IL PRETORE
   Visti:
     gli atti difensivi delle parti;
     l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903;
     la   sentenza   29-31   dicembre   1993,   n.   495  della  Corte
 costituzionale;
     l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 70, 71, 72, 73, 81, 101, 102, 104, 111, 134, 136 e  137
 della Costituzione;
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai
 sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e
 dell'art.  23  della  legge  11 marzo 1953, n. 87, di rimessione alla
 Corte costituzionale di  questioni  di  legittimita'  costituzionale,
 rilevate  d'ufficio,  nella  causa  r.g.  n.  4369/95,  in materia di
 previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa da Spagnoli  Mercede,
 elettivamente   domiciliata  in  Brescia  presso  l'avv.  Gian  Maria
 Maffezzoni, il quale la rappresenta e difende in forza di  procura  a
 margine  dell'atto  introduttivo  del  giudizio, ricorso, ricorrente,
 contro l'I.N.P.S.  - Istituto nazionale della previdenza sociale,  in
 personale  del  presidente  pro-tempore,  rappresentato  e difeso dai
 dott. procc. Oreste Manzi e Alfonso Faienza, procuratori per  mandati
 alle  liti  a  rogito  del  dott. Lupo, notaio in Roma, con domicilio
 eletto nel proprio ufficio di avvocatura in Brescia, via Cefalonia n.
 49, convenuto.
   1.  -  Brevi premesse sulle deduzioni e conclusioni formulate dalle
 parti in causa.
   Nelle conclusioni la parte ricorrente chiede a questo  pretore,  di
 dichiarare  il  diritto  di  parte  ricorrente  alla  fruizione della
 prestazione pensionistica spettante ai superstiti in ragione del  60%
 della  pensione  diretta  integrata al minimo gia' in godimento e che
 sarebbe, comunque, spettata al coniuge deceduto e, per l'effetto,  di
 condannare  l'INPS  al  pagamento della somma risultante dai conteggi
 predisposti  dall'INPS,  dalla  richiesta  CTU,  oltre  rivalutazione
 monetaria e interessi come per legge.
   L'INPS,  ha  espresso le seguenti, riportate testualmente, graduate
 conclusioni: respingere il ricorso "in via preliminare,  per  carenza
 dei requisiti fattuali di cui alle premesse di fatto necessari.
   Nel   merito:  respingere  il  ricorso  siccome  inammissibile  per
 scadenza del termine di decadenza  per  agire  in  giudizio  previsto
 dalle vigenti disposizioni.
   In  via subordinata: respingere la domanda per carenza di interesse
 in quanto il  ricorrente  gode  di  pensione  di  reversibilita'  per
 importo integrato al minimo o superiore.
   Respingere   la   domanda   di  riliquidazione  della  pensione  di
 reversibilita' rapportata al trattamento minimo del  dante  causa  in
 quanto riferita a periodi anteriori alla pubblicazione della sentenza
 della Corte costituzionale in materia".
   L'istituto  resistente  ha, inoltre, pur senza addurre argomenti di
 supporto, senza assumere conclusioni  specifiche  e  senza  sollevare
 formale  eccezione  di  legittimita'  costituzionale,  sostenuto  che
 l'interpretazione dell'art. 22 legge n. 903/65 nei termini  addittivi
 voluti  dalla  sentenza n. 495/93 sarebbe, comunque, in contrasto con
 l'art. 81 della Costituzione.
   2. - Considerazioni introduttive generali sulle  singole  questioni
 di incostituzionalita'.
   A)   Questo   pretore,  con  giudisprudenza  ormai  costante,  nega
 l'efficacia vincolante per  l'Autorita'  giudiziaria  delle  sentenze
 della  Corte  costituzionale  di  natura  interpretativa,  addittiva,
 manipolativa (di  tutte  le  decisioni,  cioe',  che  possono  essere
 definite  "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute non
 conformi all'art. 136 della Costituzione.
   A tale proposito  non  sembra  fuori  luogo  ammettere  il  disagio
 provato  sin  dall'inizio  nel  pronunciare  sentenze  fortemente  in
 contrasto con varie decisioni del giudice delle leggi, ma soprattutto
 appare importante riconoscere che tale disagio si  e'  andato  sempre
 piu'   aggravando,   man  mano  che,  nell'evoluzione  della  propria
 giurisprudenza critica, questo pretore si e' reso  conto  della  vera
 portata   e   gravita'   del   problema   costituito  dalle  sentenze
 interpretative,  addittive,  manipolative,  su   tutto   il   sistema
 normativo,  poiche'  il  fenomeno dell'intervento "legislativo" della
 Corte costituzionale e' diffuso e di enorme  dimensione  e  determina
 l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte.
   Le  cause  storiche sono molteplici, ma possono individuarsi quelle
 piu' evidenti: il sempre piu' marcato  allontanamento  dalla  lettera
 dell'art.  136,  primo comma, della Costituzione, dopo una prima fase
 di  corretta  applicazione  della  stessa  norma;  la   "fuga   dalla
 responsabilita'"  del  legislatore,  sovente spettatore passivo della
 progressiva   sottrazione   della   funzione   attribuitagli    dalla
 Costituzione  e,  quanto meno, inefficiente nell'esercitare il potere
 specifico   attribuitogli   dal   secondo  comma  dell'art.  136;  la
 diffusione della dottrina e  nella  giurisprudenza  di  merito  e  di
 legittimita'   prevalenti   di  una  concezione  evoluzionistica  del
 diritto, con base di pura natura  giusnaturalistica,  non  rispettosa
 dei  dati  testuali  e della rigidita' della legge fondamentale della
 Repubblica.
   Non e' fuor di luogo affermare che, sia al fine di sanare,  per  il
 passato,  quella situazione sopra descritta di doppia normativa e sia
 al fine di precluderne il ripetersi in  futuro,  le  varie  autorita'
 dello  Stato coinvolte hanno, nell'ambito delle proprie attribuzioni,
 possibilita'  d'intervento,  ma  non  puo'  tacersi   che   solo   il
 legislatore  puo'  - e ben potrebbe subito dopo aver avuto conoscenza
 della presente ordinanza (a seguito della notifica al Presidente  del
 Consiglio  dei Ministri e della comunicazione ai Presidenti delle due
 Camere del Parlamento) e, quindi, ancor prima  dell'incardinarsi  del
 giudizio   dinanzi   alla   Corte  costituzionale  -  risolvere,  con
 l'emanazione delle norme di  legge  ritenute  piu'  idonee,  in  modo
 definitivo, organico e generale il problema qui messo in risalto.
   Tali considerazioni di portata generale non sono fini a se' stesse,
 ma  riguardano  direttamente i temi della presente ordinanza, poiche'
 questo  giudice  remittente,  benche'   convinto   della   fondatezza
 giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare l'efficacia
 delle  decisioni  "legislative"  della Corte costituzionale, non puo'
 trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente"  che  applica
 tali   decisioni   come  se  fossero  norme  di  legge,  affermandone
 l'obbligatorieta'.
   Ne' poteva evitarsi di  mettere  in  piena  luce  la  rilevanza  di
 carattere  generale  sul diritto positivo vigente delle questioni che
 il giudice delle leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve  essere
 affermato  con la massima chiarezza) una pronuncia di accoglimento di
 una o piu' delle questioni, tra quelle qui  sollevate,  attinenti  le
 problematiche  sopra evidenziate non potrebbe limitare i suoi effetti
 alle  sole  norme  direttamente  e   specificamente   colpite   dalla
 dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale,  ma comporterebbe la
 caducazione di quell'intero sistema di "diritto vivente" - del  quale
 si  e'  detto,  parallelo al diritto scritto e codificato - che nella
 realta' applicativa giurisprudenziale domina da piu' decenni.
