IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA A scioglimento della riserva espressa nell'udienza del 7 settembre 1995, visti ed esaminati gli atti relativi alla procedura di sorveglianza in materia di reclamo, ai sensi art. 14-ter Ordinamento penitenziario, avverso decreto Ministro grazia e giustizia applicativo dell'art. 41-bis, secondo comma, della stessa legge, nei confronti di Ranieri Antonio, nato il 30 marzo 1957 a Napoli, attualmente detenuto presso la Casa di reclusione Pianosa; verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale. Osserva L'interessato ha proposto reclamo contro il decreto ministeriale applicativo nei suoi confronti dell'art. 41-bis, secondo comma, decreto via via rinnovato (1 agosto 1994, 4 febbraio 1995 e 5 agosto 1995). Gia' detenuto in espiazione pena fino al 30 luglio 1991, l'interessato e' ora detenuto in custodia cautelare, dalla data di cessazione della esecuzione della pena, appellante da sentenza 10 marzo 1994 Corte Assise Napoli. Questo tribunale di sorveglianza, in ripetute ordinanze, nel decidere sul reclamo, ha esaminato i decreti amministrativi dell'art. 41-bis, secondo comma, sotto due profili: fondatezza della applicazione della norma all'interessato; nel caso in cui tale fondatezza sia riconosciuta, legittimita' o meno delle restrizioni al regime penitenziario ordinario contenute nel provvedimento reclamato. Ripetute sentenze della Corte di cassazione hanno ora annullato senza rinvio tali ordinanze nella parte in cui, dopo avere riconosciuto la fondatezza della applicazione della norma in questione all'interessato, si dichiarava la inefficacia di alcune delle restrizioni operate con il provvedimento reclamato. Questa esclusione del sindacato del tribunale di sorveglianza in ordine al contenuto di tali provvedimenti pone problemi di costituzionalita', che questo ufficio rileva con la presente ordinanza, ritenendo gli stessi non manifestamente infondati. Premessa: Lettura non costituzionale e lettura costituzionale dell'art. 41-bis, secondo comma, anche in riferimento all'art. 14-ter dell'Ordinamento penitenziario. La questione che si sottopone alla Corte costituzionale attiene a problemi interpretativi di una norma sicuramente non di facile lettura, particolarmente nella sua portata e nelle sue applicazioni. Di qui la necessita' di una non breve premessa, che analizzi i problemi interpretativi indicati. I. - La lettura non costituzionale di cui alla Giurisprudenza della Corte di cassazione. Una serie di sentenze, che la Corte di cassazione sta pronunciando, con annullamento senza rinvio di provvedimenti di questo Tribunale di sorveglianza, che hanno deciso sui reclami proposti da detenuti contro i decreti ministeriali applicativi nei loro confronti del regime speciale di cui all'art. 41-bis, secondo comma, Ordinamento penitenziario, ripropone il problema della costituzionalita' di tale norma. Le pronuncie in questione della Corte di cassazione hanno, come detto, annullato senza rinvio le ordinanze di questo ufficio, che, decidendo sui reclami indicati, riconoscevano la fondatezza della applicazione della norma in questione al singolo reclamante, ma dichiaravano nel contempo la inefficacia di alcune delle limitazioni alle regole del trattamento normativo penitenziario contenute, appunto (come previsto dalla norma in parola), nei decreti ministeriali reclamati. Questo indirizzo della Corte di cassazione risulta ormai sistematico, essendosi manifestato alla fine del 1994 (Cass. Sez. I, 6 dicembre 1994, dep. 11 febbraio 1995, relativa a Vernengo Giuseppe), per proseguire, senza incertezze e contrasti, nel corso del 1995 (sentenza 26 gennaio 1995, dep. 31 marzo 1995, relativa a Salerno Pietro; sentenza 6 maggio 1995, relativa a Scaduto Giovanni; sentenza 6 giugno 1995, dep. 10 luglio 1995, relativa a Ganci Raffaele; sentenza 15 giugno 1995, dep. 20 luglio 1995, relativa a Madonia Francesco), cosi' che deve ritenersi recepito dal Giudice del diritto. L'art. 41-bis, secondo comma, ha quindi il contenuto e la portata che tale interpretazione attribuisce allo stesso e che puo' essere cosi' sintetizzata: i provvedimenti ministeriali applicativi di tale norma sono sindacabili dal Tribunale di sorveglianza sul punto della applicazione della stessa ad un determinato soggetto, ma non sono sindacabili in ordine al loro contenuto, limitativo della normativa penitenziaria. Se si vuole, piu' esattamente, questa interpretazione coinvolge, accanto all'art. 41-bis, secondo comma, l'art. 14-ter dello stesso Ordinamento penitenziario, che, secondo la sentenza costituzionale n. 410/1993, e' utilizzabile come mezzo di sindacato giurisdizionale sui provvedimenti applicativi del regime speciale previsto dall'art. 41-bis, secondo comma. Lo spazio di tale mezzo di reclamo, secondo la Corte di cassazione, e' quello limitato che si e' indicato. II. - La lettura costituzionale dell'art. 41-bis, secondo comma, di cui alla giurisprudenza di questo e altri tribunali di sorveglianza. La questione e' quindi questa: e' ammissibile o no il sindacato sulle limitazioni alla normativa penitenziaria ordinaria introdotte con i decreti ministeriali applicativi dell'art. 4-bis, secondo comma. Si crede utile indicare le ragioni su cui questo Ufficio, come molti altri, ha ritenuto di fondare la propria risposta positiva. Si riferiscono qui le considerazioni esposte, via via piu' chiaramente, nel corso della redazione dei vari povvedimenti adottati. E' vero che, secondo quanto qui di seguito esposto e sostenuto nelle ordinanze nostre e di altri tribunali di sorveglianza, la costituzionalita' dell'art. 41-bis, secondo comma, e' salva, perche', come indicato dalla Corte costituzionale, si da' di esso una lettura compatibile con i principi costituzionali. E' vero, quindi, che quanto ora si espone non opera a specifico sostengno della eccezione di incostituzionalita'. Questa sara' poi sviluppata, accettando invece come "diritto vivente" la contraria interpretazione della Corte di cassazione. Ma sembra utile a chi scrive chiarire, attraverso la esposizione dei motivi su cui si sono basate le ordinanze dei tribunali di sorveglianza, la prospettiva in cui questi hanno esaminato la questione, prospettiva diversa da quella della Corte di cassazione. Nell'esame con ottiche diverse dei problemi discussi questi possono essere valutati in modo piu' completo. Dunque la parte che segue, riporta le considerazioni rilevanti su cui si e' mossa la giurisprudenza di questo e altri tribunali di sorveglianza. 