubblico e della
 di lui  attitudine  al  lavoro  pubblico  -,  attribuendo,  in  buona
 sostanza,   a   ciascuna   p.a.   datrice   di   lavoro  la  fattuale
 discrezionalita' d'attribuire ai propri  dipendenti,  secondo  schemi
 tutt'altro  che  trasparenti  (perche' non conoscibili a priori e non
 verificabili ex post), la qualifica funzionale che piu'  le  aggrada,
 non  solo  indipendentemente,  ma  anche  contro  le risultanze della
 propria dotazione  organica  e,  quindi,  le  proprie  stesse  scelte
 organizzative.    Ne'  si  potrebbe, nella specie, invocare una sorta
 d'interpretazione ad usum Delphini del principio di  buon  andamento,
 nel  senso, cioe', d'escludere ogni irragionevolezza della disciplina
 censurata rispetto al  fine  indicato  dal  precetto  costituzionale.
 Infatti, e' appena da far presente che, in virtu' dell'art. 97, terzo
 comma,  della  Costituzione  e  dell'art.  36  del  d.-l. n. 29/1993,
 l'accesso ai pubblici impieghi deve avvenire o per pubblico concorso,
 oppure nelle forme espressamente (cioe',  effettivamente  dettate  ai
 soli  ed  esclusivi fini del pubblico impiego) stabilite dalla legge;
 mentre, dal canto loro, gli artt. 2,  comma  3,  e  56  dello  stesso
 decreto  n. 29 regolano il rapporto individuale di lavoro subordinato
 pubblico,  individuandone  le  fonti,  tra  l'altro,  nel   contratto
 individuale,  in  cui ciascun dipendente ritrova il titulus della sua
 prestazione lavorativa e, piu' precisamente,  la  corrispondenza  tra
 inquadramento    ad    un    certo    livello   retributivo   (e   di
 professionalita'), mansioni proprie del livello  e  oggetto  concreto
 della  prestazione  lavorativa nell'ambito dell'organizzazione in cui
 egli e' incardinato. Pertanto, fuori dai  casi  or  ora  mentovati  e
 coerenti  con  il  disposto costituzionale, nessun'altra possibilita'
 lecita  (ma  si  potrebbe  dire,  di  comune   buon   senso)   esiste
 nell'attribuire  a  chicchessia  un  livello di professionalita' piu'
 alto di quello che la sua cultura  e  la  sua  formazione  lavorativa
 potrebbero  dargli,  che, in caso contrario, tale dipendente dovrebbe
 essere obbligato a fare quanto la nuova  qualifica  gli  impone,  con
 obbligo  per  la p.a. di risolvere il rapporto laddove egli non se ne
 mostri capace.  Tale conclusione appare ineludibile  agli  occhi  del
 Collegio,  in  quanto in ogni caso e' preminente l'interesse pubblico
 sotteso dal combinato disposto dei commi primo e terzo  dell'art.  97
 della Costituzione su ogni forma anomala e/o fattuale di costituzione
 del  rapporto  di  pubblico  impiego  o di ribellione all'art. 56 del
 d.lgs.    n.  29/1993.  Da  una  parte,   riconducibile   al   valore
 costituzionale   del   "buon   andamento",   v'e'  l'interesse  delle
 amministrazioni di provvedersi di impiegati solo attraverso le proce-
 dure concorsuali, o  forme  equipollenti,  mediante  cui  l'idoneita'
 all'impiego  venga  accertata  con  procedure  formali  ed  aperte ad
 un'indefinita pluralita' di concorrenti, dalle quali, in base ad  una
 graduatoria,   possano   essere   avviati   al   lavoro   i  soggetti
 presumibilmente piu' idonei, capaci e meritevoli.  Dall'altra  parte,
 riconducibile  al  valore  dell'"imparzialita'",  v'e' l'interesse di
 tutti coloro i quali (dipendenti o esterni), possedendo i  prescritti
 requisiti e titoli, sono i potenziali candidati alla selezione per il
 livello   di   professionalita'   reclutando,   che  possono,  cosi',
 parteciparvi in condizioni di parita',  senza  dover  sottostare  a/o
 senza   dover  sollecitare  pratiche  clientelari,  oppure  mendicare
 protezioni politiche.  Inoltre, se e' principio costituzionale che  i
 pubblici  uffici  siano  organizzati  in  modo  da assicurare il buon