   In verita' (anche a  non  voler  tener  conto  di  quanto  sin  qui
 esposto), tutta la vasta problematica legata al non facile e doloroso
 rifiuto  dell'efficacia  delle sentenze "legislative" della Corte non
 e' di poco conto e non e' superabile agevolmente -  contrariamente  a
 quanto   si   e'   affermato  in  dottrina  -  con  la  semplicistica
 affermazione dell'assoluta prevalenza  delle  decisioni  della  Corte
 costituzionale  su  quelle  pretorili, poiche' non puo' dubitarsi del
 fatto che il giudice deve, sempre e solo, applicare la legge e non e'
 questione  da  poco  identificare  la  legge   vigente   nell'attuale
 paradosso  normativo,  gia' ampiamente descritto: e' ben lecito, anzi
 e' assolutamente doveroso, per il giudice, nel dubbio sul testo delle
 disposizioni da applicare (se quello promulgato  dal  legislatore,  o
 quello  revisionato  dalla Corte), ricercare la soluzione piu' vicina
 ai  principi  fondamentali  sanciti  nella  nostra  Costituzione  per
 regolare e tutelare la funzione dell'amministrazione della giustizia,
 con  necessaria scelta in favore della legge, anche a costo di negare
 l'efficacia delle sentenze del giudice delle leggi.
   Tutto  cio'  che  si  e'  sinora rappresentato in via generale vale
 anche in relazione alla sentenza n. 29-31 dicembre 1993, n. 495 della
 Corte costituzionale che ha  modificato  l'art.  22  della  legge  21
 luglio 1965, n. 903, determinando l'esistenza di una norma "virtuale"
 divenuta  "diritto  vivente", della quale questo pretore, benche' non
 ravvisi, allo stato, alcuna ragione di natura giuridica per mutare la
 propria giurisprudenza contraria (gia' ricordata), deve tenere conto,
 poiche' nella realta' applicativa la predetta versione  dell'art.  22
 della legge n. 903/65 ha prevalso su quella approvata dal Parlamento.
   Poiche'  deve  darsi  atto  della realta' suddetta e poiche' appare
 vulnerato l'art. 136, primo  comma,  della  Costituzione,  non  resta
 altro che sollevare questione di legittimita' costituzionale a carico
 della norma "virtuale" sopra individuata.
   B)  In  forza  delle  stesse  argomentazioni che precedono, risulta
 anche  rilevante  l'accertamento  della  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  30,  terzo comma, della legge n. 87 del 1953, in relazione
 all'art.  136,  primo  comma,  della  Costituzione,  poiche'  e'   in
 particolare  con  riferimento al testo del predetto art. 30 che viene
 affermata   l'efficacia   ex   tunc   delle   sentenze   dichiarative
 d'incostituzionalita',  in  aperta  e  piena  violazione  del dettato
 costituzionale.
   E', invero, piu'  che  evidente  che,  qualora  venisse  dichiarata
 l'incostituzionalita'  dell'art.  30,  terzo  comma,  della  legge n.
 87/53,   la   tesi   dell'efficacia   ex   tunc    delle    decisioni
 d'incostituzionalita',    sostenuta    dalla    dottrina    e   dalla
 giurisprudenza dominanti, perderebbe l'unico (per  quanto  labile  ed
 insignificante   e   gia'  disatteso  da  questo  pretore)  argomento
 testuale, cosi' rendendo  chiaro  a  tutti,  anche  ai  piu'  fervidi
 fautori   della   "costituzione   materiale",   che  le  norme  della
 Costituzione  formale  sono  le  uniche  vigenti  e   devono   essere
 rispettate.
   Nella   presente   causa   la  dichiarazione  d'incostituzionalita'
 dell'art.  30 renderebbe indiscutibile la  sentenza  di  rigetto  del
 ricorso,  per  assenza  di  norma regolatrice del diritto, risultando
 applicabile il testo originario dell'art. 22 della legge  n.  903/65,
 poiche'   la   sua   inefficacia,  prendendo  decorrenza  dal  giorno
 successivo alla pubblicazione della sentenza n. 495/93,  non  avrebbe
 alcun  effetto  sulla  situazione  giuridica  dedotta  nella presente
 controversia, precedente la pubblicazione della decisione della Corte
 costituzionale: constatazione questa che chiarisce in modo inequivoco
 la rilevanza (anche se non esclusiva)  nel  giudizio  della  medesima
 questione.
   C)  Sempre avendo presenti le considerazioni generali sviluppate al
 punto A), e', altresi', necessario, nella presente  fattispecie,  per
 l'autorevolezza  della  fonte, l'esame della sentenza n. 495/1993, al
 fine di verificare se al contenuto della decisione stessa  si  possa,
 comunque  (pur  confermando  tutte  le  valutazioni critiche espresse
 contro le sentenze "legislative"), aderire per via di interpretazione
 estensiva di altre norme di legge ovvero per analogia.
   L'eventuale  adesione  dovrebbe  comportare  il   mutamento   della
 precedente  giurisprudenza  di  questo  pretore,  il  quale ha sinora
 negato la fondatezza della domanda (alcuni ricorsi aventi  lo  stesso
 oggetto  di  quello  oggi  in  esame sono stati, infatti, ultimamente
 respinti), con  conseguente  potenziale  pronuncia  di  accoglimento,
 qualora venissero escluse altre immanenti ragioni di rigetto.
   Tuttavia,  osta  a  tale  eventualita'  e  comunque  ne costituisce
 insuperabile  ed  assoluto  impedimento  giuridico  un   rilievo   di
 incostituzionalita'  di  particolare  carattere, in parte coincidente
 con quello affermato dall'INPS nella memoria difensiva, al quale gia'
 si  e'  fatto  cenno:     dubita,  infatti,  questo   giudice   della
 legittimita' costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903 del 1965,
 come "manipolato" nella sentenza n. 495/93, in relazione all'art. 81,
 ultimo  comma,  della  Costituzione  e  tale  dubbio,  sviluppato  in
 questione di legittimita'  costituzionale  rilevata  d'ufficio,  deve
 essere risolto dal necessario intervento della Corte costituzionale.
   D)  Poiche'  la  controversia  puo' essere risolta sotto molteplici
 profili,  ciascuno  dei  quali  da  solo  sufficiente  per   motivare
 (l'obbligatorieta'     della     motivazione     dei    provvedimenti
 giurisdizionali e' sancita nell'art.  111 della Costituzione,  tra  i
 principi  fondamentali delle norme sulla giurisdizione) la pronuncia,
 con consequenziale possibilita' per questo pretore di  scegliere,  se
 fondare la propria decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli o
 limitazioni  (si  tratta,  infatti, di scelta insindacabile, perche',
 nell'obbedienza al  dettato  dell'art.    111  citato,  indiscutibile
 manifestazione di autonomia e di libera determinazione dell'Autorita'
 giudiziaria,  secondo  la  previsione  degli  artt.  101 e 104, primo
 comma, della Costituzione),  il  Giudice  delle  leggi  non  dovrebbe
 esaminare    nel    merito    le    suddette   questioni,   negandone
 l'ammissibilita',  perche'  non  rilevanti,  potendo  certamente   il
 giudizio  "essere definito indipendentemente dalla risoluzione" delle
 qui  sollevate  questioni  di   legittimita'   costituzionale,   come
 chiaramente  recita  l'art.  23, secondo comma, della legge n. 87 del
 1953.    Deve,  pertanto,  essere  sollevata  d'ufficio   l'ulteriore
 questione  di  legittimita'  costituzionale, a carico della specifica
 disposizione, come sopra riportata nella sua testualita', del  citato
 art. 23, comma 2, della legge n. 87/53, per violazione dell'art. 134,
 nonche' degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.
