IL PRETORE Pronunziando fuori udienza nelle tre cause riunite promosse da Maria Fiorina Di Ciocco (la prima), Lina Bongiovanni + 8 (la seconda) e Adelmina Maini (la terza) contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale, cause tutte ora iscritte sotto il n. 3906 del Rgl dell'anno 1993 della pretura di Bologna; Sciogliendo la riserva; Os s e r v a Richiami allo svolgimento del processo. 1. - Con ricorso depositato il 29 settembre 1993 Maria Fiorina Di Ciocco, titolare di due pensioni dell'Inps (l'una d'invalidita', con decorrenza dal 1 dicembre 1965, e l'altra di riversibilita', con decorrenza dal 1 dicembre 1968), esponeva di avere presentato, il 29 marzo 1986, domanda in sede amministrativa per l'integrazione al trattamento minimo di quest'ultima, domanda che era stata pero' respinta dall'Inps "per avvenuto decorso del termine decennale di decorrenza per la proposizione dell'azione giudiziaria". Argomentato in ordine all'infondatezza della posizione assunta dall'Inps (ribadita dall'Istituto in sede d'impugnazione amministrativa) l'attrice concludeva chiedendo la declaratoria del suo diritto alla predetta integrazione, negli eventuali limiti della prescrizione, con applicazione della cristallizzazione, a decorrere dal 1 ottobre 1983, ex art. 6, settimo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983, n. 638). Costituitosi in giudizio il convenuto contrastava in diritto quanto sostenuto dalla parte attrice eccependo l'estinzione per decadenza e o per prescrizione di ogni possibile diritto rivendicato dalla medesima e osservando che, quanto meno a decorrere dal 1 ottobre 1983, doveva certamente escludersi ogni trattamento integrativo della seconda pensione essendo, la cristallizzazione, esclusa nei casi di bititolarita', come da interpretazione autentica dell'art. 6 del citato d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, recata dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537; l'Inps prendeva quindi le conseguenti conclusioni. 2. - Altra domanda di contenuto giuridico analogo veniva proposta, con ricorso depositato il 4 novembre 1993, dai nove eredi (Lina Bongiovanni + 8) della pensionata bititolare di pensioni dell'Inps Florinda Carpanelli; pure in tal caso il convenuto, costituitosi ritualmente in giudizio, replicava con difese ed eccezioni simili a quelle del precedente giudizio. 3. - Con un terzo ricorso, depositato il 21 dicembre 1993, Adelmina Maini, anch'ella bititolare di pensioni dell'Inps, lamentava che il predetto Istituto ricusasse di riconoscerle il diritto all'integrazione al minimo sulla seconda pensione e proponeva dunque una domanda analoga a quella degli altri ricorrenti; in tale giudizio, tuttavia, il convenuto, nel costituirsi in giudizio, non contestava il diritto della pensionata al trattamento ordinario d'integrazione sulla seconda pensione fino al 30 settembre 1983, limitandosi a negare il suo diritto alla cristallizzazione per il periodo successivo. 4. - Riuniti i tre processi ai sensi dell'art. 151 disp. att. cpc ed acquisite agli atti, all'udienza del 28 marzo 1995, dichiarazioni sostitutive di notorieta' attestanti i redditi percepiti nel 1983 dalle tre pensionate de quibus, prodotte dal difensore dei ricorrenti, il pretore, all'udienza del 26 settembre 1995, invitava i difensori a prendere in esame, svolgendo le considerazioni ritenute in proposito piu' opportune, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983, n. 638, e poi piu' volte, successivamente, ancora modificato), in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui la disposizione in parola prevede, per l'accesso al beneficio dell'integrazione, un limite di reddito diverso e piu' ampio rispetto alla misura reddituale che lo stesso meccanismo integrativo garantisce come minima. Indi il pretore si riservava per pronunziare la presente ordinanza. Della rilevanza nel presente giudizio della questione di legittimita' costituzionale supra indicata. 5. - Thema decidendum comune a tutti e tre i giudizi riuniti e' il diritto alla cristallizzazione della seconda pensione in caso di bititolarita'; in due dei tre processi, tuttavia, l'Inps solleva, in via principale, l'eccezione di decadenza ex art. 47 del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, interpretato secondo i dettami dell'art. 6 del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge con legge 1 giugno 1991, n. 166 ("I termini previsti dall'art. 47, commi secondo e terzo, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione di ricorso amministrativo i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei"). 6. - Deve preliminarmente osservarsi che la questione della retta interpretazione delle norme sulla decadenza e' tema assai arduo (sul quale sembra stiano per pronunciarsi le sezioni unite della Corte di cassazione); se qui se ne accenna e' solo, ovviamente, nell'ambito della delibazione della rilevanza nel presente giudizio (rectius: in ciascuno dei giudizi riuniti) della questione di legittimita' costituzionale che il pretore ha inteso prendere in esame: nella prospettazione dell'Inps, infatti, l'accoglimento dell'eccezione de qua comporterebbe de plano il rigetto delle domande attoree, con la conseguenza che le norme che potrebbero essere sospette di illegittimita' costituzionale sarebbero prive di ogni rilevanza ai fini della decisione delle cause nelle quali l'eccezione e' stata sollevata. 7. - Il pretore osserva tuttavia, a questo proposito, che, a ben vedere, una pronuncia di inesistenza del diritto per estinzione di esso per decadenza avrebbe, sia pure solo dal punto di vista puramente formale, un contenuto giuridico diverso da quello di una pronuncia di inesistenza del diritto per non essere lo stesso mai venuto ad esistenza (e quest'ultima sarebbe invece la pronuncia conseguente a un'eventuale accoglimento, da parte della Corte costituzionale, della questione che e' oggetto della presente ordinanza): gia' per questo verso, quindi, non sembra che, anche in caso di accoglimento dell'eccezione di decadenza nei precisi termini prospettati dall'Inps, potrebbe parlarsi di irrilevanza, ai fini del giudizio, della questione di legittimita' costituzionale in discorso. 