IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella procedura di ammissione al gratuito patrocinio promossa dall'imputato Laghfiri Rachid, nato il 25 agosto 1974 a Rabat (Marocco), ivi residente, domiciliato a Vieste (FG), via Tordisco n. 16, sedicente, latitante (fisicamente identificato a mezzo di cartellino fotodattiloscopico compilato dalla Questura di Ancona il 26 ottobre 1994). R i l e v a L' imputato veniva arrestato nella flagranza del reato di cui all'art. 7-bis legge n. 39/1990, introdotto con d.l. n. 187/1993, convertito in legge n. 296/1993, con l'accusa di avere omesso di attivarsi per ottenere dal consolato competente il passaporto od altro documento equipollente onde ottemperare all'intimazione di lasciare il territorio dello Stato notificatagli il 16 settembre 1994 dal questore di Verona. Si procedeva quindi in primo luogo alla convalida dell'arresto, avvenuta in data 27 ottobre 1994, a conclusione della quale il pretore convalidava la misura pre-cautelare e, su richiesta del pubblico ministero, applicava all'imputato la custodia cautelare in carcere. Conclusa la fase del controllo della legittimita' dell'arresto, iniziava il giudizio direttissimo che, per ragioni varie (fra cui la richiesta di termine a difesa) non si poteva concludere nella prima udienza. Nelle more del processo l'imputato, cui era stata inizialmente applicata la custodia cautelare in carcere, veniva a beneficiare degli arresti domiciliari, a partire dal 4 novembre 1994, mentre poi - con ordinanza depositata il 31 dicembre 1994 - su richiesta del p.m., veniva ripristinata la custodia cautelare in carcere. Cio in quanto la p.g. incaricata del controllo, con comunicazione datata 23 dicembre 1994, aveva informato anche questa pretura circondariale della fuga dell'imputato, cominciata il 22 dicembre 1994, prendendo a pretesto il diritto di partecipare all'udienza dibattimentale (peraltro tenutasi il 20 dicembre 1994) ed ulteriormente verificata attraverso successivi controlli presso l'abitazione ove il Laghfiri si trovava sottoposto alla suddetta misura. Dopo alcuni rinvii, il processo si concludeva all'udienza del 13 gennaio 1995, con sentenza n. 15 del 13 gennaio 1995, che accoglieva la richiesta di applicazione della pena, formulata dal difensore dell'imputato munito di procura speciale, sulla quale era stato espresso consenso dal pubblico ministero. All'inizio di questa stessa ultima udienza, il difensore dell'imputato depositava una richiesta di ammissione al gratuito patrocinio, con in calce un'autocertificazione dell'imputato di conferma delle condizioni di reddito esposte dal difensore stesso, fatta "ai fini dell'ammissione al gratuito patrocinio" e che quindi faceva propria l'istanza del difensore in proposito. Con ordinanza di questo pretore del 17 gennaio 1995, si prendeva atto della nota del comando della stazione dei CC. di Vieste, che comunicava l'esito negativo delle ricerche attuate al fine della notifica dell'ordinanza di applicazione della custodia cautelare in carcere e veniva pertanto dichiarata la latitanza dell'imputato. Successivamente all'emanazione dei provvedimenti di cui sopra, veniva pronunciata la sentenza della Corte costituzionale n. 34 del 6-13 febbraio 1995, che dichiarava l'illegittimita' della fattispecie penale per la quale era stata emanata la sentenza di applicazione della pena, sicche', scaduti i termini per l'impugnazione, questo Pretore, con ordinanza dell' 11 marzo 1995 revocava la propria sentenza ai sensi degli artt. 665 e 673 del c.p.p. Rimaneva tuttavia pendente la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio che, sulla base della citata istanza, questo giudice accoglieva con decreto dell'8 marzo 1995, con il quale si ammetteva il Laghfiri al beneficio, concedendo termine di mesi due per il deposito dell'attestazione dell'autorita' consolare competente, cosi' come richiesto dall'art. 5, terzo comma, legge 30 luglio 1990, n. 217. Il difensore dell'imputato, sostanzialmente irreperibile in quanto gia dichiarato latitante, si attivava pertanto nel richiedere la suddetta attestazione presso il consolato generale del regno del Marocco, il quale tuttavia - con missiva del 31 marzo 1995 - comunicava al difensore stesso che, per poter rilasciare il proprio visto sulla dichiarazione del Laghfiri, aveva necessita' di una fotocopia del passaporto o della carta d'identita' marocchina del medesimo, oltre ad un documento attestante l'incarico del difensore nel processo penale. Il suddetto difensore, depositava in cancelleria la corrispondenza intercorsa con il suddetto consolato e chiedeva a questo Pretore un'ulteriore pronuncia sulla richiesta di ammissione al gratuito patrocinio, comunicando che il proprio assistito, dopo essersi dato alla fuga, non aveva piu' preso contatti con il medesimo, sicche' il difensore stesso si trovava nell'impossibilita' di ottenere l'attestazione dell'autorita' consolare, cosi' come richiesto dall'art. 