 andamento  e  l'imparzialita'  della  p.a.,  e'  percio'   necessario
 affermare  l'attuazione  del  valore  costituzionale dell'eguaglianza
 nell'ambito del lavoro subordinato pubblico, valore  che  costituisce
 il  cardine  del  relativo  ordinamento come, da ultimo, regolato dal
 d.lgs. n.   29/1993,  il  quale,  a  sua  volta,  e'  il  momento  di
 collegamento  tra  struttura  e  funzione.  Oltre  che ad obbedire ad
 obbiettive esigenze di perequazione, il principio d'eguaglianza  mira
 a prevenire e/o ad eliminare, nella disciplina del lavoro subordinato
 pubblico, posizioni soggettive differenziate (a parita' di situazioni
 giuridicamente  prottette  o  regolate),  suscettibili di determinare
 rendite a favore di alcuni, piuttosto che di altri dipendenti, oppure
 di influire negativamente sul rendimento complessivo  dei  dipendenti
 dell'ente  locale  (a  causa d'un inquadramento a posizioni di lavoro
 superiori  e,  percio',  non  sostenibili   dalla   professionalita',
 dall'esperienza e dal livello culturale dell'interessato). Non e' chi
 non  veda  come  una  siffatta - e improvvida - scelta, ossia come il
 mantenere comunque posizioni di lavoro immeritate, non solo determini
 situazioni  sperequative   nocive   nell'ambiente   di   lavoro,   ma
 soprattutto  si riverberi negativamente sulla capacita' di rendimento
 dell'ente, a detrimento di tutta la collettivita'.
    6. - Insegna la Corte costituzionale, nella dianzi citata sentenza
 n.  459/1994  che  non  e'  fondata  la  questione  di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  2 della legge 21 febbraio 1989, n. 63, per
 irragionevolezza in relazione all'art. 97 della Costituzione, perche'
 tale  norma  si  proponeva  d'attribuire  stabilita'   agli   assetti
 organizzativi  delle  strutture  delle  Universita' della Repubblica,
 considerando ormai irreversibili, a distanza di anni, gli effetti dei
 provvedimenti  d'inquadramento  del  personale  adottati   a'   sensi
 dell'art. 85 della legge n. 312/1980, all'evidente scopo d'evitare la
 caducazione  di  provvedirmenti  in  base  ai quali e' stato comunque
 garantito lo svolgimento della  funzione  pubblica.    Giova,  pero',
 osservare   che   il   predetto   art.   2  dispone  il  mantenimento
 dell'efficacia dei  provvedimenti  d'inquadramento  nelle  qualifiche
 funzionali   e  nei  relativi  profili  professionali  del  personale
 amministrativo  delle  universita'  originariamente   adottati,   con
 conseguente  inefficacia  di altri e/o eventuali provvedimenti, anche
 successivi,  tranne  che  non  abbiano  gia'  prodotto  effetti  piu'
 favorevoli  ai  dipendenti.  La dizione della norma, il cui contenuto
 non e' omogeneo, anzi, e' di gran  lunga  piu'  sommesso  rispetto  a
 quello   dell'art.   3,  comma  6-  bis,  della  legge  n.  537/1993,
 giustifica,  ad  avviso  del  Collegio,  il  rigetto  della  predetta
 questione,  atteso  che  proprio  l'osservanza del principio del buon
 andamento rende prevalente nella  comparazione  degli  interessi,  il
 mantenimento  degli  effetti  ormai  consolidatisi  nel tempo, con il
 sicuro vantaggio  d'un  servizio  garantito,  rispetto  all'eventuale
 recupero della pura regolarita' formale degli inquadramenti. La norma
 in  parola  ha una sua valenza del tutto straordinaria ed eccezionale
 (in tal senso, cfr., da ultimo, Corte conti, sez. contr.,  26  aprile
 1993,  n.  66),  considerato, peraltro, che l'inquadramento ex art. 2
 della   legge   n.   63/1989   si   basa   sulle  mansioni  superiori
 effettivamente e stabilmente svolte (t.a.r.  Bologna,  II,  18  marzo
 1993,  n.  97) e fermo restando che esso non ha efficacia retroattiva
 (Corte cost., 27 maggio 1992, n. 236; t.a.r.  Veneto,  I,  8  ottobre
 1991,  n.  883),  con  effetti  non deteriori per il pubblico erario.