8. - Inoltre va osservato (anche se l'osservazione riguarda in concreto solo la ricorrente Maria Fiorina Di Ciocco, posto che, nell'altro giudizio nel quale e' stata sollevata l'eccezione di decadenza, il ricorso e' stato proposto dagli eredi della pensionata originariamente interessata, spirata prima della proposizione del ricorso giudiziario) che, anche in caso di accoglimento dell'eccezione dell'Inps, le conseguenze giuridiche, per la predetta ricorrente Maria Fiorina Di Ciocco, non potrebbero essere in toto quelle prospettate dallo stesso Istituto (e cioe' il rigetto integrale della domanda) posto che la decadenza di cui trattasi mai potrebbe investire l'eventuale diritto dell'attrice avente ad oggetto la cristallizzazione dell'integrazione al minimo della seconda pensione limitatamente ai ratei maturati successivamente alla notificazione del ricorso: va ricordato infatti, sul punto, che, secondo quanto convincentemente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 20 maggio 1992, n. 246, "l'art. 6 del d.-l. n. 106 del 1991, cosi' come l'art. 47 del d.P.R. n. 639 del 1970, al quale si riferisce, non puo' riguardare la disciplina del diritto a pensione ma solo quella del diritto ai ratei di essa". 9. - Per concludere l'argomento della eccezione di decadenza in relazione ai suoi effetti circa la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale in esame, va infine pur sempre tenuto a mente che la predetta eccezione di decadenza non e' stata sollevata nella causa riunita promossa da Adelmina Maini, di guisa che, se non altro in relazione a tale giudizio, del tema della decadenza non potrebbe tenersi alcun conto ai fini della delibazione della rilevanza della prospettata questione di legittimita' costituzionale. 10. - Prima di entrare in medias res, per esaminare da vicino la norma che il pretore sospetta di illegittimita' costituzionale, e' necessario concludere la verifica della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale de qua. E' opportuno a tal fine (ed anche al fine delle argomentazioni che si svolgeranno ultra circa la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale che s'intende qui sollevare) richiamare brevemente, anche dal punto di vista storico, il quadro normativo che viene in campo. 11. - Con l'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983, n. 638) il legislatore aveva dettato una disciplina dell'integrazione delle pensioni al minimo fondata su due principi: 1) esclusione del diritto all'integrazione nel caso di superamento, da parte del titolare, di certi limiti di reddito, indicati nel primo comma della disposizione citata; 2) integrabilita', nel caso di concorso di due o piu' pensioni e sempre che fossero rispettati i predetti limiti, di una sola pensione, da individuarsi con i criteri indicati nel terzo comma (principio dell'unicita' dell'integrazione). Con il comma settimo si disponeva inoltre che l'importo della pensione non piu' integrabile erogato alla data di cessazione del diritto all'integrazione (30 settembre 1983) fosse conservato (cristallizzato) fino ad assorbimento di esso negli aumenti della pensione base determinata ai sensi del sesto comma del medesimo articolo, aumenti derivanti dalla disciplina della perequazione automatica richiamata nel quinto comma. Secondo l'interpretazione dell'Inps e di parte della giurisprudenza di merito il settimo comma era riferibile esclusivamente all'ipotesi di cessazione del diritto all'integrazione di una sola pensione per superamento dei limiti di reddito e non al caso di bi o pluri titolarita' di pensioni tutte integrate o integrabili al minimo: in tale ipotesi, qualora il diritto all'integrazione al minimo fosse venuto meno per superamento del limite di reddito la cristallizzazione sarebbe stata riconosciuta solo con riferimento alla pensione principale (individuata ex art. 6, terzo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463) e non alle pensioni ulteriori, che sarebbero state ricondotte (ovvero: sarebbero rimaste determinate) a calcolo, con esclusione, quindi, di ogni cristallizzazione. La giurisprudenza unanime della suprema Corte, invece (v., ex multis, Cass. 17 luglio 1990, n. 7315, in Rep. giur. lav., 89 - 90, 1373, 52-bis; Cass. 3749/90; Cass. 842/91; Cass. 2 aprile 1993, n. 4015 e n. 3992, in Foro It. Rep., 1993, voce Previdenza Sociale, nn. 783 e 784), aveva sostenuto l'applicabilita' del settimo comma, concernente la cristallizzazione, non solo al caso di superamento reddituale ma anche a quello di bititolarita' (v. anche Corte cost. 19 novembre 1991, n. 418, in Cons. St., ii, 1823, che aveva pero' ritenuto il settimo comma applicabile a tale ipotesi in via analogica, anziche' diretta). Successivamente il legislatore e' intervenuto in materia dapprima con norme contenute in alcuni decreti-legge non convertiti nei termini prescritti (e pertanto privi di efficacia ex tunc) e, infine, con l'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, che, in sostanza, reitera quanto gia' disposto con i predetti decreti. La norma in questione disponeva che l'art. 6, commi 5, 6 e 7 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 "si interpreta nel senso che nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate al minimo, liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge, il trattamento minimo spetta su una sola delle pensioni, come individuata secondo i criteri previsti al terzo comma dello stesso articolo, mentre l'altra o le altre pensioni