IL  TRIBUNALE  DI  SORVEGLIANZA
   A scioglimento della riserva espressa nell'udienza del 7  settembre
 1995,  visti  ed  esaminati  gli  atti  relativi  alla  procedura  di
 sorveglianza in materia di reclamo, ai sensi art. 14-ter  Ordinamento
 penitenziario,   avverso   decreto   Ministro   grazia   e  giustizia
 applicativo dell'art.  41-bis, secondo comma, della stessa legge, nei
 confronti di Ranieri  Antonio,  nato  il  30  marzo  1957  a  Napoli,
 attualmente detenuto presso la Casa di reclusione Pianosa; verificata
 la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale.
 
                                Osserva
   L'interessato  ha  proposto  reclamo contro il decreto ministeriale
 applicativo nei  suoi  confronti  dell'art.  41-bis,  secondo  comma,
 decreto  via via rinnovato (1 agosto 1994, 4 febbraio 1995 e 5 agosto
 1995).
   Gia'  detenuto  in  espiazione  pena  fino  al  30   luglio   1991,
 l'interessato  e'  ora  detenuto in custodia cautelare, dalla data di
 cessazione della esecuzione della pena,  appellante  da  sentenza  10
 marzo 1994 Corte Assise Napoli.
   Questo  tribunale  di  sorveglianza,  in  ripetute  ordinanze,  nel
 decidere sul reclamo, ha esaminato i decreti amministrativi dell'art.
 41-bis, secondo comma, sotto due profili:
     fondatezza della applicazione della norma all'interessato;
     nel caso in cui tale fondatezza sia riconosciuta, legittimita'  o
 meno  delle  restrizioni  al regime penitenziario ordinario contenute
 nel provvedimento  reclamato.    Ripetute  sentenze  della  Corte  di
 cassazione  hanno  ora  annullato  senza  rinvio tali ordinanze nella
 parte  in  cui,  dopo  avere   riconosciuto   la   fondatezza   della
 applicazione  della norma in questione all'interessato, si dichiarava
 la  inefficacia  di  alcune  delle   restrizioni   operate   con   il
 provvedimento   reclamato.    Questa  esclusione  del  sindacato  del
 tribunale  di  sorveglianza  in   ordine   al   contenuto   di   tali
 provvedimenti  pone problemi di costituzionalita', che questo ufficio
 rileva  con  la  presente  ordinanza,  ritenendo   gli   stessi   non
 manifestamente  infondati.    Premessa:  Lettura non costituzionale e
 lettura costituzionale dell'art.   41-bis, secondo  comma,  anche  in
 riferimento  all'art.  14-ter  dell'Ordinamento  penitenziario.    La
 questione che  si  sottopone  alla  Corte  costituzionale  attiene  a
 problemi  interpretativi  di  una  norma  sicuramente  non  di facile
 lettura, particolarmente nella sua portata e nelle sue  applicazioni.
 Di  qui  la  necessita'  di  una  non  breve premessa, che analizzi i
 problemi interpretativi indicati.
   I. - La lettura non costituzionale di cui alla Giurisprudenza della
 Corte di cassazione.
   Una serie di sentenze, che la Corte di cassazione sta pronunciando,
 con annullamento senza rinvio di provvedimenti di questo Tribunale di
 sorveglianza, che hanno  deciso  sui  reclami  proposti  da  detenuti
 contro  i  decreti  ministeriali  applicativi  nei loro confronti del
 regime speciale di cui all'art. 41-bis,  secondo  comma,  Ordinamento
 penitenziario,  ripropone il problema della costituzionalita' di tale
 norma.  Le pronuncie in questione della Corte  di  cassazione  hanno,
 come  detto,  annullato  senza rinvio le ordinanze di questo ufficio,
 che, decidendo sui  reclami  indicati,  riconoscevano  la  fondatezza
 della applicazione della norma in questione al singolo reclamante, ma
 dichiaravano  nel contempo la inefficacia di alcune delle limitazioni
 alle  regole  del  trattamento  normativo  penitenziario   contenute,
 appunto   (come   previsto   dalla  norma  in  parola),  nei  decreti
 ministeriali reclamati.  Questo indirizzo della Corte  di  cassazione
 risulta  ormai  sistematico, essendosi manifestato alla fine del 1994
 (Cass. Sez. I, 6 dicembre 1994, dep. 11  febbraio  1995,  relativa  a
 Vernengo Giuseppe), per proseguire, senza incertezze e contrasti, nel
 corso  del  1995  (sentenza  26  gennaio  1995,  dep.  31 marzo 1995,
 relativa a Salerno Pietro; sentenza 6 maggio 1995, relativa a Scaduto
 Giovanni; sentenza 6 giugno 1995, dep. 10  luglio  1995,  relativa  a
 Ganci  Raffaele;  sentenza  15  giugno  1995,  dep.  20  luglio 1995,
 relativa a Madonia Francesco), cosi' che deve ritenersi recepito  dal
 Giudice  del  diritto.  L'art.  41-bis,  secondo  comma, ha quindi il
 contenuto e la portata  che  tale  interpretazione  attribuisce  allo
 stesso   e  che  puo'  essere  cosi'  sintetizzata:  i  provvedimenti
 ministeriali applicativi di tale norma sono sindacabili dal Tribunale
 di sorveglianza sul punto  della  applicazione  della  stessa  ad  un
 determinato  soggetto,  ma  non  sono  sindacabili  in ordine al loro
 contenuto, limitativo della normativa penitenziaria.   Se  si  vuole,
 piu'  esattamente, questa interpretazione coinvolge, accanto all'art.
 41-bis,  secondo  comma,  l'art.  14-ter  dello  stesso   Ordinamento
 penitenziario,  che,  secondo la sentenza costituzionale n. 410/1993,
 e'  utilizzabile  come  mezzo  di   sindacato   giurisdizionale   sui
 provvedimenti  applicativi  del  regime  speciale  previsto dall'art.
 41-bis, secondo comma. Lo spazio di tale mezzo di reclamo, secondo la
 Corte di cassazione, e' quello limitato che si e' indicato.
   II. - La lettura costituzionale dell'art. 41-bis, secondo comma, di
 cui alla giurisprudenza di questo e altri tribunali di  sorveglianza.
 La questione e' quindi questa: e' ammissibile o no il sindacato sulle
 limitazioni  alla  normativa penitenziaria ordinaria introdotte con i
 decreti ministeriali applicativi dell'art. 4-bis, secondo comma.   Si
 crede  utile  indicare  le  ragioni su cui questo Ufficio, come molti
 altri, ha ritenuto di fondare  la  propria  risposta  positiva.    Si
 riferiscono  qui le considerazioni esposte, via via piu' chiaramente,
 nel  corso  della  redazione  dei vari povvedimenti adottati. E' vero
 che,  secondo  quanto  qui  di  seguito  esposto  e  sostenuto  nelle
 ordinanze   nostre   e   di   altri  tribunali  di  sorveglianza,  la
 costituzionalita' dell'art. 41-bis, secondo comma, e' salva, perche',
 come indicato dalla Corte costituzionale, si da' di esso una  lettura
 compatibile  con  i  principi  costituzionali.  E'  vero, quindi, che
 quanto ora si espone non opera a specifico sostengno della  eccezione
 di  incostituzionalita'.    Questa  sara'  poi sviluppata, accettando
 invece come "diritto  vivente"  la  contraria  interpretazione  della
 Corte   di  cassazione.  Ma  sembra  utile  a  chi  scrive  chiarire,
 attraverso la esposizione  dei  motivi  su  cui  si  sono  basate  le
 ordinanze dei tribunali di sorveglianza, la prospettiva in cui questi
 hanno  esaminato  la  questione,  prospettiva diversa da quella della
 Corte di cassazione. Nell'esame  con  ottiche  diverse  dei  problemi
 discussi  questi  possono  essere  valutati  in  modo  piu' completo.
 Dunque la parte che segue, riporta le considerazioni rilevanti su cui
 si e'  mossa  la  giurisprudenza  di  questo  e  altri  tribunali  di
 sorveglianza.
   1.  -  La lettura costituzionale: fondamento del sindacato relativo
 alle specifiche limitazioni del regime normativo ordinario  in  forza
 dell'art.   41-bis,   secondo   comma:   riferimento   alle  sentenze
 costituzionali n. 349 e 410 del 1993.   Si ripete, pertanto,  che  si
 dovrebbe  affermare che va esclusa una interpretazione limitativa del
 potere di controllo di questo Tribunale di sorveglianza, secondo  cui
 lo stesso potrebbe sindacare solo la correttezza della applicazione a
 un  determinato  soggetto  del  regime restrittivo in questione e non
 anche la legittimita' o meno delle restrizioni previste dallo stesso.
