ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 122 del codice
 di procedura civile promosso con ordinanza emessa il 2 marzo 1995 dal
 Pretore di Trieste nel procedimento esecutivo promosso  dal  Servizio
 riscossione  tributi  -  Concessionario  per  la Provincia di Trieste
 c/Pahor Samo ed altra, iscritta al n. 444 del registro ordinanze 1995
 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  35,  prima
 serie speciale, dell'anno 1995;
   Visto l'atto di costituzione di Pahor Samo;
   Udito  nella  camera  di  consiglio del 22 novembre 1995 il Giudice
 relatore Gustavo Zagrebelsky.
                            Ritenuto in fatto
   1. - In un giudizio per pignoramento di  crediti  tributari  presso
 terzi,  promosso  dal  concessionario  del  Servizio  di  riscossione
 tributi per la provincia di  Trieste  nei  confronti  di  Samo  Pahor
 (debitore  principale)  e  della  Direzione provinciale del tesoro di
 Trieste (terzo pignorato), il Pretore di Trieste, con ordinanza del 2
 marzo 1995, ha sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  122  del  codice  di procedura civile, in riferimento agli
 artt. 6 e 10 della Costituzione e 3  della  legge  costituzionale  31
 gennaio  1963,  n.  1 (statuto speciale per la Regione Friuli-Venezia
 Giulia), nella parte in cui detta norma non consente a  un  cittadino
 italiano  appartenente  alla minoranza linguistica slovena - quale e'
 il debitore principale  Samo  Pahor  -  di  usare,  nel  processo  di
 esecuzione  civile  che si svolge davanti a giudice avente competenza
 sul territorio di insediamento  di  quella  stessa  minoranza,  e  su
 richiesta  dell'interessato,  la  lingua  materna  nei  propri  atti,
 usufruendo per questi della traduzione in lingua italiana, nonche' di
 ricevere gli atti  dell'autorita'  giudiziaria  o  della  controparte
 tradotti nella propria lingua.
   2.  - Il rimettente premette che il debitore principale Samo Pahor,
 cittadino  italiano  "pacificamente  appartenente"   alla   minoranza
 slovena,   ha   presentato   una   memoria   scritta,  redatta  nella
 madrelingua, con la quale si e' opposto all'esecuzione  deducendo  la
 nullita'  del  pignoramento,  nonche'  della  cartella  esattoriale e
 dell'avviso di mora in  precedenza  a  lui  notificati,  perche'  non
 tradotti  in  lingua  slovena, formulando altresi', in detta memoria,
 eccezione di incostituzionalita' delle norme  sulla  riscossione  dei
 tributi per violazione dei diritti delle minoranze linguistiche; che,
 inoltre,   all'udienza   fissata   per  la  dichiarazione  del  terzo
 pignorato, il debitore ha chiesto la traduzione in lingua slovena del
 verbale del processo esecutivo.
   Premette ancora il giudice a quo che, conformemente  alle  esigenze
 del  pur  peculiare  "contraddittorio"  che  si  esplica nel processo
 esecutivo, in cui e' prevista l'audizione degli interessati,  essendo
 stato  prodotto  il  documento  in  lingua  non  italiana ne e' stata
 ritenuta  necessaria  e  dunque  disposta,  da  parte  dello   stesso
 rimettente, la traduzione, a norma dell'art. 123 cod. proc. civ.
   Cio' rilevato, il Pretore esamina, anche in riferimento alla citata
 memoria, i principi di tutela della minoranza linguistica slovena sul
 piano  del processo, quali enucleati dalla Corte costituzionale nelle
 sentenze n. 28 del 1982 e n. 62 del 1992.
   Entrambe queste pronunce hanno qualificato  le  norme  dell'art.  6
 della  Costituzione  e  dell'art.  3  dello  statuto  speciale per il
 Friuli-Venezia  Giulia  come   norme   "direttive   ad   applicazione
 differita", la cui effettiva realizzazione richiede un intervento del
 legislatore; cio' che non e' avvenuto, se non per aspetti specifici.
   Con  le  ricordate  decisioni, peraltro, la Corte costituzionale ha
 riconosciuto  una  "tutela  minima"  della  lingua  della   minoranza
 slovena.
   Con  la  prima  sentenza  la  Corte  ha escluso l'applicabilita' di
 qualsiasi sanzione (come quella stabilita dall'art. 137, terzo comma,
 cod.   proc. pen. del  1930)  per  l'uso  della  lingua  materna  nel
 processo,  ed  ha  individuato  un  livello  di tutela immediatamente
 operativo, richiamando al riguardo la disciplina positiva in tema  di
 conferimento  dell'incarico  di traduttore e di interprete presso gli
 uffici giudiziari (legge 14 luglio 1967, n. 568). Il  tema  e'  stato
 poi risolto, nell'ambito del processo penale, dall'art. 109 del nuovo
 codice di rito.
   Con    la    seconda    sentenza,    la    Corte    ha   dichiarato
 l'incostituzionalita' degli artt. 22 e 23  della  legge  24  novembre
 1981,  n.  689, in combinato disposto con l'art. 122 cod. proc. civ.,
 dunque in riferimento alla facolta' di usare la  lingua  materna  nei
 propri  atti  e di ricevere quelli dell'autorita' giudiziaria o della
 controparte tradotti in sloveno solo nell'ambito dei procedimenti  di
 opposizione   ad   ordinanze-ingiunzioni   applicative   di  sanzioni
 amministrative; una facolta', ha  aggiunto  la  Corte,  concretamente
 azionabile  grazie alla utilizzazione di traduttori ed interpreti nel
 giudizio, in base alla legge n.  568  del  1967  gia'  evocata  dalla
 precedente  decisione.  Nella  sentenza  in  discorso  -  prosegue il
 giudice a quo -  la  Corte  costituzionale  ha  comunque  escluso  la
 possibilita'   di   riconoscere   una  completa  parificazione  della
 madrelingua minoritaria con quella  ufficiale  del  processo  civile,
 essendo  necessaria a tal fine una disciplina articolata e complessa,
 necessariamente affidata al legislatore.