spettano nell'importo a calcolo senza alcuna integrazione". La disposizione citata mirava dunque ad impedire l'estensione ai bititolari, affermata dalla giurisprudenza di legittimita', della cristallizzazione della seconda pensione non piu' integrabile dopo il 30 settembre 1983 e cio' riguardava sia il caso in cui il bititolare non avesse piu' diritto all'integrazione ordinaria perche' superava i limiti di reddito, sia il caso in cui il bititolare, non superando i limiti di reddito, godesse dell'integrazione in via ordinaria su una sola pensione. Nel primo caso dunque il pensionato, in base all'art. 11 citato, perdeva il diritto alla cristallizzazione della seconda pensione mantenendo tuttavia il diritto sulla pensione principale al mantenimento del trattamento minimo cristallizzato nell'importo spettante al 30 settembre 1983; nel secondo caso il pensionato, non superando il limite reddituale, conservava l'integrazione al minimo sulla pensione principale ma perdeva invece, ex art. 11, il beneficio della cristallizzazione sulla seconda pensione. 12. - La mancata differenziazione dei due casi ha costituito la base della motivazione con la quale la Corte costituzionale, ritenuta la violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione, ha pronunciato la sentenza 10 giugno 1994, n. 240 (in Foro It., i, 2019 e in Giust. Civ., i, 1743). Il dispositivo di tale sentenza e' del seguente tenore: "La Corte costituzionale ... dichiara l'illegittimita' costituzionale dell 'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 ... nella parte in cui - nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate o integrabili al trattamento minimo, delle quali solo una conserva il diritto all'integrazione ai sensi dell 'art. 6, terzo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 ..., non risultando superati al 30 settembre 1983 i limiti di reddito di cui ai commi precedenti - prevede la riconduzione dell'importo a calcolo dell'altra o delle altre pensioni non piu' integrabili, anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante alla data indicata, fino ad assorbimento negli aumenti della pensione base derivanti dalla perequazione automatica". 13. - Poiche' i "limiti di reddito di cui ai commi precedenti", di cui parla la Corte nel dispositivo supra riportato, sono appunto gli stessi limiti di reddito che, ai sensi di tali "commi precedenti" (1, 1-bis e 2 dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463), fungono da criterio per la concessione della integrazione al minimo ordinaria sulla prima pensione, ne deriverebbe che, in conseguenza dell'applicazione della sentenza costituzionale de qua, l'incontestato godimento, da parte di un pensionato, della integrazione al minimo ordinaria sulla pensione principale costituirebbe al tempo stesso la prova (proveniente dall'Inps) del diritto del pensionato medesimo ad ottenere anche la cristallizzazione della integrazione al minimo sulla seconda pensione. In effetti una parte della giurisprudenza di merito, opinando che la funzione interpretativa della motivazione di una sentenza rispetto al dispositivo soccorra solo entro gli spazi delle interpretazioni intrinsecamente possibili del dispositivo stesso e mai possa valere a conferire al dispositivo un senso diverso da quello proprio delle parole usate nel dispositivo medesimo, ha ritenuto di applicare la disciplina di risulta nel modo suddetto (va del resto incidentalmente notato che la scelta operata dalla predetta giurisprudenza e' in effetti confortata dalla costante giurisprudenza della SC, la quale, prendendo in esame ex professo la questione, ha, anche di recente, ribadito che "la motivazione esaurisce la sua funzione nel fornire la ragione socio-giuridica del decisum della Corte (costituzionale) ma e' soltanto il dispositivo ad avere effetti sul tessuto normativo, che e' modificato dal giorno successivo alla pubblicazione del dispositivo ed e' pertanto al dispositivo che occorre avere riguardo per stabilire la norma vigente e regolatrice della fattispecie": s. u., 29 maggio 1995, n. 6041, in Giust. civ., i, 1749, nella quale si richiamano numerosi precedenti conformi della stessa SC, tra i quali un'altra pronunzia delle s. u.: 7 novembre 1993, n. 2904). Se volesse percorrersi la strada interpretativa ora ricordata non potrebbe esservi dubbio circa la fondatezza, nel merito, allo stato degli atti (salvi gli ulteriori profili da esaminare), delle domande attoree (e dunque, di converso, circa la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale in discorso nel presente giudizio); cio', quanto meno, in riferimento all'attrice Adelmina Maini, per la quale non ricorre alcuna ipotesi di decadenza: poiche', infatti, e' pacifico che entrambe le pensionate ricorrenti incontestatamente godono (e la pensionata dante causa degli altri ricorrenti godeva) della integrazione al minimo ordinaria sulla prima pensione, cio', allo stato attuale (e cioe' ove non intervenisse una pronuncia della Corte costituzionale di accoglimento della questione di legittimita' costituzionale oggetto della presente ordinanza), sarebbe sufficiente a dimostrare il diritto di tutte e tre le pensionate medesime (o quanto meno, come si e' detto, di Adelmina Maina) ad ottenere (salvi, come si e' accennato, i profili ancora da esaminare) anche la cristallizzazione della integrazione al minimo sulla seconda pensione. 