 E' invece anche questo un aspetto rilevante e centrale del  controllo
 di  conformita'  alla  legge,  che  viene  attribuito al tribunale di
 sorveglianza e che va condotto  sulla  base  della  verifica  che  le
 restrizioni  operate  alle  regole del trattamento prevedano la "sola
 sospensione  di  quelle  medesime  regole  ed   istituti   che   gia'
 nell'Ordinamento   penitenziario   appartengono  alla  competenza  di
 ciascuna amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime
 di detenzione in senso stretto" (v. sent. n. 349/1993, n.  5.3, Corte
 cost.). Resta fermo infatti il principio o che a  colui  che  subisce
 una  condanna  a  pena  detentiva "sia riconosciuta la titolarita' di
 situazioni soggettive attive e garantita quella parte di personalita'
 umana che la pena non intacca" (v. sent. n.  114/79)"  (cosi'  ancora
 nella  sent. n. 349/1993, n. 4.2). E resta fermo, quindi, che, quando
 siano in giuoco, tali "situazioni soggettive attive" o la  violazione
 del   rispetto  della  personalita'  del  detenuto,  e'  concesso  il
 potere-dovere di intervento da parte di questo organo  di  controllo.
 Si  ricordi  comunque  ed  inoltre  il  richiamo  che  la sentenza n.
 410/1993 della stessa Corte ha  fatto  al  reclamo  di  cui  all'art.
 14-ter,   alla   sostanziale  coincidenza  dei  poteri  di  controllo
 attribuiti da tale norma al  Tribunale  di  sorveglianza  con  quelli
 ricostruiti   dalla   Giurisprudenza  costituzionale  in  materia  di
 applicazione dell'art. 41-bis, secondo comma. Si legge infatti  nella
 sentenza  ora  citata,  n.  3.4:  "occorre  rilevare  che nell'ambito
 dell'ordinamento penitenziario e' gia' espressamente previsto un tipo
 di regime detentivo -  il  "regime  di  sorveglianza  particolare"  -
 disciplinato  dagli  artt. 41-bis e seguenti, che, nella sua concreta
 applicazione viene ad assumere un  contenuto  largamente  coincidente
 con  il  regime differenziato introdotto con il provvedimento ex art.
 41-bis, secondo comma, di sospensione del trattamento penitenziario".
 E piu' avanti (n. 3.5), si ribadisce la utilizzabilita'  del  reclamo
 previsto  contro  la applicazione di tale regime in ordine e contro i
 provvedimenti ex art. 41-bis, secondo comma.    Questo  tribunale  di
 sorveglianza  ha  poi  rilevato che puo' essere materia di reclamo ex
 art. 14-ter la  illegittimita'  delle  specifiche  limitazioni  delle
 regole  del  trattamento  contenute nel provvedimento di sorveglianza
 particolare. Il che emerge chiaramente dalle  disposizioni  dell'art.
 14-quater, che stabiliscono:
     sia l'obbligo di motivazione delle limitazioni;
     sia  le materie in cui le restrizioni non possono essere operate,
 dando, pertanto, indicazioni preziose anche per la verifica in questa
 sede, data la "larga coincidenza" fra regime ex art. 41-bis,  secondo
 comma,  e regime di sorveglianza particolare.  Utilizzando, pertanto,
 il reclamo di cui all'art. 14-ter e le regole  relative,  cosi'  come
 anche  previste  dall'art.  14-quater,  si  deve  concludere  che  si
 dovrebbe potere accertare in occasione di reclami in argomento:
     se  il  provvedimento  applicativo  dell'art.  41-quater,  quarto
 comma;
     se, inoltre, le limitazioni apportate alle regole del trattamento
 siano  comunque  coerenti  ai  fini  di  cui all'art. 41-bis, secondo
 comma, in quanto,  se  cosi'  non  fosse,  le  restrizioni  sarebbero
 operate   a  fini  puramente  afflittivi,  che  potrebbero  porsi  in
 contrasto con le regole minime di  rispetto  della  personalita'  del
 detenuto.
   2.  -  La  lettura  costituzionale  (segue): incompatibilita' della
 esclusione  del  sindacato  in  questione   con   la   giurisprudenza
 costituzionale indicata.
   Si  puo'  ragionare  a  contrario. Si puo' allora osservare che, se
 effettivamente il sindacato in parola fosse  escluso,  la  situazione
 diverrebbe  paradossale.   E, infatti, le sentenze costituzionali nn.
 349 e 410 del 1993 avevano  salvato  la  costituzionalita'  dell'art.
 41-bis,   secondo  comma,  affermando  che  la  norma  poteva  essere
 interpretata   (ed   applicata)   costituzionalmente   e   che   tale
 interpretazione   (ed   applicazione)   costituzionale   della  norma
 importava che  i  provvedimenti  ministeriali  applicativi  dovessero
 contenere  solo  limitazioni che non toccassero situazioni soggettive
 attive dei detenuti. Sulla applicazione del regime speciale  ex  art.
 41-bis,  secondo comma, ad un determinato soggetto e sul contenuto di
 tale regime i provvedimenti ministeriali dovevano motivare  e,  sulla
 base   di  tali  motivazioni,  erano  sindacabili  dai  tribunali  di
 sorveglianza.
   La sentenza costituzionale n. 349/1993 coglieva  anzi  direttamente
 una  violazione  di  un  diritto soggettivo del detenuto, attuata nei
 provvedimenti ministeriali: quella della censura della corrispondenza
 senza autorizzazione di un organo giudiziario. Si noti  bene  che  la
 Corte  costituzionale  dava  una  pura  e semplice indicazione in tal
 senso nella motivazione della sentenza  citata,  ma  non  toccava  in
 alcun modo il contenuto dei provvedimenti ministeriali, che operavano
 la  violazione  del  diritto  dei  detenuti:  cioe',  non annullava o
 dichiarava inefficaci una parte dei provvedimenti stessi, compito che
 non e' in alcun  modo  nelle  competenze  della  Corte.  Ora,  se  il
 Ministero  di  grazia  e giustizia e la Amministrazione penitenziaria
 avessero  insistito  nel  mantenere  quella violazione, chi se non il
 tribunale di  sorveglianza  (individuato  come  organo  di  controllo
 giurisdizionale)  poteva provvedere, dichiarando la inefficacia della
 clausola  relativa?    Se  quel  sindacato   non   fosse   possibile,
 l'Amministrazione avrebbe potuto e potrebbe mantenere tranquillamente
 la violazione in parola.  Quindi: la sindacabilita' del contenuto dei
 provvedimenti  ministeriali  rappresenta,  come  si e' gia' detto, il
 mezzo attraverso il quale si  salva  la  legittimita'  costituzionale
 della  norma  che  li  prevede.   Se tale sindacato non e' possibile,
 l'Amministrazione, in base all'art.  41-bis, secondo comma, puo' dare
 al regime penitenziario il contenuto  che  crede,  violare  regole  e
 diritti.  Ed  allora, inevitabilmente, si ripropone il problema della
 costituzionalita' della norma in questione.  E si legga  ancora,  per
 ribadire  quanto  sopra detto, la sentenza n. 349/1993, al n. 7 della
 motivazione in diritto, che e' la parte  conclusiva  della  sentenza:
 "E'  opportuno,  infine,  sottolineare  che  le  medesime ragioni che
 consentono di escludere l'illegittimita' costituzionale  della  norma
 in  esame,  delimitandone  l'ambito  applicativo  ed  integrandone il
 portato  con  il  richiamo  ai  principi  generali  dell'ordinamento,
 conducono  anche alla conclusione che taluni dei rilievi espressi dai
 giudici remittenti, pur se rivolti  avverso  la  citata  disposizione
 dell'art.  41-bis,  non  trovano  la loro causa nella norma di legge,
 bensi' - come si e' gia' visto - nel solo provvedimento  ministeriale
 di  applicazione.  In  base a tutte le ragioni fin qui esposte, anche
 tali provvedimenti, come del resto esattamente  ritengono  le  stesse
 ordinanze  di  rimessione,  sono  certamente  sindacabili dal giudice
 ordinario...".  Non  sembra  davvero  possibile  pensare   che   tale
 sindacato  sia  dato  soltanto  sul  punto dei destinatari del regime
 restrittivo e non  anche  sul  contenuto  dello  stesso,  sicuramente
 censurabile    per    violazione   di   regole   e   diritti,   anche
 costituzionalmente protetti,  come  la  stessa  Corte  costituzionale
 evidentemente riteneva.
   3.  -  Esame  degli  argomenti,  a  sostegno  della  esclusione del
 sindacato  in  questione,  esposti  nelle  sentenze  della  Corte  di
 cassazione: analisi degli stessi e possibili confutazioni.
   E'  utile esaminare le decisioni adottate dalla Corte di cassazione
 (citate sub I) di questa  Premessa),  con  le  quali  si  esclude  il
 sindacato dei tribunali di sorveglianza del quale stiamo discutendo.