 Inoltre, la piu' parte delle Universita' della Repubblica, appunto in
 relazione alla  rilevanza  dell'attivita'  lavorativa  effettivamente
 prestata  dai  singoli  addetti  in  un  ambito  assai delicato ed in
 continua  trasformazione  qual  e'  quello  universitario  -  la  cui
 organizzazione  e'  condizionata, tra l'altro, dalle necessita' della
 ricerca scientifica e dalle esigenze (e dal numero) dei  discenti  -,
 provvide  opportunamente  ad  assumere  le misure organizzatorie piu'
 acconce all'esatta  valutazione,  anche  comparativa,  delle  singole
 posizioni  di lavoro, di talche', in questo caso, tecnicamente non si
 sarebbe mai potuto parlare di "riconoscimento" di mansioni  superiori
 svolte  di  fatto,  quanto,  piuttosto, d'inquadramento del personale
 secondo la sua esperienza e professionalita' maturate.    D'altronde,
 lo  stesso  art. 1 della legge n. 63/1989 stabiliva, nei riguardi del
 personale  tecnico  ed   amministrativo   delle   Universita'   della
 Repubblica  (e  di  altre  amministrazioni), che i dipendenti possono
 produrre istanza di (re)inquadramento per  il  profilo  professionale
 per  cui  essi  ritengono d'aver titolo sulla base del lavoro svolto,
 anche a prescindere dal possesso del titolo di studio  richiesto  per
 l'accesso  a  detto  profilo. E cio' implica un accertamento, di tipo
 costitutivo,    da    parte    del    consiglio     d'amministrazione
 dell'Universita'  sulla  congruenza  tra  le mansioni espletate ed il
 profilo preteso, merce' l'espletamento d'una prova idoneativa diretta
 ad accertare  la  formazione  culturale  e  la  specifica  esperienza
 lavorativa. Tutto cio' non esiste ne' nella legge n. 93/1983, ne' nel
 d.P.R. n. 347/1983, ne' tampoco nel d.lgs.  n. 29/1993: insomma, cio'
 che   qui  rileva  non  e'  la  discrezionalita'  organizzatoria  del
 legislatore in ordine  alla  strutturazione  del  lavoro  subordinato
 pubblico,   bensi',   in   realta',   l'uso   strumentale   di   tale
 discrezionalita'  per  il  raggiungimento  di  fini   irrazionali   e
 sperequativi.    L'art.  3,  comma  6-  bis, della legge n. 537/1993,
 invece, non tende a risolvere alcunche' di tutto cio' e  possiede  un
 rigore  logico-giuridico  ben  inferiore  alla  legge  n. 63/1989, in
 quanto,  sebbene  sia  intervenuto  formalmente  undici   anni   dopo
 l'entrata in vigore del d.P.R. n. 347/1983, in realta' non puo' certo
 regolare  quell'ampio  ventaglio  di  situazioni  pregresse  ed ormai
 fattualmente stabilizzate per il lungo decorso del tempo. Sebbene, e'
 ovvio, non tutti gli inquadramenti illegittimi  del  personale  degli
 enti locali siano stati soggetti al controllo del giudice contabile o
 amministrativo,  essi hanno purtuttavia determinato reazioni da parte
 o degli organi regionali di controllo, o  degli  stessi  enti  locali
 datori  di  lavoro,  o  delle pronunce giurisdizionali, le quali mai,
 come in soggetta materia, sono state compattamente rivolte a denegare
 le pretese di maggior inquadramento. In parole semplici,  l'efficacia
 di  questi  ultimi  non  solo e' sempre stata precaria, ogniqualvolta
 essa sia stata attratta nell'orbita d'uno dei predetti controlli;  ma
 soprattutto  non  ha  avuto mai modo di stabilizzarsi realmente e per
 lungo tempo, a causa soprattutto dei lunghi ritardi con cui gli  enti
 datori  di  lavoro hanno dato applicazione al d.P.R. n. 347/1983, non
 considerando i tempi dei  controlli  e  delle  liti.  Anzi,  si  puo'
 tranquillamente  affermare che solo la piu' parte di queste ultime e'
 intervenuta da gran tempo alla data d'entrata in vigore della novella
 alla legge n. 537/1993, per cui,  se  del  caso,  la  stabilizzazione