14. - Il pretore, tuttavia, in conformita' anche con la prima giurisprudenza della SC successiva alla sentenza costituzionale n. 240, non ritiene di poter dare un'interpretazione cosi' formalistica alla predetta sentenza costituzionale: basti solo osservare, in proposito, che una tale interpretazione metterebbe nel nulla tutto l'iter argomentativo che precede il dispositivo e che cio' apparirebbe davvero inaccettabile; sulla scia - del resto - di quanto gia' avvenne in occasione dell'emanazione della sentenza costituzionale 18 giugno 1986, n. 137, che, parimenti, plus dixit (nel dispositivo) quam voluit, occorre dunque interpretare la sentenza de qua come se la sua parte dispositiva facesse espresso richiamo alla parte motiva di essa, e segnatamente al suo @ 6, ove la Corte fa in effetti riferimento, per individuare coloro per i quali deve operare la regola della cristallizzazione, ai pensionati che "pur con l'apporto di una seconda pensione, risulta(no) in possesso di un reddito complessivamente inferiore al limite legale". 15. - Naturalmente, anche cosi' interpretata, la pronuncia della Corte lascia spazio a una serie di interrogativi in ordine ai criteri da utilizzare per la verifica del mancato superamento dei redditi, sia in ordine al criterio di individuazione degli elementi addendi (per esempio: va computato o meno, ai fini che qui vengono in campo, l'importo della prima pensione (il quale, come e' noto, non e' computabile, ex art. 6, comma 1-bis, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463, ''introdotto dall'art. 4 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503'', ai fini della verifica reddituale relativa all'integrabilita' della stessa prima pensione)?) sia in ordine al criterio temporale di riferimento. 16. - Con specifico riguardo alle questioni afferenti a tale ultimo criterio e' stato in alcune pronunzie affermato che dovrebbe essere preso in esame solo il periodo di entrata in vigore del d.-l. 12 novembre 1983, n. 463; tale orientamento, nell'ambito del quale non sempre e' chiaro se si intenda che debba essere considerato l'anno civile 1983 oppure l'anno solare decorrente dal 1 ottobre 1983, consegue in sostanza a un'applicazione meccanica e del tutto astorica del concetto posto dalla Corte costituzionale a base della sentenza n. 240. Si tratta, in breve, di questo: la Corte ha testualmente affermato: "Quando l'intervento legislativo incide sul trattamento di soggetti i quali, sebbene titolari di due o piu' pensioni, hanno un reddito complessivo inferiore al limite fissato dal d.-l. n. 463 del 1983, cosi' che per essi la modifica legislativa comporta una compressione delle esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale, il principio di solidarieta' (sotteso all'art. 38 Cost.) coordinato col principio di razionalita'-equita' (art. 3 Cost.), impone una disciplina transitoria che assicuri un passaggio graduale al trattamento meno favorevole": certamente, stando alla semplice lettura di quanto affermato dalla Corte costituzionale, sembrerebbe doversi avere riguardo al momento in cui interviene "la modifica legislativa", e cioe', appunto, al 1983; tuttavia il pretore ritiene che, nell'applicazione concreta del decisum della Corte, non possa prescindersi del tutto dalla realta' storica e cioe' dalla considerazione che, di fatto, all'atto dell'entrata in vigore del d.-l. n. 463, solo una trascurabile minoranza di pensionati percepiva una duplice integrazione al minimo, e cio' sia perche' solo con la successiva sentenza del 1985 la Corte elimino' la maggior parte dei limiti (che a quel momento ancora permanevano) alle duplici integrazioni sia perche', avendo l'Inps sempre ricusato di corrispondere d'ufficio il doppio beneficio, di fatto solo pochi dei pensionati formalmente interessati alle pronuncie costituzionali che gia' erano intervenute avevano ottenuto la prestazione in parola. Un'interpretazione logica della disciplina risultante dalla pronuncia costituzionale di cui trattasi non puo' che condurre, dunque, se coordinata coi dati storici supra ricordati, alla conclusione della necessita' di ripetere annualmente (prendendo a base, dato il necessario collegamento con la normativa fiscale, i singoli anni civili) la verifica reddituale voluta dalla Corte costituzionale. Giustamente, dunque, il SC ha affermato, in varie cause del tutto analoghe alle presenti, ai sensi dell'art. 384 cpc, il seguente principio di diritto: "In ipotesi di cumulo di pensioni, gia' tutte integrate o integrabili al trattamento minimo secondo il regime anteriore all'entrata in vigore dell'art. 6 del d.-l. n. 463 del 1983, convertito in legge n. 638 dello stesso anno, la successiva operativita' del divieto di integrazioni plurime, posta dalla prima parte del terzo comma di tale norma, implica - ai sensi dei commi quinto, sesto e settimo della stessa norma, come autenticamente interpretati dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537 del 1993, nel testo risultante dalla parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 1994 - che la seconda (o ulteriore) pensione (considerata tale rispetto all'unica integrabile, a norma del terzo comma del d.-l. n. 463 del 1983) continua a essere fruita nell'ammontare conseguito alla data del 30 settembre 1983 (per effetto di operativita', fino ad allora, del meccanismo di integrazione al trattamento minimo e salvo progressivo riassorbimento delle quote a tale meccanismo imputabili negli aumenti degli importi-base derivanti da perequazione automatica), sempre che il titolare non percepisse alla medesima data un reddito superiore al limite indicato dall'art. 6, primo comma, del d.-l. n. 463 del 1983, perdendosi, invece, nell'opposta ipotesi (rilevante cosi' a questa data come in qualsiasi altro successivo momento in cui abbia a verificarsi la condizione reddituale ostativa della conservazione del beneficio) il godimento delle indicate quote integrative e riconducendosi l'ammontare della seconda - o ulteriore - pensione al suo importo a calcolo, ancorche' in tal modo si determini una riduzione del trattamento complessivamente raggiunto dall'assicurato al momento dell'entrata in vigore della disposizione impeditiva delle integrazioni plurime" (Cass. 4 gennaio 1995, n. 87 e numerose altre conformi). 