   Si  esaminano le sentenze non nell'ordine cronologico (con cui sono
 state citate in precedenza), ma nell'ordine logico degli argomenti.
   Si  legge  nella  prima  delle  sentenze  citate  della  Corte   di
 cassazione  (6  dicembre 1994, Vernengo Giuseppe): "La sindacabilita'
 del provvedimento ministeriale  e'  attinente,  in  quanto  controllo
 giurisdizionale,  alla  legittimita'  delle prescrizioni e cioe' alla
 riconoscibilita' di un collegamento tra il detenuto e  la  situazione
 che  si  intende tutelare con l'atto amministrativo, ma non al merito
 delle stesse e cioe' in ordine  alle  singole  modalita'  del  regime
 imposto".
   Nella  quarta delle sentenze citate (6 giugno 1995, Ganci Raffaele)
 si legge: "Il provvedimento del Ministro  di  grazia  e  giustizia...
 riveste  i  caratteri  dell'atto  amministrativo  che,  incidendo  su
 diritti soggettivi (cfr. sul punto le  sentenze  nn.  53  e  349/1993
 della   Corte   costituzionale),   e'   sottoponibile   al  controllo
 dell'autorita' giudiziaria ordinaria con lo strumento procedurale del
 reclamo  innanzi  al  competente  tribunale  di  sorveglianza ex art.
 14-ter, Ord. pen. Detto controllo soggiace ai  limiti  fissati  dagli
 artt.  4  e  5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, in base ai
 quali il giudice puo' sindacare l'atto amministrativo soltanto  sotto
 l'aspetto  della  sua  legittimita'  e  non  estendere il medesimo al
 merito del  provvedimento.  Pertanto  sono  sottoposti  al  controllo
 giurisdizionale   i   tradizionali   vizi   di  legittimita':  ossia,
 l'incompetenza, l'eccesso di potere e la violazione di legge, secondo
 la specificazione di cui all'art. 26 del  r.d.  26  giugno  1924,  n.
 1054".  Nella seconda delle sentenze citate (26 gennaio 1995, Salerno
 Pietro),  la  Corte  di  cassazione, introducendo un argomento nuovo,
 sostiene le stesse conclusione e ribadisce cosi' "quanto  gia'  aveva
 affermato,  in tema di reclamo avverso i provvedimenti che dispongono
 o propongano il regime di sorveglianza particolare, di cui agli artt.
 14-bis,  e  14-ter  Ord.  Penit.,  e  cioe'  che  il   Tribunale   di
 sorveglianza  deve  limitarsi  ad  effettuare  il  mero  controllo di
 legittimita' sul provvedimento reclamato, senza  avere  alcun  potere
 integrativo  dello  stesso,  stante la sua natura amministrativa, sia
 per l'autorita'  dalla  quale  promana  che  per  il  suo  intrinseco
 contenuto,  sicche',  ove  rilevi  la  carenza  di  ragioni  idonee a
 giustificarlo e la mera apparenza di quelle indicate, il giudice deve
 solo disporre la revoca del provvedimento (v., per tutte, Sez. I,  28
 ottobre  1987, n. 3230, mass. n. 176.907)".  Infine si cita la quinta
 delle sentenze gia' indicate della Corte  di  cassazione  (15  giugno
 1995,  Madonia Francesco), nella quale si rinvengono affermazioni non
 del tutto coincidenti con quelle di cui alla pronuncia precedente. Vi
 si afferma "... Il regime previsto dall'art. 41-bis  Ord.  pen.,  pur
 avendo un contenuto largamente coincidente con quello di sorveglianza
 particolare di cui all'art. 41-bis dell'Ord.  pen., se ne differenzia
 profondamente  anche per le finalita' che lo caratterizzano. Infatti,
 il primo e' diretto a salvaguardare l'ordine e la sicurezza pubblica,
 mentre il secondo e' diretto ad assicurare l'ordine  e  la  sicurezza
 interna  dei  singoli  istituti  di pena. Ne consegue che non possono
 essere applicate per analogia, al regime di cui all'art. 41-bis, Ord.
 pen., norme dettate per il regime di  sorveglianza  particolare.  Per
 quel  che  interessa  non  possono  trovare applicazione i divieti di
 restrizioni previsti dall'art. 14-quater dell'Ord. Pen., essendo  gli
 stessi   specificamente   previsti  per  il  regime  di  sorveglianza
 particolare".
   Alcune osservazioni sulla giurisprudenza sopra citata.
   a) Analisi della giurisprudenza della Corte di cassazione: sentenze
 citate non sono del tutto coincidenti nelle motivazioni, ma  lo  sono
 del  diniego del sindacato del tribunale di sorveglianza in ordine al
 contenuto dei decreti ministeriali, cioe', in  ordine  alle  concrete
 restrizioni  alla normativa ordinaria applicate con i decreti stessi.
 Particolarmente nella sentenza 26 gennaio 1995, Salerno e in quella 6
 giugno 1995, Ganci, sembra riconoscersi  la  applicazione  di  quello
 specifico  mezzo di reclamo rappresentato dall'art. 14-ter: questo e'
 lo strumento processuale, applicabile  in  materia  per  effetto  del
 richiamo  allo  stesso  operato  in  modo  esplicito  dalla  sentenza
 costituzionale n. 410/1993. Nelle altre due sentenze sopra  citate  e
 particolarmente  in  quella  15  giugno 1995, Madonia, il riferimento
 fatto  al  reclamo  ex  art.  l4-ter  sembra  ridursi  ad  una   mera
 indicazione  esemplificativa,  facendosi  rientrare  il sindacato del
 tribunale  di  sorveglianza  in quello generale del giudice ordinario
 sulla violazione dei  diritti  soggettivi  da  parte  della  pubblica
 amministrazione.   Si   reputa   pero'  inutile  scendere  in  queste
 distinzioni (anche nella sentenza 6  giugno  1995,  Ganci,  si  parla
 infatti  di controllo del giudice ordinario ex art. 4 e 5 della legge
 20 marzo 1865, All. E, si fa anche riferimento al contenuto  di  tale
 controllo, rinviando all'art. 26 della legge sul Consiglio di Stato e
 ai  vizi di legittimita' di cui e' possibile il rilievo: e questo pur
 parlando sempre di quello specifico  strumento  di  reclamo  previsto
 dall'art.  14-ter.    Le  sentenze  citate coincidono, comunque nella
 conclusione:  il  sindacato  del  tribunale  di  sorveglianza  e'  un
 sindacato  di legittimita' e cio' comporta (sentenza 6 dicembre 1994,
 Vernengo):
     che si puo' verificare "la riconoscibilita'  di  un  collegamento
 tra  il  detenuto  e la situazione che si intende tutelare con l'atto
 amministrativo";
     che  non  si  puo',  invece,  sindacare  il  "il   merito   delle
 prescrizioni",   cioe'   delle   specifiche   limitazioni  al  regime
 penitenziario ordinario.
   Se si vuole, pertanto, secondo le  sentenze  citate,  uniformi  sul
 punto:
     l'unico  diritto  soggettivo  in giuoco e' quello del detenuto si
 essere legittimamente destinatario della applicazione dell'art. 4-bis
 secondo  comma;  di  esserlo,  cio',  attraverso   un   provvedimento
 ministeriale fondatamente riferibile al soggetto: su questo punto non
 si discute la pienezza della cognizione del tribunale di sorveglianza
 (che   controlla   la   fondatezza  delle  motivazioni  del  decreto,
 spingendosi  anche,   attraverso   la   acquisizione   di   ulteriore
 documentazione,  a  ripararne  le  falle,  che  talvolta presentano);
 nessun sindacato sarebbe invece possibile sul contenuto  del  decreto
 ministeriale,  assumendosi che un tale sindacato sarebbe sostituzione
 ed integrazione della volonta' della Amministrazione:  questa  dunque
 non  e'  consentita', facendo supporre che si ritenga che, attraverso
 il  contenuto  dell'atto  amministrativo  in  questione,  non   possa
 consumarsi alcuna violazione di diritti soggettivi.
   b)   Riflessioni  critiche  sulla  giurisprudenza  citata  -  Circa
 l'inquadramento dello strumento processuale del reclamo al  tribunale
 di  sorveglianza,  la, giurisprudenza della Corte costituzionale gia'
 citata (sentenza n. 410/1993, nn. 3.4 e 3.5)  parrebbe  intendere  il
 riferimento  alle  norme  di cui all'art.14-ter, come un richiamo non
 meramente indicativo, ma ricettivo del sistema ivi  previsto.  Ma  la
 questione puo' non essere particolarmente rilevante, anche se vedremo
 poi come e perche' sia utile risolverla.