   Questione  che  la Corte dovra' esaminare in via preventiva al fine
 di passare, in caso di suo accoglimento,   all'esame delle  questioni
 precedentemente individuate.
    E)  Per  le  stesse  ragioni,  appena sopra esposte, con le stesse
 finalita' e con il  medesimo  carattere  preliminare,  deve  altresi'
 essere   sollevata   la   questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti
 che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi  di
 legittimita'  costituzionale,  per palese violazione della riserva di
 legge costituzionale  prevista  dall'art.  137,  primo  comma,  della
 Costituzione.
   3.   -   Elenco  e  definizione  delle  questioni  di  legittimita'
 costituzionale.
   A) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge  21
 luglio  1965,  n.  903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre
 1993, n. 495 della Corte costituzionale, per violazione dell'art 136,
 primo comma, nonche' degli  artt.  101  e  104,  primo  comma,  della
 Costituzione.
   B)  Questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 30, terzo
 comma, della legge 11 marzo 1953  n.  87,  per  violazione  dell'art.
 136, primo comma, della Costituzione.
   C)  Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21
 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza n.  495/93  della
 Corte  costituzionale,  per  violazione  dell'art.  81, ultimo comma,
 della Costituzione.
   D) In  via  preliminare  rispetto  alla  precedente,  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  23,  comma 2, della legge 11
 marzo 1953 n.   87, ove prevede che "il  giudizio  non  possa  essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale"  e  limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione  dell'art. 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della
 Costituzione.
   E) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti  indicati
 in  quella sub D), questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 23 della legge ordinaria 11  marzo  1953,  n.  87,  nelle  parti  che
 stabiliscono  condizioni  e  forme  di  proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge  costituzionale  prevista  dall'art.  137,  primo  comma, della
 Costituzione.
   4. - Motivazione delle singole questioni.
   A) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    22,  legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza 29-31 dicembre 1993 n. 495/93  della  Corte  costituzionale,
 per vilolazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e
 104,  primo  comma,  della  Costituzione.    La  Corte  ha dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale del citato art.  22  della  legge  n.
 903/65,   "nella  parte  in  cui  non  prevede  che  la  pensione  di
 riversibilita' sia calcolata in  proporzione  alla  pensione  diretta
 integrata  al  trattamento  minimo gia' liquidata al pensionato o che
 l'assicurato avrebbe comunque diritto  di  percepire".    Si  ritiene
 nella  dottrina  e nella giurisprudenza prevalenti che tale decisione
 della Corte costituzionale (come le altre del  genere  che  e'  stato
 gia'  in  precedenza  qualificato  "legislativo" per ricomprendere in
 un'unica definizione tutte le sentenze del  giudice  delle  leggi  di
 natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle
 che  non  si  limitano a sancire semplicemente l'illegittimita' delle
 norme  che  violano  la   Costituzione)   abbia   valore   correttivo
 dell'incostituzionalita'  della  norma ed efficacia erga omnes. cosi'
 da dover essere applicata (per  di  piu'  ex  tunc,  ma  di  cio'  si
 trattera' piu' avanti) dall'autorita' giudiziaria.
   Questo  giudice  (abbandonata  ormai  la propria giurisprudenza che
 aderiva all'erronea tesi dominante appena sopra sintetizzata)  e'  di
 contrario avviso e deve affermare senza esitazione che l'art.
  22  della legge 21 luglio 1965 n. 903 e' rimasto in vigore nella sua
 integrale formulazione letterale, quale norma di legge  dello  Stato,
 regolarmente  approvata  (art. 72 della Costituzione) dal Parlamento,
 regolarmente   promulgata   dal   Presidente   della   Repubblica   e
 regolarmente  pubblicata  (art.  73  della  Costituzione), poiche' la
 sentenza "legislativa" n. 495/93 della Corte  costituzionale  non  e'
 idonea   a  determinare  la  cessazione  dell'efficacia  della  norma
 dichiarata illegittima in una parte non scritta (nella parte  in  cui
 non  prevede  ...),  posto  che l'evento dell'inefficacia si realizza
 solo  quando  la  dichiarazione  di   illegittimita'   costituzionale
 colpisce  la  letteralita'  dell'intera  norma  o  di  una  sua parte
 (scritta: deve essere ribadito).    In  altri  termini:  le  sentenze
 "legislative"  non  possono  (ma  si veda anche la diversa ipotesi di
 soluzione  giuridica  della  questione,  piu'   avanti   prospettata)
 determinare  gli  effetti previsti dall'art.  136, primo comma, della
 Costituzione, ne' hanno efficacia modificativo del diritto  positivo,
 poiche'  non  e'  attribuito  alla  Corte  costituzionale  il  potere
 legislativo, ne' una  funzione  di  interpretazione  autentica  della
 legge.  E',  infatti,  al solo legislatore che la nostra Costituzione
 attribuisce il potere, in via generale (art. 70 e  seguenti,  nonche'
 art.  117  per cio' che concerne le Regioni) e in via specifica (art.
 136, secondo comma), di creare  la  norma  di  legge,  giuridicamente
 vincolante.    In  tema si propone un'ultima nota d'interesse: in una
 recente (rimasta pero' isolata); sentenza (la n. 218 del 29  maggio-1
 giugno 1995) la Corte costituzionale ha ritenuto di dover motivare la
 decisione, qualificata come addittiva, affermando che "La reductio ad
 legitimitatem  e'  possibile  con  una  pronuncia  addittiva, perche'
 desumibile ..."   (e' irrilevante  il  seguito):  anche  senza  voler
 attribuire  un  significato  "freudiano"  alla  rarita' dell'espressa
 motivazione sull'intervento addittivo, appare, tuttavia,  lecito,  se
 non  altro  ad  colorandum,  portare all'attenzione del giudice delle
 leggi il precedente,  giacche'  puo'  ritenersi  che  costituisca  un
 sintomo  di  iniziale  ripensamento  sulla  liceita'  del  genere  di
 sentenze qui criticate.
   Tanto rilevato e  rappresentato  con  riferimento  al  primo  comma
 dell'art.    136,  si  deve passare alla discussione inerente l'altro
 aspetto d'incostituzionalita' dell'art. 22  della  legge  n.  903/65,
 come   modificato   dall'intervento  del  giudice  delle  leggi,  per
 violazione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione.
   L'interpretazione  della  legge  e'  attivita'  intellettuale   non
 riservata:    ogni operatore del diritto ed ogni singolo cittadino e'
 ovviamente libero di interpretare la  normativa,  per  tutti  i  fini
 possibili, senza limiti.
