IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale di cui sopra, a carico di Cioni Romano, imputato dei reati di cui agli artt. 21, primo comma, e 21, terzo comma, legge n. 319/1976, osserva che il p.m. di udienza ha richiesto pronunzia di questo pretore in ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 17 marzo 1995 n. 79, motivando che la norma citata si pone in contrasto con gli artt. 3, 9, 10 e 32 della Costituzione. Cio' posto, il pretore osserva che la richiesta del p.m. e' fondata e si ritiene, pertanto, di dover dichiarare rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 3, 9, 10 e 32 della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del 17 marzo 1995 n. 79, il quale, nella sua integrale stesura, prevede la modifica globale del terzo comma dell'art. 21 della legge n. 319/1976 e, sospendendo il presente procedimento, dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Il pretore rileva che gia' in precedenza, con ordinanze dell'11 ottobre 1994 e del 28 ottobre 1994, nei procedimenti penali a carico di Ferraiolo Alessandro e Gelli Paolo e di Innocenti Giancarlo, imputati del reato di cui all'art. 2l, legge n. 319/1976, il pretore di Grosseto si e' pronunziato in ordine all'ipotesi di non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. 19 settembre 1994, n. 537, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, per le argomentazioni in esse ordinanze esposte. Considerato che il citato decreto-legge, decaduto per non essere stato convertito in legge, e' stato sostituito integralmente e senza alcuna modifica per quanto concerne l'art. 3, con il d.-l. 16 gennaio 1995, n. 9 e che, in merito a quest'ultimo decreto-legge, con recente ordinanza, in data 31 gennaio 1995, il pretore di Grosseto ha sollevato ugualmente la questione di legittimita' costituzionale, cosi' come con ordinanze di questo pretore, in data 9 febbraio 1995 e 16 febbraio 1995. Rilevato che, decaduto anche tale decreto-legge, l'art. 3 del d.-l. 16 gennaio 1995 n. 9, e' stato sostituito, senza alcuna modifica per i profili che qui concernono, con l'art. 3 del d.-l. 17 marzo 1995 n. 79. Rilevato che le problematiche applicative appaiono strettamente collegate al caso in oggetto e le argomentazioni esposte nell'indicata ordinanza del 31 gennaio 1995, vanno condivise e, quindi, ribadite e richiamate integralmente con la presente ordinanza, da valersi pienamente anche per quanto concerne la fattispecie relativa al d.-l. 17 marzo 1995 n. 79, in esame. Le argomentazioni essenziali poste a sostegno della sollevata questione costituzionale, riflettono quanto in appresso riportato. "Quanto alla disciplina degli scarichi, la legge prescrive in particolare che: a) gli scarichi degli insediamenti produttivi (art. 12 e art. 13) devono rispettare direttamente le tabelle. Fanno eccezione i soli scarichi gia' esistenti al 13 giugno 1976 (data di entrata in vigore della legge) immessi in pubbliche fognature provviste di impianto di depurazione funzionante. In tal caso il comune che gestisce l'impianto puo' prescrivere limiti piu' permissivi; b) gli scarichi degli insediamenti civili in pubbliche fognature sono sempre ammessi purche' osservino i regolamenti comunali (art. l4, primo comma); c) gli scarichi da pubbliche fognature (art. 14, secondo comma) sono disciplinanti dalle regioni, le quali devono tener conto delle direttive statali (emesse con delibera del 30 dicembre 1980), dei limiti delle tabelle e delle situazioni locali. In particolare, le citate direttive statali, mentre sono molto elastiche e nulla di preciso prescrivono in relazione a questi insediamenti civili (salvo la predisposizione di incentivi per favorirne l'allaccio in fogna), stabiliscono invece per le pubbliche fognature che le regioni non possono mai derogare ai limiti piu' restrittivi previsti dalle tabelle in relazione ai parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile (specificati in un elenco) e che, quanto agli altri parametri, deroghe (permissive) alle tabelle sono consentite solo quando "la presenza degli scarichi provenienti da insediamenti produttivi non sia tale da conferire al liquame in ingresso all'impianto di depurazione caratteristiche qualitative sostanzialmente diverse da quelle attribuibili