1. - La lettura costituzionale: fondamento del sindacato relativo alle specifiche limitazioni del regime normativo ordinario in forza dell'art. 41-bis, secondo comma: riferimento alle sentenze costituzionali n. 349 e 410 del 1993. Si ripete, pertanto, che si dovrebbe affermare che va esclusa una interpretazione limitativa del potere di controllo di questo Tribunale di sorveglianza, secondo cui lo stesso potrebbe sindacare solo la correttezza della applicazione a un determinato soggetto del regime restrittivo in questione e non anche la legittimita' o meno delle restrizioni previste dallo stesso. E' invece anche questo un aspetto rilevante e centrale del controllo di conformita' alla legge, che viene attribuito al tribunale di sorveglianza e che va condotto sulla base della verifica che le restrizioni operate alle regole del trattamento prevedano la "sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti che gia' nell'Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto" (v. sent. n. 349/1993, n. 5.3, Corte cost.). Resta fermo infatti il principio o che a colui che subisce una condanna a pena detentiva "sia riconosciuta la titolarita' di situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalita' umana che la pena non intacca" (v. sent. n. 114/79)" (cosi' ancora nella sent. n. 349/1993, n. 4.2). E resta fermo, quindi, che, quando siano in giuoco, tali "situazioni soggettive attive" o la violazione del rispetto della personalita' del detenuto, e' concesso il potere-dovere di intervento da parte di questo organo di controllo. Si ricordi comunque ed inoltre il richiamo che la sentenza n. 410/1993 della stessa Corte ha fatto al reclamo di cui all'art. 14-ter, alla sostanziale coincidenza dei poteri di controllo attribuiti da tale norma al Tribunale di sorveglianza con quelli ricostruiti dalla Giurisprudenza costituzionale in materia di applicazione dell'art. 41-bis, secondo comma. Si legge infatti nella sentenza ora citata, n. 3.4: "occorre rilevare che nell'ambito dell'ordinamento penitenziario e' gia' espressamente previsto un tipo di regime detentivo - il "regime di sorveglianza particolare" - disciplinato dagli artt. 41-bis e seguenti, che, nella sua concreta applicazione viene ad assumere un contenuto largamente coincidente con il regime differenziato introdotto con il provvedimento ex art. 41-bis, secondo comma, di sospensione del trattamento penitenziario". E piu' avanti (n. 3.5), si ribadisce la utilizzabilita' del reclamo previsto contro la applicazione di tale regime in ordine e contro i provvedimenti ex art. 41-bis, secondo comma. Questo tribunale di sorveglianza ha poi rilevato che puo' essere materia di reclamo ex art. 14-ter la illegittimita' delle specifiche limitazioni delle regole del trattamento contenute nel provvedimento di sorveglianza particolare. Il che emerge chiaramente dalle disposizioni dell'art. 14-quater, che stabiliscono: sia l'obbligo di motivazione delle limitazioni; sia le materie in cui le restrizioni non possono essere operate, dando, pertanto, indicazioni preziose anche per la verifica in questa sede, data la "larga coincidenza" fra regime ex art. 41-bis, secondo comma, e regime di sorveglianza particolare. Utilizzando, pertanto, il reclamo di cui all'art. 14-ter e le regole relative, cosi' come anche previste dall'art. 14-quater, si deve concludere che si dovrebbe potere accertare in occasione di reclami in argomento: se il provvedimento applicativo dell'art. 41-quater, quarto comma; se, inoltre, le limitazioni apportate alle regole del trattamento siano comunque coerenti ai fini di cui all'art. 41-bis, secondo comma, in quanto, se cosi' non fosse, le restrizioni sarebbero operate a fini puramente afflittivi, che potrebbero porsi in contrasto con le regole minime di rispetto della personalita' del detenuto. 2. - La lettura costituzionale (segue): incompatibilita' della esclusione del sindacato in questione con la giurisprudenza costituzionale indicata. Si puo' ragionare a contrario. Si puo' allora osservare che, se effettivamente il sindacato in parola fosse escluso, la situazione diverrebbe paradossale. E, infatti, le sentenze costituzionali nn. 349 e 410 del 1993 avevano salvato la costituzionalita' dell'art. 41-bis, secondo comma, affermando che la norma poteva essere interpretata (ed applicata) costituzionalmente e che tale interpretazione (ed applicazione) costituzionale della norma importava che i provvedimenti ministeriali applicativi dovessero contenere solo limitazioni che non toccassero situazioni soggettive attive dei detenuti. Sulla applicazione del regime speciale ex art. 41-bis, secondo comma, ad un determinato soggetto e sul contenuto di tale regime i provvedimenti ministeriali dovevano motivare e, sulla base di tali motivazioni, erano sindacabili dai tribunali di sorveglianza. La sentenza costituzionale n. 349/1993 coglieva anzi direttamente una violazione di un diritto soggettivo del detenuto, attuata nei provvedimenti ministeriali: quella della censura della corrispondenza senza autorizzazione di un organo giudiziario. Si noti bene che la Corte costituzionale dava una pura e semplice indicazione in tal senso nella motivazione della sentenza citata, ma non toccava in alcun modo il contenuto dei provvedimenti ministeriali, che operavano la violazione del diritto dei detenuti: cioe', non annullava o dichiarava inefficaci una parte dei provvedimenti stessi, compito che non e' in alcun modo nelle competenze della Corte. Ora, se il Ministero di grazia e giustizia e la Amministrazione penitenziaria avessero insistito nel mantenere quella violazione, chi se non il tribunale di sorveglianza (individuato come organo di controllo giurisdizionale) poteva provvedere, dichiarando la inefficacia della clausola relativa? Se quel sindacato non fosse possibile, l'Amministrazione avrebbe potuto e potrebbe mantenere tranquillamente la violazione in parola. Quindi: la sindacabilita' del contenuto dei provvedimenti ministeriali rappresenta, come si e' gia' detto, il mezzo attraverso il quale si salva la legittimita' costituzionale della norma che li prevede. Se tale sindacato non e' possibile, l'Amministrazione, in base all'art. 41-bis, secondo comma, puo' dare al regime penitenziario il contenuto che crede, violare regole e diritti. Ed allora, inevitabilmente, si ripropone il problema della costituzionalita' della norma in questione. E si legga ancora, per ribadire quanto sopra detto, la sentenza n. 349/1993, al n. 7 della motivazione in diritto, che e' la parte conclusiva della sentenza: "E' opportuno, infine, sottolineare che le medesime ragioni che consentono di escludere l'illegittimita' costituzionale della norma in esame, delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il portato con il richiamo ai principi generali dell'ordinamento, conducono anche alla conclusione che taluni dei rilievi espressi dai giudici remittenti, pur se rivolti avverso la citata disposizione dell'art. 41-bis, non trovano la loro causa nella norma di legge, bensi' - come si e' gia' visto - nel solo provvedimento ministeriale di applicazione. In base a tutte le ragioni fin qui esposte, anche tali provvedimenti, come del resto esattamente ritengono le stesse ordinanze di rimessione, sono certamente sindacabili dal giudice ordinario...". Non sembra davvero possibile pensare che tale sindacato sia dato soltanto sul punto dei destinatari del regime restrittivo e non anche sul contenuto dello stesso, sicuramente censurabile per violazione di regole e diritti, anche costituzionalmente protetti, come la stessa Corte costituzionale evidentemente riteneva. 