   3. - La medesima problematica si pone, ad  avviso  del  rimettente,
 con  riguardo  al  processo  esecutivo,  operando in questo la regola
 generale dettata dall'art. 122 cod. proc. civ.; in sede di esecuzione
 civile devono essere riconosciute le  stesse  facolta'  accordate  in
 sede di opposizione a ordinanza-ingiunzione, e dunque e' necessaria -
 prosegue  il Pretore - una nuova pronuncia della Corte costituzionale
 che dichiari l'illegittimita' costituzionale della  norma  impugnata,
 relativamente al processo esecutivo civile.
   Anche  in  questo  processo,  infatti,  puo'  darsi  partecipazione
 personale delle parti, e segnatamente del debitore,  che  puo'  e  in
 certi  casi  deve  essere  sentito  dal  giudice,  anche  se cio' non
 comporta vere e proprie opposizioni  in  senso  tecnico.  Il  diritto
 all'utilizzo  della propria lingua, quale affermato con la richiamata
 sentenza  n.  62  del  1992  per   i   giudizi   di   opposizione   a
 ordinanza-ingiunzione,  in  cui  l'interessato puo' stare in giudizio
 personalmente, deve essere del pari  riconosciuto,  alla  luce  delle
 norme    costituzionali    gia'   indicate   nonche'   dei   trattati
 internazionali  (trattato  di  Osimo del 10 novembre 1975, e "G.N.U."
 (Patto internazionale per i diritti civili e  politici)  16  dicembre
 1966)  e  delle leggi statali e regionali in materia, nell'ambito del
 processo  esecutivo;  un  diritto,  osserva  il   Pretore,   in   se'
 considerato (non dunque come esplicazione del diritto di difesa), che
 non  si  risolve  nella  parificazione  della  madrelingua  a  quella
 ufficiale, bensi' nella possibilita' di usare la propria  lingua  nei
 rapporti  con  l'autorita'  giudiziaria  e  come  diritto di ricevere
 risposte da questa nella medesima lingua.
   La  rilevanza  della  questione,  aggiunge  il  Pretore,  e'  nella
 preclusione  all'ulteriore corso del procedimento - vale a dire nella
 impossibilita' di procedere all'assegnazione  del  credito  pignorato
 richiesta   dall'esattore/creditore   procedente   -  se  non  previa
 traduzione degli atti del processo esecutivo in lingua slovena.
   4. - A diverso esito conduce l'"opposizione" formulata dal debitore
 nella memoria depositata e tradotta: osserva sul punto il  giudice  a
 quo  che  nella materia dell'esecuzione esattoriale le opposizioni ex
 artt. 615 e 617 cod. proc. civ. non sono ammissibili, e che  comunque
 attraverso  di  esse  si  introdurrebbe  un diverso tipo di giudizio,
 cioe' una causa di cognizione, non assimilabile ne'  al  giudizio  di
 opposizione  a  ordinanza-ingiunzione  ne' al processo di esecuzione.
 Di qui la  formulazione,  nello  stesso  contesto  dell'ordinanza  di
 rinvio,   di   un   capo   di   inammissibilita'   dell'eccezione  di
 incostituzionalita'  prospettata  dalla  parte,  nella   memoria   in
 discorso,  in riferimento alla specifica disciplina della riscossione
 dei tributi.
   5. - A conclusione dell'ordinanza, il giudice a quo  sottolinea  la
 necessita'   dell'intervento  della  Corte,  non  essendo  consentito
 all'interprete  superare  il  dato  normativo  esplicito,  alla  luce
 proprio  della  qualificazione  dei diritti di tutela delle minoranze
 linguistiche  nel  processo   come   diritti   "condizionati"   dalla
 necessaria  interposizione  normativa  del  legislatore  ovvero dalla
 statuizione del giudice delle leggi; le  "pretese  soggettive  (sono)
 effettive  ed  azionabili"  -  conclude  il  rimettente,  citando  la
 sentenza n. 62 del 1992 - soltanto nella misura in  cui  siano  state
 adottate  adeguate  norme  di attuazione e siano state predisposte le
 necessarie  strutture  organizzative  o  istituzionali",  il  che  e'
 avvenuto   nei   rapporti  tra  cittadino  e  autorita'  giudiziaria,
 attraverso l'istituzione degli uffici di traduttore e interprete,  ma
 non e' avvenuto "... con riferimento agli atti del concessionario per
 la riscossione dei tributi".
   6.  -  Nel  giudizio  cosi'  instaurato il debitore principale Samo
 Pahor ha depositato atto di costituzione e memoria oltre  il  termine
 previsto dall'art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e dall'art.  3
 delle   norme   integrative   per   i   giudizi  davanti  alla  Corte
 costituzionale.
                         Considerato in diritto
   1. - La questione di  legittimita'  costituzionale  sottoposta  dal
 Pretore  di Trieste all'esame di questa Corte e' se sia conforme agli
 articoli 6 e 10 della Costituzione e 3 della legge costituzionale  31
 gennaio  1963,  n.  1  (statuto speciale della Regione Friuli-Venezia
 Giulia) l'art. 122, primo comma, del codice di procedura  civile,  in
 quanto,   stabilendo  in  generale  che  "in  tutto  il  processo  e'
 prescritto l'uso della lingua italiana", non  consente  al  cittadino
 italiano   appartenente   alla  minoranza  linguistica  slovena,  nel
 processo di esecuzione davanti al giudice  avente  competenza  su  un
 territorio  dove  sia  insediata  tale  minoranza,  di  usare, su sua
 richiesta, la propria lingua negli atti da esso compiuti,  usufruendo
 per  questi  della traduzione in lingua italiana, nonche' di ricevere
 gli atti dell'autorita'  giudiziaria  o  della  controparte  tradotti
 nella sua lingua.
