IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nelle controversie riunite
 nn.  4458/95  e  4459/95,  in  materia  di  previdenza  e  assistenza
 obbligatoria,  promosse  da:  I.N.P.S.  -  Istituto  nazionale per la
 previdenza  sociale,  con  sede  legale  in  Roma,  in  persona   del
 presidente   e   legale   rappresentante  pro-tempore,  elettivamente
 domiciliato in Genova, presso l'avv. M. Girotti, che lo rappresenta e
 difende per mandato generale alle liti, in atti,  appellante,  contro
 Traverso   Egle   e   Bianchi   Vilma,  residenti  in  Genova  e  ivi
 elettivamente domiciliate, in via Assarotti, 20/6  presso  lo  studio
 dell'avv.  Paolo Pissarello, che le rappresenta e difende per mandati
 in atti, appellate.
    Con separati ricorsi, rivolti al pretore di Genova in funzione  di
 giudice del lavoro, le suddette odierne appellate esponeva:
      di   avere  lavorato,  rispettivamente,  alle  dipendenze  della
 Iritecna S.p.a.  e  della  Ilva  S.p.a.  sino  alla  risoluzione  del
 rapporto per prepensionamento ex art. 29 della legge n. 223/1991;
      che,  in  forza  di  tale  norma, le ricorrenti avrebbero dovuto
 beneficiare  di  trattamenti  pensionistici  calcolati   sulla   base
 dell'anzianita'    contributiva   maggiorata   di   un   periodo   di
 assicurazione pari al  tempo  mancante  al  raggiungimento  dell'eta'
 normalmente  prevista  per  il  pensionamento di vecchiaia e che tale
 eta' doveva farsi coincidere con il sessantesimo anno, alla  luce  di
 piu' pronunzie emesse dalla Corte costituzionale sul tema;
      che,  in  particolare,  Corte  costituzionale  n. 371/1989 aveva
 dichiarato l'illegittimita' dell'art. 1 della legge n.  193/1984,  in
 combinato disposto con l'art. 16 della legge n. 155/1981, nella parte
 in  cui  non  consentiva  alla  lavoratrice di conseguire la medesima
 anzianita'   contributiva   riconosciuta   agli   uomini   (sino   al
 sessantesimo anno di eta');
      che,  con successiva sentenza n. 134/1991 si era ribadito che le
 lavoratrici prepensionate in eta' compresa fra  i  47  e  i  50  anni
 debbono  fruire di un accredito contributivo pari a 10 anni ulteriori
 rispetto all'eta' del prepensionamento;
      che   la   sentenza   n.   503/1991   aveva    poi    dichiarato
 l'illegittimita'  dell'art.  2 della legge n. 181/1989 nella parte in
 cui non riconosceva alle  lavoratrici  prepensionate  a  50  anni  il
 diritto  all'attribuzione  di  un'anzianita'  contributiva  sino a 60
 anni;
      che, nel caso di specie, le esponenti avevano visto  risolto  il
 proprio  rapporto,  in seguito a domanda di prepensionamento, in eta'
 compresa fra i 47 e  i  50  anni,  ma  era  stata  loro  riconosciuta
 anzianita'  contributiva  solo  fino  al  cinquantacinquesimo anno di
 eta';
      che  il  diritto  della   lavoratrice   al   riconoscimento   di
 un'anzianita'  figurativa  decennale  discendeva  direttamente  dalla
 citata sentenza n. 134/1991, atteso l'esplicito rinvio  dell'art.  29
 della  legge  n.  223/1991  all'art.  5, quinto comma, della legge n.
 48/1988, che di quella decisione era stato oggetto;
      che, nella denegata ipotesi che non si  fosse  acceduto  a  tale
 interpretazione,    avrebbe   dovuto   apparire   rilevante   e   non
 manifestamente infondata, alla stregua degli artt. 3, 37 e 38  Cost.,
 la  questione  di  legittimita' costituzionale della citata norma del
 1991, nella parte in cui fondava su  una  pretesa  (ma  negata  dalla
 Corte  costituzionale) differenza di eta' lavorativa fra uomo e donna
 una disparita' di anzianita' figurativa in caso di prepensionamento.