3. - Esame degli argomenti, a sostegno della esclusione del sindacato in questione, esposti nelle sentenze della Corte di cassazione: analisi degli stessi e possibili confutazioni. E' utile esaminare le decisioni adottate dalla Corte di cassazione (citate sub I) di questa Premessa), con le quali si esclude il sindacato dei tribunali di sorveglianza del quale stiamo discutendo. Si esaminano le sentenze non nell'ordine cronologico (con cui sono state citate in precedenza), ma nell'ordine logico degli argomenti. Si legge nella prima delle sentenze citate della Corte di cassazione (6 dicembre 1994, Vernengo Giuseppe): "La sindacabilita' del provvedimento ministeriale e' attinente, in quanto controllo giurisdizionale, alla legittimita' delle prescrizioni e cioe' alla riconoscibilita' di un collegamento tra il detenuto e la situazione che si intende tutelare con l'atto amministrativo, ma non al merito delle stesse e cioe' in ordine alle singole modalita' del regime imposto". Nella quarta delle sentenze citate (6 giugno 1995, Ganci Raffaele) si legge: "Il provvedimento del Ministro di grazia e giustizia... riveste i caratteri dell'atto amministrativo che, incidendo su diritti soggettivi (cfr. sul punto le sentenze nn. 53 e 349/1993 della Corte costituzionale), e' sottoponibile al controllo dell'autorita' giudiziaria ordinaria con lo strumento procedurale del reclamo innanzi al competente tribunale di sorveglianza ex art. 14-ter, Ord. pen. Detto controllo soggiace ai limiti fissati dagli artt. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in base ai quali il giudice puo' sindacare l'atto amministrativo soltanto sotto l'aspetto della sua legittimita' e non estendere il medesimo al merito del provvedimento. Pertanto sono sottoposti al controllo giurisdizionale i tradizionali vizi di legittimita': ossia, l'incompetenza, l'eccesso di potere e la violazione di legge, secondo la specificazione di cui all'art. 26 del r.d. 26 giugno 1924, n. 1054". Nella seconda delle sentenze citate (26 gennaio 1995, Salerno Pietro), la Corte di cassazione, introducendo un argomento nuovo, sostiene le stesse conclusione e ribadisce cosi' "quanto gia' aveva affermato, in tema di reclamo avverso i provvedimenti che dispongono o propongano il regime di sorveglianza particolare, di cui agli artt. 14-bis, e 14-ter Ord. Penit., e cioe' che il Tribunale di sorveglianza deve limitarsi ad effettuare il mero controllo di legittimita' sul provvedimento reclamato, senza avere alcun potere integrativo dello stesso, stante la sua natura amministrativa, sia per l'autorita' dalla quale promana che per il suo intrinseco contenuto, sicche', ove rilevi la carenza di ragioni idonee a giustificarlo e la mera apparenza di quelle indicate, il giudice deve solo disporre la revoca del provvedimento (v., per tutte, Sez. I, 28 ottobre 1987, n. 3230, mass. n. 176.907)". Infine si cita la quinta delle sentenze gia' indicate della Corte di cassazione (15 giugno 1995, Madonia Francesco), nella quale si rinvengono affermazioni non del tutto coincidenti con quelle di cui alla pronuncia precedente. Vi si afferma "... Il regime previsto dall'art. 41-bis Ord. pen., pur avendo un contenuto largamente coincidente con quello di sorveglianza particolare di cui all'art. 41-bis dell'Ord. pen., se ne differenzia profondamente anche per le finalita' che lo caratterizzano. Infatti, il primo e' diretto a salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica, mentre il secondo e' diretto ad assicurare l'ordine e la sicurezza interna dei singoli istituti di pena. Ne consegue che non possono essere applicate per analogia, al regime di cui all'art. 41-bis, Ord. pen., norme dettate per il regime di sorveglianza particolare. Per quel che interessa non possono trovare applicazione i divieti di restrizioni previsti dall'art. 14-quater dell'Ord. Pen., essendo gli stessi specificamente previsti per il regime di sorveglianza particolare". Alcune osservazioni sulla giurisprudenza sopra citata. a) Analisi della giurisprudenza della Corte di cassazione: sentenze citate non sono del tutto coincidenti nelle motivazioni, ma lo sono del diniego del sindacato del tribunale di sorveglianza in ordine al contenuto dei decreti ministeriali, cioe', in ordine alle concrete restrizioni alla normativa ordinaria applicate con i decreti stessi. Particolarmente nella sentenza 26 gennaio 1995, Salerno e in quella 6 giugno 1995, Ganci, sembra riconoscersi la applicazione di quello specifico mezzo di reclamo rappresentato dall'art. 14-ter: questo e' lo strumento processuale, applicabile in materia per effetto del richiamo allo stesso operato in modo esplicito dalla sentenza costituzionale n. 410/1993. Nelle altre due sentenze sopra citate e particolarmente in quella 15 giugno 1995, Madonia, il riferimento fatto al reclamo ex art. l4-ter sembra ridursi ad una mera indicazione esemplificativa, facendosi rientrare il sindacato del tribunale di sorveglianza in quello generale del giudice ordinario sulla violazione dei diritti soggettivi da parte della pubblica amministrazione. Si reputa pero' inutile scendere in queste distinzioni (anche nella sentenza 6 giugno 1995, Ganci, si parla infatti di controllo del giudice ordinario ex art. 4 e 5 della legge 20 marzo 1865, All. E, si fa anche riferimento al contenuto di tale controllo, rinviando all'art. 26 della legge sul Consiglio di Stato e ai vizi di legittimita' di cui e' possibile il rilievo: e questo pur parlando sempre di quello specifico strumento di reclamo previsto dall'art. 14-ter. Le sentenze citate coincidono, comunque nella conclusione: il sindacato del tribunale di sorveglianza e' un sindacato di legittimita' e cio' comporta (sentenza 6 dicembre 1994, Vernengo): che si puo' verificare "la riconoscibilita' di un collegamento tra il detenuto e la situazione che si intende tutelare con l'atto amministrativo"; che non si puo', invece, sindacare il "il merito delle prescrizioni", cioe' delle specifiche limitazioni al regime penitenziario ordinario. Se si vuole, pertanto, secondo le sentenze citate, uniformi sul punto: l'unico diritto soggettivo in giuoco e' quello del detenuto si essere legittimamente destinatario della applicazione dell'art. 4-bis secondo comma; di esserlo, cio', attraverso un provvedimento ministeriale fondatamente riferibile al soggetto: su questo punto non si discute la pienezza della cognizione del tribunale di sorveglianza (che controlla la fondatezza delle motivazioni del decreto, spingendosi anche, attraverso la acquisizione di ulteriore documentazione, a ripararne le falle, che talvolta presentano); nessun sindacato sarebbe invece possibile sul contenuto del decreto ministeriale, assumendosi che un tale sindacato sarebbe sostituzione ed integrazione della volonta' della Amministrazione: questa dunque non e' consentita', facendo supporre che si ritenga che, attraverso il contenuto dell'atto amministrativo in questione, non possa consumarsi alcuna violazione di diritti soggettivi. b) Riflessioni critiche sulla giurisprudenza citata - Circa l'inquadramento dello strumento processuale del reclamo al tribunale di sorveglianza, la, giurisprudenza della Corte costituzionale gia' citata (sentenza n. 410/1993, nn. 3.4 e 3.5) parrebbe intendere il riferimento alle norme di cui all'art.14-ter, come un richiamo non meramente indicativo, ma ricettivo del sistema ivi previsto. Ma la questione puo' non essere particolarmente rilevante, anche se vedremo poi come e perche' sia utile risolverla. La questione di fondo resta la conclusione cui pervengono le sentenze citate: inammissibilita' del sindacato in merito alle restrizioni introdotte con i decreti ministeriali. E' questa conclusione che non e' affatto persuasiva e non risponde ai tre interrogativi