IL PRETORE
   Ha  pronunciato,  nel  processo  di  cui  in  epigrafe  a carico di
 Spinello   Giannino,   Maistrello   Pierluigi,   Ferrara   Francesco,
 Schlagenauf  Davide,  Bernardini  Rolando,  Pipinato Roberto, Ferrara
 Giovanni, Maurantonio Giancarlo, De Paulis Nino e Bertoncello  Andrea
 imputati  dei reati p. e p. dall'art. 110, 81 cpv cp, 21, primo comma
 legge n. 319/1976, 9, comma sesto, legge n. 171/1973 e dall'art.  674
 cp,  la  seguente  ordinanza  di  rimessione  degli  atti  alla Corte
 costituzionale per il  giudizio  di  costituzionalita'  dell'art.  6,
 secondo  comma del decreto-legge n. 79 convertito con modifiche nella
 legge n. 172 del 17 maggio 1995 in relazione agli artt. 10, 11, 25  e
 77 Cost..
   1. - Rilevanza.
   Gli imputati sono stati tratti a giudizio in relazione a numerosi e
 ripetuti  scarichi  in  dipendenza  di  sversamenti  di reflui da una
 pubblica fognatura in assenza di autorizzazione, mai richiesta.
   Viene in questione, pertanto, la violazione, tra l'altro, dell'art.
 21, primo comma legge n. 319/1976,  ipotesi  depenalizzata  dall'art.
 6,  secondo  comma,  legge  n.  172  cit. con riguardo alle pubbliche
 fognature.
   L'oggetto  stesso  della  contestazione,  quindi,  conduce  ad  una
 declaratoria  di  proscioglimento  in  parte qua e, conseguentemente,
 attese  le  risultanze  in  atti  (si  vedano,  in  particolare,   le
 fotografie  in  atti  relative  agli  sversamenti  e, in generale, la
 sentenza  n.  168/1993  e  i  relativi  verbali  d'udienza),  risulta
 indispensabile l'esame di legittimita' della normativa in oggetto.
   Si  deve  osservare,  inoltre,  che le condotte sono state poste in
 essere tra l'estate del 1991 e l'estate del  1994  e,  quindi,  nella
 gran  parte in periodi anteriori al primo decreto in materia di legge
 Merli.
   Ne  consegue   che,   all'epoca,   la   condotta   contestata   era
 riconducibile  ad  un  fatto  penalmente  illecito  e  che, pertanto,
 nell'eventualita' di una  caducazione  della  norma,  la  fattispecie
 rimarrebbe  disciplinata alla stregua dei parametri - noti al momento
 del fatto - di cui all'originaria previsione.
   2. - Non manifesta infondatezza.
   2.1. - Violazione degli artt. 10 e 11 della Costituzione.
   La legge n. 172/1995 - con riguardo, in particolare, alla normativa
 impugnata, anche se la questione investe anche le altre  norme  della
 legge  citata  e, in ispecie, l'art. 3 - si pone in contrasto con gli
 obblighi  che  derivano  al  nostro  Paese  per  l'appartenenza  alla
 Comunita' europea.
   Con  l'Atto  unico europeo del 1986 (recepito in Italia dalla legge
 23 dicembre 1986 n.  909)  -  il  quale  affida  alla  Comunita'  una
 competenza  diretta  e  specifica in materia di tutela dell'ambiente,
 colmando, in tal modo, una lacuna  che  precedentemente  il  Trattato
 denunciava  -  sono stati introdotti nel nostro Ordinamento giuridico
 tre principi relativi all'ambiente (artt. 130r,  130s  e  130t),  che
 impegnano  direttamente  lo  Stato  italiano verso la Comunita' e che
 debbono essere applicati anche dai giudici perche' fanno parte  dello
 Ordinamento interno. Essi, sinteticamente, sono:
     a) il principio della prevenzione;
     b) il principio "chi inquina paga";
     c)  il  principio  secondo  il  quale  i  singoli  Stati  debbono
 assicurare una protezione giuridica  dell'ambiente  uguale  a  quella
 comunitaria ovvero piu' rigorosa, mai minore.
   Ne  consegue  che  neppure  allo  Stato  e'  consentita  una azione
 illimitata e senza vincoli in subjecta materia: viene in rilievo,  in
 primo  luogo,  un  aspetto  formale  costituito dalla responsabilita'
 dallo Stato nei confronti della supremazia del  diritto  comunitario,
 nonche',  in  secondo  luogo,  una  ragione  sostanziale,  in  quanto
 l'ambiente e' divenuto un valore primario, di rilievo  costituzionale
 e fa parte quale componente essenziale della costituzione giuridica e
 politica  della  Comunita'  (v.  Cass.  sez. III, 4 febbraio 1993, n.