   Ma  quando  l'interpretazione  e'  correlata all'applicazione della
 legge in sede giudirisdizionale, quando cioe' e' legata alla funzione
 specifica dell'amministrazione della giustizia in nome del  popolo  e
 nella  soggezione  alla  sola  legge (101 della Costituzione), allora
 l'attivita'  d'interpretazione  e'  riservata  ed  esclusiva  perche'
 demandata  al  giudice (102 della Costituzione per quello ordinario),
 autonomo ed indipendente da ogni  altro  potere  (104,  primo  comma,
 della  Costituzione).    Ne  discende che, qualora una norma di legge
 trovi nella giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimita',
 diverse soluzioni interpretative, non puo' essere ritenuto lecito  un
 intervento di sostanziale natura interpretativa autentica della Corte
 costituzionale,  che (come nel caso di specie) determini una modifica
 del  contenuto  della  norma,  pur  non  incidendo  sul  suo   tenore
 letterale,  cosi'  da  imporre  una  specifica scelta, fondata su una
 delle possibili interpretazioni del dettato normativo, poiche' in tal
 modo viene concretamente violato il  principio  della  divisione  dei
 poteri, con la compressione di quello giudiziario.
   Cio'   non   significa   che  il  giudice  delle  leggi  non  possa
 interpretare la legge (negano sarebbe pura assurdita'), ma  significa
 solo  che  non  e'  consentito a nessun potere (inteso in senso lato)
 dello  Stato  e,  pertanto,  neppure  alla  Corte  costituzionale  di
 superare   i   confini  delle  proprie  attribuzioni.    E  la  Corte
 soprattutto deve esercitare la sua elevatissima  funzione,  posta  al
 vertice  delle  garanzia  costituzionali,  nel piu' assoluto rispetto
 delle attribuzioni degli altri poteri (il termine viene usato  sempre
 nel  significato piu' ampio e non strettamente tecnico), poiche' ogni
 sua  decisione  che  comporti  il  superamento  della   sfera   delle
 specifiche  competenze,  rischia di scardinare il delicato equilibrio
 istituzionale voluto dalla legge fondamentale della Repubblica, senza
 neppure la possibilita' di un rimedio giuridico, poiche'  "contro  le
 decisioni   della   Corte   costituzionale   non  e'  ammessa  alcuna
 impugnazione" (art. 137, ultimo comma, della Costituzione) e  poiche'
 deve  escludersi  l'ammissibilita'  dell'istituto  del  giudizio "sui
 conflitti di attribuzione tra  i  poteri  dello  Stato";  (art.  134,
 secondo  comma,  della  Costituzione), se non altro, perche' la Corte
 costituzionale ne sarebbe nel contempo parte e giudice.
   Se questa questione, in uno o  piu'  dei  rilievi  di  legittimita'
 costituzionare  prospettati, venisse accolta dal giudice delle leggi,
 la  dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale  della   versione
 normativa  dell'art.  22  legge  n.  903/65,  come  risultante  dalla
 sentenza n. 495/93, dovrebbe comportare la perdita di efficacia della
 stessa versione ed il ripristino  (deve  presumersi)  della  versione
 originale  della  norma,  quella approvata dal  legislatore del 1965,
 con ovvia rilevanza nel presente giudizio pretorile.   Per  il  vero,
 pero',  la  Corte  costituzionale potrebbe dare una diversa soluzione
 giuridica  in   ordine   agli   effetti   delle   proprie   decisioni
 "legislative",  affermando  in  modo  esplicito  che  queste non sono
 idonee a modificare,  integrare  e  correggere  le  norme  dichiarate
 incostituzionali,  bensi'  puramente  e  semplicemente determinano la
 radicale perdita di efficacia delle medesime norme,  poiche',  lo  si
 puo'  ben  sostenere  con  piena  logica  giuridica  e  razionalita',
 l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella  parte  in
 cui  ..."  si  ripercuote  sull'intera norma, giacche' questa nel suo
 complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che
 la   Corte   rispettivamente   afferma   essere   costituzionalemente
 illegittimo o legittimo.
   Le  conseguenze  di tale soluzione radicale potrebbero essere assai
 mepo dirompenti di quelle causate dalla prima scelta indicata  sopra,
 se   non   altro,  perche'  eviterebbero  al  sistema  giuridico  una
 paralizzante crisi interpretativa, dipendente  dalla  difficolta'  di
 stabilire,  se  la  norma dichiarata incostituzionale dalla Corte con
 intervento "legislativo" possa ritenersi ripristinata in tutta la sua
 primigenia  portata,  ovvero  se  debba  considerarsi  implicitamente
 travolta  in toto dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale
 della lettura volutane dalla Corte, ovvero ancora se  sia  necessario
 (ipotesi  questa,  pero',  da  escludere  recisamente)  attendere  un
 intervento del  legislatore  diretto  a  confermare,  o  abrogare,  o
 modificare la norma.
   B)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  30, terzo comma, della legge 11  marzo  1953  n.  87,  per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione.
   L'art.   136,   primo   comma,   della  Costituzione  cosi  dispone
 testualmente:      "Quando   la   Corte   dichiara   l'illegittimita'
 costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge,
 la  norma  cessa  di  avere  efficacia  dal  giorno  successivo  alla
 pubblicazione della decisione".
   L'art.  30,  terzo  comma, della legge n. 87 del 1953, prevede: "Le
 norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione  dal
 giorno   successivo   alla  pubblicazione  della  decisione".    Sono
 possibili due soluzioni interpretative dell'art. 30 in  esame:    una
 fedele  al  dettato  costituzionale,  l'altra  non  rispettosa  della
 lettera e del contenuto dell'art. 136 della  Costituzione:  la  prima
 attribuisce un puro significato esplicativo all'art. 30, evidenziando
 l'ovvia conseguenza della perdita di efficacia della norma dichiarata
 incostituzionale,  cioe' la sua inapplicabilita' per regolamentare le
 situazioni giuridiche sorte successivamente alla pubblicazione  della
 decisione della Corte; la seconda tenta di modificare la costituzione
 formale   pe   farla  soggiacere  alla  volonta'  dei  fautori  della
 "costituzione materiale", sostenendo che il divieto  di  applicazione
 delle    norme    incostituzionali,    derivante   dalla   originaria
 incostituzionalita' delle  norme  stesse,  determina  necessariamente
 l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte.
   A  contrastare  la  tesi  che  sostiene  l'efficacia  ex tunc delle
 sentenze della Corte costituzionale si ergono insuperabili, non  solo
 la lettera del primo comma dell'art. 136 della Costituzione, ma anche
 il secondo comma dello stesso articolo.