 concerne   la   cosa   giudicata   sfavorevole   agli   inquadramenti
 illegittimi.  E poiche' la richiesta di  maggior  inquadramento  s'e'
 rivelata  inattuabile,  o  precaria,  o destituita di fondamento - e,
 percio', e' rimasta praticamente inefficace verso coloro i  quali  la
 pretendevano  -,  di  regola  non  ha  dato luogo ad alcuna diversa e
 maggiore prestazione di lavoro, ne' all'accertamento  fattuale  d'una
 maggior  (rispetto  alla  qualifica) professionalita', fermo restando
 che  non  consta  al  Collegio  l'esistenza,  neppure  in   sede   di
 contrattazioni  atipiche  con le organizzazioni sindacali, di formule
 organizzatorie  tendenti  ad  accertare  con  serieta'  le   mansioni
 superiori,  secondo metodologie analoghe a quelle teste' accennate in
 ambito  universitario.  Inoltre,  la  questione   problematica,   pur
 presente  perlomeno  gia'  in  sede  di  formazione  del c.c.n.l. del
 personale degli enti locali poi approvato  con  il  d.P.R.  3  agosto
 1990, n. 333, non venne affrontata in quella sede e, anzi, fu risolta
 dalla  legge 23 ottobre 1992, n. 421 e dal d.lgs. n. 29/1993 in senso
 diametralmente  opposto  a  quello  qui  censurato.      Ne'   sfugge
 all'attenzione  di  chiunque  come,  nella  piu'  parte  dei casi, le
 mansioni  c.d.  "superiori",  in  virtu'  delle  quali  i  dipendenti
 interessati  hanno  preteso il maggior inquadramento, non siano altro
 che l'espletamento mero del contenuto proprio  del  profilo  e  delle
 qualifiche    funzionali    spettanti    in   relazione   alla   loro
 professionalita' ed al loro livello culturale. Da cio'  discende  che
 quella,  dell'art.  3,  comma 6- bis, della legge n. 537/1993, e' una
 situazione esattamente opposta a quella cui faceva riferimento l'art.
 2 della legge n. 63/1989: la norma censurata  non  solo  non  darebbe
 stabilizzazione  formale a situazioni illegittime, seppur sussistenti
 e come tali seriamente  accertate  secondo  scelte  autoorganizzative
 della  p.a.  datrice  di  lavoro;  ma  addirittura  contrasterebbe ed
 annullerebbe i nuovi provvedimenti  di  diniego  o  di  revoca  degli
 inquadramenti  illegittimi,  facendo vivere o rivivere ex novo questi
 ultimi, ancorche' ormai  da  tempo  abbandonati  dalla  p.a.  stessa.
 D'altronde,  se  l'intendimento  della  norma  censurata  fosse stato
 veramente quello di  stabilizzare  le  situazioni  illegittime  ormai
 convalescenti  per  il lungo tempo decorso, la legge sarebbe stata un
 mezzo di gran lunga  sovradimensionato  alla  bisogna,  poiche',  per
 costante  e  fermissima giurisprudenza (si potrebbe dire, per diritto
 vivente), l'eliminazione in autotutela di atti  illegittimi  da  gran
 lungo  tempo efficaci, se non addirittura esauriti, resta subordinata
 al  serio  e  congruamente  motivato  accertamento  di  un  interesse
 pubblico  specifico, concreto ed attuale, diverso dal mero riprostino
 della  legalita'  violata.  Se  poi,  fosse  stata   intenzione   del
 legislatore  creare  una  causa  di  giustificazione  ex  lege  quale
 scriminante di responsabilita', per il danno erariale derivante dagli
 inquadramenti illegittimi, allora  sarebbe  bastata  una  norma  che,
 senza  modificare  il modello legale dell'inquadramento del personale
 degli enti locali ex d.P.R. n. 347/1983 o rimettere in discussione  i
 giudicati  negativi  gia' emanati, dichiarasse estinti i procedimenti
 di responsabilita' -  eventualmente  esclusi  quelli  discendenti  da
 reati  -, in relazione anche ai problemi interpretativi sorti in sede
 di prima applicazione dell'art.  40  dello  stesso  decreto  n.  347.
 Nell'un caso, come nell'altro, l'art. 3, comma 6- bis, della legge n.
