IL PRETORE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento penale a
 carico di D'Alessandro Vincenzo e Graldi e Ivano, imputati del  reato
 p.  e  p.  dall'art.  2,  comma  terzo,  legge  n.  319/1976 perche',
 D'Alessandro  quale  presidente,  Graldi  quale  direttore   generale
 dell'Acosea, effettuavano scarico di acque provenienti dal depuratore
 di   Quartesana  nello  scolo  Rovere-Seraglio  con  superamento  dei
 parametri di cui alla tabella A) della legge quanto a azoto nitroso.
                             O S S E R V A
    Che il p.m.  di  udienza  dott.  Marcello  Rambaldi  ha  richiesto
 pronuncia  di  questo  pretore in ordine all'ipotesi di non manifesta
 infondatezza e rilevanza della questione di legittimita' degli  artt.
 3  e  segg.  d.-l. n. 9/1995 per violazione degli artt. 3, 9, 32, 10,
 41, 25 e 77 della Costituzione,  con  trasmissione  degli  atti  alla
 Corte costituzionale.
    Osserva  il pretore che la richiesta e' fondata e ritiene pertanto
 di dover dichiarare rilevante e  non  manifestamente  infondata,  per
 violazione  degli artt. 3, 9, 32, 10, 41, 25 e 77 della Costituzione,
 la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l.  16
 gennaio 1995 n. 9.
    1.- Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    L'art.  3 del d.-l. n. 9/1995 ha depenalizzato tutte le ipotesi di
 superamento dei limiti di accettabilita' di cui alle tabelle allegate
 alla legge n. 319/1976, fatta eccezione per gli scarichi  provenienti
 da insediamenti produttivi.
    Nel  contesto  sanzionatorio  della legge n. 319/1976, per come si
 delineava prima delle diverse modifiche apportate con i decreti-legge
 succedutisi dal 15  novembre  1993  ad  oggi,  il  reato  piu'  grave
 appariva  essere  quello  previsto  dal  comma  3, dell'art. 21. Tale
 normativa, anche alla luce della sentenza  n.  1766/1993  delle  s.u.
 della  Cassazione  era applicabile a tutti gli scarichi, quale che ne
 fosse la provenienza.
    Ora, se puo' essere ritenuto ragionevole l'intento legislativo  di
 sanzionare  solo  amministrativamente  gli scarichi provenienti dagli
 insediamenti  civili  (potendosi  presumere  che  gli  stessi   siano
 normalmente  caratterizzati  da  un carico inquinante minore rispetto
 agli scarichi degli insediamenti produttivi e quindi meno dannosi per
 l'ambiente). Non altrettanto puo' dirsi con riferimento agli scarichi
 delle pubbliche fognature. Infatti, a queste ultime possono  affluire
 anche  scarichi  provenienti  da  insediamenti produttivi (evenienza,
 questa disciplinata gia' nel corpo normativo della legge Merli e poi,
 sotto il  profilo  piu'  squisitamente  tecnico,  dalla  delibera  30
 dicembre  1980  del  Comitato  interministeriale  per la tutela delle
 acque dell'inquinamento e recentemente dalla direttiva CEE n. 271 del
 21 maggio  1991)  per  cui  non  e'  possibile  fondare  un  giudizio
 preventivo e generale di minor pericolosita'.
    Alla  stregua  della  disciplina  sanzionataria  introdotta con il
 d.-l. n. 9/1995 dunque, mentre l'esercizio di un singolo  scarico  da
 insediamento  produttivo,  in  violazione delle tabelle allegate alla
 legge n. 319/1976,  viene  sanzionato  penalmente  anche  qualora  il
 superamento  dei  limiti  tabellari sia modesto, costituisce, invece,
 semplice illecito amministrativo l'esercizio  dello  scarico  di  una
 pubblica  fognatura  alla  quale affluisce una pluralita' di scarichi
 provenienti  da  insediamenti  produttivi,  anche  qualora lo scarico
 terminale superi in maniera rilevante i limiti tabellari  ed  apporti
 quindi un concreto nocumento alla situazione ambientale.