   La  questione  di  fondo  resta  la  conclusione  cui pervengono le
 sentenze  citate:  inammissibilita'  del  sindacato  in  merito  alle
 restrizioni   introdotte   con  i  decreti  ministeriali.  E'  questa
 conclusione che non e' affatto  persuasiva  e  non  risponde  ai  tre
 interrogativi  che seguono.  Primo. Perche' la applicazione dell'art.
 41-bis, secondo comma, ad un determinato soggetto puo'  spingersi  in
 ogni direzione, quando la individuazione del destinatario della norma
 comporta  inevitabilmente  valutazioni  di  sostanza (se non vogliamo
 usare la espressione "merito") in ordine al fatto che  quel  soggetto
 rappresenta  un  rischio  per  "l'ordine e la sicurezza pubblici"? Il
 sindacato del tribunale di sorveglianza, riconosciuto come necessario
 dalla  Corte  costituzionale  per  salvare la costituzionalita' della
 norma  (la  sua  interpretazione   in   senso   costituzionale),   ha
 inevitabilmente   un   contenuto  di  esame  intrinseco  del  decreto
 ministeriale. Si puo' anche chiamarlo un esame di legittimita', ma la
 poverta' delle  indicazioni  normative  (nulla  dice  l'art.  41-bis,
 secondo comma, in merito ai parametri di individuazione dei soggetti,
 come  invece fa l'art. 14-bis), da' a questo esame un forte contenuto
 valutativo.    Secondo.  Ma  perche'  allora  l'esame  del  contenuto
 dell'atto  amministrativo  deve  essere  precluso?  La violazione dei
 diritti soggettivi puo' consumarsi proprio  attraverso  il  contenuto
 dell'atto amministrativo. Come si e' gia' rilevato in precedenza, sub
 II),  la  giurisprudenza  della Corte costituzionale ha gia' rilevato
 una specifica violazione di un diritto soggettivo consumata dai primi
 decreti  ministeriali  (la   censura   della   corrispondenza   senza
 autorizzazione di un organo giudiziario) e ha rilevato che le censure
 di  costituzionalita'  che  i tribunali di sorveglianza avevano mosso
 all'art. 41-bis,  secondo  comma,  erano  in  effetti  riferibili  ai
 decreti  ministeriali  medesimi,  cogliendo  pertanto negli stessi la
 capacita'  di  aggredire  posizioni  soggettive  protette  (sent.  n.
 349/1993,   n.   7  della  motivazione  in  diritto).    Se,  quindi,
 l'applicazione della norma al soggetto pone in essere  la  violazione
 di un diritto soggettivo, perche' la stessa non puo' essere consumata
 attraverso  lo specifico contenuto del decreto ministeriale?  Perche'
 questa non puo'  essere  una  ulteriore  questione  di  legittimita'?
 Terzo.  La giurisprudenza della Corte di cassazione risponde a questa
 domanda: questo sindacato non e' possibile perche' comporterebbe  una
 sostituzione  ed integrazione della volonta' della Amministrazione da
 parte del giudice ordinario. Ma, per la esattezza, nei  provvedimenti
 di  questo tribunale di sorveglianza, nei piu' recenti in modo sempre
 piu' rigoroso (come si dimostrera' piu' oltre), la pronuncia e' stata
 dichiarativa della inefficacia della singola  restrizione  al  regime
 penitenziario   in  quanto  violatrice  di  una  specifica  posizione
 soggettiva attiva. Quindi, perche',  si  vuole  ravvisare  in  questo
 intervento  una  sostituzione  o  integrazione  della  volonta' della
 Amministrazione,  quando  si  tratta  della   ricognizione   di   una
 violazione  di  diritto,  della  quale si dichiara la inefficacia? Ma
 quando si dichiara la inefficacia del  decreto  nella  sua  totalita'
 perche'   si   ritiene  che  non  dovesse  essere  applicato  a  quel
 determinato soggetto, non si  opera  anche  allora  una  sostituzione
 della volonta' della Amministrazione?  Perche' questa e' consentita e
 l'altra,  sul  contenuto  dell'atto amministrativo, non e' possibile?
 Qui, si puo' tornare, concludendo per questa parte, alla questione di
 quale portata abbia il richiamo all'art. 14-ter nella nostra materia.
 Se e' questo lo strumento processuale che viene  dato,  non  si  puo'
 ritenere  che  il  richiamo  valga  anche  per  l'art. 14-quater, che
 parrebbe indicare anche il contenuto della cognizione data al giudice
 del reclamo?  Si puo' cominciare col rilevare su questo punto che una
 delle sentenze citate della Corte  di  cassazione  fonda  la  propria
 conclusione  limitativa  del sindacato (del tribunale di sorveglianza
 sul contenuto dei decreti ministeriali) sulla giurisprudenza  formata
 a suo tempo sugli artt.  14-bis e 14-ter: vedi la sentenza 26 gennaio
 l995,  Salerno,  sopra  riportata e la pregressa giurisprudenza della
 Corte  cassazione  ricordata  nella  stessa.   Quindi:   afferma   la
 cassazione  che, anche nel sistema degli artt. 14-ter e 14-quater, il
 sindacato   era   limitato   e   non   riguardava  il  contenuto  del
 provvedimento reclamato.  La prima considerazione che si  ritiene  di
 potere  fare e' che la giurisprudenza a cui rinvia la sentenza citata
 non pare cosi' sicura e costante,  ma  deve  essere,  verosimilmente,
 condizionata   dalle   singole  fattispecie  concrete  sottoposte  al
 giudizio, alcune delle quali avevano  effettivamente  realizzato  una
 integrazione   del   provvedimento  amministrativo,  chiaramente  non
 consentita e che non si intende affatto sostenere e si ritiene di non
 realizzare in alcun modo con i provvedimenti che si sono  adottati  e
 di   cui   oggi   si   discute.   Per  verificare  che  la  risalente
 giurisprudenza della cassazione  (certo  non  abbondante)  sia  stata
 tutt'altro  che  sicura  e costante, si veda Cass., Sez. I, 11 giugno
 1987, Mambro (in Foro It., 1988, II, 152), nella quale si esamina  il
 contenuto  del  controllo  della  cassazione  sui  provvedimenti  del
 tribunale di sorveglianza. In tale sentenza si  prende  atto  che  il
 contenuto  del  controllo  del  tribunale  di  sorveglianza sull'atto
 amministrativo non  consiste  affatto  e  soltanto  in  una  verifica
 estrinseca   della   motivazione   del  provvedimento  amministrativo
 reclamato, ma scende alla valutazione  delle  ragioni  poste  a  base
 dello  stesso  e  alla  analisi  della  consistenza  probatoria della
 medesime.
   E allora esaminiamo piu' da vicino  l'art.  14-quater,  sviluppando
 quanto gia' osservato sub I).
    Si e' gia' ricordato ivi che l'art. 14-quater
     regola   proprio   i   "contenuti   del  regime  di  sorveglianza
 particolare" (v. la rubrica della norma); stabilisce che tale  regime
 ocomporta le restrizioni strettamente necessarie, per il mantenimento
 dell'ordine e della sicurezza, all'esercizio dei diritti dei detenuti
 e   degli   internati   e   alle   regole  del  trattamento  previste
 dall'ordinamento penitenziario";
     afferma che "le restrizioni.... sono motivatamente stabilite  nel
 provvedimento che dispone il regime di sorveglianza particolare";
     impone  infine  che  "in  ogni  caso  le  restrizioni non possono
 riguardare" una serie di materie, specificamente indicate.
   In presenza di tali  disposizioni  e  dell'obbligo  di  motivazione
 previsto,  non si vede come, a seguito del reclamo previsto dall'art.
 14-ter, non  si  possa  valutare  il  rispetto  di  quanto  stabilito
 dall'art.    14-quater  in ordine al contenuto del regime restrittivo
 previsto dal provvedimento amministrativo. La normativa  degli  artt.