 235).
   Va richiamata, piu' specificamente, la direttiva CEE n. 271 del  21
 maggio  1991,  in  materia  di  acque  reflue  urbane,  le  cui norme
 avrebbero dovuto essere recepite gia' dal 30 giugno 1993.
   L'art. 2 della direttiva pone una netta distinzione  -  all'interno
 delle  acque  reflue  urbane  -  tra  acque domestiche e acque reflue
 industriali,  distinzione  a  cui  si  associa  una  diversa  e  piu'
 articolata   disciplina   (in   particolare,   per  le  acque  reflue
 industriali  che  confluiscono  in  reti  fognarie,  atteso  il  piu'
 importante  impatto  sull'ambiente)  che  richiede  regolamentazioni,
 autorizzazioni e controlli specifici (artt. 11 e 13).
   L'attuale disciplina, invece, disattende radicalmente la struttura,
 lo spirito e i principi della normativa   comunitaria e  di  cio'  il
 legislatore  aveva  piena contezza, come emerge dalla disposizione di
 cui all'art. 1,  quarto comma, l. cit. per cui "le  disposizioni  del
 presente decreto si applicano in attesa dell'attuazione della
  direttiva 91/271/CEE".
   La direttiva comunitaria, inoltre, stabilisce che le autorizzazioni
 allo   scarico   "delle  acque  reflue  provenienti  da  impianti  di
 trattamento delle acque reflue urbane"  debbono  essere  esplicite  e
 specifiche  (art.  12  dir. 271: si veda, in particolare il secondo e
 quarto comma), mentre la legge  172  ha  sancito,  per  le  pubbliche
 fognature,  il  principio  della autorizzazione implicita, poiche' la
 stessa - con evidente  sovrapposizione  di  elementi  tecnicamente  e
 logicamente  diversi  -  resta  ricompresa  nell'atto di approvazione
 dell'impianto.
   Ad abundantiam, va altresi' rilevato che la legge  comunitaria  per
 il  1993 fissa con precisione i criteri in base ai quali la direttiva
 271 deve essere recepita  (con  decreto  legislativo:  v.  art.  37),
 criteri che sono del tutto estranei alla formulazione della legge 172
 (ad  es.  sono  stabiliti  criteri assai rigidi per la individuazione
 delle c.d. aree  sensibili).
   Giova osservare, infine, che la Corte europea di giustizia ha  gia'
 ripetutamente  condannato l'Italia per la "permissivita'" del sistema
 autorizzatorio previsto e per l'insufficienza delle  sanzioni  penali
 contemplate  dall'art. 22 in relazione alle prescrizioni contenute in
 autorizzazione (v. Corte di giust. 28 febbraio  1991  e  13  dicembre
 1990);  la  nuova normativa aggrava e accentua ulteriormente, quindi,
 tale status di inadempienza italiana verso l'Ordinamento comunitario.
   2.2. - Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione.
   L'art. 25 Cost. stabilisce il principio della riserva di  legge  in
 materia  penale,  assegnando  in  tal modo una competenza assoluta al
 legislatore  (rectius:  al  Parlamento)  a  stabilire  le  scelte  di
 politica   criminale,   quantomeno  con  riguardo  alle  c.d.  scelte
 caratterizzanti  (aspetti  fondamentali  della  disciplina;  condotte
 punibili; sanzioni con indicazione del tipo e dei limiti edittali).
   La riserva di legge, poi, ha un valore garantista nel duplice senso
 di consentire la partecipazione  di  tutti  i  soggetti  parlamentari
 all'elaborazione della disciplina (cosa non possibile se la normativa
 fosse   adottata  con  atto  regolamentare)  e  di  circoscrivere  la
 discrezionalita' dell'esecutivo e dell'amministrazione e, in  genere,
 dei soggetti chiamati a dare applicazione alla legge.
   L'utilizzo  del  decreto-legge (nonche' dei decreti legislativi) in
 materia penale  presuppone  che,  in  via  preventiva,  sussistano  i
 requisiti di necessita' ed urgenza e che, in ogni caso, si realizzi e
 venga   assicurato   l'intervento   del   Parlamento   in   posizione
 sovraordinata quale organo cui e'  rimesso  il  potere  di  conferire
 stabilita'  e  durevolezza con la legge di conversione a disposizioni
 normative destinate, in caso contrario, a decadere una volta  decorso
 inutilmente  il  termine  di  giorni 60 indicato dall'art. 77, ultimo
 comma, della Costituzione.