    Pertanto  la  nuova  normativa  fonda  la  differenziazione  della
 disciplina sanzionatoria non gia',  come  sarebbe  ragionvole,  sulla
 potenzialita'  inquinante (sia pure presunta) degli scarichi e quindi
 sulla gravita' del fatto ma, in ultima analisi, sulla  qualifica  del
 soggetto   titolare  dello  scarico  terminale  (imprenditore  ovvero
 amministrazione pubblica).
    Ancora  piu'  corposo  si  manifesta  il  sospetto  di  violazione
 dell'art.  3  della  della  Costituzione ove si confronti la condotta
 depenalizzata dall'art. 3 del d.-l. n. 9 con quella dallo stesso  non
 modificata,  prevista dall'art. 23, primo comma, della legge 319/1976
 e per la quale e'  prevista  la  pena  dell'ammenda  fino  a  lire  5
 milioni.  Tale  ultima  norma,  infatti,  prevede  la  sanzione sopra
 indicata per "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi  prima
 che  l'autorizzazione  da  lui  richiesta  nelle forme prescritte sia
 stata  concessa".  Ne  deriva  la  paradossale  conseguenza  che  una
 condotta in concreto inquinante come quella di effettuare scarichi di
 pubbliche  fognature  superando  i limiti di tollerabilita' e' punita
 con una mera sanzione amministrativa mentre una  violazione  formale,
 quale  quella  rappresentata  dall'avere  attivato  uno  scarico (non
 necessariamente  inquinante)   prima   che   l'autorizzazione,   gia'
 richiesta,  sia  stata  rilasciata,  costituisce  una  fattispecie di
 rilievo penale.
    Infine un'ulteriore violazione  del  limite  della  ragionevolezza
 deriva  dalla circostanza che l'art. 3 del d.-l. n. 9/1995 prevede il
 pagamento di un somma da  lire  3  milioni  a  lire  30  milioni  per
 l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui all'art. 21, comma
 terzo,  della  legge  n. 319/1976, mentre l'art. 6 prevede la diversa
 maggiore sanzione del pagamento di una somma da  lire  10  milioni  a
 lire  100  milioni  per  chi  apre o comunque effettua scarichi delle
 pubbliche  fognature,  servite  o  meno  da  impianti   pubblici   di
 depurazione,  senza avere richiesto l'autorizzazione. Con riferimento
 al  caso  di  specie,  quindi,  verrebbe  punito   piu'   severamente
 l'amministratore pubblico che non chiede l'autorizzazione quando deve
 consentire  l'apertura  di un nuovo scarico fognario (che potrebbe in
 ipotesi non avere carattere inquinante)  rispetto  all'amministratore
 che,  indipendentemente  dalla  richiesta  di autorizzazione, dispone
 l'effettuazione di uno scarico fognario sicuramente inquinante.
    2.  -  Violazione  degli  artt.  9,  secondo  comma,  e  32  della
 Costituzione.
    Secondo  la giurisprudenza costituzionale il concetto di paesaggio
 deve intendersi come "ambiente naturale", come  ecosistema.  Ora,  la
 mancata  previsione  di  una  norma penale che sanzioni comportamenti
 profondamente   incidenti   sulla   qualita'   dell'ambiente,    come
 l'effettuazione  di  scarichi  di  pubbliche fognature che superino i
 limiti di accettabilita'; o l'attivazione dei predetti scarichi senza
 avere  richiesto  la   preventiva   autorizzazione,   determina   una
 diminuzione  dell'efficacia  preventiva e dissuasiva della disciplina
 di cui si tratta. Tale disciplina, inoltre, poiche'  non  differenzia
 il  trattamento  sanzionatorio a seconda della natura delle acque che
 recapitano nelle pubbliche fongature e, quindi,  in  base  alla  loro
 effettiva  potenzialita'  inquinante, ma solo in base al dato formale
 della   provenienza   (da  insediamenti  produttivi  o  da  pubbliche
 fognature), non  permette  una  adeguata  e  sostanziale  tutela  del
 paesaggio.  Da  quanto  sopra  esposto  deriva  pure  il  sospetto di
 contrasto tra le norme ordinarie e l'art. 32 della  Costituzione  che
 tutela  il  diritto alla salute giacche' tale diritto ricomprende per
 costante  giurisprudenza  costituzionale  il   diritto   all'ambiente
 salubre.
    3. - Violazione dell'art. 10 della Costituzione.