    Chiedevano, quindi, previa eventuale rimessione  degli  atti  alla
 Corte  costituzionale,  dichiararsi il loro diritto al riconoscimento
 di un'anzianita' contributiva  aumentata  in  misura  pari  al  tempo
 rispettivamente   mancante  per  il  conseguimento  dei  10  anni  di
 accredito contributivo, nonche' alla  percezione  di  un  trattamento
 pensionistico commisurato a tale maggiore anzianita'.
    Si   costituiva   l'I.N.P.S.,   negando   l'applicabilita'   delle
 richiamate  sentenze  della  Corte   costituzionale   al   di   fuori
 dell'ambito  di  diretta applicazione delle norme fatte oggetto della
 decisione.
    Il  pretore  decideva  accogliendo  le  domande  di  entrambe   le
 ricorrenti,  sull'assunto che il riferimento dell'art. 29 della legge
 n. 223/1991 alla "normale eta'" per il conseguimento  della  pensione
 di   vecchiaia  non  fosse  identificabile,  per  le  donne,  con  il
 cinquantacinquesimo anno di eta', giacche' il  pensionamento  a  tale
 eta'  costituisce, per le stesse, una mera facolta' e non un obbligo,
 come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale, specialmente
 nella sentenza n. 503 del 1991.
    Avverso tale decisione proponeva appello  l'I.N.P.S.,  contestando
 l'esattezza del convincimento pretorile, per cui eta' pensionabile ed
 eta'  lavorativa  sarebbero  oggi del tutto parificate: al contrario,
 come rilevato da Corte costituzionale n. 404/1993, l'eta'  lavorativa
 e'  stata  estesa  a 60 anni, ma l'eta' pensionabile resta ferma a 55
 anni e a questo limite doveva ritenersi il legislatore del 1991 abbia
 fatto riferimento  laddove  ha  parlato  di  "normale  eta'"  per  il
 conseguimento  della pensione di vecchiaia. Rilevava, quindi, come il
 pretore, per arrivare al  risultato  cosi'  indebitamente  raggiunto,
 avrebbe  dovuto  sollevare  questione di legittimita' costituzionale,
 non potendo riconoscere  efficacia  espansiva  a  una  pronuncia  del
 giudice   delle   leggi   avente  ad  oggetto  tutt'altra  previsione
 normativa.
    Resistevano  le  appellate,  evidenziando,  nel  merito,  come  la
 decisione   del  pretore  si  fondasse  sul  corretto  assunto  della
 riferibilita'  dell'istituto  del  prepensionamento,   non   all'eta'
 pensionabile,  bensi'  all'eta'  lavorativa: eta' lavorativa fissata,
 sia per gli uomini che per le donne, in 60 anni.
    In via subordinata, insisteva nella proposizione  della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  della norma in contestazione, cosi'
 come interpretata da controparte.
    Riuniti i due giudizi ai sensi dell'art. 151 disp. att. c.p.c., il
 tribunale
                             O S S E R V A
    La norma controversa - l'art. 29 della legge 23  luglio  1991,  n.
 223  - estende la facolta' di prepensionamento, prevista dall'art. 27
 della stessa legge con riferimento alle pensioni di anzianita', anche
 alle pensioni di vecchiaia, riconoscendo tale facolta' ai  lavoratori
 (e alle lavoratrici) dipendenti dalle imprese industriali del settore
 siderurgico pubblico, che siano di eta' non inferiore a quella di cui
 all'art. 1, primo comma, della legge 31 maggio 1984, n. 193 (50 anni)
 e  all'art.  5,  quinto  comma,  del  d.-l. 30 dicembre 1987, n. 536,
 convertito in legge 29 febbraio 1988, n. 48 (che ha  abbassato  a  47
 anni  il  limite  di eta' "prepensionabile" per le lavoratrici) e che
 possano  far  valere  non  meno  di  quindici  anni   di   anzianita'
 contributiva.  A questi lavoratori la norma in oggetto garantisce "ai
 fini del conseguimento della pensione di vecchiaia, una maggiorazione
 dell'anzianita' assicurativa per i periodi mancanti al raggiungimento
 della normale eta' per essa prevista".