   Cio' premesso, giova osservare, in primo luogo, che, nella  materia
 in  esame,  e'  stata  sottratta di fatto al  Parlamento per circa un
 anno e mezzo (in virtu' della reiterazione dei decreti) la competenza
 a disporre in  materia  penale  con  attribuzione  all'esecutivo  del
 relativo potere di bilanciamento e valutazione degli interessi. Anche
 la   facolta'   -  di  cui  all'ultimo  comma  dell'art.  77    della
 Costituzione - di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla
 base dei decreti non convertiti e'  stata  poi  fortemente  compressa
 (art. 2 della legge di conversione) atteso il numero dei decreti (ben
 8)  e  la  varieta'  della  disciplina  e  l'inevitabile  prodursi di
 giudicati e altre situazioni ormai irrevocabili.
   In secondo luogo,  la  decretazione  e'  avvenuta  in  assenza  dei
 presupposti costituzionali di necessita' e  d'urgenza.
   Secondo  un acuto orientamento dottrinale la necessita' e l'urgenza
 vanno riferite non gia' al contenuto del  provvedimento adottato,  ma
 al provvedere in se'.
   Cio'  non  significa, peraltro, che qualunque tipo di provvedimento
 sia idoneo a soddisfare la necessita'  di  provvedere:  e'  evidente,
 infatti,  che  l'attivita'  di  legiferazione deve essere commisurata
 alle  esigenze  e   alle   finalita'   che   postulano   l'intervento
 necessitato.
   In  questo  senso,  i presupposti costituzionali di cui all'art. 77
 della Costituzione potevano essere individuati  nella  necessita'  di
 rispettare i termini per la recezione della direttiva 91/271/CEE cit.
 (o,  comunque,  di non incrementare il ritardo essendo gia' decorsi i
 termini imposti).
   Questo rilievo, peraltro, ha validita' nella misura in cui  con  la
 legge n. 172 hanno fatto ingresso nel nostro Ordinamento i principi e
 i contenuti della direttiva comunitaria.
   In  realta',  come  prima  evidenziato, la normativa in esame si e'
 mossa lungo percorsi antitetici rispetto a  quelli  imposti  in  sede
 comunitaria  raggiungendo  obbiettivi opposti a quelli che imponevano
 l'intervento.
   Va osservato, inoltre, che lo  strumento  utilizzato  era  comunque
 errato  e  inadatto  allo scopo poiche' la legge comunitaria del 1993
 aveva predisposto la diversa strumentazione del  decreto  legislativo
 (v. art. 37).
   Appare evidente, quindi, che la necessita' di introdurre nel nostro
 Ordinamento la direttiva 271 non puo' essere validamente invocata per
 sostenere la legittimita' dell'intervento dell'esecutivo.
   Si  deve  anzi  rilevare  che,  grazie al nuovo testo normativo, lo
 Stato Italiano ha commesso un nuovo "fatto illecito" suscettibile  di
 essere  sanzionato a livello internazionale: infatti, non solo non ha
 rispettato  i  termini  imposti  dalla   direttiva   per   consentire
 l'ingresso nel nostro Ordinamento della nuova disciplina, ma ha anche
 creato  una  regolamentazione  positiva  in  contrasto con i principi
 regolatori e ispiratori della disciplina comunitaria.
   La mancanza  di  presupposti  d'urgenza,  pertanto,  non  puo'  che
 determinare  l'illegittimita'  del  decreto-legge  n. 79 del 17 marzo
 1995 (nonche' di tulli i decreti precedenti) e, conseguentemente,  la
 caducazione  delle  norme  qui  contestate  e,  su un piano generale,
 dell'intera legge di conversione.
   Infatti,   come   recentemente   affermato   dalla   stessa   Corte
 costituzionale   (sentenza   n.   29   del  12-27  gennaio  1995,  in
 motivazione) "la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante
 la necessita' e l'urgenza di provvedere  tramite  l'utilizzazione  di
 uno  strumento  eccezionale  come  il  decreto-legge,  costituisce un
 requisito di validita' costituzionale del predetto atto di  modo  che
 l'eventuale  mancanza  di quel presupposto costituisce tanto un vizio
 di legittimita' costituzionale del decreto-legge, quanto un vizio  in
 procedendo  della  stessa  legge  di  conversione avendo quest'ultima
 valutato erroneamente l'esistenza di rapporti di validita' in realta'
 insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che  non  poteva
 essere oggetto di conversione".
   3. - Per tutte le considerazioni esposte, la questione nel presente
 processo  e' rilevante - poiche' il giudizio non puo' essere definito
 in  modo  indipendente   dalla   risoluzione   della   questione   di
 legittimita'  costituzionale - e non manifestamente infondata per cui
 deve essere sollevata d'ufficio.