 14-bis  e  segg.  non  solo  e'  nata  dalla esigenza di un controllo
 giurisdizionale sulla assegnazione  dei  detenuti  ad  un  regime  di
 massima  sicurezza,  ma  anche  da  quella,  altrettanto rilevante ed
 avvertita, del contenuto di questo (ricordiamo che,  all'inserimento,
 con    la   legge   n.   663/1986,   nell'Ordinamento   penitenziario
 penitenziario, degli artt. 14-bis e segg., corrispose la soppressione
 dell'art.   90,   che   consentiva   proprio    regimi    restrittivi
 insuscettibili   di   sindacato,   che  si  volevano  invece  rendere
 impossibili). Le indicazioni  al  riguardo  dell'art.    14-ter  sono
 indiscutibili  e  il  reclamo  di  cui  all'art.  14-ter non puo' non
 servire anche per la verifica di legalita' del contenuto  del  regime
 restrittivo. Tutto cio' e' stato gia' detto in precedenza e viene qui
 ribadito   per  ricordare  una  ulteriore  sentenza  della  Corte  di
 cassazione in materia di reclamo avverso il provvedimento applicativo
 della sorveglianza particolare. sentenza e' quella della  cassazione,
 Sezione  I,  7  ottobre 1987, Piunti, in Cass. pen. 1988, 2149, nella
 quale si  legge:  "Nell'ipotesi  di  reclamo  ex  art.  14-bis...  il
 Tribunale di sorveglianza e' tenuto a verificare la sussistenza delle
 condizioni  previste  da detta norma e a valutare la legittimita' del
 provvedimento adottato dalla amministrazione, i  cui  contenuti  sono
 stabiliti dall'art.  14-quater della stessa legge, che fa riferimento
 alle   restrizioni   strettamente   necessarie  per  il  mantenimento
 dell'ordine e della sicurezza, nonche' al visto  di  controllo  della
 corrispondenza,  restando esclusi da detta restrizione alcuni diritti
 del detenuto, che il legislatore  ha  espressamente  considerato  non
 comprimibili,  neppure  quando sia autorizzata la sottoposizione alla
 sorveglianza speciale".  Come si vede,  la  giurisprudenza  formatasi
 sugli  artt. 14-bis, 14-ter e 14-quater - lo si e' detto poco sopra -
 e'  tutt'altro  che  significativa  e  rilevante  per  affermare   la
 impossibilita'  di  sindacato sul contenuto dell'atto amministrativo.
 La stessa poteva affermare, ed e'  un  punto  pacifico,  che  non  si
 poteva   integrare   l'atto  amministrativo,  inserendo  in  esso  un
 contenuto diverso da quello del medesimo. Ma come detto ripetutamente
 non e' questo che si ritiene di potere fare. Cio' che si  ritiene  di
 potere fare e' di rilevare la illegittimita' di singole parti di quel
 contenuto (per le ragioni gia' esposte) e di poterne conseguentemente
 dichiarare  la inefficacia, come si e' fatto nei nostri provvedimenti
 in  sede  di  reclamo  contro  i  decreti  ministeriali   applicativi
 dell'art. 41-bis, comma 2.
  4) Conclusione.
   Si  sono  pertanto confrontate due possibili letture della norma di
 cui all'art. 41-bis, comma 2, con  particolare  riferimento  all'art.
 14-ter,  sulla  questione  essenziale  della  possibilita'  o meno di
 sindacato dei tribunali di sorveglianza  sul  contenuto  dei  decreti
 ministeriali  applicativi  della  prima norma. Tali possibili letture
 sono le seguenti:    quella  che  si  ritiene  costituzionale  e  che
 consente  detto  sindacato:   in base a tale lettura si sono adottate
 ripetute decisioni, da parte di  questo  tribunale  di  sorveglianza,
 come  di  altri,  con  le  quali,  dopo avere riconosciuto fondata la
 applicazione  della  norma,   all'interessato,   si   dichiarava   la
 inefficacia  di  alcune  delle  limitazioni  al  regime penitenziario
 ordinario  contenute  nei  decreti  ministeriali  reclamati;   quella
 invece,  seguita  dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che
 non si ritiene costituzionale (per quanto si dira'  successivamente),
 secondo la quale nessun sindacato e' possibile in merito al contenuto
 dei  decreti  ministeriali in questione.  Questa seconda lettura, per
 la ormai raggiunta stabilita' e per la  provenienza  dal  giudice  di
 legittimita'  sovraordinato, rappresenta l'unica interpretazione oggi
 possibile della normativa in questione.  Di essa si esamineranno poco
 oltre  quelli  che,  secondo  questo   tribunale   di   sorveglianza,
 rappresentano i possibili profili di incostituzionalita'.
   III. - Esemplificazione del sindacato del tribunale di sorveglianza
 in merito al contenuto dei decreti ninisteriali applicativi dell'art.
 41-bis,  comma  2, nonche' delle conseguenti decisioni adottate.  Per
 concludere questa non breve, ma  indispensabile,  premessa,  si  puo'
 citare  uno  dei  provvedimenti  piu'  recenti di questo tribunale di
 sorveglianza,  nella  parte  in  cui  si  esprime  il  controverso  e
 contestato   sindacato   sul   contenuto   dei  decreti  ministeriali
 applicativi dell'art.  41-bis, comma 2.  Si tratta della ordinanza 27
 giugno  1995,  relativa  a  Ferrara  Calogero, pg. da 10 a 14.  Esame
 delle singole clausole restrittive  delle  regole  di  trattamento  e
 degli  istituti previsti dalla legge penitenziaria: individuazione di
 quelle censurabili.  Si ritiene che non si giustifichino, nei termini
 precedentemente  chiariti,  e  debbano  pertanto  essere   dichiarate
 inefficaci, le limitazioni del regime penitenziario vigente contenute
 nel provvedimento reclamato e qui di seguito indicate.
   1.  - Dispone l'art. 1 del dispositivo del provvedimento reclamato,
 nella parte iniziale: "... e' sospesa l'applicazione delle regole  di
 trattamento  e degli istituti previsti dalla legge 26 luglio 1975, n.
 354,  e   successive   modificazioni,   ed   in   particolare   delle
 sottoindicate disposizioni ...".  Questa parte del dispositivo non e'
 semplicemente  la  introduzione  delle successive specifiche clausole
 sospensive di singole regole, ma ha  un  suo  proprio  contenuto,  in
 ossequio al quale si ritiene sospesa ogni attivita' di osservazione e
 trattamento  nei  confronti dei soggetti sottoposti alla applicazione
 dell'art. 41-bis, comma 2. E' sistematica, infatti, in  occasione  di
 procedure  di sorveglianza (essenzialmente per liberazione anticipata
 ex art. 54), la precisazione, da parte degli  operatori  penitenziari
 richiesti  delle  valutazioni  indispensabili  per  le  decisioni del
 tribunale di sorveglianza, che i detenuti destinatari del  regime  in
 parola  non sono sottoposti ad osservazione e trattamento.  Il senso,
 quindi, di questa clausola introduttiva  e'  quello  che  si  e'  ora
 indicato  e, come tale, e' stata applicata. D'altronde, la previsione
 di clausole restrittive "in particolare", non puo' non dare un  senso
 proprio  e autonomo alla clausola limitativa generale, che va intesa,
 quindi, nel senso ora chiarito.  Questo realizza la violazione di  un
 preciso  diritto  costituzionale,  che,  ricollegandosi  all'art. 27,
 comma  3,  Cost.,  stabilisce  il  diritto  del  condannato   ad   un
 trattamento  rieducativo  e al riesame degli effetti del medesimo per
 verificare se la espiazione della pena abbia raggiunto  le  finalita'
 rieducative  per  cui viene eseguita. Tale diritto e' stato affermato
 dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/1974  e  piu'  volte
 ripetuto  in  seguito,  ma  e'  rilevante  notare  che sempre di tale
 diritto si e' fatta applicazione  nella  sentenza  n.  306/1993,  che
 pronunciava  su  tutta  un  serie di eccezioni di costituzionalita' a
 quello stesso d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella  legge  7
 agosto  1992,  n.  356,  che  introduceva  anche il comma 2 dell'art.
 41-bis. La sentenza costituzionale ora  detta,  chiamata  a  decidere
 proprio   sulla   legislazione   speciale   introdotta  per  detenuti
 appartenenti  al  crimine  organizzato,  riaffermava  (n.  10   della
 motivazione  in  diritto)  che  "tra le finalita' che la Costituzione
 assegna alla pena - da un lato,  quella  di  prevenzione  generale  e
 difesa sociale ... e, dall'altro, quelle di prevenzione speciale e di
 rieducazione  ...  -  ... il legislatore puo' ... far tendenzialmente
 prevalere ... l'una o l'altra finalita'
  .. ma a patto che nessuna di esse ne risulti  obliterata".    E  nel
 rispetto  di  questo principio, la sentenza n. 306/1993 ha salvato la
 costituzionalita' di varie disposizioni introdotte, nella materia dei
 benefici  penitenziari,  dalla  legislazione  in  questione,  proprio
 perche'  si  e'  mantenuto  quantomeno  uno  dei  benefici stessi, la
 liberazione anticipata, cioe', senza subordinarlo alla collaborazione
 (n. 11 della motivazione in diritto).   Ed allora la  sospensione  di
 ogni   attivita'  di  osservazione  e  trattamento,  enunciata  nella
 clausola  iniziale  del  dispositivo  del  provvedimento  reclamato e
 sistematicamente attuata nei fatti,  viola  il  diritto,  che  riposa
 sull'art.  27, comma 3, Cost., a che la esecuzione della pena non sia
 privata della finalizzazione rieducativa, che e' propria e necessaria
 della stessa. Che i soggetti di cui trattasi siano talvolta autori di
 gravi crimini e si ritengano ancora  legati  (come  si  e'  detto  in
 precedenza  per  il  caso  di  specie) ad aggregazioni criminali, non
 dispensa,  come  la  citata  sentenza  costituzionale   n.   306/1993
 ribadisce,  dall'offrire anche ad essi la possibilita' di partecipare
 ad  una  attivita'  penitenziaria  rieducativa.  Analisi  critiche  e
 resipiscenze  sul  loro  vissuto  saranno indubbiamente rare, ma tale
 rarita' non fa venire meno l'obbligo costituzionale  indicato.    Nel
 quadro,  poi,  delle  finalita' perseguite dall'art. 41-bis, comma 2,
 non si vede quale vantaggio per la sicurezza pubblica possa  derivare
 dalla  omissione di qualunque attivita' di osservazione e trattamento
 nei confronti dei destinatari  della  norma  citata.    Pertanto,  va
 dichiarata  la  inefficacia  della  disposizione iniziale dell'art. 1
 della parte dispositiva  del  provvedinento  reclamato  la'  dove  si
 stabilisce,  in  linea generale, che "e' sospesa l'applicazione delle
 regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge 26 luglio
 1975, n. 354, e successive modificazioni",  disposizione  alla  quale
 consegue  la  sospensione  di  qualsiasi  attivita' di osservazione e
 trattamento nei confronti del destinatario del provvedimento stesso.