    Deve  rilevarsi  la  mancata  conformazione alle norme adottate in
 sede comunitaria in materia di acque reflue urbane con  la  direttiva
 Cee  n.  271  del  21  maggio  1995  in  quanto  norme  cui il nostro
 ordinamento giuridico e' tenuto costituzionalmente ad  uniformarsi  e
 che,  ai sensi della predetta direttiva, avrebbe gia' dovuto recepire
 dal 30 giugno 1993. In particolare l'art. 2 della direttiva pone  una
 netta distinzione nell'ambito delle acque reflue urbane, tra le acque
 reflue domestiche e le acque reflue industriali.
    Distinzione  alla  quale  e'  collegata poi una diversa disciplina
 fondata  sulla  necessita'  per  le  acque  reflue  industriali   che
 affluiscono  in  reti fognarie, di regolamentazione ed autorizzazioni
 specifiche nonche' di specifici controlli (artt. 11 e  13).  Inoltre,
 la direttiva Cee, stabilisce, al fine di evitare negative conseguenze
 sull'ambiente,   specifici   requisiti   per  le  sole  acque  reflue
 industriali che confluiscono in reti fognarie e  non  invece  per  le
 acque domestiche che hanno il medesimo sbocco (All. 1C).
    Ora,   poiche',  nell'ambito  della  direttiva  cominitaria  sopra
 indicata la  natura  delle  acque  che  confluisono  nelle  pubbliche
 fognature  rappresenta  elemento qualificante ai fini della normativa
 che  ne  regolamenta  lo  scarico,  deve  concludersi  che  l'attuale
 disciplina  statuale,  con  riferimento in particolare all'art. 3 del
 d.-l.  n.   9/1995,   in   quanto   prescinde   completamente   dalla
 considerazione    dell'elemento   discriminante   dinanzi   indicato,
 riservando  un  identico  trattamento  sanzionatorio  per   qualsiasi
 scarico  delle  pubbliche  fognature,  quale  che sia la natura delle
 acque che in esse  affluiscono,  e'  in  evidente  contrasto  con  la
 direttiva comunitaria.
    Del resto il legislatore appare ben consapevole di tale contrasto,
 atteso che ha precisato all'art. 1, comma quarto, del d.-l. n. 9/1995
 che  "le  disposizioni  del  presente  decreto si applicano in attesa
 dell'attuazione della direttiva 91/271 Cee del 2 maggio 1991.
    Ed e' particolarmente grave che lo Stato italiano, gia' due  volte
 condannato  dalla Corte europea di giustizia per la permissivita' del
 sistema  autorizzatorio  e   per   l'inadeguatezza   delle   sanzioni
 contemplate  dall'art.  22  della  legge  Merli  (Corte  di  gius. 28
 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990), ed ormai inadempiente rispetto  al
 termine   del  30  giugno  1993,  previsto  per  l'adeguamento  della
 normativa nazionale alla  direttiva  Cee  271  del  21  maggio  1991,
 continui  a  legiferare in via d'urgenza in contrasto con la predetta
 disciplina, azzerando del tutto gli obblighi autorizzatori.
    E cio' accade in una situazione in cui la costante  giurisprudenza
 della  Corte costituzionale afferma che tutti i soggetti competenti a
 dare esecuzione alle leggi sono giuridicamente tenuti a  disapplicare
 le   norme   interne   incompatibili  con  la  normativa  comunitaria
 direttamente  applicabile  nell'ordinamentointerno  (Corte  cost.  11
 luglio 1989 n. 389).
    4. - Violazione dell'art. 41 della Costituzione.
    L'art.   41,   secondo   comma,  della  Costituzione  prevede  che
 l'iniziativa economica privata non puo' svolgersi  in  contrasto  con
 l'utilita'  sociale  e a tale norma viene generalmente ricondotto, al
 fine di fornirgli  veste  costituzionale,  il  principio  comunitario
 espresso in numerose direttive in materia ambientale del "chi inquina
 paga".