5, comma 3, legge 30 luglio 1990 n. 217 e da questo giudice nel proprio decreto. Tutto cio' premesso, questo pretore O S S E R V A Da quanto esposto, si rileva come questo pretore sia stato chiamato nuovamente a pronunciarsi sull'istanza di ammissione al gratuito patrocinio, anche prima dello scadere del termine concesso per l'integrazione della domanda, da attuarsi attraverso la presentazione dell'attestazione dell'autorita' consolare competente, prevista dall'art. 5, comma 3, legge 30 luglio 1990 n. 217, in quanto appariva chiaro al difensore che non avrebbe potuto essere in grado, neppure nel successivo immediato futuro, di produrre tale attestazione. In ogni caso, di fatto, e' ormai scaduto il suddetto termine e l'attestazione in questione non e' stata prodotta, quantunque ne sia evedente il motivo. A nulla rileva, in proposito, che la fattispecie penale che ha dato origine al procedimento penale e causa alla sentenza di applicazione della pena sia stata poi dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, poiche' in ogni caso al difensore dell'imputato e' dovuto il compenso professionale per l'opera prestata nel processo, sicche' - ove non dovesse provvedervi lo Stato attraverso la procedura stabilita per il gratuito patrocinio - dovrebbe, almeno in teoria, farvi fronte l'imputato. In mancanza dell'attestazione dell'autorita' consolare, si dovrebbe pero' revocare il provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, cosi' come espressamente previsto dall'art. 5, comma 6, legge n. 271/1990, e cio' non per accertata insussistenza delle condizioni di reddito che condizionano la concessione del beneficio stesso ex art. 3 cit. legge, bensi' per l'impossibilita' materiale ed incolpevole, sia del difensore che del condannato di provvedere all'adempimento richiesto. Il difensore, infatti, attraverso la corrispondenza intercorsa con il consolato marocchino, ha dimostrato di avere fatto il possibile per ottenere l'attestazione richiesta, mentre l'imputato, essendo evaso dagli arresti domiciliari e poi dichiarato latitante in relazione alla successiva misura della custodia cautelare in carcere, non ha neppure avuto conoscenza del decreto di ammissione al gratuito patrocinio e quindi del termine concesso per la produzione del documento in questione. Certo si potrebbe osservare che la latitanza del medesimo e' imputabile ad una sua precisa scelta di sottrarsi all'esecuzione della misura cautelare, ma cio' non puo' legittimare il giudice ad addossargli ogni genere di conseguenze negative, derivanti dalla mancanza della sua presenza fisica nel processo penale. Anzi, proprio la previsione dell'istituto della latitanza, seppure si fonda sullo stesso presupposto di fatto che integra l'aggravante di cui all'art. 61 n. 6 c.p., sembra - nell'ambito del processo penale - attuare soprattutto la finalita' di assicurare una difesa effettiva all'imputato che abbia deciso di evitare una misura cautelare, attraverso la previsione della notifica presso il difensore degli atti a lui diretti (art. 165 c.p.) e l'attribuzione al primo della rappresentanza ad ogni effetto del latitante. Anche attraverso l'istituto del gratuito patrocinio si mira a rendere effettiva la difesa dell'imputato, sotto il profilo dell'assistenza tecnico-giuridica che sola puo' essere offerta da un avvocato o procuratore legale. Al di la' delle apparenze, infatti, risulta evidente che - in mancanza di tale beneficio - il non abbiente non sarebbe in grado di pagare il compenso del proprio difensore, il quale a sua volta, di cio' conscio, sarebbe inevitabilmente portato in molti casi ad una difesa piu' frettolosa, in quato in buona sostanza non retribuita. La legge sul gratuito patrocinio richiede nel suo art. 5 una serie minuziosa di indicazioni, autocertificazioni ed allegazioni , che avrebbero reso di fatto impossibile accedere al beneficio per i cittadini stranieri non in regola con le norme sul permesso di soggiorno (costituiti essenzialmente da quelli extra-comunitari che affollano da qualche anno l'Italia). Per tale ragione, onde garantire una sostanziale parita' con i cittadini italiani, la legge in questione, nel suo art. 5, comma 3, semplifica la documentazione che lo straniero in generale deve produrre, limitandola "all'autocerficazione di cui alla lett. b) del comma 1" e ad un'"attestazione dell'autorita' consolare competente dalla quale risulti che, per quanto a conoscenza della predetta autorita', la suddetta autocertificazione non e' mendace". Nella specie, cio' che manca e' - come gia' scritto - proprio tale ultima attestazione che, tuttavia, si presenta gia' in generale come inidonea ad aggiungere concreti elementi di riscontro della sussistenza delle condizioni di reddito che giustificano la concessione allo straniero del beneficio in discorso, ex art. 3 legge n. 217/1990. Appare evidente, infatti, che normalmente l'autorita' consolare di uno Stato estero (distante miglia di chilometri