17. - Le stesse esigenze e considerazioni passate in rassegna sub 16) impongono inoltre, a parere del pretore, di avvalersi, nel computo annuale dei redditi del pensionato, di un criterio di competenza e non di cassa: poiche' la disciplina risultante dalla sentenza costituzionale n. 240 si fonda su una ricostruzione per competenza del reddito fruito dal pensionato fino al 30 settembre 1983 (posto che in tale reddito non era entrata, per cassa, nella quasi totalita' dei casi, alcuna duplice integrazione al minimo) sarebbe illogico non applicare lo stesso criterio di competenza nel momento dell'applicazione della disciplina stessa; in altre parole puo' dirsi che, cosi' come la "compressione delle esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale", presa dalla Corte costituzionale a base della sua pronuncia n. 240, fu in realta', per i motivi detti, solo virtuale, analogo criterio virtuale deve essere adottato per valutare l'incidenza della compressione stessa sulle esigenze di vita del pensionato, e cioe' per computare i suoi redditi dell'epoca. 18. - Tornando ora a volgere l'attenzione alle fattispecie concrete che sono oggetto del presente giudizio deve darsi atto che le parti attrici hanno prodotto atti sostitutivi degli atti di notorieta' diretti a dimostrare che il reddito rispettivamente percepito dalle pensionate Maria Fiorina Di Ciocco, Adelmina Maini e Florinda Carpanelli ammonto', in ciascuno dei casi, relativamente all'anno civile 1983, ad importo inferiore al limite richiamato dalla sentenza costituzionale 10 giugno 1994, n. 240, calcolato secondo i criteri supra indicati (puo' anche ammettersi, con il conforto della prima giurisprudenza, la rilevanza probatoria degli atti sostitutivi degli atti di notorieta' in questa speciale materia). 19. - Conviene ora porre in luce che il mancato superamento del limite reddituale annuale, costituendo un elemento negativo della fattispecie costitutiva del diritto alla cristallizzazione della seconda (o ulteriore) pensione, e' senz'altro oggetto, per chi agisce, di onere probatorio ma, a questo riguardo, va anche notato che, se non altro per fictio juris la disciplina sui limiti reddituali deve aversi per introdotta nell'ordinamento, ad ogni fine di ricostruzione giuridica della vicenda, dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (oggetto del giudizio di legittimita' costituzionale sfociato nella sentenza n. 240): la pronuncia interpretativa di accoglimento della Corte costituzionale rappresenta infatti, teoricamente, non gia' ius novum bensi' disvelamento della vera e genuina norma giuridica recata dalla disposizione oggetto della pronuncia stessa, di guisa che la norma disvelata deve ritenersi in vigore fin dal momento in cui divenne vigente la legge contenente la disposizione suddetta. Poiche' la disposizione in questione e' entrata in vigore durante la pendenza dei giudizi riuniti sarebbe fuor di luogo ipotizzare che sia scattata a carico degli attori, ex art. 416 cpc (applicabile, come e' noto, anche alle parti attrici, per costante giurisprudenza costituzionale e ordinaria), una qualsiasi preclusione in ordine al tema dei limiti reddituali, al quale pure essi non avevano, ovviamente, fatto alcun cenno nei rispettivi ricorsi introduttivi del giudizio. 20. - Nell'ambito della delibazione sommaria che e' necessaria in questa sede ai fini del giudizio di rilevanza puo' senz'altro ritenersi corretto, come si e' detto, il criterio del computo reddituale adottato dalle parti ricorrenti e, risultando la prescrizione utilmente interrotta, da tutto cio' consegue che, allo stato degli atti, le domande attoree relative alla cristallizzazione della seconda pensione con decorrenza dal 1 ottobre 1983 dovrebbero essere accolte, sia pure soltanto per quanto riguarda i ratei relativi ai mesi di ottobre, novembre e dicembre 1983 (o quanto meno, ove fosse ritenuta fondata l'eccezione di decadenza sollevata dall'Inps in riferimento alla posizione delle pensionate Maria Fiorina Di Ciocco e Florinda Carpanelli, dovrebbe essere accolta, limitatamente ai ratei indicati, la domanda di Adelmina Maini). 21. - Non v'ha dubbio, allora, che la questione di legittimita' costituzionale che si intende sollevare appaia rilevante ai fini della decisione, quanto meno rispetto alle quote d'integrazione cristallizzate eventualmente dovute ad Adelmina Maini per i mesi di ottobre, novembre e dicembre 1983: allo stato degli atti, infatti, tale domanda, alla luce di quanto si e' fin qui argomentato, dovrebbe, come si e' detto, essere accolta; del pari, pero', non v'ha dubbio che la stessa domanda dovrebbe essere rigettata se, invece, la Corte costituzionale, ritenendo fondata la questione che qui si propone, dovesse statuire che i commi 1 e 1-bis dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983 n. 638), come risultano a seguito delle modifiche operate dall'art. 4 del decreto leg.vo 30 dicembre 1992, n. 503, e dall'art. 2, quattordicesimo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 335, sono costituzionalmente illegittimi: a) nella parte in cui negli stessi non e' previsto, quale limite di reddito oltre il quale viene meno il diritto all'integrazione al minimo delle pensioni, l'importo del trattamento minimo che la stessa integrazione assicura; b) nella parte in cui tale limite non e' previsto per tutti i pensionati, compresi i coniugati (salva, ovviamente, la potesta' del legislatore di aumentare, per i pensionati con persone a carico, non gia' il limite di reddito entro il quale poter beneficiare dell'integrazione ma la stessa misura del trattamento minimo garantito); g) nella parte in cui non e' prescritto che tutti i redditi non soggetti a tassazione separata ai fini dell'irpef, compreso quello della pensione da integrare, concorrano al computo necessario alla verifica reddituale di cui trattasi. Dalla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale supra indicata. 