   2.  -  Va  del  pari  dichiarata  inefficace,  fra  le   specifiche
 disposizioni dell'art. 1 del dispositivo del provvedimento reclamato,
 restrittive  del  regime  ordinario della legge penitenziaria, quella
 che stabilisce il  divieto  di  colloqui  ordinari  con  familiari  e
 conviventi  eccedenti  il  numero  di  uno  al  mese per la durata di
 un'ora, di cui alla lettera c) del detto articolo.    Il  diritto  di
 avere  4  colloqui  al mese con i congiunti e' attribuito al detenuto
 dall'art. 18 dell'ordinamento penitenziario e, nel mentre e' prevista
 la  possibilita'  di  autorizzare  altri  colloqui,   con   finalita'
 premiali, oltre i quattro previsti, e di autorizzare inoltre colloqui
 con  terzi  "per  ragionevoli  motivi",  l'Amministrazione  non ha la
 facolta' di derogare al  numero  di  colloqui  previsto  come  regola
 minima nei rapporti con i congiunti. E' questa, pertanto, una materia
 nella quale si radica una "situazione soggettiva attiva" del detenuto
 che  va rispettata.  A conferma di questo sta la previsione dell'art.
 14-quater, comma 4, che prevede i colloqui con i  prossimi  congiunti
 fra  le  materie in cui non possono essere apportate restrizioni.  Se
 poi si vuole esaminare questa restrizione in funzione delle finalita'
 specifiche dell'art. 41-bis, comma 2, si puo' aggiungere che, laddove
 venga ritenuto ammissibile il colloquio con le persone di famiglia, a
 nulla  vale  ridurne  quantita'  e  durata  rispetto   alla   normale
 previsione  della legge penitenziaria. Delle due l'una infatti:  o si
 ritiene  tale  tipo  di  colloquio  possibile  veicolo  di   pericoli
 all'esterno,  ed  allora esso deve essere decisamente e completamente
 escluso (e questo, d'altronde, non sarebbe possibile per quanto detto
 piu' sopra); ovvero non lo si considera pregiudizievole per  l'ordine
 e  la  sicurezza  pubblica  ed  allora  e  percio'  stesso lo si deve
 ritenere possibile. Il solo fatto di averne consentito la  fruizione,
 sia   pure  ridotta  nella  quantita',  impone  di  considerarlo  non
 pregiudizievole e conseguentemente inspiegabile, alla luce  dei  fini
 perseguiti,  la  sua  limitazione  rispetto  all'ordinario  regime di
 legge.
   3.  -  Del pari non legittimo e comunque del tutto privo di ragione
 appare il divieto di acquisto di generi alimentari che secondo  l'uso
 comune  richiedano cottura, di cui alla lettera i) del detto art.  1.
 Anche  a  tale  riguardo  una  "situazione  soggettiva   attiva"   e'
 riconosciuta    ai    detenuti    dall'ultimo   comma   dell'art.   9
 dell'Ordinamento penitenziario ed essa inoltre va inquadrata  in  una
 esigenza  di  sia  pure  minima  indivualizzazione  del vitto (dovuta
 particolarmente in considerazione  delle  condizioni  di  salute  dei
 soggetti  e di esigenze dietetiche, pur sempre minime, degli stessi).
 A riprova di quanto si dice sta la  inserzione,  all'art.  14-quater,
 comma  4, fra le materie per le quali non sono possibili restrizioni,
 di quella del vitto e dell'acquisto di generi permessi.   Anche  qui,
 comunque,  non  e'  chi  non  veda  (passando all'esame riferito alle
 finalita' di cui all'art. 41-bis, comma 2) come  questa  prescrizione
 non   trovi   alcun   aggancio   con   la  finalita'  perseguita  dal
 provvedimento ministeriale.  E' nota la preoccupazione circa  un  uso
 illecito  e  pericoloso  delle  bombolette  di  gas  con  cui vengono
 alimentati i fornelli da campo per procedere alla  cottura  dei  cibi
 acquistati  crudi.  E  d'altra  parte  questo  e'  problema  tutto ed
 esclusivamente  interno  agli  istituti.    L'Amministrazione  potra'
 legittimamente  disporre  una regolamentazione dell'uso del fornello,
 indicandone orari di consegna, ritiro  e  custodia  negli  armadietti
 esterni  alla cella da parte del personale operante; parimenti potra'
 stabilire che, in via disciplinare specifica, possa  sospendersi  dal
 beneficio il soggetto che ne abbia fato uso scorretto.  Ma certamente
 non  potra'  in  via generale e astratta negare una bevanda o un cibo
 caldo, preparato nei modi e nei  tempi  eventualmente  meglio  visti,
 inducendo  che  con  cio'  si  intende preservare la collettivita' da
 nuovi e gravissimi rischi.  Questa parte - e' ben chiaro -  e'  tutta
 ed  esclusivamente di competenza della Amministrazione penitenziaria,
 di cui non si vuole in alcun modo integrare o sostituire la volonta'.
 Si conclude, pertanto, limitandoci a ribadire  la  inefficacia  della
 disposizione restrittiva di cui alla lettera i).
   4.  - Infine va rimarcato come sia illegittimo il limite di due ore
 per fruire del passeggio all'aria, di cui alla lettera l)  del  detto
 art.  1, ove si prevede che non sia consentita la permanenza all'aria
 aperta per oltre due ore giornaliere.  Va chiarito che  il  senso  di
 tale  limitazione  e'  quello  di  determinare  la  chiusura in cella
 dell'interessato  per  le  restanti  22  ore  di  ogni  giornata   in
 violazione  della  specifica  previsione dell'art. 6 dell'Ordinamento
 penitenziario, che indica la cella come locale di solo pernottamento,
 prevedendo locali di soggiorno, nella specie non esistenti. Anche qui
 vi e' una "situazione soggettiva  attiva",  che  deriva  dalla  norma
 citata  e  che  la  disposizione  in  esame  del decreto ministeriale
 ignora.  E' chiaro, ancora, in questo quadro normativo, che i  limiti
 minimi    di    permanenza    all'aperto,   indicati   nell'art.   10
 dell'ordinamento penitenziario, sono stabiliti con riferimento ad  un
 normale  regime  di  vita,  distribuito fra locali di pernottamento e
 locali di soggiorno, che, nel  caso,  e'  totalmente  mancante.    La
 prescrizione,  inoltre,  non  ha  certamente  riflesso  alcuno  sulla
 sicurezza  esterna;  oltretutto  devono  considerarsi   le   concrete
 condizioni  operative della struttura pianosina che consente adeguata
 separazione dei detenuti  al  momento  dell'aria  e  nessun  aggravio
 ulteriore per il personale quale che sia il tempo della stessa. Anche
 sotto  tale profilo la restrizione operata non si legittima alla luce
 delle finalita' dell'art. 41-bis, comma 2.  Sul punto,  senza  volere
 in  alcun modo integrare o sostituire, la clausola restrittiva, della
 quale ci si limita a dichiarare la inefficacia, si puo' rilevare  che
 per  le sezioni ad alta sicurezza attualmente in funzione e' prevista
 la permanenza all'aria aperta  per  cinque  ore  giornaliere  in  due
 soluzioni.    In  conclusione,  fra  quelle  indicate  all'art. 1 del
 provvedimento reclamato, si considerano illegittime e si  dichiarano,
 quindi,  inefficaci;  la disposizione iniziale dello stesso articolo,
 la'  dove  si  stabilisce,  in  linea  generale,  che   "e'   sospesa
 l'applicazione  delle regole di trattamento e degli istituti previsti
 dalla legge 25 luglio 1975,  n.  354,  e  successive  modificazioni",
 cosi'   da  consentire  la  sospensione  di  qualsiasi  attivita'  di
 osservazione  e  trattamento  nei  confronti  del  destinatario   del
 provvedimento stesso;
     la disposizione di cui alla lettera c);
     la disposizione di cui alla lettera i);
     la  disposizione  di  cui  alla lettera l).   La citazione di uno
 specifico provvedimemento e del tipo di sindacato operato consente di
 verificare quello  che  si  e'  sostenuto  in  precedenza:    che  il
 sindacato stesso non intende integrare o sostituire la volonta' della
 pubblica  amministrazione,  ma  soltanto  controllarne  la  effettiva
 legittimita'.
