IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Michel Carlo, nato il 26 luglio 1955 a Rivoli (Torino), atto di nascita n. 154/A/I e residente a Schoten (Belgio) Heihantsstraat n. 6; coniugato, operaio, censurato; soldato nella forza assente del distretto militare di Torino, libero, imputato di diserzione (art. 148 n. 2 c.p.m.p.) perche' perdurava nell'arbitraria assenza anche posteriormente alla sentenza di condanna del tribunale militare di Padova del 4 maggio 1993 e fino a tutt'oggi. In esito al pubblico ed orale dibattimento. Fatto e diritto Con sentenza del 28 maggio 1991 (irrevocabile l'8 febbraio 1993) il militare Michel Carlo veniva condannato da questo tribunale militare per il reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), in relazione ad assenza dal servizio che, iniziata il 1 gennaio 1976, ancora non era cessata alla data del giudizio. Il procuratore militare in sede, a fronte del perdurare dell'assenza, instaurava un secondo procedimento contro il Michel per un altro reato di diserzione (art. 148 c.p.m.p.), decorrente dal 28 maggio 1991, data della prima pronuncia; procedimento che si concludeva con condanna pronunciata il 4 maggio 1993 (irrevocabile il 4 dicembre 1993). Ancora protraendosi l'assenza, il procuratore militare ha instaurato un terzo procedimento per la diserzione (art. 148 c.p.m.p.) in epigrafe, in relazione ad assenza decorrente dal 4 maggio 1993, data del secondo giudizio. L'assenza a tutt'oggi non e' cessata. A conclusione del dibattimento, il p.m. ha chiesto la condanna e la difesa si e' pronunciata per un minimo aumento di pena ex art. 81 cpv. c.p. Secondo costante giurisprudenza regolatrice e del giudice militare d'appello, la prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo la sentenza di primo grado costituisce ad ogni effetto un nuovo ed autonomo reato, come tale da giudicare senza che per cio' venga violato il principio del ne bis in idem di cui all'art. 649 c.p.p. Dovrebbe, pertanto, essere accolta la richiesta del p.m. Con varie ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in date successive questo tribunale sollevava tuttavia questione di legittimita' costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente che per un unico reato permanente, una o piu' volte "giudizialmente interrotto", sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio superiore a quello edittalmente stabilito per il reato medesimo, in relazione agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, della Costituzione. In tal modo questo giudice remittente, nell'alveo del principio di civilta' giuridica sancito dall'art. 649 c.p.p., e prendendo atto inoltre - come di un dato di diritto vivente - della permanenza dei reati di assenza dal servizio, intendeva porre in risalto che dall'"interruzione della permanenza" conseguente al giudizio derivano seri problemi di legittimita', con violazione delle citate disposizioni costituzionali. E nell'occasione era apparso che l'istituto dell'"interruzione giudiziale della permanenza", individuato quale responsabile delle lamentate illegittimita', trovasse il suo riscontro normativo nel citato art. 649 c.p.p. Con l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1955 la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione, rilevando innanzitutto che l'effetto dell'"interruzione giudiziale della permanenza" non discende affatto dall'applicazione del principio contenuto nell'art. 649 c.p.p.; ma soprattutto che l'origine delle asserite incostituzionalita' non e' l'interruzione giudiziale, bensi' il fatto che il reato sia configurato e disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che la permanenza si collega, oltre che alle caratteristiche delle disposizioni incriminatrici e all'art. 158, primo comma, c.p., alla disposizione dell'art. 68 c.p.m.p., secondo cui per i reati di assenza dal servizio il termine di prescrizione, se l'assenza perduri, decorre dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta' per la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio militare, e a quella infine dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237, che per i militari di truppa stabilisce di norma l'estinzione dell'obbligo militare alla data del 31 dicembre dell'anno del compimento del quarantacinquesimo anno di eta'. La Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica ai suoi profili originari e fondamentali. Il quesito se i reati omissivi propri (nel cui ambito vanno compresi quelli di assenza dal servizio perche' consistenti nell'inottemperanza al dovere di presentazione alle armi, o di riassunzione del servizio al termine della legittima assenza o a seguito dell'allontanamento arbitrario) siano, o meno, permanenti ha avuto varie soluzioni in giurisprudenza e soprattutto in dottrina. Oltre ad orientamenti intermedi, sono presenti in quest'ultima anche concezioni estreme: quella secondo cui il reato omissivo proprio mai potrebbe essere permanente; quella secondo cui il reato omissivo proprio sarebbe il reato permanente per antonomasia. Quanto alle assenze dal servizio, secondo l'ormai prevalente dottrina (Venditti e di recente Brunelli e Mazzi) si tratterebbe di reati istantanei, mentre in giurisprudenza unanime e' l'idea che siano reati permanenti. La tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente si basa sul perdurare dell'obbligo extrapenale (c.d. obbligo sottostante) la cui inosservanza e' penalmente sanzionata, e corrisponde dunque alla concezione del diritto penale come ulteriormente sanzionatorio di precetti propri di altre branche dell'ordinamento giuridico. Per quanto specificamente riguarda i reati di assenza dal servizio, lo stretto collegamento tra diritto penale e precetti dell'ordinamento militare e' anche particolarmente sottolineato dalla disposizione dell'art. 68 c.p.m.p., sulla quale giustamente si sofferma la stessa Corte costituzionale nella gia' citata ordinanza n. 150 del 1995. Nel caso di assenza che non sia ancora terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere dal giorno in cui per il militare cessa in modo assoluto l'obbligo militare: norma che, in quanto correlata all'art. 158, primo comma, c.p., viene esattamente, o quanto meno correntemente (cosi' da dar luogo a diritto vivente), intesa quale configurazione autentica (e del resto l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di "permanenza") di reati non istantanei e per di piu' con una permanenza che ha termine con la cessazione dell'obbligo militare. In definitiva, per diretta statuizione dello stesso legislatore i reati di assenza dal servizio sono delineati come permanenti e piu' particolarmente con un periodo di consumazione che puo' anche durare venticinque anni circa (dall'eta' del servizio di leva sino al congedo assoluto). ÿ da questa situazione normativa che scaturiscono - come per il Michel - le conseguenze gia' da questo giudice denunciate come trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui e' bene ancora brevemente illustrare. Si consideri innanzitutto come, dato che dal giudizio in costanza della permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua volta richiede un ulteriore giudizio, si instaura la spirale fatto-giudizio-fatto, e cosi' via, per cui la responsabilita' dell'imputato non dipende soltanto dal suo operato, bensi' - in patente violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione - anche dal funzionamento dell'apparato giudiziario militare. La pluralita' delle condanne per un unico reato permanente giudicato in piu' riprese comporta, inoltre, un progressivo aumento della pena e un trattamento sanzionatorio che diviene una prova di forza tra lo Stato ed il condannato, chiaramente in contraddizione con la liberta' di coscienza garantita dall'art. 2 Cost. e con la finalita' rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Ed ancora: la moltiplicazione dei giudizi comporta un innalzamento della pena, praticamente indeterminato, sino al limite del triplo del massimo della pena edittale, in contraddizione con il principio di legalita' della pena sancito dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Ne risulta, infine, violato anche il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto, a parita' di periodo di assenza dal servizio, il trattamento sanzionatorio complessivo viene a derivare dal grado di efficienza dell'apparato giudiziario competente a conoscere del reato nei vari autonomi episodi che si creano con l'interruzione giudiziale. Responsabile di quest'inaccettabile risultato - che gia' il legislatore del 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico giudizio a norma dell'art. 377 c.p.m.p. - appare, come si e' detto, l'art. 68 c.p.m.p., in difetto del quale i reati di assenza dal servizio, in adesione alle piu' accreditate concezioni dottrinarie, sarebbero da considerare istantanei; oppure sarebbero ancora da considerare permanenti, ma secondo ben diverse modalita' e cadenze temporali, tali da non comportare quella spirale delle condanne su cui si incentrano le censure di incostituzionalita'. In merito a quest'ultimo punto, non puo' infatti sottacersi dalla sfasatura logica e temporale esistente tra gli obblighi che vengono sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo dalla cui estinzione dipende ex art. 68 la cessazione della permanenza nel reato dall'altro. L'obbligo sanzionato dall'art. 151 c.p.m.p. e' quello di presentarsi ad un determinato reparto militare per intraprendere il servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in ordine alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto (divenendo mero obbligo di mettersi a disposizione del distretto militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un nuovo ciclo addestrativo, e quindi una nuova chiamata alle armi. L'obbligo sanzionato dagli artt. 148 e 149 c.p.m.p. in materia di diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che analogamente si modifica, con la possibilita' che ne derivi la cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore, trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15 luglio 1967), nella forza assente del distretto militare di appartenenza. L'obbligo cui, vigendo l'art. 68 c.p.m.p., e' collegata la cessazione della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e 10 d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237, quello militare nella sua globalita', della durata di venticinque anni circa e comprensivo di vari doveri, soggezioni, limitazioni di diritti. Si tratta quindi di un dato normativo onnicomprensivo, della prestazione militare nella sua globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno alla base delle varie figure di reato. E dunque le descritte incostituzionalita' sono da attribuire all'art. 68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di considerare come istantanei i reati di assenza di servizio; ma anche perche' configura una permanenza sui generis, un periodo di consumazione che si promulga sino a coincidere con l'obbligazione militare nella sua interezza. Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute nella citata ordinanza della Corte, ritiene di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 68 c.p.m.p., in relazione agli artt. 2, 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione. La questione e' rilevante nel presente giudizio in quanto, con la caducazione della norma impugnata, sarebbe evitata un'ulteriore condanna per il Michel. Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche pervenirsi, a parere di questo tribunale, per semplice estensione, a norma dell'art. 27, legge 11 marzo 1953, n. 87, dell'illegittimita' dell'art. 377 c.p.m.p., gia' pronunciata con sentenza della Corte n. 469 del 1990. ÿ evidente il nesso dell'art. 68 con la disposizione secondo cui, per garantire un'unica sentenza, il giudizio per i reati di assenza era sospeso sino alla cessazione della permanenza. Essendo venuto meno l'art. 377, dovrebbe pertanto pronunciarsi l'illegittimita' anche dell'art. 68.