22. - I commi 1, 1-bis e 2 dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983 n. 638), nel testo risultante dalle modificazioni apportate, dapprima, dall'art. 4, primo comma, del d.-lgs. 30 dicembre 1992, n.503, e poscia dall'art. 2, quattordicesimo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 335, sono del seguente tenore: "1. L'integrazione al trattamento minimo delle pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidita', la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni sostitutive ed esclusive della medesima, nonche' delle gestioni previdenziali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, della gestione speciale minatori e dell'Enasarco non spetta ai soggetti che posseggano: a) nel caso di persona non coniugata, ovvero coniugata ma legalmente ed effettivamente separata, redditi propri assoggettabili all'imposta sul reddito delle persone fisiche per un importo superiore a due volte l'ammontare annuo del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato in misura pari a tredici volte l'importo mensile in vigore al 1 gennaio di ciascun anno; b) nel caso di persona coniugata, non legalmente ed effettivamente separata, redditi propri per un importo superiore a quello richiamato al punto a), ovvero redditi cumulati con quello del coniuge per un importo superiore a quattro volte il trattamento minimo medesimo. Per i lavoratori andati in pensione successivamente al 31 dicembre 1993 e fino al 31 dicembre 1994, il predetto limite di reddito e' elevato a cinque volte il trattamento minimo. 1-bis. Dal computo dei redditi sono esclusi i trattamenti di fine rapporto comunque denominati, il reddito della casa di abitazione e le competenze arretrate sottoposte a tassazione separata. Non concorre alla formazione dei redditi l'importo della pensione da integrare al trattamento minimo. Per i lavoratori autonomi agricoli il reddito dichiarato dal titolare dell'azienda ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche viene imputato, indipendentemente dall'effettiva percezione, a ciascun componente attivo del nucleo familiare, in proporzione alla quantita' e qualita' del lavoro effettivamente prestato da ciascuno di essi in modo continuativo, attestato con dichiarazione dello stesso titolare dell'azienda. 2. Qualora il reddito, come determinato al comma 1, risulti inferiore ai limiti previsti, l'integrazione al minimo e' riconosciuta in misura tale che non comporti il superamento del limite stesso". 22. - Il criterio derivante dall'applicazione delle disposizioni riportate testualmente sotto il par. precedente, e segnatamente di quelle di cui ai commi 1 e 1-bis, presenta, a parere del pretore, profili di profonda irragionevolezza, come bene viene posto in evidenza dall'esempio che segue, riferito all'anno 1995. Va premesso che l'importo del trattamento minimo per il 1995 risulta essere pari a L. 8.143.850 (626.450, e cioe' l'importo mensile fissato al 1 gennaio 1995, moltiplicato per 13); il limite di reddito per il 1995 e' pari dunque a 16.287.300 lire (8.143.850 moltiplicato per 2). Si prenda ora il caso di un pensionato, A, che possieda un unico cespite di reddito, costituito da una pensione che, a calcolo, sarebbe pari, poniamo, a 6.000.000 di lire: egli godra', sulla base della disciplina in esame, di un'integrazione della sua pensione pari a 2.143.850 lire. Si faccia ora, invece, l'ipotesi del pensionato B, il quale possieda, oltre alla stessa pensione di A (ammontante, a calcolo, a L. 6.000.000), ulteriori redditi per complessive L. 14.143.450: ebbene, egli otterra' la stessa identica integrazione spettante ad A, e cioe' 2.143.850 lire. Cio' vuol dire che la solidarieta' si muove per A nella stessa forma e nella stessa misura che per B, solo che B possiede gia' di suo, al netto dell'integrazione, un reddito di 20.143.150 lire ed A, invece, di 6.000.000 di lire. L'irrazionalita' del sistema sarebbe poi ancor piu' evidente se la pensione a calcolo di B fosse d'importo anche inferiore a 6.000.000 di lire (essendo pari, poniamo, a 4.000.000 di lire): orbene, sol che gli ulteriori redditi di B non superino la quota di L. 12.143.450, questi potra' ottenere in toto l'integrazione al minimo sulla sua pensione e cioe' potra' ottenere a tale titolo 4.143.850 lire: guadagnando egli il triplo rispetto ad A gli viene concesso, per solidarieta', il doppio. 24. - Ne' si dimentichi che, se per avventura A dovesse pagare per la sua abitazione un canone di locazione e B invece fosse immune da questa spesa per essere egli proprietario della sua casa, anche tale profilo di differenziazione in fatto fra le due fattispecie concrete sarebbe per legge irrilevante, provvedendo a statuire l'irrilevanza giuridica di cio' l'espresso disposto del comma 1-bis dell'art. 6 in esame. Piu' in generale va osservato che non sembra sensato escludere dal computo dei redditi rilevanti ai fini della verifica del mancato superamente del limite reddituale l'importo della pensione da integrare e in generale tutti i redditi per i quali il comma 1-bis prevede il mancato computo, con esclusione dei redditi per i quali la disciplina tributaria delle imposte dirette prevede la cd tassazione separata: l'esclusione in questione aumenta infatti l'irragionevolezza del criterio, contribuendo viepiu' a parificare tra loro, ai fini del diritto all'integrazione al minimo e alla sua misura, fattispecie diverse. 