       ESAME DI COSTITUZIONALITA' DELLA NORMATIVA IN QUESTIONE:
                  art. 41-bis, comma 2, e art. 14-ter
 La lunga premessa che precede consente ora di scendere all'esame  dei
 profili  di  costituzionalita'  della normativa in parola. Normativa,
 quindi, che va letta ed interpretata secondo la lettura  fatta  dalla
 Corte   di   Cassazione  e  sopra  ricostruita.    I.  -  Rilievo  di
 incostituzionalita' dell'art.  41-bis,  comma  2,  nonche'  dell'art.
 14-ter  dell'Ordinamento  penitenziario,  in  relazione  all'art. 13,
 comma 2, della Costituzione.  Un primo ordine  di  considerazioni  su
 questo  profilo di incostituzionalita' della normativa in esame, puo'
 ricavarsi dalla sentenza n. 349/1993 della Corte  costituzionale.  Vi
 si  legge (v. n. 4.2 della motivazione in diritto).  Va tenuto fermo,
 in primo luogo, che la tutela costituzionale dei diritti fondamentali
 dell'uomo ed in particolare la garanzia  della  inviolabilita'  della
 liberta'  personale  sancita  dall'art.  13 della Costituzione, opera
 anche  nei  confronti  di  chi  e'  stato  sottoposto   a   legittime
 restrizioni  della liberta' personale durante la fase esecutiva della
 pena, sia pure con le limitazioni che, come e'  ovvio,  lo  stato  di
 detenzione  necessariamente  comporta  ... Questa Corte ha gia' avuto
 occasione di affermare che, dal  principio  accolto  nell'art.    27,
 terzo  comma,  della  Costituzione,  secondo  cui le pene non possono
 consistere in trattamenti contrari al  senso  di  umanita',  discende
 direttamente,  quale ulteriore principio di civilta', che a colui che
 subisce  una  condanna  a  pena  detentiva   "sia   riconosciuta   la
 titolarita'  di situazioni soggettive attive e garantita quella parte
 di personalita' umana che la pena non intacca (v. sent.  n.  114  del
 1979)".  In  breve,  la  sanzione  detentiva  non puo' comportare una
 totale ed  assoluta  privazione  della  liberta'  della  persona:  ne
 costituisce  certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi
 si trova in stato di detenzione,  pur  privato  della  maggior  parte
 della  sua liberta', ne conserva sempre un residuo, che e' tanto piu'
 prezioso  in  quanto  costituisce  l'ultimo  ambito  nel  quale  puo'
 espandersi  la  sua  personalita'  individuale.  Da cio' consegue che
 l'adozione di eventuali  provvedimenti,  suscettibili  di  introdurre
 ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una
 sostanziale  modificazione  nel quadro della liberta' personale, puo'
 avvenire soltanto con le garanzie (riserva  di  legge  e  riserva  di
 giurisdizione)  espressamente  previste  dall'art. 13, secondo comma,
 della  Costituzione".     Una  prima  precisazione   va   fatta.   Le
 considerazioni   svolte   nella  sentenza  costituzionale  citata  si
 riferiscono alla situazione detentiva di chi si trova  in  esecuzione
 di  pena.  Sembra,  pero',  che  non  ci  siano  da  fare particolari
 approfondimenti sul fatto che l'art. 13, comma 2, della Costituzione,
 riguarda ogni forma di detenzione e che le considerazioni della Corte
 costituzionale debbano valere a maggior ragione nei confronti  di  un
 soggetto  in  custodia cautelare, che si presume innocente fino a che
 non intervenga la condanna definitiva.  Fatta questa precisazione, ci
 sembra  chiaro  che  la  copertura  costituzionale  descritta   nella
 sentenza  n.  349/1993  citata,  riguarda specificamente il contenuto
 delle eventuali restrizioni ulteriori della liberta' di  una  persona
 in situazione detentiva. E' ovvio che essa garantisce anche i singoli
 dalla  applicazione  agli  stessi  delle restrizioni in questione, ma
 l'attenzione  della  giurisprudenza  costituzionale  e'  rivolta   in
 particolare  al contenuto delle stesse e alla possibilita' che queste
 mettano in giuoco  quelle  posizioni  soggettive  attive  di  cui  la
 sentenza  citata  parla.  E  allora  non  si  vede  come, per effetto
 dell'art. 41-bis, comma 2, la pubblica amministrazione possa  operare
 restrizioni  di qualsiasi genere, senza che il contenuto delle stesse
 possa essere sindacato da un organo giiirisdizionale. Il che  accade,
 se  si  ritiene,  come  si  deve ritenere in base alla giurisprudenza
 della Corte di cassazione, che tale sindacato non  sia  possibile  ai
 sensi  dell'art.  14-ter, per lo spazio limitato che da tale norma si
 ricava per l'intervento giurisdizionale che da  tale  norma  si  puo'
 desumere. E il profilo di costituzionalita' si puo' ritenere duplice:
 e'  violata  la  riserva  di  legge,  perche' una norma generica come
 l'art. 41-bis, comma 2, non da' alcuna indicazione  sulle  posssibili
 restrizioni,  neppure a livello di concreti indirizzi: tutto dovrebbe
 essere ricavato indirettamente dal generico riferimento ai "motivi di
 ordine e sicurezza  pubblica"  (si  tenga  presente  la  ben  diversa
 previsione  dell'art.  14-quater,  specifico  sulle  materie  che non
 potevano  essere  toccate  dalle   restrizioni   della   sorveglianza
 particolare);   e'   violata   incontestabilmente   la   riserva   di
 giurisdizione, in quanto, appunto, confermata la riferibilita'  della
 norma all'interessato, il giudice non puo' verificare la legittimita'
 del contenuto delle restrizioni.  Si e' spiegato che il controllo dei
 tribunali  di  sorveglianza  in  questo  settore non comporta affatto
 sostituzione   o   integrazione   della   volonta'   della   pubblica
 amministrazione,  limitandosi  alla presa d'atto della legittimita' o
 meno delle restrizioni apportate  con  il  provvedimento  applicativo
 dell'art.  41-bis,  comma  2.  Ma  quali  che  siano le ragioni della
 impossibilita' del sindacato, infondate o  meno,  esse  si  esprimono
 nella  giurisprudenza  del  giudice di legittimita' ed impediscono il
 sindacato   giurisdizionale   sulle   violazioni   delle   situazioni
 soggettive  attive  eventualmente  consumate  con  le  restrizioni in
 parola.  Cio' che sembra necessario rilevare e' la possibilita' reale
 che  l'assenza  di tale controllo renda inevitabile una detenzione di
 sola  neutralizzazione,  nella  quale  diritti   essenziali   vengono
 violati.    Si  e'  visto,  ad  esempio,  che  si  rende esplicita la
 cessazione  delle  attivita'  di  osservazione  e  trattamento  e  si
 stabilisce la apertura ed uscita dalla cella per non piu' di due ore:
 tuttocio'  non puo' non comportare che ogni attivita' di trattamento,
 anche  in  risposta  a  diritti   essenziali   (istruzione,   lavoro,
 religione),  vengano meno.  Come, nel concreto, vengono meno, perche'
 non solo non e' svolta l'attivita'  di  osservazione,  ma  mancano  i
 servizi scolastici e religiosi e reali possibilita' di lavoro.  Anche
 qui si puo' notare che quanto detto puo' valere anche per un soggetto
 in  custodia  cautelare.  Si  deve  ricordare al riguardo il disposto
 dell'art. 15, comma 3, Ordinamento penitenziario, e  tenere  presente
 che  non  sembra concepibile che cio' che deve essere escluso per chi
 sia detenuto in espiazione di pena, possa  invece  essere  consentito
 per  chi sia in costodia cautelare e, quindi, presunto innocente fino
 alla sentenza definitiva.    II.  -  Rilievo  di  incostituzionalita'
 dell'art.  41-bis,  comma  2,  nonche'  dell'art. 14-ter, Ordinamento
 penitenziario, in relazione all'art. 3, comma 1, della  Costituzione.