   Per  ragioni  di  rilevanza, la portata della questione proposta e'
 circoscritta all'uso della lingua nel processo civile di  esecuzione,
 trattandosi  nel  caso  specifico  di un giudizio per pignoramento di
 crediti tributari presso terzi, come  esposto  nella  narrazione  del
 fatto.   E'   peraltro   evidente   che   -   non  esistendo  ragioni
 differenziatrici della tutela delle minoranze linguistiche  e,  nella
 specie,  di  quella  di  lingua  slovena, in questa o quella fase del
 processo civile, sia esso di cognizione o sia  di  esecuzione  -  gli
 argomenti  posti a fondamento della presente decisione sono destinati
 ad assumere una portata piu' ampia, con  riguardo  al  diritto  degli
 appartenenti  alla minoranza slovena di far uso della propria lingua,
 in generale, nelle controversie di fronte  al  giudice,  nelle  quali
 trovi  applicazione  l'art. 122, primo comma, del codice di procedura
 civile.
   2. - La tutela delle minoranze linguistiche  e'  uno  dei  principi
 fondamentali  del  vigente ordinamento che la Costituzione stabilisce
 all'art. 6, demandando alla Repubblica il compito di darne attuazione
 "con apposite norme". Tale principio, che rappresenta un  superamento
 delle  concezioni  dello  Stato  nazionale chiuso dell'Ottocento e un
 rovesciamento  di  grande  portata  politica  e  culturale,  rispetto
 all'atteggiamento  nazionalistico  manifestato dal fascismo, e' stato
 numerose volte valorizzato  dalla  giurisprudenza  di  questa  Corte,
 anche  perche' esso si situa al punto di incontro con altri principi,
 talora  definiti  "supremi",  che  qualificano  indefettibilmente   e
 necessariamente  l'ordinamento vigente (sentenze nn. 62 del 1992, 768
 del 1988, 289 del 1987 e 312 del  1983):  il  principio  pluralistico
 riconosciuto dall'art. 2 - essendo la lingua un elemento di identita'
 individuale  e  collettiva di importanza basilare - e il principio di
 eguaglianza riconosciuto dall'art. 3 della  Costituzione,  il  quale,
 nel  primo comma, stabilisce la pari dignita' sociale e l'eguaglianza
 di fronte alla legge di  tutti  i  cittadini,  senza  distinzione  di
 lingua  e,  nel  secondo  comma,  prescrive  l'adozione  di norme che
 valgano anche positivamente per rimuovere le situazioni di  fatto  da
 cui possano derivare conseguenze discriminatorie.
   Con   queste   sue   norme,   la  Costituzione  italiana  partecipa
 dell'attuale movimento sovranazionale a favore  della  convivenza  di
 gruppi umani dalla diversa identita' entro le medesime organizzazioni
 politiche  statali, un movimento gravido di possibili conseguenze sul
 diritto  pubblico  interno  e  di  cui  e'   espressione   il   Patto
 internazionale  per  i  diritti  civili  e  politici  adottato  il 16
 dicembre  1966  dall'Assemblea  generale  dell'Organizzazione   delle
 Nazioni  Unite e ratificato dall'Italia con la legge 25 ottobre 1977,
 n. 881. Dopo aver proclamato  il  principio  dell'uguaglianza,  senza
 distinzioni di lingua, origine nazionale e nascita, nel godimento dei
 diritti  riconosciuti  dal  Patto  medesimo,  nonche' l'impegno degli
 Stati ad agire secondo le loro procedure costituzionali per  renderli
 effettivi, l'art. 27 stabilisce che "dans les Etats ou' il existe des
 minorites  ethniques,  religieuses  ou  linguistiques,  les personnes
 appartenant a'  ces  minorites  ne  peuvent  etre  privees  du  droit
 d'avoir,  en  commun  avec  les  autres  membres de leur groupe, leur
 propre vie culturelle, de  professer  et  de  pratiquer  leur  propre
 religion, ou d'employer leur propre langue".
   Tuttavia,  il  richiamo  che  l'ordinanza di rimessione, attraverso
 l'art. 10, primo comma, della Costituzione, fa a questa norma non  e'
 conferente,   ai   fini  della  presente  questione  di  legittimita'
 costituzionale.