    In  proposito  e'  anche  da  ricordare  la  sentenza  della Corte
 costituzionale n. 127 del 16 marzo 1990 la quale ha  negato  che  "il
 costo  eccessivo"  possa  giustificare  la mancata adozione, da parte
 delle imprese, delle migliori tecnologie disponibili per  ridurre  le
 emissioni  inquinanti.  Ora,  appare  chiaro  che le citate norme del
 decreto, laddove escludono la sanzionabilita' penale per gli scarichi
 delle pubbliche fognature, pur se agli stessi,  affluiscano  scarichi
 da  insediamenti produttivi, vengono di fatto a penalizzare anche sul
 piano della  libera  concorrenza,  quelle  imprese  che,  servite  da
 scarichi che non recapitano in pubbliche fognature abbiano affrontato
 rilevanti  investimenti per adeguare i propri impianti alla normativa
 in vigore e si trovino  magari  esposte  al  rischio  della  sanzione
 penale  (art.  23,  legge n. 319/1976) per avere iniziato l'attivita'
 prima di avere formalmente ottenuto l'autorizzazione richiesta.
    5. - Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione.
    Il principio della riserva di legge in  materia  penale  possiede,
 quale  primo e fondamentale significato, quello secondo cui le scelte
 di politica criminale, sono  monopolio  esclusivo  del  Parlamento  e
 l'ammissibilita'  che  nuove norme di diritto penale siano introdotte
 attraverso  decreti-legge  o  decreti  legislativi  e  connessa  alla
 circostanza  che,  in  entrambi  i casi si realizzi e sia assicurato,
 comunque, l'intervento del Parlamento in posizione straordinaria, ora
 quale organo delegante (art. 76 della Costituzione).
    Ora quale organo cui e' rimesso il potere di conferire  stabilita'
 e  durevolezza,  attraverso  la  legge di conversione, a disposizioni
 normative precarie e soggette a decadenza in caso di inutile  decorso
 del  termine  di  60 giorni dettato dall'art. 77, ultimo comma, della
 Costituzione
    Nella materia in questione invece, con  la  reiterazione  di  vari
 decreti-legge   mai   convertiti   si  e'  realizzata  di  fatto,  la
 sottrazione al Parlamento della sua esclusiva competenza  a  disporre
 in   materia   penale,   con   l'inammissibile  assunzione  da  parte
 dell'esecutivo del relativo potere di bilanciamento e di  valutazione
 degli  interessi  che  in  materia  penale  e di esclusiva competenza
 dell'organo assembleare rappresentativo della sovranita' popolare.
    La prassi della reiterazione dei decreti-legge in  materia  penale
 con  contenuto  identico  ovvero,  talvolta,  come  nella specie, con
 contenuto diverso, ha come conseguenza di  sottrarre,  di  fatto,  al
 Parlamento la possibilita' prevista dall'art. 77, ultimo comma, della
 Costituzione, "di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla
 base  dei decreti non convertiti". E' evidente che se la reiterazione
 dei decreti nella stessa materia si protrae per un anno, si  potranno
 determinare  effetti  definitivi quale il giudicato, non modificabili
 in sede giudiziaria, con la conseguente gravissima  compressione  dei
 diritti  singoli,  resa  ancora  piu'  incisiva  dalla  disparita' di
 trattamento che potrebbe verificarsi ove due  fattispecie  identiche,
 ma  giudicate  sotto  la vigenza di un diverso decreto-legge, vengano
 diversamente giudicate.
    Va  ulteriorimente  osservato  che  la  reiterazione a catena, per
 circa un anno di  diversi  decreti-legge  in  relazione  alla  stessa
 materia,  denota in modo palese, con specifico riferimento all'ultimo
 dei decreti emanati, la carenza dei requisiti  della  "necessita'  ed
 urgenza".  Requisiti  che,  se  possono  ipotizzarsi  come  esistenti
 rispetto al primo dei decreti, certamente sono venuti meno ad un anno
 di distanza e cioe' dopo un periodo di tempo tale  da  consentire  la
 normale legiferazione del Parlamento in via ordinaria.
    In  ordine  alla  rilevanza,  ove  si  ritenesse  la  legittimita'
 dell'art.  3  del  d.-l.  n.  9/1995  quest'ultimo  dovrebbe  trovare
 applicazione  al  caso  di  specie,  con  conseguente declaratoria di
 assoluzione per non essere il fatto  imputato  previsto  dalla  legge
 come reato.
    Dalle  considerazioni esposte, si desume che il presente giudizio,
 allo stato e vigente del d.-l. n. 9/1995 non puo' essere definito  in
 modo  indipendente  dalla risoluzione della questione di legittimita'
 costituzionale.