 537/1993  si  mostra  a  guisa  d'irragionevole  privilegium, che, in
 violazione all'art.3  della  Costituzione,  si  prefigge  di  salvare
 inquadramenti  illegittimi  (quando  non  illeciti)  e  d'elidere  le
 conseguenti responsabilita', senza, pero', modificare al  contempo  i
 principi  regolatori  del lavoro subordinato pubblico, ne' tampoco lo
 stesso giudizio di disvalore  che,  in  altri  campi  della  medesima
 materia, e' formulato avverso gli inquadramenti illegittimi.
    7.  -  Ritiene il Collegio che la norma del ripetuto art. 3, comma
 6-bis, della legge n. 537/1993 vada censurata anche sotto il  profilo
 della   violazione   degli   artt.   24  e  25,  primo  comma,  della
 Costituzione.    Osserva,  anzitutto,  il  Collegio   che   l'effetto
 estintivo   dei   procedimenti   giurisdizionali   in   corso   sugli
 inquadramenti illegittimi depriva di fatto  il  convenuto  comune  di
 Acireale,  in  particolare  e,  piu'  in generale, le amministrazioni
 interessate - siano esse le datrici di lavoro, oppure gli  organi  di
 controllo  -  d'ogni  argomento di difesa e/o di resistenza avverso i
 provvedimenti d'inquadramento, indipendentemente dall'eventuale  loro
 abnormita',  con  cio'  determinandone  la  violazione  del  relativo
 diritto, in questo come in altri giudizi. Ma la paradossalita'  della
 norma  censurata e' cosi' evidente che, nella sua formulazione, elide
 in radice in  chiunque  la  possibilita'  d'adire  il  (o  d'eccepire
 innanzi  al)  proprio  giudice naturale, pure nel caso in cui la p.a.
 datrice di lavoro avesse stabilito un inquadramento inferiore  o  del
 tutto  irrazionale,  purche' in difformita' all'art. 40 del d.P.R. n.
 347/1983. E' proprio l'argumentum a contrariis,  ossia  non  gia'  la
 mera  violazione del diritto di difesa delle predette amministrazioni
 anche per  i  giudizi  in  corso  (se  non  anche  per  quelli  ormai
 definiti),  ma  soprattutto  l'impossibilita'  di  difesa  pratica  e
 giuridica  anche  in  capo  al  dipendente  avverso  i  provvedimenti
 "sanati"  dalla  norma  censurata,  a  confortare il Collegio nel suo
 giudizio  di  non   manifesta   infondatezza   della   questione   di
 legittimita'   costituzionale   nei   riguardi   d'una   norma,  che,
 estinguendo la lesivita' degli atti  illegittimi,  svuota  la  tutela
 della   posizione   giuridica  soggettiva  dei  soggetti  destinatari
 (privato, o, a seconda dei casi, p.a.) degli effetti  negativi  degli
 atti stessi.  Osserva altresi' il Collegio che tale effetto estintivo
 non  concerne  soltanto  la  posizione delle parti nel presente, o in
 analoghi giudizi, ne' tampoco la loro  situazione  sostanziale  fatta
 valere  in  via  d'azione  o d'eccezione; ma si riverbera anche sulla
 stessa precostituzione di questo  Tribunale  amministrativo,  giudice
 naturale   della   presente   lite,   e  del  giudice  amministrativo
 nell'esercizio della sua competenza esclusiva in materia di  pubblico
 impiego,  negli ovvi limiti di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 29/1993.
 Infatti, l'art. 25, primo  comma,  della  Costituzione  possiede  una
 doppia  valenza  garantistica,  tanto  a  favore  delle parti (merce'
 l'assicurazione  della  precostituzione  dell'organo   giudicante   e
 dell'immodificabilita'  ex  post della competenza, al fine di rendere
 effettiva l'obiettivita' e l'imparzialita' del giudizio), quanto  nei
 riguardi  dello  stesso giudice (merce l'impossibilita' di sottrargli
 la causa innanzi a lui instaurata  secundum  jus).  E'  ben  noto  il
 fermissimo  orientamento  della Corte costituzionale, teso a denegare
 alla legge retroattiva sulla competenza  del  giudice,  la  quale  in
 linea  di  principio  non e' ex se censurabile, di fissare deroghe in
 vista  di  una  o  piu'  determinate  e  specifiche  controversie,  a
 differenza dell'ipotesi, non ravvisabile nella specie, in  cui  venga
 fissato  una nuova ed organica disciplina della materia devoluta alla
 competenza  di  questo  giudice.  Insomma,  esiste  un   unico   filo
 conduttore  che  lega,  per evidente omogeneita' logico-giuridica, il
 principio d'eguaglianza con il diritto  di  difesa  e  le  norme  sul
 regolare  svolgimento  del processo, in modo che alla legge ordinaria
 sia inibito di porre, come nella specie,  eccezioni  radicali  e  non
 razionali  alle regole sulla girisdizione e/o la competenza di questo
 (come d'ogni altro) giudice. Non sfugge al Collegio  che  vi  possano
 essere  ragionevoli  motivi  di  contemperamento  dei  valori  teste'
 accennati con l'esigenza, non meno  rilevante,  della  continuita'  e
 della  prontezza dell'azione amministrativa, ma nella specie la norma
 censurata, che  ha  natura  di  legge-provvedimento  (e,  quindi,  e'
 sostanzialmente   priva   delle  caratteristiche  di  generalita'  ed
 astrattezza) tenderebbe proprio  a  spezzettare  e  ad  ingolfare  la
 funzionalita'  della  p.a.,  determinando  al contempo una variazione
 (vera e propria lex in privos lata) della capacita' di questo giudice
 di conoscere delle liti sugli inquadramenti, a differenza di cio' che
 accade nei comparti del pubblico impiego diverso dagli  enti  locali.