25. - Ugualmente conseguente a un'impostazione irrazionale, se non irrazionale in se', e' inoltre, secondo il pretore, la fissazione al quadruplo del trattamento minimo (e, fino all'entrata in vigore della citata legge 8 agosto 1995, n. 335, al triplo) per i coniugati (non legalmente ed effettivamente separati) del limite del reddito (cumulato con quello del coniuge): per convincersene basti immaginare che il nostro A, con la sua pensione di 6.000.000 di lire (a calcolo) sia celibe (non legalmente ed effettivamente separato) mentre B sia coniugato: A percepira' la sua integrazione al minimo di 2.143.850 lire e B avra' diritto alla stessa integrazione sulla sua pensione purche' gli ulteriori suoi redditi, cumulati con quelli del coniuge, non superino il limite di L. 30.431.550: A e B percepiranno insomma, in questo caso, la stessa integrazione, pur godendo A di un reddito, al netto dell'integrazione, di L. 6.000.000 e B di 36.431.550; e' vero che B, al contrario di A, e', nella presente ipotesi, sposato, ma egli puo' offrire pur sempre, a giustificazione del tanto notevole incremento del limite di reddito, una sola moglie (come deve presumersi) e non cinque. Se ci sia - o meno - una logica in questa follia lo statuira' la Corte costituzionale. 26. - L'unico criterio che, secondo il pretore, apparirebbe conforme al canone della ragionevolezza, imposto dall'art. 3 della Costituzione, consisterebbe nella introduzione, nella disciplina recata dai primi tre commi, dei seguenti tre punti: a) limite reddituale (di cui al primo comma) pari allo stesso importo del trattamento minimo garantito; b) uguale limite valevole anche per i pensionati coniugati (consistendo, l'unica maniera giusta e ragionevole per far valere giuridicamente la difformita' delle fattispecie concrete di cui trattasi, nella previsione differenziata, da parte del legislatore, della misura del trattamento minimo da garantirsi ai pensionati con persone a carico rispetto a quella da garantirsi ai pensionati privi di persone a carico); g) computo, ai fini della verifica del mancato superamento del limite reddituale, di tutti i redditi imponibili ai fini dell'Irpef, esclusi solo quelli soggetti a tassazione separata (a prescindere dalla norma transitoria riguardante i lavoratori andati in pensione successivamente al 31 dicembre 1993 e fino al 31 dicembre 1994). 27. - Gli interventi di cui al par. che precede appaiono al pretore costituzionalmente obbligati in quanto costituiscono l'unica via per riportare al principio d'uguaglianza la disciplina del criterio di attribuzione del diritto all'integrazione al minimo delle pensioni; tuttavia cio' vale ovviamente in riferimento ai poteri, puramente rescindenti, della Corte costituzionale: e' ovvio che, ove la Corte dovesse condividere quanto il Pretore qui sostiene e dovesse quindi accogliere la questione che si solleva con la presente ordinanza, il legislatore, nell'esercizio di una potesta' politica sua propria, potrebbe decidere di aumentare per tutti i pensionati i trattamenti pensionistici minimi e potrebbe (ed anzi dovrebbe) prevedere che tali trattamenti siano maggiori per i pensionati con persone a carico (con il correlativo aumento, per essi, come e' ovvio, dei limiti reddituali, da mantenersi in ogni caso pari all'importo del reddito garantito dall'integrazione): con gli interventi legislativi supra ipotizzati, insomma, ben potrebbero essere redistribuite alla classe dei pensionati, in forza di atto legislativo ad hoc, le risorse che sarebbero risparmiate in conseguenza della sentenza costituzionale che accogliesse la questione che qui si solleva; in tal modo, tuttavia, le predette risorse sarebbero distribuite in conformita' dell'art. 3 della Costituzione e non in ispreto ad esso. 28. - Ancora, per mera completezza, puo' essere ricordato che, ove la Corte costituzionale accogliesse la presente questione, nessun pensionato, a parere del Pretore, potrebbe essere chiamato a restituire quanto gia' incassato precedentemente in forza dell'applicazione della disciplina sull'integrazione al minimo di cui trattasi: le riscossioni di somme, da parte dei pensionati, che, in conseguenza dell'ipotizzata sentenza costituzionale, verrebbero ad essere qualificate, ora per allora, sine titulo o sarebbero infatti coperte dalla prescrizione ovvero sarebbero comunque irripetibili ex artt. 52 della legge 9 marzo 1989, n. 88 e 13, primo comma, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (potendo ragionevolmente prevedersi che l'Inps e gli organi su di esso vigilanti non insisterebbero, in tal caso, nell'interpretazione fatta propria dalla SC a s. u. con sentenza 22 febbraio 1995, n. 1966, in Guida norm. de Il Sole 24 ore, 28 marzo 1995, 59, 20). 29. - Il pretore non ignora che, con l'importante sentenza 5 febbraio 1988 n. 31, con la quale furono dichiarate non fondate le questioni di legittimita' costituzionale degli artt. 2 e 9 della legge 3 giugno 1975, n. 160 (sollevate in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione), la Corte costituzionale ebbe modo di esprimere alcuni concetti che possono, per qualche verso, apparire in contrasto con quanto si e' fin qui cercato di sostenere. Appare allora opportuno, a questo punto, ripercorrere brevemente i punti salienti di quella motivazione. Va ricordato che le norme predette erano state impugnate nella parte in cui le stesse prevedevano un diverso trattamento minimo di pensione per i lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti e disciplinavano in maniera differente la perequazione antomatica del trattamento minimo delle pensioni stesse. Era stato osservato, nelle ordinanze di rimessione, che, trattandosi di minimi pensionistici, "in quanto tali finalizzati ad assicurare, nell'ambito del sistema di sicurezza sociale, il minimo indispensabile a soddisfare le piu elementari esigenze di sopravvivenza", la previsione d'un diverso criterio d'adeguamento automatico e, conseguentemente, la diversa deteminazione del loro ammontare contrastasse, da un lato, con l'art. 38 della Costituzione, dovendosi ritenere non raggiunto, per la categoria meno favorita, il minimo indispensabile per vivere (come quantificato dallo stesso legislatore per la