   In primo luogo, per motivi  formali,  non  si  puo'  dire,  che  in
 questo,  come  in altri casi del medesimo genere, si abbia a che fare
 fin da ora con il diritto internazionale  generalmente  riconosciuto,
 al  quale  l'art.  10,  primo  comma,  della  Costituzione rinvia per
 incorporarlo nell'ordinamento italiano, attribuendo a esso un  valore
 di  norme  costituzionali, pur escludendo la possibilita' di derogare
 ai principi fondamentali del nostro  ordinamento  (sent.  n.  48  del
 1979). Per quanto all'origine vi sia una deliberazione dell'Assemblea
 generale  delle  Nazioni  Unite, consegnata a un testo che esprime un
 accordo internazionale che ha da tempo ricevuto numerose  adesioni  e
 che  e'  percio'  efficace  come  trattato multilaterale, e sebbene i
 principi ivi proclamati abbiano portata universale per la loro stessa
 intrinseca natura, l'adesione a quel patto e la sua vigenza in Italia
 derivano pur sempre da un atto di volonta' sovrana individuale  dello
 Stato  espresso  in  forma  legislativa. E cio' - se non impedisce di
 attribuire  a   quelle   norme   grande   importanza   nella   stessa
 interpretazione  delle  corrispondenti,  ma  non  sempre coincidenti,
 norme contenute nella Costituzione - impedisce pero' di assumerle  in
 quanto  tali  come  parametri nel giudizio di costituzionalita' delle
 leggi (ex pluribus, sentenze nn.  323  del  1989,  153  del  1987  e,
 specificamente, sentenza n. 188 del 1980, nonche' ordinanza di questa
 Corte  in  composizione  integrata  per  i  procedimenti  d'accusa, 6
 febbraio 1979). Cosicche', una loro eventuale contraddizione da parte
 di norme legislative interne non determinerebbe di per  se'  -  cioe'
 indipendentemente  dalla mediazione di una norma della Costituzione -
 un vizio d'incostituzionalita'. Un rilievo, questo,  che  vale  ancor
 piu'  chiaramente per le norme contenute nel Trattato di Osimo del 10
 novembre 1975, anch'esso sinteticamente evocato dal  giudice  a  quo,
 unitamente al Patto internazionale sui diritti civili e politici, con
 riguardo all'art. 10 della Costituzione.
   In   secondo   luogo,   il  richiamo  contenuto  nell'ordinanza  di
 rimessione all'art. 27 del Patto suddetto risulta ininfluente, se non
 addirittura controproducente, dal punto di  vista  del  contenuto  di
 quest'ultimo,  essendovi  prevista  la garanzia dell'uso della lingua
 propria  nella  comunicazione  tra  i   componenti   della   medesima
 minoranza,  come  modo  d'essere  e strumento della propria identita'
 culturale, ma non la garanzia dell'uso esterno di quella  lingua  nei
 rapporti  con  soggetti  o  autorita'  non  appartenenti  alla stessa
 comunita', cio' che e', invece, il nucleo della questione in esame.
   3. - La minoranza linguistica slovena e'  destinataria,  oltre  che
 della protezione prevista in generale dall'art. 6 della Costituzione,
 di  quella  disposta  specificamente  da  altre  norme.  Alla  decima
 disposizione transitoria della Costituzione -  che,  per  il  periodo
 anteriore  all'approvazione  dello  statuto  di  autonomia  speciale,
 prevedeva  che  "alla  Regione  del  Friuli-Venezia  Giulia  ...   si
 applica(ssero)  provvisoriamente le norme generali del Titolo V della
 parte seconda, ferma restando la tutela delle minoranze  linguistiche
 in  conformita'  con  l'art.   6" - ha fatto seguito l'art. 3 di tale
 statuto: "Nella Regione e'  riconosciuta  parita'  di  diritti  e  di
 trattamento  a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico
 al  quale  appartengono,  con  la   salvaguardia   delle   rispettive
 caratteristiche  etniche  e  culturali".    A questa norma statutaria
 sarebbe stato necessario che seguisse  -  e  non  e'  seguita  -  una
 normativa  di  attuazione,  dedicata al rapporto tra gli appartenenti
 alla comunita' di  lingua  slovena  e  le  autorita'  italiane.  Tale
 carenza  -  che la Corte deve ancora una volta denunciare, a distanza
 di piu' di trent'anni dall'entrata in vigore dello  statuto  speciale
 della   Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -  se  non  la  esonera  dal
 ricercare, nei limiti dei suoi poteri, le soluzioni  possibili  entro
 le  norme dell'ordinamento vigente, le rende tuttavia particolarmente
 difficili.
   Puo', per il momento, almeno in parte supplire a tale  carenza  una
 disposizione  del Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica
 socialista federativa di Jugoslavia firmato a Osimo  il  10  novembre
 1975  e  reso esecutivo con la legge 14 marzo 1977, n. 73. Esso, dopo
 aver confermato nel preambolo la "loyaute'" delle due  parti  "envers
 le  principe  de  la  protection  la plus ample possible des citoyens
 appartenant aux groupes ethniques (minorites),  de'coulant  de  leurs
 Constitutions  et  de  leurs  droits  internes,  que chacune des deux
 Parties realise d'une maniere autonome, en s'inspirant egalement  des
 principes   de  la  Charte  des  Nations  Unies,  de  la  Declaration
 Universelle des Droits de l'Homme, de la Convention sur l'elimination
 de toute forme de discrimination raciale et des Pactes Universels des
 Droits de l'Homme", all'art. 8  stabilisce  che  "chaque  Partie  ...
 maintiendra  en  vigueur  les  mesures  internes  deja'  arretees  en
 application du Statut" "Special annexe'  au  Memorandum  d'Accord  de
 Londres du 5 octobre 1954" e che "assurera dans le cadre de son droit
 interne  le  maintien du niveau de protection des membres des groupes
 ethniques respectifs  (des  minorites  respectives),  prevu  par  les
 normes du Statut Special echu".