 E'  chiaro  che,  escluso  il sindacato giurisdizionale sul contenuto
 delle restrizioni apportate con i provvedimenti applicativi dell'art.
 41-bis, comma 2, si deve inevitabilmente ammettere la possibilita' di
 regimi detentivi eterogenei rispetto a quello ordinario ed eterogenei
 anche tra loro. Se si tiene presente che l'art. 41-bis, comma  2,  ha
 il  suo  ascendente  nel  soppresso  art.  90  del  testo  originario
 dell'Ordinamento   penitenziario,   si   puo'   ricordare   che,   in
 applicazione  di  quella norma, venivano applicati regimi restrittivi
 diversi, per gruppi di detenuti o per singoli detenuti,  con  diversi
 provvedimenti  amministrativi.    Si puo' prendere atto della elevata
 pericolosita' dei soggetti  in  questione  (cui  si  e'  riconosciuta
 legittima  l'applicazione  dell'art.    41-bis,  comma 2), ma si puo'
 prendere anche atto che la norma in questione, interpretata  come  si
 e'  piu' volte detto, da' carta bianca alla pubblica amministrazione,
 con la possibilita' di  regimi  assolutamente  eterogenei  da  quello
 ordinario  e  eterogenei fra loro. Nell'assenza di qualsiasi criterio
 non si puo' ricorrere ad un giudizio di adeguatezza delle  differenze
 di trattamento, in quanto tale assenza rende potenzialmente possibili
 regimi   diversi   in  cui  la  diversita'  e'  del  tutto  priva  di
 ragionevolezza e non corrisponde alle differenze di pericolosita' dei
 detenuti cui si applica  il  regime  speciale  rispetto  ai  detenuti
 ordinari;   ovvero   non   corrisponde  affatto  alle  differenze  di
 pericolosita' fra detenuti cui  siano  applicati  regimi  restrittivi
 diversi.    E  allora e' violata la norma costituzionale dell'art. 3,
 comma 1, che sancisce il principio di eguaglianza dei  vari  soggetti
 dinanzi alla legge: cosi' come e' formulata la normativa in questione
 consente  applicazioni  che  violano detto principio e che consentono
 diversita'   di   trattamento   penitenziario   che   superano   ogni
 ragionevolezza,  anche  se  riferiti  alle  diversita' soggettive dei
 detenuti interessati rispetto a quelli ordinari.  III. -  Rilievo  di
 incostituzionalita'  dell'art.  41-bis,  comma  2  nonche'  dell'art.
 14-ter, dell'Ordinamento  penitenziario  in  relazione  all'art.  27,
 comma  3,  della  Costituzione.    Come  e'  noto e gia' rilevato, il
 controllo giurisdizionale attribuito  ai  tribunali  di  sorveglianza
 riguarda "i condannati, gli internati e gli imputati" (v. art. 14-ter
 in  relazione  all'art. 14-bis, comma 2). Si esamina, qui, il rilievo
 di incostituzionalita' della normativa in discussione  sotto  profili
 desumibili dall'art. 27, comma 3, della Costituzione, in parte validi
 anche  per il detenuto in custodia cautelare, pur se formulati per il
 detenuto in esecuzione di pena.  1. - L'art. 27, comma 3, contiene la
 enunciazione di due principi:  primo: "le pene non possono consistere
 in trattamenti contrari al senso di  umanita'";  secondo:  le  stesse
 (pene)  "devono  tendere alla rieducazione del condannato".  Il primo
 principio e' enunciato in ordine alle  pene,  ma  sembra  chiaramente
 estensibile  a  tutte  le situazioni detentive.   Premesso questo, si
 deve rilevare che la preclusione del sindacato  sul  contenuto  delle
 restrizioni  ex  art.  41-bis, comma 2, rende possibile che le stesse
 consentano anche "trattamenti contrari al senso di umanita'". Questo,
 cioe', e' certamente possibile,  nel  senso  che  le  restrizioni  in
 parola  potrebbero essere tali da superare tale soglia. Ma questo, si
 potrebbe gia' dire per le restrizioni applicate, che gia'  consentono
 un  regime puramente afflittivo, nel quale, sul piano delle relazioni
 personali piu' strette del  soggetto,  viene  ridotto  al  minimo  lo
 spazio  concernente  le  stesse (un colloquio al mese con i familiari
 piu' stretti), e sul piano del regime di vita interno, si  realizzano
 chiusure  in  cella  di  22 ore al giorno, non accompagnate da alcuna
 apertura trattamentale.   Quindi, la  normativa  in  questione  (art.
 41-bis,  comma  2,  e art.   14-ter, come interpretato dal giudice di
 legittimita'), e' incostituzionale sotto il profilo  qui  considerato
 in  quanto,  consentendo  alla pubblica amministrazione di introdurre
 senza alcun controllo  restrizioni  all'ordinario  regime  detentivo,
 consente   o  quantomeno  non  esclude  che  la  stessa  possa  anche
 realizzare "trattamenti contrari al senso di umanita'" nei  confronti
 dei detenuti sottoposti al regime speciale in esame.
   2.  -  Secondo  principio  di  cui  al  comma  3 dell'art. 27 della
 Costituzione:    le  pene  "devono  tendere  alla  rieducazione   del
 condannato".  Questo profilo di costituzionalita' riguarda in effetti
 solo i detenuti in esecuzione di pena.   Anche il  rispetto  di  tale
 norma  costituzionale  non  e'  affatto  garantito dalla normativa in
 esame. Nella parte dedicata alla premessa, sub III), si e'  riportato
 l'esame   condotto   da   questo  tribunale  di  sorveglianza  su  un
 provvedimento applicativo dell'art. 41-bis, comma 2.  Tale  esame  si
 concludeva  verificando  che,  in  sostanza, le restrizioni apportate
 comportavano  la  cessazione  delle  attivita'  di   osservazione   e
 trattamento:    cessazione attuata nei fatti e da ritenersi enunciata
 nello stesso  decreto  ministeriale,  secondo  quanto  si  curava  di
 dimostrare  nel  nostro  provvedimento.  Ma,  se  cosi'  e', tutta la
 strumentazione giuridica che l'Ordinamento penitenziario prevede  per
 l'attuazione  del  principio  costituzionale  in  esame  viene meno e
 vengono meno in sostanza  tutti  gli  strumenti  di  valutazione  che
 consentirebbero  di concedere uno qualsiasi dei benefici penitenziari
 eventualmente ammissibili.   Anche  sotto  questo  profilo,  si  deve
 concludere  che  la  normativa indicata (art. 41-bis, comma 2, e art.
 14-ter, interpretato in senso  restrittivo,  come  da  giurisprudenza
 della Corte di cassazione), consentendo alla pubblica amministrazione
 di  introdurre  restrizioni  del  regime  penitenziario  senza  alcun
 controllo giurisdizionale sul  contenuto  delle  stesse,  consente  o
 quantomeno  non  preclude la violazione del principio costituzionale,
 secondo   cui   le   pene   "devono  tendere  alla  rieducazione  del
 condannato".  IV. - Rilievo di incostituzionalita' dell'art.  41-bis,
 comma  2,  nonche'  dell'art. 14-ter, in relazione all'art. 113 della
 Costituzione.  La norma costituzionale citata dispone al comma 1 e al
 comma 2:  "Contro gli atti della pubblica amministrazione  e'  sempre
 ammessa  la  tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e degli interessi
 legittimi  dinanzi  agli  organi   di   giurisdizione   ordinaria   o
 amministrativa.   Tale tutela giurisdizionale non puo' essere esclusa
 o limitata a particolari mezzi  di  impugnazione  o  per  determinate
 categorie  di  atti".    Sembra  chiaro  che  la  norma  abbia voluto
 enunciare il principio  della  piena  sindacabilita'  giurisdizionale
 degli  atti  amministrativi,  enunciazione che viene operata nel modo
 piu' ampio. Ed allora, sotto tale  profilo,  non  sembra  ammissibile
 che,   nella   materia  in  esame,  il  sindacato  dei  tribunali  di
 sorveglianza sui provvedimenti applicativi dell'art. 41-bis, comma 2,
 debba subire le  gravi  limitazioni  affermate  dalla  giurisprudenza
 della  Corte di cassazione: non potere, cioe', sindacare il contenuto
 di tali provvedimenti e le eventuali illegittimita' delle restrizioni
 operate dagli stessi al regime penitenziario ordinario.
    Conclusione:
   Si ritengono, pertanto, non manifestamente infondate  le  questioni
 di  incostituzionalita'  degli  artt.  41-bis,  comma  2,  e  14-ter,
 dell'Ordinamento penitenziario con riferimento alle seguenti norme:
     art. 13, comma 2, della Costituzione;
     art. 3, comma 1, della Costituzione;
     art. 27, comma 3, della Costituzione;
     art. 113, comma 1 e comma 2, della Costituzione.