che seguono. Primo. Perche' la applicazione dell'art. 41-bis, secondo comma, ad un determinato soggetto puo' spingersi in ogni direzione, quando la individuazione del destinatario della norma comporta inevitabilmente valutazioni di sostanza (se non vogliamo usare la espressione "merito") in ordine al fatto che quel soggetto rappresenta un rischio per "l'ordine e la sicurezza pubblici"? Il sindacato del tribunale di sorveglianza, riconosciuto come necessario dalla Corte costituzionale per salvare la costituzionalita' della norma (la sua interpretazione in senso costituzionale), ha inevitabilmente un contenuto di esame intrinseco del decreto ministeriale. Si puo' anche chiamarlo un esame di legittimita', ma la poverta' delle indicazioni normative (nulla dice l'art. 41-bis, secondo comma, in merito ai parametri di individuazione dei soggetti, come invece fa l'art. 14-bis), da' a questo esame un forte contenuto valutativo. Secondo. Ma perche' allora l'esame del contenuto dell'atto amministrativo deve essere precluso? La violazione dei diritti soggettivi puo' consumarsi proprio attraverso il contenuto dell'atto amministrativo. Come si e' gia' rilevato in precedenza, sub II), la giurisprudenza della Corte costituzionale ha gia' rilevato una specifica violazione di un diritto soggettivo consumata dai primi decreti ministeriali (la censura della corrispondenza senza autorizzazione di un organo giudiziario) e ha rilevato che le censure di costituzionalita' che i tribunali di sorveglianza avevano mosso all'art. 41-bis, secondo comma, erano in effetti riferibili ai decreti ministeriali medesimi, cogliendo pertanto negli stessi la capacita' di aggredire posizioni soggettive protette (sent. n. 349/1993, n. 7 della motivazione in diritto). Se, quindi, l'applicazione della norma al soggetto pone in essere la violazione di un diritto soggettivo, perche' la stessa non puo' essere consumata attraverso lo specifico contenuto del decreto ministeriale? Perche' questa non puo' essere una ulteriore questione di legittimita'? Terzo. La giurisprudenza della Corte di cassazione risponde a questa domanda: questo sindacato non e' possibile perche' comporterebbe una sostituzione ed integrazione della volonta' della Amministrazione da parte del giudice ordinario. Ma, per la esattezza, nei provvedimenti di questo tribunale di sorveglianza, nei piu' recenti in modo sempre piu' rigoroso (come si dimostrera' piu' oltre), la pronuncia e' stata dichiarativa della inefficacia della singola restrizione al regime penitenziario in quanto violatrice di una specifica posizione soggettiva attiva. Quindi, perche', si vuole ravvisare in questo intervento una sostituzione o integrazione della volonta' della Amministrazione, quando si tratta della ricognizione di una violazione di diritto, della quale si dichiara la inefficacia? Ma quando si dichiara la inefficacia del decreto nella sua totalita' perche' si ritiene che non dovesse essere applicato a quel determinato soggetto, non si opera anche allora una sostituzione della volonta' della Amministrazione? Perche' questa e' consentita e l'altra, sul contenuto dell'atto amministrativo, non e' possibile? Qui, si puo' tornare, concludendo per questa parte, alla questione di quale portata abbia il richiamo all'art. 14-ter nella nostra materia. Se e' questo lo strumento processuale che viene dato, non si puo' ritenere che il richiamo valga anche per l'art. 14-quater, che parrebbe indicare anche il contenuto della cognizione data al giudice del reclamo? Si puo' cominciare col rilevare su questo punto che una delle sentenze citate della Corte di cassazione fonda la propria conclusione limitativa del sindacato (del tribunale di sorveglianza sul contenuto dei decreti ministeriali) sulla giurisprudenza formata a suo tempo sugli artt. 14-bis e 14-ter: vedi la sentenza 26 gennaio l995, Salerno, sopra riportata e la pregressa giurisprudenza della Corte cassazione ricordata nella stessa. Quindi: afferma la cassazione che, anche nel sistema degli artt. 14-ter e 14-quater, il sindacato era limitato e non riguardava il contenuto del provvedimento reclamato. La prima considerazione che si ritiene di potere fare e' che la giurisprudenza a cui rinvia la sentenza citata non pare cosi' sicura e costante, ma deve essere, verosimilmente, condizionata dalle singole fattispecie concrete sottoposte al giudizio, alcune delle quali avevano effettivamente realizzato una integrazione del provvedimento amministrativo, chiaramente non consentita e che non si intende affatto sostenere e si ritiene di non realizzare in alcun modo con i provvedimenti che si sono adottati e di cui oggi si discute. Per verificare che la risalente giurisprudenza della cassazione (certo non abbondante) sia stata tutt'altro che sicura e costante, si veda Cass., Sez. I, 11 giugno 1987, Mambro (in Foro It., 1988, II, 152), nella quale si esamina il contenuto del controllo della cassazione sui provvedimenti del tribunale di sorveglianza. In tale sentenza si prende atto che il contenuto del controllo del tribunale di sorveglianza sull'atto amministrativo non consiste affatto e soltanto in una verifica estrinseca della motivazione del provvedimento amministrativo reclamato, ma scende alla valutazione delle ragioni poste a base dello stesso e alla analisi della consistenza probatoria della medesime. E allora esaminiamo piu' da vicino l'art. 14-quater, sviluppando quanto gia' osservato sub I). Si e' gia' ricordato ivi che l'art. 14-quater regola proprio i "contenuti del regime di sorveglianza particolare" (v. la rubrica della norma); stabilisce che tale regime ocomporta le restrizioni strettamente necessarie, per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, all'esercizio dei diritti dei detenuti e degli internati e alle regole del trattamento previste dall'ordinamento penitenziario"; afferma che "le restrizioni.... sono motivatamente stabilite nel provvedimento che dispone il regime di sorveglianza particolare"; impone infine che "in ogni caso le restrizioni non possono riguardare" una serie di materie, specificamente indicate. In presenza di tali disposizioni e dell'obbligo di motivazione previsto, non si vede come, a seguito del reclamo previsto dall'art. 14-ter, non si possa valutare il rispetto di quanto stabilito dall'art. 14-quater in ordine al contenuto del regime restrittivo previsto dal provvedimento amministrativo. La normativa degli artt. 14-bis e segg. non solo e' nata dalla esigenza di un controllo giurisdizionale sulla assegnazione dei detenuti ad un regime di massima sicurezza, ma anche da quella, altrettanto rilevante ed avvertita, del contenuto di questo (ricordiamo che, all'inserimento, con la legge n. 663/1986, nell'Ordinamento penitenziario penitenziario, degli artt. 14-bis e segg., corrispose la soppressione dell'art. 90, che consentiva proprio regimi restrittivi insuscettibili di sindacato, che si volevano invece rendere impossibili). Le indicazioni al riguardo dell'art. 14-ter sono indiscutibili e il reclamo di cui all'art. 14-ter non puo' non servire anche per la verifica di legalita' del contenuto del regime restrittivo. Tutto cio' e' stato gia' detto in precedenza e viene qui ribadito per ricordare una ulteriore sentenza della Corte di cassazione in materia di reclamo avverso il