    Hanno sostenuto le ricorrenti e ha ritenuto  il  pretore  che,  in
 forza del rinvio agli artt. 1 della legge n. 193/1984 e 5 della legge
 n.  48/1988  e  della lettura che di queste norme si impone, ai sensi
 delle sopra ricordate decisioni della Corte costituzionale, anche  la
 norma   in   esame   debba   interpretarsi  in  senso  favorevole  al
 riconoscimento, in favore delle lavoratrici, di un aumento massimo di
 anzianita'  contributiva  non  inferiore  a  quello  riconosciuto  ai
 lavoratori  di  sesso maschile, dovendosi avere riguardo, ai fini del
 prepensionamento,  non   all'eta'   pensionabile,   bensi'   all'eta'
 lavorativa,  con riferimento alla quale, secondo quanto affermato dal
 giudice delle leggi, non esiste differenziazione  fra  uomo  e  donna
 (fra  le  altre,  si  vedano  le  sentenze nn. 137 del 1986 e 498 del
 1988).
    Osserva, peraltro, il tribunale che il beneficio introdotto  dalla
 legge  n.  223/1991 trova in quella stessa legge una propria autonoma
 disciplina,   essendo   limitato   alla   individuazione    dell'eta'
 prepensionabile  il  rinvio  alle leggi n. 193/1984 e 48/1988. Nessun
 rilievo  immediato  e  diretto  puo',  quindi,  riconoscersi,   nella
 fattispecie  in  esame, alle decisioni della Corte costituzionale che
 hanno  ampliato  il  periodo  massimo  di  contribuzione  figurativa,
 riconoscibile  alle  donne  in  base  a  quelle  norme  (in combinato
 disposto  fra  loro  e  con  l'art.  16  della  legge  n.  155/1991),
 parificandolo a quello previsto per gli uomini.
    Si  tratta,  allora, di verificare se la norma oggi in discussione
 sia suscettibile  di  un'interpretazione  conforme  al  principio  di
 diritto,  affermato  in  quelle occasioni dalla Corte costituzionale,
 ovvero presti il  fianco  alle  medesime  censure  di  illegittimita'
 costituzionale - basate sugli artt. 3 e 37 Cost. - che hanno condotto
 alla  declaratoria di illegittimita' costituzionale sia del combinato
 disposto degli artt. 1 della legge n. 193/1984 e 16  della  legge  n.
 155/1981,  sia  dell'art. 2, secondo comma, della successiva legge n.
 181/1989.
    Ritiene il collegio che  il  dato  letterale  escluda  una  simile
 interpretazione  della  norma  in  contestazione. Il riferimento alla
 "normale eta'" per il conseguimento della pensione di  vecchiaia  non
 puo'   infatti   che   interpretarsi   come  rinvio  all'eta'  minima
 ordinariamente  necessaria   per   l'accesso   a   tale   trattamento
 pensionistico:  cinquantacinque anni per le donne e sessanta anni per
 gli uomini.
    Appare, allora, innegabile la concreta disparita'  di  trattamento
 che  viene  a  determinarsi  fra  uomini  e donne che, per anzianita'
 contributiva ed eta' anagrafica, si trovino in condizioni  del  tutto
 identiche   e   parimenti   idonee  per  l'accesso  al  beneficio  in
 discussione (in ipotesi, quindici anni di contribuzione  e  cinquanta
 anni  di  eta'): i primi potranno beneficiare di una maggiorazione di
 anzianita' di  cinque  anni  superiore  a  quella  riconosciuta  alle
 seconde.  Ed  impari  appare, altresi', il trattamento riservato alle
 lavoratrici che, come le ricorrenti, pur essendo ammesse al beneficio
 ed eta' inferiore rispetto agli uomini,  si  vedono  riconosciuta,  a
 quarantasette anni, una anzianita' figurativa di due anni inferiore a
 quella   riconosciuta  agli  uomini  che  accedano  al  beneficio  al
 compimento del cinquantesimo anno di eta'.