 In   cio'  risiede,  peraltro,  la  violazione  dell'art.  113  della
 Costituzione, nella misura in  cui  la  norma  censurata  esclude  la
 tutela,   in   capo  a  chi  comunque  e'  stato  pretermesso  da  un
 inquadramento  illegittimo  nelle   proprie   situazioni   giuridiche
 soggettive  d'interesse  legittimo.  Non  e'  chi  non  veda  come la
 formulazione della predetta norma, nel  determinare  la  legittimita'
 (validita')  dei  provvedimenti d'inquadramento, ha escluso in radice
 che colui, il quale abbia a dolersene, non possa trovare alcuna forma
 di giustizia amministrativa  od  ordinaria.  E  cio'  per  l'evidente
 ragione  che la norma stessa non discrimina gli effetti del "condono"
 da essa recato, cioe' tra  quelli  che  intendono  sanare  situazioni
 pregresse  e  quelle  che,  invece,  chiudono  sic  et simpliciter le
 controversie  con  gli  enti  locali  datori  di  lavoro,   ancorche'
 producano risultati deteriori in capo ai dipendente.
    8.  -  Osserva  il  Collegio  che  la  norma  censurata si pone in
 contrasto anche con l'art. 77, secondo comma, della Costituzione.
    Invero, il suo oggetto, pur se latamente inerente alla finanza lo-
 cale - non foss'altro per gli effetti deteriori che implica nei conti
 pubblici delle autonomie locali -, non ha nulla a che vedere  con  il
 contenuto  precipuo  del  d.-l.  n.  515/1994,  che il Governo emano'
 affermandone la straordinaria necessita' ed urgenza e  per  il  quale
 esso  impegno' la propria responsabilita', fermo restando che su tali
 dati  le  Camere  riconobbero  la  sussistenza  dei  presupposti   di
 costituzionalita'.  Ora,  e'  ben noto che, per prassi costituzionale
 ormai consolidata, le Camere hanno considerato il disegno di legge di
 conversione  d'un  decreto-legge  come   una   qualunque   iniziativa
 legislativa,  da  loro liberamente modificabile, indipendentemente da
 (e senza conseguenzialita' con) cio' che, per straordinari motivi  di
 necessita'  e  urgenza, ha formato oggetto, da parte del Governo, del
 provvedimento provvisorio con forza di legge.  Tuttavia, l'inserzione
 forzata in un decreto legge di novelle estemporanee, ossia non legate
 all'oggetto, costituisce un uso non soltanto impropri o  d'una  sedes
 materiae   altrettanto   impropria   o  inopportuna,  ma  soprattutto
 strumentale del procedimento d'urgenza, stabilito dai regolamenti per
 i decreti-legge, per materie o fattispecie per le quali i regolamenti
 potrebbero   non  prevedere  procedure  abbreviate  o  sottoporle  ad
 apposite deliberazioni. In altri termini - e  a  parte  ogni  censura
 sulla   ragionevolezza   dei  decreti-legge  c.d.  omnibus,  o  cosi'
 trasformati in sede di conversione -,  nella  specie  i  parlamentari
 proponenti  hanno  strumentalmente  utilizzato la procedura d'urgenza
 specificamente dettate dalla Costituzione e dai  regolamenti  per  la
 conversione  del  d.-l.  n. 515/1994, allo scopo di far deliberare le
 Camere su una questione che, sotto il profilo procedimentale, sarebbe
 meglio dovuta essere anzitutto consacrata in un'apposita iniziativa e
 quindi sottoposta alla procedura all'uopo stabilita per i  disegni  o
 progetti  di  legge  ordinari.  La circostanza che, poi, una siffatta
 iniziativa abbia avuto il voto conforme delle Camere, nulla  aggiunge
 o  toglie  alla censurabilita' dell'uso inaccettabile che, nella spe-
 cie, e' stato fatto della procedura di  conversione  del  decreto  n.
