IL PRETORE Letti gli atti, all'esito dell'istruttoria dibattimentale, osserva quanto segue. Il momento dibattimentale celebratosi nell'ambito del presente procedimento, instaurato nei confronti di Chilla' Maria per i reati di cui agli artt. 2, legge n. 683/1983 e 37 legge n. 689/1981, in relazione ad omissioni di carattere contributivo per vari periodi, dal marzo 1990 al maggio 1992, omissioni effettivamente realizzate dall'odierna giudicanda, ha permesso di appurare come la R.C.S. s.a.s., societa' della quale la Chilla' era legale rappresentante, sia stata dichiarata fallita in data 29 ottobre 1992. In particolare l'esame testimoniale del curatore fallimentare, disposto a motivo della ritenuta rilevanza di un approfondimento avente ad oggetto il rapporto tra le perpetrate omissioni e la dichiarazione di fallimento cui si e' fatto teste' riferimento, ha condotto ad accertare come, all'epoca dei fatti portati al vaglio del giudice dibattimentale, la situazione patrimoniale aziendale, vista nel suo complesso, a causa del crearsi di uno sbilancio in negativo tra poste patrimoniali attive e poste patrimoniali passive, fosse tale da legittimare l'apertura di una procedura concorsuale, e nello specifico, in assenza di altre "prospettive" procedurali, l'apertura della procedura concorsuale fallimentare. Giova, a tale proposito, ricordare che in una situazione del genere teste' descritto, l'ordinamento giuridico statuisce imperativamente la necessita' di una tutela della par condicio creditorum, intesa come necessita' di un'equa distribuzione - fatte salve le deroghe di legge - tra i creditori, dei pregiudizi derivanti dalla irrimediabile situazione economica. E che esistano delle statuizioni imperative sia sotto il profilo dell'obbligo dell'imprenditore di bloccare, in ipotesi di assoluta negativita' della situazione economica aziendale, il divenire della vicenda imprenditoriale, sia sotto il profilo dell'obbligo di rispetto della citata par condicio, si palesa evidenziato vuoi dall'esistenza della disposizione, di cui all'art. 217 n. 4 legge fallimentare, la quale assoggetta a censura penale l'operatore economico che "ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento", vuoi dall'esistenza della disposizione di cui al terzo comma dell'art. 216 della medesima legge, la quale assoggetta a censura penale, tra l'altro, "il fallito, che, prima della procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti". Apparentemente, quindi, in sostanza, in ipotesi di esistenza di uno stato di insolvenza in capo ad un soggetto economico, sembrerebbero sussistere, con particolare riferimento alla questione che ci occupa, due distinti imperativi: uno, rappresentato dall'obbligo di versamento dei contributi previdenziali, previa presentazione della dichiarazione di cui all'art. 37, legge n. 689/1981, l'altro di immediato arresto dell'attivita' imprenditoriale, generato dall'attivazione dei meccanismi istruttori prefallimentari poi sfocianti nella dichiarazione di fallimento, arresto comportante l'estromissione dell'imprenditore dalla gestione imprenditoriale e l'inefficacia di qualsiasi pagamento fuori dall'iter della procedura concorsuale dominata dalle figure pubblicistiche del curatore, del giudice delegato e del tribunale fallimentare. A ben considerare, pero', la coesistenza di due statuizioni cosi' intimamente confliggenti, non puo' che essere, appunto, solo apparente: e' pur vero che l'ordinamento giuridico dimostra, giustamente, una particolare attenzione per gli interessi previdenziali dei lavoratori e per l'interesse alla regolare gestione degli enti deputati all'erogazione delle prestazioni di detta natura, attribuendo carattere di credito privilegiato alle posizioni giuridiche attive, aventi ad oggetto la ricezione di somme di denaro dai datori di lavoro, esistenti a favore degli enti previdenziali, ma una logica ermeneutica da genus a species non puo' che portare a ritenere che l'obbligo contributivo, nel senso di materiale versamento del quantum dovuto, debba "cedere il campo" al confliggente obbligo dell'attivazione del proprio fallimento, in situazione di insolvenza, e quindi in una situazione, patologica, rappresentante, in una logica insiemistica, un cerchio di proporzioni piu' ridotte rispetto al cerchio piu' generale riconducibile all'insieme indifferenziato delle possibili situazioni economiche. Un'interpretazione sistematica, in buona sostanza, con riferimento al problema del coordinamento tra le nonne contestate all'imputata e le disposizioni fallimentari di cui si e' detto, e specificatamente la norma di cui all'art. 217 n. 4 legge fallimentare, dettata, come gia' accennato, per "limitare i danni" connessi a fattispecie di decozione di soggetti economici, non puo' che condurre a ritenere che eventuali censure a Chilla' Maria - anche se non e' questa la sede per approfondire