agli scarichi provenienti da soli insediamenti civili". Solo quando, cioe', gli scarichi industriali siano di minima entita' o siano stati efficacemente pretrattati a monte. Quanto alle sanzioni, la omessa richiesta di autorizzazione e' punita alternativamente con l'ammenda da L. 500.000 e 10 milioni o con l'arresto da due mesi a due anni (art. 21, primo e secondo comma), mentre, per il superamento dei limiti, l'art. 21, terzo comma, prevede che "si applica sempre la pena dell'arresto (da due mesi a due anni) se lo scarico supera i limiti di accettabilita' di cui alle tabelle allegate alla legge, nei rispettivi limiti e modi di applicazione", con la ulteriore pena accessoria della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione. In conclusione, la legge Merli basa la sua operativita' su tre ordini di obblighi, tutti penalmente sanzionati e tutti fra loro connessi, nei confronti dei titolari di scarichi: l'obbligo di richiedere l'autorizzazione, l'obbligo di rispettare le prescrizioni dell'autorizzazione e l'obbligo di rispettare limiti prefissati, direttamente o indirettamente, dalla legge". Con riferimento a tale quadro normativo venivano emessi una serie di decreti-legge, l'ultimo dei quali in data l7 marzo 1995 con il n. 79. Le principali modifiche apportate alla legge Merli dal citato decreto sono: A) In relazione all'obbligo di richiedere autorizzazione dopo 18 anni, si riaprono i termini per tutti gli inadempienti e, per il passato, si riazzera tutto e si estinguono i reati gia' commessi purche' i contravventori presentino, oggi, domanda di autorizzazione in sanatoria entro novanta giorni dalla legge di conversione e paghino da 500.000 a 3 milioni (art. 7); B) Quanto ai limiti da rispettare nello scarico, scompaiono una serie di obblighi (validi a livello nazionale). Ad esempio gli scarichi da pubbliche fognature e quelli degli insediamenti civili non in pubbliche fognature devono rispettare limiti non piu' prefissati ma rimessi alla discrezionalita' di regioni o comuni, che possono tranquillamente derogare alle tabelle; anche se per l'immediato e fino a nuove direttive, restano ferme le prescrizioni adottate anteriormente ed in particolare quelle di cui alla delibera del 30 dicembre 1980. Di modo che vengono penalizzate le regioni che a questa delibera si erano adeguate e vengono premiate le inadempienti; C) La inosservanza dei limiti tabellari non e' punita, di regola, non piu' con l'arresto ma con sanzione alternativa. Quanto alle ulteriori conseguenze per il superamento di limiti, venuta gia' meno con il nuovo codice di procedura penale la possibilita' di custodia cautelare in caso di recidiva, il decreto-legge in esame cancella della legge Merli anche la pena accessoria della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione; D) Analogamente, la inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni allo scarico, sanzionata penalmente dalla legge Merli con arresto o ammenda, comporta, con il decreto-legge in esame solo una sanzione amministrativa da 2 a 24 milioni. In conclusione, limiti certi vengono sostituiti da limiti rimessi alla discrezionalita' quasi totale di regioni e comuni, con il pericolo di gravi disparita' di trattamento e di vuoti di tutela; in piu', la inosservanza di questi limiti, con il conseguente inquinamento, di regola puo' comportare o una sanzione amministrativa pecuniaria ovvero una ammenda oblabile senza vero rischio penale. Questo rischio, paradossalmente, resta solo per violazioni soprattutto formali e "burocratiche" (quali la omessa richiesta di autorizzazione allo scarico). Ma, comunque, per esse dopo 18 anni, scatta una totale sanatoria rispetto al passato, premiando gli inottemperanti e penalizzando chi ha rispettato la legge. Appare evidente che il decreto-legge n. 79/1995, scardina, o quanto meno depotenzia in modo rilevante, tutti e tre i capisaldi su cui fonda la legge Merli (obbligo di richiedere autorizzazione, obbligo di rispettare le prescrizioni dell'autorizzazione ed obbligo di rispettare limiti prefissati. Per tutto quanto sopra detto il decreto-legge in esame, come gia' rilevato per i precedenti (cfr. l'ord. del pretore di Vicenza del 2 agosto 1994, pretore di Terni 27 settembre 1994, pretore di