 515,   posto  che  la  discrezionalita'  del  legislatore  ordinario,
 contrariamente al comune sentire circa siffatta locuzione,  non  puo'
 spingersi,  aldila'  dell'oggetto (anch'esso ex se censurabile), fino
 all'utilizzazione fungibile di  procedure  diverse  e  funzionalmente
 rivolte a scopi non omogenei.  Diversamente argomentando, si dovrebbe
 concludere  nel  senso che l'attivita' legislativa, che di regola non
 e' costituente (se non nelle forme e nei limiti  ex  art.  138  della
 Costituzione),  bensi'  e'  costituita - e, percio', e' soggetta alle
 forme sostanziali previste dalla Costituzione -, possa concretare  un
 abuso  del  diritto  d'iniziativa  ex  art.  71,  primo  comma, della
 Costituzione, nel senso d'ammettere quest'ultima anche  per  ottenere
 vantaggi  altrimenti  non  perseguibili  con  le procedure ordinarie,
 segnatamente per cio'  che  attiene  al  reperimento  delle  nuove  e
 maggiori  risorse  occorrenti  alla relativa copertura. La questione,
 come si  vede,  non  consiste  punto  nella  limitazione  del  potere
 d'emendabilita' dei decreti-legge, la quale in linea di principio non
 potrebbe   essere   modificata   se   non  attraverso  una  revisione
 costituzionale. La vicenda concerne,  piuttosto,  l'osservazione  per
 cui  l'emendabilita'  stessa  non  appare  sorretta  da dati testuali
 omogenei  e  perspicui  -  tranne  che  per  tali  non  si   vogliano
 considerare la prassi ed una dottrina, invero non prevalente - che le
 consentano  disvincolarsi assolutamente tanto dalla procedura, quanto
 dal senso e/o dall'oggetto recato dal decreto-legge.
    9. - Risulta violato dall'art. 3, comma 6-  bis,  della  legge  n.
 537/1993,  ad  avviso  del  Collegio,  anche l'art. 81, quarto comma,
 della Costituzione, nella  misura  in  cui  l'effetto  "condonatorio"
 recato  dalla  norma  censurata  non e' sorretto da alcuna previsione
 sulla copertura finanziaria dei  maggiori  oneri  che  esso  implica.
 Anzi,  siffatta  copertura,  nella  specie,  non  solo  non  e' stata
 considerata dai lavori  parlamentari,  ma  e'  stata  deliberatamente
 omessa,  nella  considerazione  (cfr.  Senato  della  Repubblica,  68
 resoconto delle Commissioni permanenti, 19 ottobre 1994, pag. 44) che
 l'emendamento, che recava la norma censurata, non  comportasse  oneri
 aggiuntivi.    Giova  al  riguardo  far  presente  che  l'obbligo  di
 copertura  non  e'  stato  rispettato  nella  specie,  in   sede   di
 conversione  del d.-l. n.  515/1994, posto che le Camere sono partite
 dall'indimostrato e rigido presupposto che la norma censurata fesse a
 costo  zero  per   l'erario   pubblico,   pur   se   essa   definisce
 ineluttabilmente illegittime posizioni di lavoro maggiori (e, quindi,
 suscettibili  di  piu'  alte  retribuzioni)  anche contro la volonta'
 dell'ente datore di lavoro e, percio', vale a  dire  anche  senza  la
 previsione   di   bilancio   del   le   maggiori   spese.  Gia'  solo
 quest'osservazione, la quale discende dalla circostanza che in  molti
 casi,   la   norma   censurata   determinerebbe  la  reviviscenza  di
 inquadramenti illegittimi  (come  nella  specie),  dimostra  come  il
 presupposto  teste'  accennato fosse manifestamente infondato. E tale
 nocivo  risultato  s'e'  evidenziato,  atteso  che  il   legislatore,
 nell'innegabile fretta d'approvare la norma "condonatoria" censurata,
 non  s'e' evidentemente reso conto del relativo effetto finanziario a
 cascata sui bilanci degli enti locali, pure su quelli  di  enti  che,
 rigettando  le  pretese  dei  propri  dipendenti  e revisionandone le
 posizioni di lavoro, oppure conformandosi alle decisioni  giustiziali
 o  degli  organi  tutori,  nulla  avevano a tal proposito stanziato o
 previsto.  Cio' implica l'aggravio dei costi di  personale  a  carico
 degli  enti locali, ancorche' dissestati o strutturalmente deficitari
 ex art. 45, comma 2, del d.lgs. 30  dicembre  1992,  n.  504,  giusta
 quanto  stabilito  dallo  stesso art. 3, comma 6- bis, della legge n.