   Per  chiarire  esaustivamente  quanto  appena  sopra  affermato  e'
 sufficiente riportare quanto gia'  sostenuto  da  questo  pretore  in
 varie  decisioni  (tra  le altre, nella sentenza n. 1534/95 emessa in
 data 3 luglio 1995, nella causa Zeni Angela contro INPS):  "Il  primo
 comma dell'art.  136 della Costituzione cosi' testualmente afferma" -
 omissis:  la  norma  e'  sopra  riprodotta  -  :  e' evidente, per il
 significato     inequivocabile      della      disposizione,      che
 corrispondentemente  viene  negata  qualsiasi  efficacia ex tunc alla
 dichiarazione  d'incostituzionalita'  e  che  la   norma   dichiarata
 incostituzionale  e' perfettamente efficace (e, per quanto cio' possa
 apparire paradossale, anche  legittima)  sino  al  giorno,  compreso,
 della  pubblicazione  della  decisione  della  Corte costituzionale -
 omissis - "L'esattezza della tesi qui  sostenuta  trova  conferma  di
 forte  valore  giuridico nell'assenza di una previsione (difficile da
 ipotizzare, peraltro) di legge che limiti, imponendo alla Consulta il
 rispetto  dell'art.  81  della  Costituzione,  gli  effetti  talvolta
 dirompenti   (da   molti   denunciati   e  da  tutti  indistintamente
 riconosciuti)  sul  bilancio  dello  Stato  della  valenza  ex   tunc
 attribuita  contra  legem  alle  sentenze  della Corte costituzionale
 sulle norme dichiarate incostituzionali: e', ancor piu' che evidente,
 lapalissiano che l'unica esatta interpretazione dell'art. 136,  primo
 comma,  della  Costituzione,  nel  senso  imposto  dalla  sua univoca
 formulazione  letterale  e  qui   sostenuto,   rende   superflua   ed
 insussistente  l'esigenza  di ridurre o regolamentare l'impatto sulla
 finanza pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non
 essendo  lecito  attribuire  efficacia  ex  tunc  alle  dichiarazioni
 d'illegittimita'  costituzionale,  nessun  danno puo' derivarne, cio'
 che spiega razionalmente perche'  il  legislatore,  costituzionale  e
 ordinario,  non  abbia  previsto  e  ritenuto di dover creare qualche
 strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto  dell'art.  81
 della Costituzione.
   In  altri  termini:  nessuna  necessita'  di  limitare  gli effetti
 economici delle sentenze della Corte costituzionale sussiste, poiche'
 esse non sono idonee, secondo la previsione del primo comma dell'art.
 136, a determinare situazioni di danno".  Il rigore logico e la piena
 razionalita' dell'art. 136, primo comma, trova ulteriore conferma nel
 secondo  comma:  "La decisione della Corte e' pubblicata e comunicata
 alle Camere e ai Consigli regionali interessati,  affinche',  ove  lo
 ritengano necessario provvedano nelle forme costituzionali:  e' quasi
 superfluo  far  notare  che questa disposizione e' diretta ad imporre
 (non si dimentichi mai che  il  potere  attribuito  alle  istituzioni
 della  Repubblica  e' potere-dovere e non arbitrio) al legislatore di
 provvedere alla soluzione dei problemi  causati  dalle  dichiarazioni
 d'incostituzionalita',   problemi   derivanti,  per  il  futuro,  dal
 possibile vuoto normativo e, per  il  passato,  dalla  necessita'  od
 opportunita'  di  riparare  (secondo la discrezionalita' politica del
 legislatore  e,  dunque,  anche  e  soprattutto  nei   limiti   delle
 compatibilita'  di  bilancio);  i  danni  eventuali determinati dalle
 norme incostituzionali.
   Cio' che conferma l'esattezza dell'affermazione, secondo  la  quale
 l'esigenza e l'obbligo di rispettare l'art. 81 della Costituzione e',
 come solo puo' e deve essere, a carico del legislatore".
   Per  tentare  di  superare  il  ragionamento  sopra  riprodotto, si
 dovrebbe spiegare,  perche'  il  legislatore  costituzionale  avrebbe
 previsto,  nel  secondo  comma  dell'art.  136, la comunicazione alle
 Camere della decisione  della  Corte  "affinche',  ove  lo  ritengano
 necessario  provvedano  nelle  forme  costituzionali",  se non avesse
 voluto chiarire con forza che solo al legislatore  e'  attribuito  il
 potere  di  provvedere,  nelle  forme costituzionali, alla produzione
 legislativa eventualmente necessaria  per  risolvere  le  conseguenze
 dell'inefficacia  delle  norme dichiarate incostituzionali, posto che
 altre norme della Costituzione (artt.  70 e seguenti)  gia'  regolano
 l'attivita'  legislativa  e  non  si  puo'  certo ridurre l'art. 136,
 secondo comma, a norma puramente ripetitiva senza valore alcuno.
   A tali, gia' sufficienti, argomenti non sembra superfluo aggiungere
 brevemente alcuni elementi di fatto storici, con lo scopo  dichiarato
 di  rendere  difficilmente praticabili possibili obiezioni fondate su
 discorsi inerenti la volonta' del legislatore e la ratio legis,  cari
 ai  giusnaturalisti,  anche  a  fronte di norme esemplari per la loro
 assoluta limpidezza di lettera e di contenuto, come l'art. 136  della
 Costituzione.  Nelle fasi iniziali dell'iter per l'introduzione della
 Corte costituzi  onale nel nostro ordinamento, la sottocomissione per
 i  problemi costituzionali della "Commissione per gli studi attinenti
 alla riorganizzazione dello Stato", istituita dal  Ministero  per  la
 costituente, negli studi e proposte pubblicati nel 1946, tra l'altro,
 aveva  espressamente  ipotizzato  l'annullamento ex tunc delle leggi,
 quale conseguenza della dichiarazione d'incostituzionalita'
   Tale soluzione in sede di Assemblea costituente  venne  chiaramente
 abbandonata  dalla  Commissione dei 75, alla quale era stata affidata
 la redazione del progetto costituzionale: nel progetto presentato  il
 31 gennaio 1947, infatti, nell'art. 128, al terzo comma, era previsto
 che   "Se   la   Corte,  nell'uno  o  nell'altro  caso,  dichiara  la
 incostituzionalita' della norma, questa cessa di avere efficacia.  La
 decisione  della  Corte  e' comunicata al Parlamento, perche', ove lo
 ritenga necessario, provveda nelle forme istituzionali".
   Da quell'art. 128 e' derivato l'attuale art. 136, nel  quale  pero'
 e'  stato  opportunamente previsto anche il momento iniziale (fissato
 nel giorno successivo alla pubblicazione) della perdita di  efficacia
 delle norme dichiarate incostituzionali.
   Nessun  commento e' necessario.  Se tutto cio' che precede e' vero,
 l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 deve  essere
 dichiarato  incostituzionale,  in  quanto consente un'interpretazione
 totalmente difforme dal  dettato  costituzionale,  divenuta  "diritto
 vivente",  cosi'  da  rendere  estremamente  difficoltosa, se pur non
 impossibile,   l'affermazione   della   lettura    legittima    della
 disposizione.
   Certamente  e'  nel  potere  della  Corte  costituzionale negare la
 fondatezza della  questione  di  legittimita'  costituzionale  teste'
 esposta,  eventualmente  anche  in  forza  del principio, esattamente
 affermato, che impone nello scontro tra due  o  piu'  interpretazioni
 possibili  l'affermazione  della  prevalenza  di  quella  conforme  a
 Costituzione, ma, a sommesso avviso di questo giudice remittente, una
 siffatta soluzione non  potrebbe  avere  valore  definitivo,  poiche'
 lascerebbe    sempre    spazio    aperto    all'interpretazione   non
 costituzionalmente corretta.
   Ne' e' poi il caso di  porsi  scrupoli  particolari,  nel  caso  di
 specie,    sugli   effetti   della   dichiarazione   d'illegittimita'
 costituzionale:  la conseguente perdita di efficacia del terzo  comma
 dell'art.  30 legge n. 87/53 non causerebbe un grave vuoto normativo,
 poiche' tali  disposizione  (come  gia'  notato)  nulla  aggiunge  al
 disposto   del   primo   comma   dell'art.  136  della  Costituzione,
 limitandosi  a  esplicitare  l'ovvia  conseguenza  della  perdita  di
 efficacia   delle   norme  dichiarate  incostituzionali  "dal  giorno
 successivo alla  pubblicazione  della  decisione"  e  cioe'  la  loro
 inapplicabilita' a decorrere dallo stesso giorno.