Grosseto 11 ottobre 1994, pretore di Grosseto 28 ottobre 1994) e lucidamente sostenuto in scritti (G. Amendola) viola il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della legge fondamentale dello Stato. Appare evidente che, dopo le modifiche introdotte dal decreto nel sistema sanzionatorio della legge Merli, la violazione di obblighi "burocratici" e formali, certamente non ricollegabili ad un danno all'ambiente quali la omessa richiesta di autorizzazione allo scarico, viene punita, ai sensi dell'art. 21, primo comma, come reato con la pena dell'arresto o dell'ammenda; mentre la fattispecie di ben maggiore gravita' sostanziale, quale l'inquinamento dell'ambiente provocato con il superamento dei limiti, prevista dall'art. 21, terzo comma e proprio per questo sanzionata fino al decreto-legge in esame con la pena piu' severa di tutta la legge (solo arresto, pena accessoria) viene punita come illecito amministrativo con una sanzione pecuniaria ovvero, con la pena alternativa dell'ammenda o dell'arresto (con tutte le conseguenze piu' favorevoli che questo comporta). Insomma, in tal modo, fatti gravi vengono illogicamente puniti in modo molto piu' benevolo di fatti certamente piu' lievi. Peraltro, in tal modo si introduce una disparita' di trattamento anche rispetto al sistema complessivo della normativa di tutela ambientale che si e' rappresentato in precedenza (cfr. ad esempio, il d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 sull'inquinamento atmosferico da industrie), ed in particolare con le altre leggi che si occupano, come la Merli, di inquinamento delle acque (quale la legge a difesa del mare n. 979 del 31 dicembre 1981 e il decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 133 sugli scarichi di sostanze pericolose), le quali prevedono tutte sanzioni penali (e non amministrative) per fatti di inquinamento o per violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione. In questo quadro, appare allora sufficiente richiamare la costante giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di eguaglianza consente al legislatore di emanare norme differenziate riguardo a situazioni obiettivamente diverse solo a condizione che tali norme rispondano all'esigenza che la disparita' di trattamento sia fondata su presupposti logici obiettivi, i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr. per tutta la sentenza n. 3 del 1963). Per cui la Corte ha dichiarato illegittime norme che prevedevano un trattamento sanzionatorio irrazionalmente differenziato rispetto a quello previsto da altre fattispecie, diminuendo, ad esempio, la pena edittale minima per l'oltraggio (n. 341 del 1994); ovvero, con una decisione proprio relativa all'art. 21 della legge Merli (ove si fa espresso riferimento anche al complesso della normativa ambientale), eliminando il divieto di applicazione di sanzioni sostitutive (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994). Orbene, in questa sentenza, ricorda la Corte che si viola il principio di eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad un "sistema normativo assolutamente squilibrato", come avviene, ad esempio, quando si favorisce "chi ha posto in essere, fra due condotte gradatamente lesive dell'identico bene, quella connotata da maggiore gravita', discriminando invece che ha realizzato il fatto che meno offende lo stesso valore giuridico (sentenza n. 249 del 1993)". Esattamente quello che ha fatto il governo con il decreto-legge in esame. Ma l'art. 3 della Costituzione risulta violato anche sotto altri profili. La nuova formulazione dell'art. 14, concedendo ampia discrezionalita' alle regioni per la fissazione di limiti comporta, con ogni evidenza, la possibilita' che vi siano marcate ed irrazionali disparita' di trattamento da regione a regione. In detto svuotamento sanzionatorio di uno dei reati piu' importanti in materia di tutela ambientale (forse il reato piu' importante in assoluto in materia di inquinamenti) si profila ad avviso dello scrivente pretore, una violazione del disposto dell'art. 9, secondo comma, della Costituzione, laddove la tutela del paesaggio, inteso secondo le piu' recenti pronuncie della Corte di cassazione e della Corte costituzionale, non deve essere inteso solo come bellezza