detto profilo posto che non e', appunto, questa la censura elevata a livello di ipotesi accusatoria alla medesima - potrebbero essere elevate in relazione ad un eventuale ritardo nell'attivazione delle procedure a tutela della massa dei creditori, atteso che, sulla base di tutto quanto esposto in merito alla situazione economica dell'impresa nel periodo cui il presente procedimento si riferisce, tale attivazione doveva considerarsi l'unico imperativo obbligo esistente in capo alla predetta. Una lettura organica delle disposizioni di cui si discute, in definitiva, deve, ad opinione dello scrivente, far propendere per una lettura delle stesse in chiave di operativita' di quelle statuenti l'obbligo di soddisfazione degli oneri contributivo-previdenziali nell'ipotesi in cui la situazione economico-finanziaria del soggetto economico si trovi ancora, se cosi' puo' dirsi, in bonis, laddove invece, in fattispecie economiche irrimediabilmente compromesse si deve ritenere che detti obblighi vadano ad estinguere la propria operativita' per lasciare spazio all'alternativo obbligo da parte dell'imprenditore, di - usando un termine poco tecnico giuridico ma probabilmente esauriente a livello di immagine - "fermare il giuoco" iniziato con la creazione dell'impresa Se tutto cio' e' vero, ben si comprende come le condotte previste dalle norme citate nel formale assetto accusatorio, nelle situazioni di decozione legittimanti una pronuncia di fallimento, vadano a perdere il loro coefficiente di illiceita', tenuto conto che il mancato versamento di quanto teoricamente dovuto non puo' essere letto in chiave di inadempimento. Di fatto, in uno stato di insolvenza del soggetto economico, le eventuali censure che potranno essere elevate all'imprenditore o, nel caso di societa', ai soggetti allo stesso sostanzialmente parificati, saranno quelle assai pesanti di cui agli artt. 216 o 223 legge fallimentare in ipotesi di sottrazione delle risorse economiche, corrispondenti ai contributi previdenziali, dal patrimonio societario o dell'impresa, per il solo lucro dell'imprenditore o amministratore - concretandosi in detta ipotesi la grave fattispecie di bancarotta per distrazione - o quella di cui al gia' piu' volte citato art. 217 legge fallimentare nel caso che le risorse in parola siano reindirizzate, con non saggia insistenza, verso l'attivita' dell'impresa, pur in presenza di un panorama privo di sbocchi migliorativi. Taluno potrebbe sostenere che proprio a motivo della continuazione dell'attivita' da parte dell'impresa, nell'ambito della quale generalmente vengono pagati fornitori e soprattutto, i lavoratori dipendenti, l'imprenditore avrebbe l'obbligo di adempiere comunque agli obblighi di natura previdenziale. A tale osservazione ipotetica ritiene lo scrivente non si possa che contrapporre, in via immediata, come anche il pagamento degli stipendi ai lavoratori dipendenti, in una situazione di decozione dell'impresa, sia da considerarsi non conforme al dettato normativo, prospettandosi anche detto pagamento come soddisfacimento di diritti di credito non aventi piu' una tutela assoluta da parte dell'ordinamento, ma difesi, seppure in un'ottica privilegiata, alla condizione di un'effettiva capienza della massa attiva fallimentare. Dall'altra parte, che la dichiarazione di fallimento abbia una sua operativita' non solo ex nunc ma apra uno scenario, sotto un certo profilo, di retroattivita', e' dimostrato dall'esistenza delle azioni revocatorie, esperibili dopo la dichiarazione di cui sopra e intuitivamente funzionalizzate a ricostituire una situazione patrimoniale ritenuta, sulla base di una presunzione, quella creatasi nell'immediatezza del concretarsi di uno stato di decozione. Pertanto, per riportarci alla possibile obiezione cui si e' fatto teste' riferimento, non pare possibile ritenere legittima una condotta, quale il pagamento regolare dei contributi previdenziali - che sulla scorta di tutto quanto sin qui esposto va reputata collocarsi fuori dalla corretta operativita' -, sulla base della consuetudinaria realizzazione di altro comportamento, vale a dire il pagamento degli stipendi, anch'esso non in linea con il complessivo spirito della normativa fallimentare. La suddetta perdita di valenza illecita delle condotte di inadempimento degli obblighi contributivi si deve reputare verificarsi anche in relazione a quanto statuito dall'art. 37, legge n. 689/1981, fattispecie di reato che parrebbe essere caratterizzata da un taglio maggiormente formale, individuando, secondo la soluzione ermeneutica prevalentemente accolta, gia' nella sola omissione delle dichiarazioni la condotta illecita, con la subordinazione della concreta punibilita', con il meccanismo della condizione obiettiva di punibilita', all'esistenza di un'omissione contributiva non inferiore ai cinque milioni mensili. Bisogna a tale proposito