provvedimento applicativo della sorveglianza particolare. sentenza e' quella della cassazione, Sezione I, 7 ottobre 1987, Piunti, in Cass. pen. 1988, 2149, nella quale si legge: "Nell'ipotesi di reclamo ex art. 14-bis... il Tribunale di sorveglianza e' tenuto a verificare la sussistenza delle condizioni previste da detta norma e a valutare la legittimita' del provvedimento adottato dalla amministrazione, i cui contenuti sono stabiliti dall'art. 14-quater della stessa legge, che fa riferimento alle restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, nonche' al visto di controllo della corrispondenza, restando esclusi da detta restrizione alcuni diritti del detenuto, che il legislatore ha espressamente considerato non comprimibili, neppure quando sia autorizzata la sottoposizione alla sorveglianza speciale". Come si vede, la giurisprudenza formatasi sugli artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater - lo si e' detto poco sopra - e' tutt'altro che significativa e rilevante per affermare la impossibilita' di sindacato sul contenuto dell'atto amministrativo. La stessa poteva affermare, ed e' un punto pacifico, che non si poteva integrare l'atto amministrativo, inserendo in esso un contenuto diverso da quello del medesimo. Ma come detto ripetutamente non e' questo che si ritiene di potere fare. Cio' che si ritiene di potere fare e' di rilevare la illegittimita' di singole parti di quel contenuto (per le ragioni gia' esposte) e di poterne conseguentemente dichiarare la inefficacia, come si e' fatto nei nostri provvedimenti in sede di reclamo contro i decreti ministeriali applicativi dell'art. 41-bis, comma 2. 4) Conclusione. Si sono pertanto confrontate due possibili letture della norma di cui all'art. 41-bis, comma 2, con particolare riferimento all'art. 14-ter, sulla questione essenziale della possibilita' o meno di sindacato dei tribunali di sorveglianza sul contenuto dei decreti ministeriali applicativi della prima norma. Tali possibili letture sono le seguenti: quella che si ritiene costituzionale e che consente detto sindacato: in base a tale lettura si sono adottate ripetute decisioni, da parte di questo tribunale di sorveglianza, come di altri, con le quali, dopo avere riconosciuto fondata la applicazione della norma, all'interessato, si dichiarava la inefficacia di alcune delle limitazioni al regime penitenziario ordinario contenute nei decreti ministeriali reclamati; quella invece, seguita dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che non si ritiene costituzionale (per quanto si dira' successivamente), secondo la quale nessun sindacato e' possibile in merito al contenuto dei decreti ministeriali in questione. Questa seconda lettura, per la ormai raggiunta stabilita' e per la provenienza dal giudice di legittimita' sovraordinato, rappresenta l'unica interpretazione oggi possibile della normativa in questione. Di essa si esamineranno poco oltre quelli che, secondo questo tribunale di sorveglianza, rappresentano i possibili profili di incostituzionalita'. III. - Esemplificazione del sindacato del tribunale di sorveglianza in merito al contenuto dei decreti ninisteriali applicativi dell'art. 41-bis, comma 2, nonche' delle conseguenti decisioni adottate. Per concludere questa non breve, ma indispensabile, premessa, si puo' citare uno dei provvedimenti piu' recenti di questo tribunale di sorveglianza, nella parte in cui si esprime il controverso e contestato sindacato sul contenuto dei decreti ministeriali applicativi dell'art. 41-bis, comma 2. Si tratta della ordinanza 27 giugno 1995, relativa a Ferrara Calogero, pg. da 10 a 14. Esame delle singole clausole restrittive delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria: individuazione di quelle censurabili. Si ritiene che non si giustifichino, nei termini precedentemente chiariti, e debbano pertanto essere dichiarate inefficaci, le limitazioni del regime penitenziario vigente contenute nel provvedimento reclamato e qui di seguito indicate. 1. - Dispone l'art. 1 del dispositivo del provvedimento reclamato, nella parte iniziale: "... e' sospesa l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, ed in particolare delle sottoindicate disposizioni ...". Questa parte del dispositivo non e' semplicemente la introduzione delle successive specifiche clausole sospensive di singole regole, ma ha un suo proprio contenuto, in ossequio al quale si ritiene sospesa ogni attivita' di osservazione e trattamento nei confronti dei soggetti sottoposti alla applicazione dell'art. 41-bis, comma 2. E' sistematica, infatti, in occasione di procedure di sorveglianza (essenzialmente per liberazione anticipata ex art. 54), la precisazione, da parte degli operatori penitenziari richiesti delle valutazioni indispensabili per le decisioni del tribunale di sorveglianza, che i detenuti destinatari del regime in parola non sono sottoposti ad osservazione e trattamento. Il senso, quindi, di questa clausola introduttiva e' quello che si e' ora indicato e, come tale, e' stata applicata. D'altronde, la previsione di clausole restrittive "in particolare", non puo' non dare un senso proprio e autonomo alla clausola limitativa generale, che va intesa, quindi, nel senso ora chiarito. Questo realizza la violazione di un preciso diritto costituzionale, che, ricollegandosi all'art. 27, comma 3, Cost., stabilisce il diritto del condannato ad un trattamento rieducativo e al riesame degli effetti del medesimo per verificare se la espiazione della pena abbia raggiunto le finalita' rieducative per cui viene eseguita. Tale diritto e' stato affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/1974 e piu' volte ripetuto in seguito, ma e' rilevante notare che sempre di tale diritto si e' fatta applicazione nella sentenza n. 306/1993, che pronunciava su tutta un serie di eccezioni di costituzionalita' a quello stesso d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che introduceva anche il comma 2 dell'art. 41-bis. La sentenza costituzionale ora detta, chiamata a decidere proprio sulla legislazione speciale introdotta per detenuti appartenenti al crimine organizzato, riaffermava (n. 10 della motivazione in diritto) che "tra le finalita' che la Costituzione assegna alla pena - da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale ... e, dall'altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione ... - ... il legislatore puo' ... far tendenzialmente prevalere ... l'una o l'altra finalita' .. ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata". E nel rispetto di questo principio, la sentenza n. 306/1993 ha salvato la costituzionalita' di varie disposizioni introdotte, nella materia dei benefici penitenziari, dalla legislazione in questione, proprio perche' si e' mantenuto quantomeno uno dei benefici stessi, la liberazione anticipata, cioe', senza subordinarlo alla collaborazione (n. 11 della motivazione in diritto). Ed allora la sospensione di ogni attivita' di osservazione e trattamento, enunciata nella clausola iniziale del dispositivo del provvedimento reclamato e sistematicamente attuata nei fatti, viola il diritto, che riposa sull'art. 27, comma 3, Cost., a che la esecuzione della pena non sia privata della finalizzazione rieducativa, che e' propria e necessaria della stessa. Che i soggetti di cui trattasi siano talvolta autori di gravi crimini e si ritengano ancora legati (come si e' detto in precedenza per il caso di specie) ad aggregazioni criminali, non dispensa, come la citata sentenza costituzionale n. 306/1993 ribadisce, dall'offrire anche ad essi la possibilita' di partecipare ad una attivita' penitenziaria rieducativa. Analisi critiche e resipiscenze sul loro vissuto saranno indubbiamente rare, ma tale rarita' non fa venire meno l'obbligo costituzionale indicato. Nel quadro, poi, delle finalita' perseguite dall'art. 41-bis, comma 2, non si vede quale vantaggio per la sicurezza pubblica possa derivare dalla omissione di qualunque attivita' di osservazione e trattamento nei confronti dei destinatari della norma citata. Pertanto, va dichiarata la inefficacia della disposizione iniziale dell'art. 1 della parte dispositiva del provvedinento reclamato la' dove si stabilisce, in linea generale, che "e' sospesa l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni", disposizione alla quale consegue la sospensione di qualsiasi attivita' di osservazione e trattamento nei confronti del destinatario del provvedimento stesso. 2. - Va del pari dichiarata inefficace, fra le specifiche disposizioni dell'art. 1 del dispositivo del provvedimento reclamato, restrittive del regime ordinario della legge penitenziaria, quella che stabilisce il divieto di colloqui ordinari con familiari e conviventi eccedenti il numero di uno al mese per la durata di un'ora, di cui alla lettera c) del detto articolo. Il diritto di avere 4 colloqui al mese con i congiunti e' attribuito al detenuto dall'art. 18 dell'ordinamento penitenziario e, nel mentre e' prevista la possibilita' di autorizzare altri colloqui, con finalita' premiali, oltre i quattro previsti, e di autorizzare inoltre colloqui con terzi "per ragionevoli motivi", l'Amministrazione non ha la facolta' di derogare al numero di colloqui previsto come regola minima nei rapporti con i congiunti. E' questa, pertanto, una materia nella quale si radica una "situazione soggettiva attiva" del detenuto che va rispettata. A conferma di questo sta la previsione dell'art. 14-quater, comma 4, che prevede i colloqui con i prossimi congiunti fra le materie in cui non possono essere apportate restrizioni. Se poi si vuole esaminare questa restrizione in funzione delle finalita' specifiche dell'art. 41-bis, comma 2, si puo' aggiungere che, laddove venga ritenuto ammissibile il colloquio con le persone di famiglia, a nulla vale ridurne quantita' e durata rispetto alla normale previsione della legge penitenziaria. Delle due l'una infatti: o si ritiene tale tipo di colloquio possibile veicolo di pericoli all'esterno, ed allora esso deve essere decisamente e completamente escluso (e questo, d'altronde, non sarebbe possibile per quanto detto piu' sopra); ovvero non lo si considera pregiudizievole per l'ordine e la sicurezza pubblica ed allora e percio' stesso lo si deve ritenere possibile. Il solo fatto di averne consentito la fruizione, sia pure ridotta nella quantita', impone di considerarlo non pregiudizievole e conseguentemente inspiegabile, alla luce dei fini perseguiti, la sua limitazione rispetto all'ordinario regime di legge. 3. - Del pari non legittimo e comunque del tutto privo di ragione appare il divieto di acquisto di generi alimentari che secondo l'uso comune richiedano cottura, di cui alla lettera i) del detto art. 1. Anche a tale riguardo una "situazione soggettiva attiva" e' riconosciuta ai detenuti dall'ultimo comma dell'art. 9 dell'Ordinamento penitenziario ed essa inoltre va inquadrata in una esigenza di sia pure minima indivualizzazione del vitto (dovuta particolarmente in considerazione delle condizioni di salute dei soggetti e di esigenze dietetiche, pur sempre minime, degli stessi). A riprova di quanto si dice sta la inserzione, all'art. 14-quater, comma 4, fra le materie per le quali non sono possibili restrizioni, di quella del vitto e dell'acquisto di generi permessi. Anche qui, comunque, non e' chi non veda (passando all'esame riferito alle finalita' di cui all'art. 41-bis, comma 2) come questa prescrizione non trovi alcun aggancio con la finalita' perseguita dal provvedimento ministeriale. E' nota la preoccupazione circa un uso illecito e pericoloso delle bombolette di gas con cui vengono alimentati i fornelli da campo per procedere alla cottura dei cibi acquistati crudi. E d'altra parte questo e' problema tutto ed esclusivamente interno agli istituti. L'Amministrazione potra' legittimamente disporre una regolamentazione dell'uso del fornello, indicandone orari di consegna, ritiro e custodia negli armadietti esterni alla cella da parte del personale operante; parimenti potra' stabilire che, in via disciplinare specifica, possa sospendersi dal beneficio il soggetto che ne abbia fato uso scorretto. Ma certamente non potra' in via generale e astratta negare una bevanda o un cibo caldo, preparato nei modi e nei tempi eventualmente meglio visti, inducendo che con cio' si intende preservare la collettivita' da nuovi e gravissimi rischi. Questa parte - e' ben chiaro - e' tutta ed esclusivamente di competenza della Amministrazione penitenziaria, di cui non si vuole in alcun modo integrare o sostituire la volonta'. Si conclude, pertanto, limitandoci a ribadire la inefficacia della disposizione restrittiva di cui alla lettera i). 4. - Infine va rimarcato come sia illegittimo il limite di due ore per fruire del passeggio all'aria, di cui alla lettera l) del detto art. 1, ove si prevede che non sia consentita la permanenza all'aria aperta per oltre due ore giornaliere. Va chiarito che il senso di tale limitazione e' quello di determinare la chiusura in cella dell'interessato per le restanti 22 ore di ogni giornata in violazione della specifica previsione dell'art. 6 dell'Ordinamento penitenziario, che indica la cella come locale di solo pernottamento, prevedendo locali di soggiorno, nella specie non esistenti. Anche qui vi e' una "situazione soggettiva attiva", che deriva dalla norma citata e che la disposizione in esame del decreto ministeriale ignora. E' chiaro, ancora, in questo quadro normativo, che i limiti minimi di permanenza all'aperto, indicati nell'art. 10 dell'ordinamento penitenziario, sono stabiliti con riferimento ad un normale regime di vita, distribuito fra locali di pernottamento e locali di soggiorno, che, nel caso, e' totalmente mancante. La prescrizione, inoltre, non ha certamente riflesso alcuno sulla sicurezza esterna; oltretutto devono considerarsi le concrete condizioni operative della struttura pianosina che consente adeguata separazione dei detenuti al momento dell'aria e nessun aggravio ulteriore per il personale quale che sia il tempo della stessa. Anche sotto tale profilo la restrizione operata non si legittima alla luce delle finalita' dell'art. 41-bis, comma 2. Sul punto, senza volere in alcun modo integrare o sostituire, la clausola restrittiva, della quale ci si limita a dichiarare la inefficacia, si puo' rilevare che per le sezioni ad alta sicurezza attualmente in funzione e' prevista la permanenza all'aria aperta per cinque ore giornaliere in due soluzioni. In conclusione, fra quelle indicate all'art. 1 del provvedimento reclamato, si considerano illegittime e si dichiarano, quindi, inefficaci; la