   Lo "Statuto speciale" allegato al Memorandum d'intesa fra i Governi
 d'Italia,  del  Regno  Unito,  degli  Stati  Uniti  e  di  Jugoslavia
 concernente il Territorio Libero di Trieste, cui  fa  riferimento  il
 Trattato  di Osimo nell'art. 8 citato, stabiliva a sua volta che "gli
 appartenenti al  gruppo  etnico  jugoslavo  nella  zona  amministrata
 dall'Italia  e  gli appartenenti al gruppo etnico italiano nella zona
 amministrata dalla Jugoslavia godranno della parita' di diritti e  di
 trattamento  con  gli  altri  abitanti delle due zone" (art. 2, primo
 comma) e che "gli appartenenti al gruppo etnico jugoslavo nella  zona
 amministrata dall'Italia e gli appartenenti al gruppo etnico italiano
 nella  zona  amministrata dalla Jugoslavia saranno liberi di usare la
 loro lingua nei loro rapporti personali ed ufficiali con le Autorita'
 amministrative e giudiziarie delle due zone. Essi avranno il  diritto
 di  ricevere  risposta  nella  loro  stessa  lingua  da  parte  delle
 Autorita', nelle risposte verbali, direttamente o per il  tramite  di
 un  interprete;  nella  corrispondenza,  almeno  una traduzione delle
 risposte dovra' essere fornita dalle  Autorita'.  Gli  atti  pubblici
 concernenti  gli  appartenenti  ai  due  gruppi  etnici,  comprese le
 sentenze dei Tribunali, saranno accompagnati da una traduzione  nella
 rispettiva lingua" (art.  5, commi primo e secondo).
   Si  puo' discutere, come in effetti si e' discusso in dottrina e in
 giurisprudenza,  sul  valore  nel  diritto   pubblico   interno   del
 Memorandum  d'intesa  e  dello  "Statuto  speciale" ad esso allegato,
 trattandosi di testi comunicati alle due Camere e da  esse  discussi,
 ma  senza  addivenire  ad  alcuna  deliberazione  in vista della loro
 ratifica ed esecuzione nell'ordinamento interno. Tuttavia, il  rinvio
 che  il Trattato di Osimo - esso si' per certo divenuto legge interna
 - fa, per assicurarne il  rispetto,  al  "niveau  de  protection  des
 membres  des groupes ethniques respectifs..., prevu par les normes du
 Statut Special echu" comporta che  -  dal  punto  di  vista  interno,
 l'unico   che  rileva  nel  presente  giudizio  -  quel  "livello  di
 protezione" faccia oggi  certamente  parte  del  vigente  ordinamento
 nazionale.
   Questo  e' il quadro degli elementi normativi da considerare per la
 risoluzione dei problemi posti con la questione di  costituzionalita'
 in  esame.  Anche  alla  stregua  delle precedenti pronunce di questa
 Corte in tema di protezione della lingua della  minoranza  slovena  -
 alla  quale  si  e' riconosciuto (a iniziare dalla sentenza n. 28 del
 1982) lo  status  di  "minoranza  riconosciuta"  e  quindi  anche  la
 titolarita',  attraverso  i  suoi singoli appartenenti, di pretese di
 tutela secondo le norme costituzionali e statutarie richiamate  -  le
 conseguenze che devono trarsene sono quelle indicate di seguito.
   4.  -  La  giurisprudenza  di  questa Corte in tema di tutela delle
 minoranze linguistiche (sentenze n. 62 del 1992 e n. 28 del 1982)  ha
 riconosciuto  alle  norme  costituzionali  e  statutarie  una duplice
 natura.  Innanzitutto,  quella  di  principi  direttivi,  richiedenti
 l'apprestamento   sia  di  norme  ulteriori  di  svolgimento  sia  di
 strutture o istituzioni finalizzate alla loro concreta  operativita'.
 La  misura  concreta di effettivita' di tali principi di tutela delle
 minoranze e' infatti condizionata all'esistenza  di  leggi  e  misure
 amministrative  e  dipende percio', per questo aspetto, da iniziative
 essenzialmente politiche:  iniziative rispetto alle  quali  le  norme
 costituzionali   pongono   le   linee   direttrici   ma  non  possono
 rappresentare un  surrogato  alternativo,  attivabile  attraverso  il
 ricorso alla Corte costituzionale.
   In  secondo  luogo, pero', l'esistenza di norme, ancorche' norme di
 principio, le quali - come  l'art.  3  dello  statuto  della  Regione
 Friuli-Venezia   Giulia   -   proclamano   veri   e   propri  diritti
 costituzionali,  non  puo'  ridursi  al  semplice  auspicio   di   un
 intervento   futuro   dell'autorita'   politico-amministrativa,  come
 suggerirebbe il concetto di  norme  meramente  programmatiche.  Dalle
 norme  costituzionali  in  questione  deriva sempre e necessariamente
 l'obbligo di ricercare una "tutela minima", immediatamente operativa,
 sottratta  alla  vicenda  politica   e   direttamente   determinabile
 attraverso  l'interpretazione  costituzionale dell'ordinamento, anche
 per mezzo  della  valorizzazione  di  tutti  gli  elementi  normativi
 esistenti,  suscettibili  di  essere  finalizzati allo scopo indicato
 dalla Costituzione.
   Nel ribadire le linee argomentative ora ricordate, la Corte  rileva
 che  tali  elementi,  assumibili come una sia pur parziale attuazione
 della  norma  statutaria  rispetto  alla   tutela   della   minoranza
 linguistica slovena, possono essere rinvenuti per l'appunto nell'art.
 8  del  Trattato di Osimo, che, richiamando l'indicazione dell'art. 5
 dello  "Statuto  speciale" del 1954, trasferisce in una norma interna
 immediatamente applicabile il relativo assetto di tutela. Per  quanto
 riguarda  l'oggetto  del  presente  giudizio, tale articolo riconosce
 agli appartenenti alla comunita' slovena: a) la liberta' di usare  la
 loro  lingua nei loro rapporti personali e ufficiali con le autorita'
 giudiziarie; b) il diritto di ricevere  risposta  nella  loro  stessa
 lingua:  nelle  risposte verbali, direttamente o per il tramite di un
 interprete; nella corrispondenza, per mezzo  della  traduzione  delle
 risposte; c) la pretesa che le sentenze dei Tribunali concernenti gli
 appartenenti  alla  loro  comunita' linguistica siano accompagnate da
 una traduzione.