considerare che la ratio della disposizione va individuata nella tutela dell'interesse degli enti previdenziali all'accertamento delle posizioni contributive dei datori di lavoro, con specifico riferimento a imprenditori caratterizzati da un certo "peso contributivo"; in questo senso, mantenendo come pilastro logico del nostro iter argomentativo l'esistenza, in ipotesi di situazioni economiche compromesse irrimediabilmente, di un obbligo di attivazione del proprio fallimento, ci si puo' rendere conto di come nel caso teste' accennato l'interesse in parola verrebbe comunque tutelato posto che tra gli obblighi incombenti sugli organi fallimentari vi e' anche la presentazione delle varie dichiarazioni di legge di carattere fiscale e previdenziale, presentazione che e' assai piu' raro venga omessa dagli organi di natura pubblicistica in discorso rispetto a quanto puo' accadere in una situazione di normalita' della vita dell'impresa. Ancora una volta si profila evidente come, in una situazione del genere sopra descritto, l'obbligo esistente, la cui violazione e' "assorbente" rispetto alla violazione di altri obblighi in linea astrattamente teorica coesistenti, sia l'attivazione dei meccanismi fallimentari e la "consegna" dell'impresa ai relativi organi. Anche l'esistenza di una condizione obiettiva di punibilita' relativa all'omesso versamento dei contributi, il cui verificarsi "apre la via" all'instaurazione del procedimento, con l'inoltro della domanda punitiva, deve comunque rapportarsi - per poter consentire di leggere la condotta di reato in un'ottica di illiceita' - alla liceita' del fatto commissivo speculare all'omissione costituente la detta condizione obiettiva: in concreto nel caso di cui si discute, se e' vero che l'omissione contributiva si e' verificata, e' pero' vero, per quanto si e' fin qui detto, che l'ente previdenziale non era titolare, data la situazione economica del debitore, del diritto a ricevere le somme formalmente dovute da quest'ultimo, fatto salvo, comunque, il diritto in argomento in ipotesi, attivata la procedura fallimentare, di capienza della massa attiva. (artt. 2751 e s.s. codice civile, richiamati dalla normativa fallimentare all'art. 111). D'altro canto, la sostenibilita' del percorso logico sin qui seguito, con l'affermazione dell'obbligo, prevalente ed assorbente, nella situazione di fatto di cui si e' detto, dell'attivazione delle procedure concorsuali, con contestuale perdita di rilevanza penale degli inadempimenti per cui e' processo, a motivo del nascere della censurabilita' penale della violazione dell'obbligo della teste' citata attivazione, sembra evidenziata dalla seguente, intuitiva considerazione: non si palesa conforme a giustizia la possibilita' di simultanea esistenza da un canto di un'eventuale sanzione ex art. 217 legge fallimentare, per non avere bloccato l'attivita' dell'impresa e quindi, tra l'altro, per non aver bloccato gli atti estintivi di debiti che in tale attivita' rientrano, e dall'altro di una sanzione penale per non aver adempiuto, seppure in stato di decozione, agli obblighi contributivi rappresentati proprio dalle dichiarazioni e dal versamento a titolo di contributi, da leggersi chiaramente in chiave di estinzione di un debito, seppure speculare ad un credito privilegiato. Sulla scorta di tutto quanto sin qui esposto, e della ritenuta perdita di illiceita' penale delle condotte per cui e' processo, nelle circostanze gia' indicate di tempo, condotte peraltro pacificamente poste in essere, si dovrebbe emettere, ad opinione di questo pretore, una pronunzia assolutoria a favore di Chilla' Maria perche' il fatto non costituisce reato. Il panorama interpretativo, pero', concernente le omissioni di natura previdenziale in ipotesi di imprese che versino in stato di decozione, non risulta finora avere accolto, in sede giurisprudenziale, la linea che, per quanto sin qui detto, si e' reputato in questa sede di delineare, affermando in realta' la giurisprudenza assolutamente prevalente, sinora, una sorta di assolutezza dell'obbligo, in capo all'imprenditore, di versamento di contributi previdenziali, qualunque sia la situazione patrimoniale dell'impresa prima di una formale dichiarazione di fallimento. Tale linea assolutamente prevalente, ormai cristallizzatasi ed apparentemente immune da qualunque travaglio in relazione ai problemi suesposti, provoca a parere dello scrivente, un contrasto tra le disposizioni contestate nel presente procedimento e quelle di cui all'art. 27, terzo comma della Costituzione e di cui all'art. 41 della medesima Carta costituzionale, se rapportate, dette norme contestate, alle disposizioni, nella presente ordinanza menzionate, di carattere penale fallimentare: con riguardo al primo dei due profili di incostituzionalita', il contrasto con il teste' citato art. 27, terzo comma si produrrebbe, evidenziando