   C)  In  relazione  alla  questione di illegittimita' costituzionale
 dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n.  903,  come  modificato  dalla
 citata   sentenza   29-31  dicembre  1993  n.  495/1993  della  Corte
 costituzionale, per violazione  dell'art.  81,  ultimo  comma,  della
 Costituzione.
   La Corte, con la sentenza n. 495 del 1993 (si ripete, per comodita'
 di  esposizione)  ha  dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto
 con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art.   3
 della Costituzione, dell'art. 22 della legge n. 903/1965 "nella parte
 in cui non prevede che la pensione di reversibilita' sia calcolata in
 proporzione  alla  pensione  diretta  integrata al trattamento minimo
 gia' liquidata al pensionato o  che  l'assicurato  avrebbe  avuto  il
 diritto  di  percepire".    La norma in discorso, come modificata per
 effetto del suddetto intervento della Consulta, determina per  l'INPS
 una  forte  esposizione  debitoria,  priva di finanziamento (e' fatto
 notorio); la  causa  di  tutto  cio'  deve  rinvenirsi  nell'opinione
 (erronea)  secondo  la  quale  le  sentenze di natura addittiva della
 Corte costituzionale avrebbero efficacia vincolante erga omnes ed  ex
 tunc,  opinione tuttora prevalente in dottrina e nella giurisprudenza
 di merito e di legittimita'.
   Nessun atto legislativo  e'  sinora  intervenuto  per  reperire  la
 copertura  finanziaria  necessaria  al fine di consentire all'INPS di
 provvedere previa riliquidazione  delle  pensioni  di  riversibilita'
 secondo il dettato della sentenza n. 495/93, al pagamento delle somme
 arretrate,   con   gli   accessori   di  legge,  derivanti  da  detta
 riliquidazione.
   E' piu' che evidente che il legislatore, a tutt'oggi (anche se deve
 darsi  atto  che gli organi d'informazione hanno di recente riportato
 notizie su una discussione in  corso  nel  Parlamento,  mirante  alla
 ricerca  di  una  soluzione  per  finanziare  il  fabbisogno di spesa
 previdenziale  non  previsto  in  bilancio  e   legato   anche   alle
 conseguenze  economiche  della  sentenza  n.  495  del  1993), non ha
 ritenuto  di  dover  dare  attuazione  alla  sentenza  in   discorso,
 nonostante  la  vigenza  dell'art.  2,  settimo comma, della legge 11
 marzo  1988,  n.  67,  che  cosi'  dispone:  "Qualora  nel  corso  di
 attuazione   di   leggi  si  verifichino  scostamenti  rispetto  alle
 previsioni  di  spesa  o  di  entrate,  il  Governo  ne  da'  notizia
 tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e
 assume le conseguenti iniziative. La stessa procedura e' applicata in
 caso  di  sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte
 costituzionale  recanti  interpretazioni  della   normativa   vigente
 suscettibili di determinare maggiori oneri".
   Potra'  pure  essere  affermata  la  responsabilita'  politica  dei
 Governi che si sono  succeduti  dalla  data  di  pubblicazione  della
 sentenza  n.  495/93  ad  oggi,  ma  nessun  risultato giuridico puo'
 conseguirne, restando certo il fatto che nessun intervento  e'  stato
 posto  in essere per la copertura finanziaria dei maggiori oneri, ne'
 totalmente, ne', parzialmente.
   Peraltro, in relazione a quanto si  e'  accennato  in  ordine  alle
 notizie  giornalistiche  sulla  ricerca di una soluzione normativa in
 corso di discussione in Parlamento, non appare lecito  attendere  che
 il  legislatore  eserciti  sino  in  fondo  i  suoi  poteri, prima di
 procedere alla trasmissione della presente questione di  legittimita'
 costituzionale:    deve, infatti, rilevarsi con estrema chiarezza che
 una futura, possibile e sempre auspicabile soluzione  legislativa  al
 problema  della  copertura  finanziaria degli effetti economici della
 sentenza n. 495/93, avra' (se in linea con i principi costituzionali)
 naturalmente efficacia anche sulla presente questione di legittimita'
 costituzionale,  facendole  perdere  ogni  attualita',  rilevanza   e
 fondatezza.
   Deve  anche  essere  con forza notato che autorita' giudiziaria non
 puo', in nessun caso, correlare i provvedimenti previsti dalla  legge
 per  amministrare  giustizia  ad  indebite ed illecite valutazioni di
 opinabile opportunita' politica.
   Dal riscontrato attuale  dato  di  fatto  storico  dell'assenza  di
 copertura  finanziaria,  a  parere  di  questo  pretore, non puo' che
 discendere   obbligatoriamente   l'affermazione   dell'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  22 legge  n. 903/1965, come modificato dal
 giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo  comma  dell'art.  81
 della  Costituzione,  a  nulla  rilevando  sapere  se tale violazione
 dipenda da semplice inerzia, o assenza di volonta'  del  legislatore,
 ovvero  (e' l'ipotesi piu' veritiera) dalla realta' di una situazione
 critica delle finanze dello Stato, tale da aver reso, sino  ad  oggi,
 impossibile il reperimento delle risorse finanziare necessarie, senza
 determinare  un  ulteriore  aggravamento nel desolante bilancio della
 nostra Repubblica.  Unica conseguenza e  soluzione  possibile  sembra
 essere  quella  di  una  pronuncia  dichiarativa  dell'illegittimita'
 costituzionale del detto art. 22 della legge n. 903  del  1965  nella
 nuova  formulazione  creata  dalla  sent.  n. 495/93, con conseguente
 cessazione dell'efficacia della medesima  norma  ai  sensi  dell'art.
 136,  primo  comma,  della Costituzione e ripristino della situazione
 normativa preesistente l'intervento del giudice delle leggi.
   Poiche' ai fini del decidere e' importante, anche se non essenziale
 (che,  come  si e' gia' detto, la controversia puo' ben essere decisa
 "indipendentemente" sotto vari  altri  profili),  avere  certezza  in
 ordine alla vigenza o meno dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come
 determinata   (nell'opinione   prevalente,   qui  contrastata)  dalla
 sentenza n. 495/93, e poiche' tale certezza puo' derivare, con valore
 assoluto (che le tesi di questo giudice sono  davvero  minoritarie  e
 marginali),  solo  (salvo  ovviamente  un sempre possibile intervento
 legislativo) da una decisione  della  Corte  costituzionale,  risulta
 necessario  investire  il  giudice  delle  leggi  della  questione di
 costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu' che
 palese per le argomentazioni che  precedono,  senza  altro  superfluo
 commento,  la  rilevanza  nel  presente giudizio, poiche' l'eventuale
 dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per    violazione
 dell'art.  81  sarebbe, senza possibilita' di contrasto neppure negli
 eventuali gradi  successivi  del  giudizio,  motivo  di  rigetto  del
 ricorso, anche se, in ipotesi estrema, solo concorrente, o anche solo
 subordinato, ovvero, infine, puramente virtuale.
   D)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.  87,  ove
 prevede  che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente
 dalla risoluzione della  questione di legittimita' costituzionale"  e
 limitatamente  a  tale  parte,  per violazione dell'art. 134, nonche'
 degli  artt.  101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.
   L'art. 134, per quanto qui  interessa,  dispone  testualmente:  "La
 Corte   costituzionale  giudica:  sulle  controversie  relative  alla
 legittimita' costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di
 legge,  dello  Stato  e  delle  regioni".    L'art.  1  della   legge
 costituzionale  9 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art.