estetica da cartolina ma come anbiente naturale in senso lato, quindi comprensivo anche degli inevitabili ed inscindibili aspetti bionaturalistici. Per gli stessi motivi esposti in relazione all'art. 9 della Costituzione, si ritiene che la norma in esame si ponga in contrasto anche con l'art. 32 della Carta costituzionale. Infatti, nel concetto di tutela della salute come principio costituzionalmente garantito deve, per forza di cose ricomprendersi, il piu' vasto concetto della salute pubblica nel senso delle salubrita' dell'ambiente naturale ed urbano ove ciascun cittadino vive. Il diritto alla salute inteso anche come diritto all'ambiente salubre e' stato ormai ripetutamente accertato in giurisprudenza (si veda per tutte la famosa sentenza delle sezioni unite n. 517 del 6 ottobre 1979, nonche' la Corte costituzionale in data 31 dicembre 1987 n. 641 ed in data 16 marzo 1990 n. 17). E' fuor dubbio che la diminuita, ed anzi per certi versi di fatto del tutto caducata, possibilita' di intervento deterrente/punitivo in sede di illeciti da inquinamento idrico crea i presupposti per una evoluzione incontrollata del fenomeno, incoraggiata dall'abbassamento della guardia in sede di controlli di p.g. e possibilita' di intervento processuale; e tutto questo si traduce in via diretta in un danno per la salute e salubrita' pubblica in un ambiente che resta cosi' maggiormente ed incontrollatamente esposto al degrado inquinante. Va ancora rilevato che la norma in esame pare porsi in totale contrasto con gli obblighi che derivano al nostro Paese per l'appartenenza all'Unione europea. Gia' due volte la Corte europea di giustizia ha condannato il nostro Paese per il contrasto tra la "legge Merli" e le direttive comunitarie, tra l'altro anche per la permissivita' del sistema autorizzatorio previsto e per la "insufficienza" delle sanzioni penali previste dall'art. 22 in relazione alla inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione (Corte di giustizia 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990). La sopra esposta generale regressione sanzionatoria creata dal decreto-legge in esame concretizza di conseguenza una ulteriore evoluzione del grado di inadempienza italiana verso le direttive CEE e verso le sentenze della Corte europea. Peraltro il decreto stesso, si pone in evidente contrasto con la direttiva CEE n. 271 del 2l maggio 1991 sul trattamento delle acque reflue urbane, che lo Stato italiano avrebbe dovuto gia' recepire entro lo scorso giugno 1993 e che fissa obblighi e limiti ben precisi, con ben pochi margini di discrezionalita' specie per le "aree sensibili". E del resto il contrasto e' apparso evidentemente gia' in sede di redazione del testo in esame se il decreto richiama espressamente nell'art. 1 la direttiva 91/217/CEE del 2l maggio 1991. Ove il decreto n. 79/1995 dovesse essere convertito in legge, le prescrizioni si applicheranno dunque finche' non si sara' data attuazione alla citata direttiva; attrazione che dovrebbe avvenire, secondo la legge comunitaria 1993 n. 146 del 22 settembre 1994, entro il marzo 1995 e, peraltro, con rigidi principi di attuazione predeterminati dal Parlamento (art. 37, primo comma) in evidente contrasto con la elasticita' e genericita' del decreto in esame, il che provochera' ulteriore confusione ed incertezza del diritto. Ed in ogni caso va sottolineato che, secondo la citata legge comunitaria, il Governo dovrebbe dare attuazione a questa direttiva provvedendo all' "adeguamento della normativa vigente alla disciplina comunitaria, apportando alla prima ogni necessaria modifica ed integrazione allo scopo di definire un quadro omogeneo ed organico delle disposizioni di settore" (art. 36 lett. c). Dato il carattere regressivo in sede sanzionatoria del decreto n. 79/1995, ritiene lo scrivente che si appalesa un contrasto con l'art. 10 della Costituzione per mancata conformazione alle citate norme del diritto internazionale. Da quanto sopra esposto emerge la rilevanza della sollevata eccezione sul caso in esame, ove risulta contestato il superamento dei limiti tabellari, con le differenze normative richiamate e le diverse strategie processuali percorribili da parte della difesa, sia in caso di rigetto che di accoglimento della eccezione.