in tal modo un dato di irragionevolezza dell'ordinamento, posto che l'imprenditore in stato di decozione, pur avendo in ipotesi gia' perpetrato, in una species facti esaurientemente ed in via organicamente esclusiva presa in esame e disciplinata dalla normativa fallimentare, condotte illecite che valgono al medesimo la successiva punibilita' quantomeno a mente dell'art. 217 di detta normativa (punibilita' subordinata esclusivamente alla declaratoria di fallimento, da molti ritenuta una mera condizione oggettiva di punibilita'), verrebbe a rispondere contemporaneamente ed inevitabilmente, come gia' sopra accennato, sulla base di due presupposti tra loro contraddittori. In primo luogo, infatti, verrebbe a rispondere sulla scorta delle disposizioni contestate nel presente procedimento, per non avere versato i contributi e pertanto per non avere perpetuato seppure, appunto, in stato di decozione, le attivita' di pagamento di, come e' quello verso l'INPS, un debito, ed in secondo luogo, contraddittoriamente, si troverebbe assoggettato ad una responsabilita' penale sulla base delle disposizioni penali fallimentari, quantomeno per avere aggravato il proprio dissesto ritardando l'apertura del proprio fallimento (o addirittura, si potrebbe in linea teorica ipotizzare, per bancarotta preferenziale avuto riguardo all'ipotetica censurabilita' dei versamenti effettuati in favore dell'INPS anziche' effettuati - a titolo di esempio - a titolo di accantonamenti per le indennita' di fine rapporto spettanti ai lavoratori che - sempre esemplificativamente - sono contraddistinte da un grado piu' avanzato di privilegio nella graduatoria dei crediti privilegiati), e per avere quindi continuato l'attivita' di impresa estinguendo debiti, come quello verso l'INPS, e soddisfacendo pertanto crediti non aventi, come quello in capo all'ente pubblico medesimo una tutela assoluta da parte dell'ordinamento, ma bensi' una tutela relativa, privilegiata ma subordinata a quella di altri crediti, "piu' privilegiati". Si verrebbe, in definitiva, a creare in capo all'imprenditore una pesante responsabilita' penale, a titolo di delitto, in relazione a due diverse ipotesi di illecito basate sui presupposti, logicamente tra se' contraddittori, cui si e' fatto sopra riferimento, cosi' verificandosi un'ingiustificata, sproporzionalita' e pertanto irragionevole reazione da parte dell'ordinamento giuridico penale. Un'ulteriore considerazione sembra suffragare quanto sin qui sostenuto: come puo' ritenersi sussistente una condotta di penale rilevanza, caratterizzata, quindi, dal massimo grado di disvalore conosciuto dall'ordinamento, in una situazione nella quale il versamento all'INPS, che varrebbe ad evitare la sanzione penale, potrebbe essere successivamente giudicato inefficace, merce' l'instaurazione ed il successivo accoglimento di un'azione revocatoria, azione casomai esercitata allo scopo di rientrare in possesso delle risorse indirizzate su tale ente pubblico ma che si intenderebbero destinate al soddisfacimento di crediti che, come quello dei lavoratori sulle indennita' di fine rapporto, hanno tutela maggiormente privilegiata rispetto a quello dell'INPS? Con riferimento, poi, all'art. 41 della Carta costituzionale, il profilo di illegittimita' poggia, secondo lo scrivente, sul fatto che, in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in stato di decozione, l'attivita' dell'impresa non verrebbe posta in essere nel rispetto dei suoi fini sociali, posto che, anche con il pagamento in questione, verrebbe lesa la par condicio creditorum, bene quest'ultimo primariamente tutelato dall'ordinamento in ipotesi di decozione dell'impresa, ed unico bene da reputarsi, in detta ultima situazione, principale strumento per la difesa dei predetti fini sociali. Tutto cio' premesso, ritenuto che la questione sin qui prospettata sia rilevante ai fini del decidere, dato che l'accoglimento della medesima condurrebbe alla emissione di una pronuncia assolutoria, soluzione non adottabile seguendo la linea interpretativa assolutamente univoca allo stato esistente, che si considera dall'attuale giurisprudenza fondata sul dato normativo, reputa lo scrivente che, allo scopo di riequilibrare organicamente l'ordinamento giuridico-penale, con riguardo al coordinamento tra le norme contestate nel presente procedimento e la normativa penale fallimentare, ed alla stregua dei summenzionati principi costituzionali, si renda necessaria la declaratoria di illegittimita' costituzionale degli artt. 2, comma 1-bis legge n. 638/1983 e 37, primo comma, legge n. 689/1981, nella parte in cui non escludono dalla propria area di applicazione imprenditori o amministratori le cui imprese o societa' versino in una situazione economica tale da rendere necessaria, a mente degli artt. 1 e segg. r.d. 16 marzo 1942 n. 267, l'apertura della procedura fallimentare.