disposizione iniziale dello stesso articolo, la' dove si stabilisce, in linea generale, che "e' sospesa l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge 25 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni", cosi' da consentire la sospensione di qualsiasi attivita' di osservazione e trattamento nei confronti del destinatario del provvedimento stesso; la disposizione di cui alla lettera c); la disposizione di cui alla lettera i); la disposizione di cui alla lettera l). La citazione di uno specifico provvedimemento e del tipo di sindacato operato consente di verificare quello che si e' sostenuto in precedenza: che il sindacato stesso non intende integrare o sostituire la volonta' della pubblica amministrazione, ma soltanto controllarne la effettiva legittimita'. ESAME DI COSTITUZIONALITA' DELLA NORMATIVA IN QUESTIONE: art. 41-bis, comma 2, e art. 14-ter La lunga premessa che precede consente ora di scendere all'esame dei profili di costituzionalita' della normativa in parola. Normativa, quindi, che va letta ed interpretata secondo la lettura fatta dalla Corte di Cassazione e sopra ricostruita. I. - Rilievo di incostituzionalita' dell'art. 41-bis, comma 2, nonche' dell'art. 14-ter dell'Ordinamento penitenziario, in relazione all'art. 13, comma 2, della Costituzione. Un primo ordine di considerazioni su questo profilo di incostituzionalita' della normativa in esame, puo' ricavarsi dalla sentenza n. 349/1993 della Corte costituzionale. Vi si legge (v. n. 4.2 della motivazione in diritto). Va tenuto fermo, in primo luogo, che la tutela costituzionale dei diritti fondamentali dell'uomo ed in particolare la garanzia della inviolabilita' della liberta' personale sancita dall'art. 13 della Costituzione, opera anche nei confronti di chi e' stato sottoposto a legittime restrizioni della liberta' personale durante la fase esecutiva della pena, sia pure con le limitazioni che, come e' ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta ... Questa Corte ha gia' avuto occasione di affermare che, dal principio accolto nell'art. 27, terzo comma, della Costituzione, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita', discende direttamente, quale ulteriore principio di civilta', che a colui che subisce una condanna a pena detentiva "sia riconosciuta la titolarita' di situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalita' umana che la pena non intacca (v. sent. n. 114 del 1979)". In breve, la sanzione detentiva non puo' comportare una totale ed assoluta privazione della liberta' della persona: ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua liberta', ne conserva sempre un residuo, che e' tanto piu' prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale puo' espandersi la sua personalita' individuale. Da cio' consegue che l'adozione di eventuali provvedimenti, suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel quadro della liberta' personale, puo' avvenire soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione". Una prima precisazione va fatta. Le considerazioni svolte nella sentenza costituzionale citata si riferiscono alla situazione detentiva di chi si trova in esecuzione di pena. Sembra, pero', che non ci siano da fare particolari approfondimenti sul fatto che l'art. 13, comma 2, della Costituzione, riguarda ogni forma di detenzione e che le considerazioni della Corte costituzionale debbano valere a maggior ragione nei confronti di un soggetto in custodia cautelare, che si presume innocente fino a che non intervenga la condanna definitiva. Fatta questa precisazione, ci sembra chiaro che la copertura costituzionale descritta nella sentenza n. 349/1993 citata, riguarda specificamente il contenuto delle eventuali restrizioni ulteriori della liberta' di una persona in situazione detentiva. E' ovvio che essa garantisce anche i singoli dalla applicazione agli stessi delle restrizioni in questione, ma l'attenzione della giurisprudenza costituzionale e' rivolta in particolare al contenuto delle stesse e alla possibilita' che queste mettano in giuoco quelle posizioni soggettive attive di cui la sentenza citata parla. E allora non si vede come, per effetto dell'art. 41-bis, comma 2, la pubblica amministrazione possa operare restrizioni di qualsiasi genere, senza che il contenuto delle stesse possa essere sindacato da un organo giiirisdizionale. Il che accade, se si ritiene, come si deve ritenere in base alla giurisprudenza della Corte di cassazione, che tale sindacato non sia possibile ai sensi dell'art. 14-ter, per lo spazio limitato che da tale norma si ricava per l'intervento giurisdizionale che da tale norma si puo' desumere. E il profilo di costituzionalita' si puo' ritenere duplice: e' violata la riserva di legge, perche' una norma generica come l'art. 41-bis, comma 2, non da' alcuna indicazione sulle posssibili restrizioni, neppure a livello di concreti indirizzi: tutto dovrebbe essere ricavato indirettamente dal generico riferimento ai "motivi di ordine e sicurezza pubblica" (si tenga presente la ben diversa previsione dell'art. 14-quater, specifico sulle materie che non potevano essere toccate dalle restrizioni della sorveglianza particolare); e' violata incontestabilmente la riserva di giurisdizione, in quanto, appunto, confermata la riferibilita' della norma all'interessato, il giudice non puo' verificare la legittimita' del contenuto delle restrizioni. Si e' spiegato che il controllo dei tribunali di sorveglianza in questo settore non comporta affatto sostituzione o integrazione della volonta' della pubblica amministrazione, limitandosi alla presa d'atto della legittimita' o meno delle restrizioni apportate con il provvedimento applicativo dell'art. 41-bis, comma 2. Ma quali che siano le ragioni della impossibilita' del sindacato, infondate o meno, esse si esprimono nella giurisprudenza del giudice di legittimita' ed impediscono il sindacato giurisdizionale sulle violazioni delle situazioni soggettive attive eventualmente consumate con le restrizioni in parola. Cio' che sembra necessario rilevare e' la possibilita' reale che l'assenza di tale controllo renda inevitabile una detenzione di sola neutralizzazione, nella quale diritti essenziali vengono violati. Si e' visto, ad esempio, che si rende esplicita la cessazione delle attivita' di osservazione e trattamento e si stabilisce la apertura ed uscita dalla cella per non piu' di due ore: tuttocio' non puo' non comportare che ogni attivita' di trattamento, anche in risposta a diritti essenziali (istruzione, lavoro, religione), vengano meno. Come, nel concreto, vengono meno, perche' non solo non e' svolta l'attivita' di osservazione, ma mancano i servizi scolastici e religiosi e reali possibilita' di lavoro. Anche qui si puo' notare che quanto detto puo' valere anche per un soggetto in custodia cautelare. Si deve ricordare al riguardo il disposto dell'art. 15, comma 3, Ordinamento penitenziario, e tenere presente che non sembra concepibile che cio' che deve essere escluso per chi sia detenuto in espiazione di pena, possa invece essere consentito per chi sia in costodia cautelare e, quindi, presunto innocente fino alla sentenza definitiva. II. - Rilievo di incostituzionalita' dell'art. 41-bis, comma 2, nonche' dell'art. 14-ter, Ordinamento penitenziario, in