   In  base  a  tale  impostazione  e  con  palese  e  quasi  testuale
 riferimento  alla predetta normativa, questa Corte, nella sentenza n.
 28 del 1982, ha ritenuto che la "operativita'  minima"  della  tutela
 delle  minoranze  riconosciute - e, nella specie, di quella slovena -
 implichi,  oltre  all'inammissibilita'  di  qualsiasi  sanzione   che
 colpisca  l'uso della propria lingua da parte degli appartenenti alla
 minoranza protetta, il  diritto  "gia'  ora...  di  usare  la  lingua
 materna  e di ricevere risposte dalle autorita' in tale lingua: nelle
 comunicazioni  verbali,  direttamente  o  per  il   tramite   di   un
 interprete;  nella corrispondenza, con il testo italiano accompagnato
 da traduzione in lingua slovena"; e, nella sentenza n. 62  del  1992,
 ha  affermato  che il "nucleo minimale di tutela per gli appartenenti
 alla minoranza riconosciuta" comprende  "il  'diritto'  di  usare  la
 lingua  materna  nei  rapporti  con le autorita' giurisdizionali e di
 ricevere  risposte  da  quelle  autorita'   nella   stessa   lingua",
 specificando  questa  affermazione  (in  relazione al procedimento di
 opposizione a  ordinanza-ingiunzione  davanti  al  pretore,  regolato
 dagli  articoli  22  e  23  della  legge  n.  689  del  1981)  con il
 riconoscimento della "facolta'..., nei giudizi davanti  all'autorita'
 giudiziaria  avente  competenza  su un territorio dov'e' insediata la
 minoranza slovena, di usare, a... richiesta, la  lingua  materna  nei
 propri  atti,  usufruendo  per  questi  della traduzione nella lingua
 ufficiale, oltreche' di ricevere in traduzione nella  propria  lingua
 gli atti dell'autorita' giudiziaria e le risposte della controparte".
   Le proposizioni ora richiamate esigono una duplice precisazione.
   La tutela nel processo dell'identita' linguistica dell'appartenente
 alla  comunita'  di  lingua  slovena  riguarda  gli atti, provenienti
 dall'interessato, non solo ufficiali  (cioe'  quelli  previsti  dalla
 legge  processuale i quali confluiscono, insieme a quelli delle altre
 parti e del giudice, nel processo), ma anche personali  (v.  art.  5,
 primo  comma,  dello  "Statuto  speciale"  del  1954).  Cio'  vale  a
 escludere gli atti processuali compiuti per il tramite di avvocati  e
 procuratori,  i  quali,  nel  processo civile, normalmente fungono da
 tramite tra la parte e il giudice.  Nell'esercizio di una professione
 come quella legale, che sicuramente presenta  aspetti  pubblicistici,
 l'obbligo dell'uso della lingua ufficiale non appare discutibile. Ne'
 una  deroga  a tale obbligo potrebbe farsi derivare dalla circostanza
 che il patrocinio si svolga a favore  di  un  soggetto  di  identita'
 linguistica  diversa  e  protetta,  come  quella slovena. Di per se',
 infatti, la tutela dell'identita' linguistica e'  personale,  poiche'
 solo  la  persona  appartenente  alla  comunita' di lingua diversa da
 quella dominante puo' avvertire come una  menomazione  della  propria
 dignita'   l'imposizione,   che  fosse  eventualmente  stabilita  nei
 rapporti con l'autorita', della lingua ufficiale di questa.
   Inoltre,  si  deve  rilevare  che,  mentre  l'art. 5 dello "Statuto
 speciale"  citato  si  riferisce  espressamente  ai   soli   rapporti
 "verticali"  tra  il  singolo  appartenente  alla comunita' slovena e
 l'autorita'  giudiziaria,  questa  Corte,  nelle  formulazioni  della
 sentenza  n.  62  del  1992,  vi ha inclusi i rapporti "orizzontali",
 affermando  che  la  tutela  dell'appartenente  a  quella   comunita'
 comprende  anche la ricezione nella sua propria lingua delle risposte
 della  controparte.  Cosi'  facendo,  si  e'  valorizzata  la   forza
 espansiva     dei     principi     costituzionali     e     statutari
 nell'interpretazione della disposizione dell'art.  5  dello  "Statuto
 speciale"   e   si   e'  considerato  che  la  tutela  dell'identita'
 linguistica abbia una sua ragione d'essere in rapporto non  tanto  al
 giudice, quanto alla funzione giudiziaria e quindi debba poter essere
 fatta  valere nei confronti di tutti gli atti attraverso i quali tale
 funzione si svolge nel  processo,  cioe'  necessariamente  anche  nei
 confronti degli atti provenienti dalle altre parti.
   5.  -  Alla  stregua  delle  considerazioni  che  precedono e della
 ricostruzione delle norme relative al caso in  esame,  l'intento  del
 giudice  rimettente,  favorevole alla tutela della lingua slovena nel
 procedimento svolgentesi di fronte a lui,  appare  dunque  pienamente
 giustificato. Ma cio' non significa anche che la questione ch'egli ha
 sollevata  sia  da dichiarare fondata. Infatti, il censurato articolo
 122, primo comma, del  codice  di  procedura  civile  non  si  oppone
 affatto alla traduzione in pratica di tale intento. Esso contiene una
 disposizione   alla   quale   le  norme  di  tutela  della  minoranza
 linguistica - come individuate nel complesso costituito dagli art.  6
 della  Costituzione,  3  dello  statuto  speciale  del Friuli-Venezia
 Giulia e 8 del Trattato di Osimo - possono essere combinate; non  una
 norma incompatibile che si debba rimuovere.