    Tale effettiva discriminazione non trova giustificazione ne' nella
 facoltativita' del  pensionamento  anticipato  -  giacche'  il  favor
 laboratoris   sotteso   a   tale   beneficio  non  puo'  giustificare
 l'attribuzione del beneficio stesso secondo criteri che integrino una
 violazione del principio di  parita'  di  trattamento  -,  ne'  nella
 natura  di  questo  istituto,  che  si  assuma  tale  da  imporne  il
 ragguaglio, sotto il  profilo  contributivo,  all'eta'  pensionabile,
 fissata dalla legge in 55 anni per le donne e in 60 per gli uomini. A
 prescindere,  infatti,  dalla  opinabilita'  di tale assunto - la cui
 esattezza e' stata  ripetutamente  negata  dal  giudice  delle  leggi
 (sentenze  nn.  371 del 1989 e 503 del 1991), nonostante le contrarie
 affermazioni  contenute  in  recenti  decisioni  della  stessa  Corte
 (sentenze n. 404 e 345 del 1994) -, deve osservarsi che la previsione
 di  differenti  eta'  minime  di  accesso  alla pensione di vecchiaia
 risponde ad un'ottica di  favore  per  la  particolare  condizione  e
 funzione  sociale  della  donna,  in ragione della quale si riconosce
 alla  lavoratrice  una  facolta',  il  cui  esercizio  e'  del  tutto
 eventuale  e  che,  come  non  pregiudica  il  diritto della donna di
 proseguire  l'attivita'  lavorativa  e  di   aumentare   la   propria
 anzianita'  contributiva  sino al compimento del sessantesimo anno di
 eta' - in posizione di perfetta parita' con  i  lavoratori  di  sesso
 maschile   -   allo  stesso  modo  non  puo'  giustificarne  un  piu'
 sfavorevole trattamento pensionistico, esclusivamente  basato  su  un
 difforme riconoscimento di anzianita' figurativa.
    Ne'  si  dica  che  la possibilita' di pensionamento anticipato ad
 un'eta' in cui l'accesso a tale beneficio  e'  precluso  agli  uomini
 costituisce  sufficiente  compensazione  dello  svantaggio economico,
 sopra  evidenziato  o,  comunque,  rende  non  comparabili   le   due
 situazioni.    Il    profilo   di   quantificazione   dell'anzianita'
 contributiva, che qui viene in rilievo, non ha nulla a che vedere con
 le ragioni che giustificano tale  anticipazione;  ragioni  del  tutto
 identiche  a  quelle che sorreggono la previsione di un limite minimo
 di eta' pensionabile inferiore per le donne che per gli uomini.
    La questione di  legittimita'  costituzionale,  prospettata  dalla
 difesa  delle  odierne  appellate, appare, quindi, non manifestamente
 infondata ed altresi'  rilevante  ai  fini  del  decidere,  giacche',
 qualora  dovesse affermarsi, anche con riferimento alla disciplina in
 esame, la necessita' del riconoscimento di una pari maggiorazione  di
 anzianita'  per  l'uomo e per la donna, dovrebbe essere confermato il
 loro diritto all'attribuzione di un'anzianita' contributiva  maggiore
 di   quella   riconosciuta  dall'I.N.P.S.,  mentre,  laddove  venisse
 affermata la conformita'  a  costituzione  della  norma,  cosi'  come
 interpretata  ed applicata dall'I.N.P.S., le domande di Traverso Egle
 e Bianchi Vilma dovrebbero essere respinte.
    Deve,  pertanto,  disporsi  la  sospensione  del   giudizio,   con
 immediata  trasmissione  degli atti alla Corte costituzionale, a cura
 della cancelleria.