 137, primo comma, della  Costituzione,  recita:    "La  questione  di
 legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di
 legge  della  Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle
 parti  nel  corso  di  un  giudizio  e  ritenuta  dal   giudice   non
 manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la
 sua decisione".
   A  fronte  di  tali norme costituzionali, l'art. 23, secondo comma,
 della legge 11 marzo 1953, n. 87, invece, cosi' dispone: "L'autorita'
 giurisdizionale,  qualora  il  giudizio  non  possa  essere  definito
 indipendentemente  dalla  risoluzione della questione di legittimita'
 costituzionale  e  non  ritenga  che  la  questione   sollevata   sia
 manifestamente  infondata,  emette ordinanza con la quale, riferiti i
 termini ed i  motivi  dell'istanza  con  la  quale  fu  sollevata  la
 questione,  dispone  l'immediata  trasmissione  degli atti alla Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in corso".
   Il ben diverso contenuto sostanziale del  secondo  comma  dell'art.
 23,   contrastante   con   le  disposizioni     dell'art.  134  della
 Costituzione e dell'art. 1  della  legge  costituzionale  n.  1/1948,
 risalta  evidente:    la previsione della necessita' che "il giudizio
 non possa essere definito indipendentemente dalla  risoluzione  della
 questione  di  legittimita'  costituzionale" al fine di introdurre il
 giudizio di costituzionalita' dinanzi  al  giudice  delle  leggi  non
 trova  minimo  riscontro  a livello di normativa costituzionale.  Non
 solo:  appare  anche  chiaro,  tanto  da  risultare  quasi  superfluo
 parlarne,  che quella previsione dell'art. 23, ben individuata sopra,
 riduce enormemente la possibilita' di  attivare  il  controllo  della
 Corte  sulla  legittimita'  costituzionale "delle leggi e degli atti,
 aventi forza di legge, dello Stato", poiche' impone che la  rilevanza
 della  questione  di costituzionalita' sia tale da comportare da sola
 la definizione del giudizio, rendendo  in  tal  modo  irrilevanti  e,
 percio',   inammissibili   tutte   le   questioni   di   legittimita'
 costituzionale l'oggetto  delle  quali  sia  solo  concorrente  nella
 decisione della causa.
   Viene    cosi'   patentemente   incatenato   il   controllo   della
 costituzionalita' delle leggi e degli atti normativi di pari forza  e
 contestualmente   mortificata  la  garanzia  costituzionale  di  tale
 controllo.
   In forza delle considerazioni che precedono, appare  consequenziale
 riconoscere  che, nel sistema vigente della legislazione ordinaria in
 relazione alle norme della legge  fondamentale  della  Repubblica  in
 tema di garanzie costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena
 attuazione   dei  principi  costituzionali  e  cio'  con  particolare
 riferimento alla possibilita' di accesso al giudizio di  legittimita'
 costituzionale,  tanto da rendere possibile la permanenza nel diritto
 positivo di numerose norme contrarie  alla  Costituzione,  senza  che
 queste  possano  trovare  controllo e verifica di legittimita', posto
 che la struttura procedimentale che consente di giungere  dinanzi  al
 giudice delle leggi e' eccessivamente limitativa.
   Non  e'  certo  nella competenza di questo giudice, ne' del giudice
 delle leggi, la ricerca delle soluzioni normative necessarie  per  la
 realizzazione   della   Costituzione,   ma   la  constatazione  della
 difficolta' di accesso al giudizio dinanzi alla Corte  costituzionale
 doveva qui  essere  chiaramente  manifestata,  non  soltanto  perche'
 direttamente  attinente  la  questione di legittimita' costituzionale
 ora prospettata, ma anche perche' non puo' negarsi che numerose norme
 della legge n. 87/1953, e non il  solo  secondo  comma  dell'art.  23
 nella  parte  specifica  sopra  individuata, violano l'art. 134 della
 Costituzione,  riducendo  a  minimi  livelli  la   possibilita'   del
 controllo  di  conformita'  delle  leggi e degli atti aventi forza di
 legge, mentre il sistema costituzionale nasce con un  impianto  assai
 vasto,  che  appare,  comunque, illecitamente compresso e mortificato
 dalla legge ordinaria, e non solo  nella  sostanza,  ma  anche  nella
 forma  normativa  utilizzata, come risultera' piu' che evidente nello
 sviluppo della successiva questione sub E).  Prima di passare  oltre,
 pero',  deve  essere  chiarito  ancora  in quali termini si ritengono
 violati gli artt. 101 e 104 della  Costituzione  dall'art.  23  della
 legge  n.  87/1953,  nella  parte  in  cui  dispone  che, per potersi
 procedere alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il
 giudizio  non   possa   essere   definito   indipendentemente   dalla
 risoluzione della questione di legittimita' costituzionale".
   La  disposizione  contestata  e' illegittima, poiche' determina una
 riduzione e compressione dell'autonomia ed indipendenza del  giudice,
 impedendogli  di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per
 la decisione dei processi, causando grave  danno  all'amministrazione
 della   giustizia,  poiche'  (essendo  precluso  alle  questioni  non
 essenziali l'accesso al giudizio di costituzionalita')  sottrae  alla
 motivazione  (art.  111  della  Costituzione)  delle sentenze ragioni
 ulteriori di potenziale accoglimento o  rigetto  della  domanda  (per
 quanto  concernente  in  particolare  le  controversie  nella materia
 demandata alla competenza di questo pretore), idonee a  rendere  piu'
 "resistente"  la  motivazione e non e' superfluo qui ricordare che il
 bene giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla  forza
 di  resistenza delle pronunce giurisdizionali nei successivi gradi di
 giudizio.
   E) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti
 che  stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge  costituzionale  prevista  dal  primo comma dell'art. 137 della
 Costituzione.
   La riserva di legge imposta dal primo comma dell'art.  137,  viene,
 per  quanto qui interessa, cosi' formulata: "Una legge costituzionale
 stabilisce le condizioni, le forme, i termini di  proponibilita'  dei
 giudizi  di  legittimita'  costituzionale":  la  materia  e', dunque,
 riservata a legge costituzionale e non ordinaria.    Ed  invero  sono
 state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9 febbraio 1948,
 n.  1  e  11  marzo  1953,  n.  1, delle quali la prima e' pienamente
 conforme al dettato costituzionale, tant'e' vero che  all'art.  1  la
 legge   costituzionale   n.  1/1948  prevede  che  "La  questione  di
 legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di
 legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle  parti  nel  corso
 del  giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e'
 rimessa alla Corte  costituzionale  per  la  sua  decisione",  mentre
 l'art.  1  della  legge  costituzionale  n.  1/1953 lascia perplessi,
 poiche' non si limita  ad  affermare  che  "La  Corte  costituzionale
 esercita  le  sue funzioni nelle forme e nei limiti e alle condizioni
 di  cui  alla  Carta  costituzionale,  alla  legge  costituzionale  9
 febbraio  1948,  n.  1"  ma  aggiunge un richiamo generico e generale
 anche "alla legge ordinaria emanata per  la  prima  attuazione  delle
 predette  norme  costituzionali",  con  buona  pace per la riserva di
 legge costituzionale  espressamente  disposta  nell'art.  137,  terzo
 comma,  della  Costituzione.    E'  palese  ed  indubbio  (nonostante
 l'ambiguita' dell'errato ed infelice riferimento alla legge ordinaria
 appena rilevato)  che  il  sistema  costituzionale  del  giudizio  di
 legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge,
 pur  stabilendo  il  chiaro  limite  della non manifesta infondatezza
 (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto  meno,  se  non  anche
 esclusiva,  competenza dell'autorita' giudiziaria) delle questioni di
 legittimita' costituzionale, quale barriera per l'accesso al giudizio
 dinanzi alla Corte costituzionale,  non  ha  istituito  quegli  altri
 diversi  e piu' stringenti confini che risultano, invece, nella legge
 ordinaria.