   Una  cosa  e'  infatti  la  disciplina  della  lingua del processo;
 un'altra e' la garanzia dei diritti degli appartenenti alla comunita'
 linguistica  slovena   nel   processo.   Ne'   l'articolo   6   della
 Costituzione, ne' l'art.  3 dello statuto speciale del Friuli-Venezia
 Giulia,  ne'  l'articolo  5  dello  "Statuto  speciale"  del  1954 si
 occupano del  processo;  essi  si  preoccupano  di  garantire  questi
 diritti  nel  (momento  del)  processo.    Le due prospettive possono
 essere compatibili.
   La  lingua  ufficiale  del  processo  continua  a  essere  una,  ma
 l'interessato  puo' chiedere di fare uso della propria lingua, con la
 conseguenza che gli atti suoi, espressi in sloveno, saranno  tradotti
 in  lingua italiana, e gli atti altrui, espressi in italiano, saranno
 tradotti in lingua slovena. Una -  quella  italiana  -  e',  a  norma
 dell'art.    122, la lingua nella quale si formano e si esprimono gli
 atti del processo. L'altra - nella specie, la slovena - e' la  lingua
 che  si  aggiunge  alla  prima,  come  modo  di tutela dell'identita'
 linguistica del soggetto appartenente alla comunita' di minoranza.
   L'atto che nasce  in  lingua  straniera,  dovrebbe  dirsi  nullo  o
 irricevibile,  alla  stregua  dell'art. 122 cod. proc. civ.. Ma se la
 lingua e' quella della minoranza slovena, in  quanto  "riconosciuta",
 esso  sara'  tradotto per essere acquisito al processo. Viceversa, se
 si forma nella lingua italiana - come atto del giudice, ovvero di una
 parte e di un testimone non facenti parte della minoranza  di  lingua
 slovena  -  apparterra'  validamente ab origine al processo ma dovra'
 essere  portato  a  conoscenza  dell'interessato  che  ne abbia fatta
 richiesta nella traduzione in lingua  slovena.  Sulla  traduzione  di
 atti  scritti  o  orali,  dall'italiano  allo sloveno e dallo sloveno
 all'italiano, disporra' il giudice nell'ambito  dei  suoi  poteri  di
 utilizzazione  di interpreti e traduttori (artt.  122, secondo comma,
 e 123 cod. proc. civ.).
   L'anzidetta valenza aggiuntiva o esterna al processo  delle  norme,
 costituzionali  e  non, di tutela della minoranza linguistica risulta
 del resto chiara dal loro stesso tenore. Da nessuna di esse, infatti,
 puo' trarsi un qualsiasi intento innovativo rispetto  alle  procedure
 giudiziarie  e  alle  loro  forme. Non varrebbe in senso contrario il
 riferimento alla situazione determinatasi nella Regione Trentino-Alto
 Adige, ove, a seguito dell'applicazione degli articoli 20  e  21  del
 d.P.R.  15  luglio  1988,  n.  574 (Norme di attuazione dello statuto
 speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di  uso  della
 lingua  tedesca  e della lingua ladina nei rapporti dei cittadini con
 la pubblica amministrazione  e  nei  procedimenti  giudiziari),  puo'
 accadere  o  che il processo sia bilingue o che la lingua tedesca sia
 integralmente sostituita  (non  aggiunta)  a  quella  italiana,  come
 lingua   ufficiale  del  processo.  Questa  piu'  intensa  tutela  si
 giustifica (pur non essendo concettualmente necessaria, come mostrano
 gli articoli 38-40 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4,
 contenente lo statuto speciale per  la  Valle  d'Aosta)  in  presenza
 della  norma  statutaria  (art. 99 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670)
 che espressamente "parifica" - cioe'  rende  fungibile  -  la  lingua
 minoritaria  a quella ufficiale dello Stato. Nel caso della minoranza
 slovena, invece,  l'art.  3  dello  statuto  speciale  della  Regione
 Friuli-Venezia  Giulia afferma non la parita' delle lingue ma l'assai
 diversa parita' dei diritti  dei  cittadini  appartenenti  a  diverse
 comunita'  linguistiche,  dal punto di vista della salvaguardia delle
 rispettive caratteristiche etniche e culturali.
   6. - Come questa Corte, nelle sue decisioni sopra citate (cui  adde
 sentenza  n.  271  del  1994),  ha  gia'  precisato,  l'art.  6 della
 Costituzione e le altre norme che si pongono a tutela delle minoranze
 linguistiche, da un lato, e l'art. 24 della Costituzione, dall'altro,
 hanno a'mbiti di applicazione diversi. Mentre i diritti della  difesa
 in  giudizio,  sotto  il  profilo in questione, sono finalizzati alla
 "adeguata comprensione degli aspetti processuali", potendosi supporre
 che questa  venga  a  mancare  "quando  l'interessato  non  abbia  in
 concreto   una  perfetta  conoscenza  della  lingua  ufficiale",  "la
 garanzia dell'uso della lingua materna a favore  dell'appartenente  a
 una   minoranza   linguistica  riconosciuta  e',  in  ogni  caso,  la
 conseguenza di una speciale protezione costituzionale,  accordata  al
 patrimonio  culturale  di  un  particolare gruppo etnico e, pertanto,
 prescinde  dalla  circostanza  concreta   che   l'appartenente   alla
 minoranza  stessa conosca o meno la lingua ufficiale" (sentenza n. 62
 del 1992). Conseguenze sulla validita'  degli  atti  processuali  del
 mancato  rispetto  delle norme di garanzia ricollegabili al principio
 dell'art. 6 della Costituzione si potranno dunque avere solo nel caso
 di "interferenza" tra i due ordini di problemi, quando  cioe',  oltre
 ad   appartenere   alla  minoranza  linguistica,  non  si  sia  nelle
 condizioni di comprendere il contenuto di atti altrui compiuti  nella
 lingua ufficiale e si sia cosi' menomati nei propri diritti di azione
 e  di  difesa.  Vi  potrebbe  allora essere nullita' per mancanza dei
 requisiti  formali  indispensabili  per il raggiungimento dello scopo
 (art. 156, secondo comma, codice di procedura civile) ma in tal  caso
 i  problemi ex art. 6 perderebbero ogni autonomo rilievo, finendo per
 essere assorbiti in quelli ex art. 24 della Costituzione.