 537/1993. Non foss'altro per questa  ragione,  appare  evidente  come
 l'affermazione,  nei  lavori parlamentari, che la norma censurata non
 implicasse nuove o maggiori spese s'appalesa come una mera  petizione
 di  principio,  del  tutto  irrealistica,  nella  misura  in  cui  il
 legislatore, per primo, non  ha  reso  espliciti  (oggi  si  direbbe:
 "trasparenti")   i  parametri  di  riferimento  attraverso  cui  s'e'
 pervenuto a quantificare gli oneri (o, nella specie, i mancati oneri)
 finanziari.  E'  ben  vero  che  non  vi  sarebbe  stata  elusione  o
 violazione  del  citato  art.  81,  quarto comma, della Costituzione,
 qualora il d.-l. n. 515/1994 avesse rinviato al bilancio  per  l'anno
 1995,  ai  fini  della  copertura; ma e' altrettanto indubbio che una
 tale scelta e' stata del  tutto  disattesa,  perche'  il  legislatore
 s'era  pervicacemente (e fallacemente) convinto dell'insussistenza di
 nuovi o maggiori oneri a carico degli enti locali datori  di  lavoro.
 L'ovvia  conclusione di cio' consiste nel fatto che il personale, che
 gode della norma censurata,  resterebbe  intatto  da  ogni  questione
 sulla   ristrutturazione  delle  piante  organiche  e  sull'eventuale
 mobilita' dei dipendenti eccedentari di  cui  al  combinato  disposto
 dell'art. 25, comma 5, del d.-l. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con
 modificazioni,  dalla  legge 24 aprile 1989, n. 144 e degli artt. 16-
 bis e 21, comma 4, del d.-l.  18 gennaio 1993, n. 8, convertito,  con
 modificazioni,  dalla  legge  19  marzo  1993,  n.  68,  con le ovvie
 eccezioni ed agevolazioni di cui al combinato  disposto  dell'art.  3
 del  d.-l.  9 dicembre 1994, n. 676 e dell'art. 22, commi 11 (per gli
 enti "normali") e 14 (per gli  enti  dissestati  che  hanno  ottenuto
 l'approvazione  della pianta organica, del piano di risanamento e del
 bilancio riequilibrato) della legge 23 dicembre 1994, n. 724. Tanto a
 differenza, ad avviso del Collegio, del restante personale  -  specie
 se   di  anzianita'  di  ruolo  inferiore  a  quella  dei  dipendenti
 destinatari degli inquadramenti illegittimi - che  rimarrebbe  invece
 coinvolto  nei  procedimenti  teste'  accennati, a causa delle minori
 disponibilita' finanziarie in capo agli enti datori  di  lavoro,  con
 ulteriore   evidenziazione   della  loro  posizione  illegittimamente
 deteriore rispetto ai soggetti beneficiari della norma censurata.
    10.  - In definitiva, ritiene il Collegio che ricorrano nella spe-
 cie i presupposti per la rimessione degli atti della  presente  causa
 alla  Corte  costituzionale,  essendo  rilevante e non manifestamente
 infondata la questione di legittimita'  costituzionale  sull'art.  3,
 comma  6-  bis,  della  legge  n.  537/1993. Va, percio', disposta la
 sospensione del presente giudizio cautelare e la  trasmissione  degli
 atti  stessi  alla  Corte  costituzionale,  ai fini della risoluzione
 della sopra prospettata questione di costituzionalita'.