   E' allora certo che tutte le disposizioni della legge ordinaria  11
 marzo  1953,  n. 87, che regolano "le condizioni, le forme, i termini
 di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale" in modo
 difforme dal sistema costituzionale che si e' sopra individuato  sono
 illegittime  nella  stessa fonte e forma legislativa che le pone (per
 quanto  espressamente  riguardante  la  questione   di   legittimita'
 costituzionale  ora  discussa)  per  palese violazione dell'art. 137,
 primo comma, della  Costituzione.    Cosi'  risulta  illegittimo,  in
 particolare,  l'art.  23  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale
 solo  si  vuole  limitare  la  trattazione,  restando,  comunque   ed
 ovviamente,   integro   il   potere   della  Corte,  nell'ipotesi  di
 accoglimento della presente questione, di decidere se sussistano  gli
 estremi per procedere all'applicazione dell'ultima parte dell'art. 27
 della  medesima  legge.   L'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
 cosi' dispone: "Nel corso di un giudizio  dinanzi  ad  una  autorita'
 giurisdizionale  una  delle  parti  o  il  pubblico ministero possono
 sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante  apposita
 istanza, indicando:
     a)  le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge
 dello  Stato  o   di   una   regione,   viziate   da   illegittimita'
 costituzionale;
     b)   le   disposizioni   della   Costituzione   o   delle   leggi
 costituzionali che si assumono violate.  L'autorita' giurisdizionale,
 qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
 risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale  e  non
 ritenga  che  la  questione  sollevata  sia manifestamente infondata,
 emette ordinanza con  la  quale,  riferiti  i  termini  ed  i  motivi
 dell'istanza   con  la  quale  fu  sollevata  la  questione,  dispone
 l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale  e
 sospende  il  giudizio  in  corso.    La  questione  di  legittimita'
 costituzionale puo'   essere sollevata,  di  ufficio,  dall'autorita'
 giurisdizionale  davanti  alla  quale verte il giudizio con ordinanza
 contenente le indicazioni previste alle lettere a)  e  b)  del  primo
 comma  e  le  disposizioni  di cui al comma precedente.   L'autorita'
 giurisdizionale ordina che a cura della  cancelleria  l'ordinanza  di
 trasmissione  degli  atti  alla  Corte costituzionale sia notificata,
 quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle  parti
 in  causa  ed  al    pubblico  ministero quando il suo intervento sia
 obbligatorio, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri od  al
 Presidente  della giunta regionale a seconda che sia in questione una
 legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di  una  regione.
 L'ordinanza  viene  comunicata  dal  cancelliere  anche ai Presidenti
 delle due Camere del    Parlamento  e  al  Presidente  del  Consiglio
 regionale interessato".
   L'art.  23  della  legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, e' nel suo
 complesso illegittimo, per la violazione del tutto evidente dell'art.
 137, primo comma, della Carta costituzionale, con la sola  esclusione
 delle  seguenti specifiche parti, nelle quali nulla dispone in ordine
 alle condizioni e forme di accesso al giudizio dinanzi alla Corte,  o
 si limita a ribadire immutato quanto gia' previsto dalla normativa di
 livello  costituzionale:    "Nel  corso di un giudizio dinanzi ad una
 autorita' giurisdizionale una delle parti  o  il  pubblico  ministero
 possono  sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale"  ...
 L'autorita' giurisdizionale, qualora... non ritenga che la  questione
 sollevata  sia  manifestamente  infondata,  emette  ordinanza  con la
 quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con  la  quale  fu
 sollevata  la  questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti
 alla  Corte  costituzionale  sollevata,  di  ufficio,  dall'autorita'
 giurisdizionale   davanti   alla   quale   verte   il   giudizio  con
 ordinanza"...  In tutte le restanti parti l'art. 23  della  legge  n.
 87/1953  e'  radicalmente  viziato da illegittimita' costituzionale e
 non vi e' nulla da aggiungere sulla questione ora  discussa,  poiche'
 sorretta  dalla  pura  constatazione di una realta' evidente; si deve
 soltanto chiarire che la  sua  rilevanza  nel  presente  giudizio  e'
 identica  a  quella  individuata  per  la  questione sub D), giacche'
 anch'essa  presupposto  logico  giuridico  dell'ammissibilita'  delle
 prime tre questioni.
    5. - Considerazioni conclusive.
   Questo   giudice   remittente   non  intende  sostenere  che  dalla
 trasmissione della presente ordinanza  derivi  un  obbligo  giuridico
 della  Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le
 varie  questioni  rilevate    d'ufficio,  poiche'  e'  intuitivo  che
 l'eventuale  decisione  di  accoglimento  o rigetto di alcune di esse
 rende superfluo   l'esame delle altre,  eppure,  in  ultima  analisi,
 ritiene di dover mettere l'accento sulla granda importanza e utilita'
 di  una  pronuncia  del  giudice  delle  leggi  su tutte le questioni
 portate alla sua attenzione,  considerato  che,  poiche'  tutte  sono
 riconducibili  alla  necessita'  primaria  di riportare le "regole di
 svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione
 della dottrina), per  tutti  gli  organi  istituzionali,  all'interno
 della  vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e formale,
 tutte hanno pari rilevanza e valore e tutte  sono  tese  al  fine  di
 ricondurre  il  sistema  giuridico del controllo di costituzionalita'
 delle leggi e degli atti  aventi  forza  di  legge  nell'alveo  della
 nostra  Carta  costituzionale.    Sistema  nel  quale,  e'  opportuno
 ricordarlo, se e' vero che e' demandat  o alla  Corte  costituzionale
 il potere di decidere sulla legittimita' delle norme di legge e degli
 atti  aventi  forza di legge, e' anche vero che il primo controllo di
 legittimita' costituzionale e' attribuita dalla  legge  all'autorita'
 giudiziaria,  cio'  che ampiamente legittima i rilievi sviluppati nel
 presente atto.  Non sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla
 fondatezza e sulla rilevanza delle questioni sopra  trattate,  stanti
 gli   argomenti   sviluppati  in  relazione  ai  precisi  riferimenti
 normativi  costituzionali  indicati  sui  singoli  temi,   di   certo
 sufficienti  per escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di
 tutti i rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi,  i  quali,
 comunque,  rivestono  grande  importanza  in  relazione alla forza di
 resistenza  della  sentenza  che  questo  pretore  deve  pronunciare.
 Benche' si sia chiaramente affermato che le questioni di legittimita'
 costituzionale  rimesse all'esame della Corte costituzionale non sono
 essenziali  per  la  decisione  della  causa,  il  presente  giudizio
 pretorile  deve  essere sospeso, ai sensi dell'art. 23 della legge 11
 marzo 1953, n. 87, tuttora vigente, pur se anch'esso oggetto  di  una
 delle questioni rilevate d'ufficio con la presente ordinanza.