   Ne', d'altra parte, l'affermato carattere  esterno,  rispetto  alla
 disciplina   degli   atti   del   processo,  della  protezione  degli
 appartenenti alla minoranza di lingua slovena puo'  essere  messo  in
 contraddizione  logica  con  l'attuale  disciplina  dell'art. 109 del
 codice di procedura penale ove l'osservanza delle  regole  dettate  a
 favore   di   cittadini  appartenenti  a  una  minoranza  linguistica
 riconosciuta, quando tale osservanza richiedano, e' disposta in  ogni
 caso  -  indipendentemente  cioe'  dalla  conoscenza o dall'ignoranza
 della lingua  italiana  -  a  pena  di  nullita'.  Questa  disciplina
 dimostra  soltanto  che,  per  il  processo penale, il legislatore ha
 inteso andare piu' in la' di  quanto  costituisce  il  nucleo  minimo
 necessario   della  tutela  della  lingua,  secondo  una  sua  scelta
 discrezionale che non e' necessario trovi corrispondenza nel processo
 civile.
   7. - L'attuazione pratica dei diritti delle minoranze  linguistiche
 e,  tra  esse,  di quella slovena, implica, oltre alla specificazione
 normativa  delle  modalita'  di  garanzia  di  tali  diritti,   anche
 l'esistenza  di strutture organizzative pubbliche, a disposizione dei
 giudici e  a  favore  dei  soggetti  interessati,  idonee  a  fornire
 gratuitamente le prestazioni richieste dalla necessita' di convertire
 da  una  lingua  all'altra atti scritti e orali. La gratuita' - tanto
 per chi utilizza la lingua minoritaria, quanto per chi usa la  lingua
 ufficiale - e' da ritenersi condizione necessaria dell'attuazione dei
 diritti  delle  minoranze  linguistiche  nel  processo (si vedano gli
 artt. 20, comma 2, e 25 del gia' citato d.P.R.  15  luglio  1988,  n.
 574).  Se cosi' non fosse, non solo si renderebbe oneroso l'esercizio
 dei  diritti  di  azione  e  di  difesa  in  giudizio  del  cittadino
 appartenente alla minoranza linguistica, con violazione del principio
 di  parita'  rispetto  ai  cittadini  di  lingua  italiana, principio
 stabilito specificamente dallo stesso art. 3 dello statuto  speciale,
 ma anche si renderebbe la posizione della parte di lingua italiana in
 giudizio  con una controparte appartenente alla comunita' linguistica
 slovena irragionevolmente  deteriore  rispetto  al  caso  normale  di
 giudizio  tra parti utilizzanti tutte la lingua ufficiale. Per questo
 motivo, i diritti in questione appartengono alla categoria di  quelli
 che  costano alla collettivita', richiedendo azioni positive da parte
 di strutture pubbliche ad  hoc  o  di  soggetti  privati  chiamati  a
 svolgere una funzione pubblica.
   La  legge  14 luglio 1967, n. 568 ha previsto il conferimento della
 funzione di traduttore e interprete nei distretti di Corte  d'appello
 ove  le  esigenze  di servizio lo richiedano e leggi successive hanno
 determinato la misura dei compensi  relativi.  Non  spetta  a  questa
 Corte   valutare   la   sufficienza  di  queste  previsioni  ai  fini
 dell'attuazione dei diritti in questione. Si puo' tuttavia aggiungere
 che, pur vertendosi su una materia prossima a quella  giurisdizionale
 ma  che, per i motivi anzidetti, giurisdizionale propriamente non e',
 non  esistono  ragioni  per  escludere  una  competenza   anche   del
 legislatore  regionale,  quantomeno  nell'apprestamento  di  mezzi  e
 nell'organizzazione di strutture volte a rendere effettivi i  diritti
 linguistici  delle minoranze situate sul territorio della regione, la
 cui costituzione in autonomia speciale e' giustificata per l'appunto,
 come  nel caso del Friuli-Venezia Giulia, dall'esistenza di comunita'
 etnico-linguistiche minoritarie e dall'esigenza di norme  particolari
 di garanzia (cfr. sentenze nn. 289 del 1987 e 312 del 1983).
   8.  - Le argomentazioni che precedono mostrano come alla protezione
 dei diritti della minoranza linguistica slovena nei  processi  civili
 non  osti  l'impugnato  art.  122, primo comma, del codice di rito. A
 diversa soluzione - l'illegittimita' parziale, come  affermata  nella
 sentenza  n. 62 del 1992 di questa Corte, in tema di uso della lingua
 nello   speciale   procedimento   pretorile    di    opposizione    a
 ordinanze-ingiunzioni  amministrative  -  si  potrebbe  eventualmente
 addivenire solo di fronte a contrastanti orientamenti dei giudici  di
 merito,  come  fu  in  quella  circostanza.  Ma,  in  assenza di tale
 condizione,  non   c'e'   ragione   di   un'ulteriore   dichiarazione
 d'incostituzionalita', in se' non necessaria.