relazione all'art. 3, comma 1, della Costituzione. E' chiaro che, escluso il sindacato giurisdizionale sul contenuto delle restrizioni apportate con i provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2, si deve inevitabilmente ammettere la possibilita' di regimi detentivi eterogenei rispetto a quello ordinario ed eterogenei anche tra loro. Se si tiene presente che l'art. 41-bis, comma 2, ha il suo ascendente nel soppresso art. 90 del testo originario dell'Ordinamento penitenziario, si puo' ricordare che, in applicazione di quella norma, venivano applicati regimi restrittivi diversi, per gruppi di detenuti o per singoli detenuti, con diversi provvedimenti amministrativi. Si puo' prendere atto della elevata pericolosita' dei soggetti in questione (cui si e' riconosciuta legittima l'applicazione dell'art. 41-bis, comma 2), ma si puo' prendere anche atto che la norma in questione, interpretata come si e' piu' volte detto, da' carta bianca alla pubblica amministrazione, con la possibilita' di regimi assolutamente eterogenei da quello ordinario e eterogenei fra loro. Nell'assenza di qualsiasi criterio non si puo' ricorrere ad un giudizio di adeguatezza delle differenze di trattamento, in quanto tale assenza rende potenzialmente possibili regimi diversi in cui la diversita' e' del tutto priva di ragionevolezza e non corrisponde alle differenze di pericolosita' dei detenuti cui si applica il regime speciale rispetto ai detenuti ordinari; ovvero non corrisponde affatto alle differenze di pericolosita' fra detenuti cui siano applicati regimi restrittivi diversi. E allora e' violata la norma costituzionale dell'art. 3, comma 1, che sancisce il principio di eguaglianza dei vari soggetti dinanzi alla legge: cosi' come e' formulata la normativa in questione consente applicazioni che violano detto principio e che consentono diversita' di trattamento penitenziario che superano ogni ragionevolezza, anche se riferiti alle diversita' soggettive dei detenuti interessati rispetto a quelli ordinari. III. - Rilievo di incostituzionalita' dell'art. 41-bis, comma 2 nonche' dell'art. 14-ter, dell'Ordinamento penitenziario in relazione all'art. 27, comma 3, della Costituzione. Come e' noto e gia' rilevato, il controllo giurisdizionale attribuito ai tribunali di sorveglianza riguarda "i condannati, gli internati e gli imputati" (v. art. 14-ter in relazione all'art. 14-bis, comma 2). Si esamina, qui, il rilievo di incostituzionalita' della normativa in discussione sotto profili desumibili dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, in parte validi anche per il detenuto in custodia cautelare, pur se formulati per il detenuto in esecuzione di pena. 1. - L'art. 27, comma 3, contiene la enunciazione di due principi: primo: "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita'"; secondo: le stesse (pene) "devono tendere alla rieducazione del condannato". Il primo principio e' enunciato in ordine alle pene, ma sembra chiaramente estensibile a tutte le situazioni detentive. Premesso questo, si deve rilevare che la preclusione del sindacato sul contenuto delle restrizioni ex art. 41-bis, comma 2, rende possibile che le stesse consentano anche "trattamenti contrari al senso di umanita'". Questo, cioe', e' certamente possibile, nel senso che le restrizioni in parola potrebbero essere tali da superare tale soglia. Ma questo, si potrebbe gia' dire per le restrizioni applicate, che gia' consentono un regime puramente afflittivo, nel quale, sul piano delle relazioni personali piu' strette del soggetto, viene ridotto al minimo lo spazio concernente le stesse (un colloquio al mese con i familiari piu' stretti), e sul piano del regime di vita interno, si realizzano chiusure in cella di 22 ore al giorno, non accompagnate da alcuna apertura trattamentale. Quindi, la normativa in questione (art. 41-bis, comma 2, e art. 14-ter, come interpretato dal giudice di legittimita'), e' incostituzionale sotto il profilo qui considerato in quanto, consentendo alla pubblica amministrazione di introdurre senza alcun controllo restrizioni all'ordinario regime detentivo, consente o quantomeno non esclude che la stessa possa anche realizzare "trattamenti contrari al senso di umanita'" nei confronti dei detenuti sottoposti al regime speciale in esame. 2. - Secondo principio di cui al comma 3 dell'art. 27 della Costituzione: le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". Questo profilo di costituzionalita' riguarda in effetti solo i detenuti in esecuzione di pena. Anche il rispetto di tale norma costituzionale non e' affatto garantito dalla normativa in esame. Nella parte dedicata alla premessa, sub III), si e' riportato l'esame condotto da questo tribunale di sorveglianza su un provvedimento applicativo dell'art. 41-bis, comma 2. Tale esame si concludeva verificando che, in sostanza, le restrizioni apportate comportavano la cessazione delle attivita' di osservazione e trattamento: cessazione attuata nei fatti e da ritenersi enunciata nello stesso decreto ministeriale, secondo quanto si curava di dimostrare nel nostro provvedimento. Ma, se cosi' e', tutta la strumentazione giuridica che l'Ordinamento penitenziario prevede per l'attuazione del principio costituzionale in esame viene meno e vengono meno in sostanza tutti gli strumenti di valutazione che consentirebbero di concedere uno qualsiasi dei benefici penitenziari eventualmente ammissibili. Anche sotto questo profilo, si deve concludere che la normativa indicata (art. 41-bis, comma 2, e art. 14-ter, interpretato in senso restrittivo, come da giurisprudenza della Corte di cassazione), consentendo alla pubblica amministrazione di introdurre restrizioni del regime penitenziario senza alcun controllo giurisdizionale sul contenuto delle stesse, consente o quantomeno non preclude la violazione del principio costituzionale, secondo cui le pene "devono tendere alla rieducazione del condannato". IV. - Rilievo di incostituzionalita' dell'art. 41-bis, comma 2, nonche' dell'art. 14-ter, in relazione all'art. 113 della Costituzione. La norma costituzionale citata dispone al comma 1 e al comma 2: "Contro gli atti della pubblica amministrazione e' sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non puo' essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti". Sembra chiaro che la norma abbia voluto enunciare il principio della piena sindacabilita' giurisdizionale degli atti amministrativi, enunciazione che viene operata nel modo piu' ampio. Ed allora, sotto tale profilo, non sembra ammissibile che, nella materia in esame, il sindacato dei tribunali di sorveglianza sui provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2, debba subire le gravi limitazioni affermate dalla giurisprudenza della Corte di cassazione: non potere, cioe', sindacare il contenuto di tali provvedimenti e le eventuali illegittimita' delle restrizioni operate dagli stessi al regime penitenziario ordinario. Conclusione: Si ritengono, pertanto, non manifestamente infondate le questioni di incostituzionalita' degli artt. 41-bis, comma 2, e 14-ter, dell'Ordinamento penitenziario con riferimento alle seguenti norme: art. 13, comma 2, della Costituzione; art. 3, comma 1, della Costituzione; art. 27, comma 3, della Costituzione; art. 113, comma 1 e comma 2, della Costituzione.