dalla madre patria) nulla puo' sapere della situazione economica di un proprio cittadino magari giunto illegalmente in Italia in cerca di fortuna, a meno che non attivasse apposte informative in tal senso (cosa molto improbabile alla luce della quotidiana esperienza giudiziaria). L'attestazione in discorso appare pertanto solo come una sorta di "visto", come esattamente definito con molta sincerita' nel caso concreto dal Consolato marocchino, un dato formale idoneo a soddisfare soltanto in apparenza l'esigenza di accertare che lo straniero sia effettivamente non abbiente. Cio' premesso, questo Pretore ritiene che non possa considerarsi legittimo il combinato disposto dell'art. 5, commi 3 e 6, legge 30 luglio 1990, n. 217, laddove impone al giudice di revocare il provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio per il caso di mancata allegazione dell'attestazione dell'autorita' consolare, e cio' anche quando la carenza stessa sia dovuta all'assenza fisica dell'imputato nel procedimento penale, come nel caso del latitante (ma lo stesso potrebbe sostenersi per l'irreperibile). Tali disposizioni contrastano infatti con gli artt. 10, commi 1 e 2, e 24, commi 2 e 3, Cost., in quanto violano: da un lato, l'art. 49 della Convenzione di reciproco aiuto giudiziario, di esecuzione delle sentenze e di estradizione fra l' Italia e il Marocco, conclusa a Roma il 12 febbraio 1971 (ratificata dallo Stato italiano con legge 12 dicembre 1973 n. 1043), e quindi il principio costituzionale per cui la condizione giuridica dello straniero e' regolata dalla legge in conformita' delle norme e dei trattati internazionali; e, dall'altro, intaccano il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, spettante a qualunque imputato a prescindere dalla cittadinanza, facendo venire meno i mezzi "per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione". L'art. 49 della citata convenzione prevede infatti che i cittadini di ciascuno di due paesi godano sul territorio dell'altro del beneficio dell'assistenza in giudizio alla pari dei nazionali, purche' si attengano alla legge del paese nel quale sara' richiesta l'assistenza. Nel caso di specie, viceversa, tale parita' non e' stata rispettata, in quanto la legge sul gratuito patrocinio, mentre richiede al cittadino straniero (e quindi anche a quello marocchino) l'attestazione che quanto dichiarato dal medesimo in merito alle proprie condizioni economiche non sia mendace, non altrettanto pretende dal cittadino italiano, al quale vengono richieste viceversa tutta una serie di auto-dichiarazioni, (nonche' copia dell'ultima dichiarazione dei redditi ed un certificato di stato di famiglia), ma non anche un'attestazione della pubblica amministrazione di conferma della veridicita' del reddito dichiarato. Ne deriva che tale diversa disciplina, se di fatto semplifica la richiesta di gratuito patrocinio allo straniero e dunque al cittadino marocchino che sia fisicamente presente nel processo, la rende di fatto improponibile per colui che, come nel presente caso, dopo avere formulato l'istanza, si renda latitante. Piu' in generale, con riguardo a qualunque imputato e pertanto anche ad ogni cittadino straniero, gia' si e' illustrato perche' l'impossibilita' per il non abbiente di accedere al gratuito patrocinio viene a menomare l'esercizio effettivo del suo diritto di difesa, nella forma dell'assistenza tecnico-giuridica, e cio' spiega perche' le norme qui accusate di illegittimita' contrastino con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione. Quanto a quest'ultimo problema, si osserva come - nel caso dell'imputato straniero latitante od irreperibile e quindi non fisicamente presente nel processo - richiedere un'attestazione di non abbienza (o piu' esattamente che attesti che non risulti che l'autocertificazione sul reddito sia mendace) all'autorita' consolare dello Stato di appartenenza significhi scontrarsi con un sicuro rifiuto da parte dello stesso per l'impossibilita' di fornire quei documenti d'identita' o quei chiarimenti che solo la presenza personale dell'imputato potrebbe consentire. In tal modo, si viene dunque a negare proprio all'imputato piu' bisognoso di difesa tecnica, perche' appunto non in grado di difendersi sul fatto di persona, quel beneficio dell'ammissione al gratuito patrocinio, che solo puo' rendere tale la stessa difesa tecnica effettiva nella generalita' dei casi. La questione e' di non poco conto, atteso che l'esperienza giudiziaria insegna come, nella maggior parte dei casi gli imputati stranieri siano irreperibili ed a volte latitanti e comunque - in pretura almeno - quasi sempre accusati di reati connessi allo stato di miseria che caratterizza in particolare gli extra-comunitari, che rappresentano la generalita' degli stranieri citati a giudizio. Poiche' la questione di costituzionalita' - qui sollevata di ufficio - appare dunque rilevante e, alla luce di quanto esposto, non manifestamente infondata,