categoria piu' favorita) e, dall'altro, con l'art. 3 della Costituzione, non essendovi alcun razionale motivo che potesse giustificare, in ordine ai bisogni minimi vitali, una discriminazione fra i titolari dei bisogni stessi a seconda che si trattasse di lavoratori autonomi oppure di lavoratori dipendenti. La Corte ritenne tali questioni non fondate osservando che l'art. 38 della Costituzione distingueva "nettamente i cittadini in genere, di cui al comma 1", dai "lavoratori, cittadini particolarmente qualificati...; il Costituente, privilegiando la posizione dei lavoratori, anche in considerazione del contributo di benessere offerto alla collettivita' oltreche' delle contribuzioni previdenziali prestate, nel comma 1 dell'art. 38 Cost. garantisce ai cittadini il minimo esistenziale, i mezzi necessari per vivere mentre nel comma 2 dello stesso articolo garantisce non soltanto la soddisfazione dei bisogni alimentari, di pura "sussistenza" materiale bensi' anche il soddisfacimento di ulteriori esigenze relative al tenore di vita dei lavoratori. Le prestazioni previdenziali adeguate alle esigenze dei lavoratori ben possono, pertanto, essere differenziate tra le diverse categorie dei medesimi. Non si puo', dunque, genericamente far riferimento al "minimo vitale", richiamando l'art. 38 Cost.; occorre puntualizzare, invece, se ci si riferisce al comma 1 dello stesso articolo, e cioe' ai mezzi necessari per vivere, al minimo esistenziale, alimentare, ed in tal caso e' legittimo richiedere un'indifferenziazione, un'uniformita', una determinazione quantitativa unica, per tutti i cittadini; se, invece ci si riferisce al comma 2 dell'art. 38 Cost. (ed a questo comma si rifanno le ordinanze di rinvio) non e' piu legittimo richiedere una determinazione quantitativa unica, uniforme, per tutti i lavoratori, in quanto l'oggetto della valutazione che conduce al giudizio di adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita puo' riguardare anche la posizione economico-sociale delle diverse categorie di lavoratori, i rischi volontariamente assunti o comunque incombenti, i redditi conseguiti durante l'attivita' lavorativa ecc. la valutazione ora indicata puo' ben condurre a determinazioni quantitativamente diversificate delle prestazioni previdenziali". Inoltre, osservava ancora la Corte, mentre la garanzia assicurata ai cittadini dal primo comma dell'art. 38 della Costituzione "si fonda unicamente sulla solidarieta' collettiva, chiamando i cittadini tutti a fornire i mezzi economico-finanziari indispensabili ad attuare le prestazioni assistenziali..., la garanzia assicurativa ai lavoratori... (di cui all'art. 38, secondo comma) si rifa', implicitamente, almeno finche' sia attuata mediante strumenti mutualistico-assicurativi, alle contribuzioni versate durante i periodi di lavoro. Ed e', invero, questo profilo modale che non permette di ricondurre, senza adeguate considerazioni, al modello di cui al comma 2 dell'art. 38 Cost. l'istituto della pensione minima dei lavoratori, per altro verso rientrante in esso... Per la verita' argomentava ancora la Corte - il legislatore del 1952 fu motivato ad istituire la pensione minima dai casi di bisogno, "quasi" tendendo ad istituire una pensione sociale per i lavoratori: e, se non si fossero verificati mutamenti nelle previsioni legislative successive e nel diritto vivente, si sarebbero posti ulteriori dubbi sulla natura della pensione previdenziale minima. Senonche' ... il motivo iniziale, per il quale i minimi pensionistici per i lavoratori furono istituiti, e' via via venuto meno; ed oggi puo' tranquillamente affermarsi che l'istituto della prestazione pensionistica minima dei lavoratori va ricondotto, senza piu' alcun dubbio, al comma 2 dell'art. 38 Cost. Essendo l'integrazione al minimo concessa anche nei casi di cumulo di pensioni e di pensione e lavoro retribuito, essa non costituisce una pensione sociale dovuta ai lavoratori bensi' uno strumento atto ad offrire mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori stessi. Vale, infatti, ricordare che, nel sistema originario delle norme che regolavano l'integrazione al minimo delle pensioni gestite dall'Inps, il trattamento minimo pensionistico dei lavoratori era riguardato sotto un profilo squisitamente soggettivo (cfr. art. 10, legge 4 aprile 1952 n. 218, nonche' la legge 20 febbraio 1958 n. 55, che ha accentuato questo profilo). In tale logica, l'erogazione del trattamento minimo veniva subordinata al verificarsi di particolari condizioni soggettivo-negative (oltreche' al mancato svolgimento di attivita' lavorativa, al non godimento di altre prestazioni previdenziali, a qualunque titolo percepite, il cui importo complessivo superasse quello del minimo garantito, ecc.) tutte concorrenti a dimostrare che il reddito globale del pensionato fosse, effettivamente, inferiore al minimo pensionistico. Senonche' ben presto leggi, giurisprudenza e prassi amministrativa hanno enucleato situazioni nelle quali il trattamento minimo delle pensioni dei lavoratori e' stato riguardato sotto un profilo oggettivo, quale garanzia, cioe', a che la prestazione pensionistica abbia comunque un determinato livello minimo, a prescindere dalle effettive condizioni soggettive del destinatario. Vanno ricordate, a questo proposito, le leggi 12 agosto 1962 n. 1338, 27 ottobre 1965 n. 1199 e 30 aprile 1969 n. 153, per effetto delle quali l'integrazione al minimo e' stato esclusa, in linea generale, soltanto per i titolari di piu' pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria o di altre forme di previdenza sostitutiva di detta assicurazione, qualora per effetto del cumulo il pensionato fruisca d'un trattamento complessivo di pensione superiore al minimo garantito. L'originaria valutazione del reddito globale del pensionato, ai fini dell'accertamento delle condizioni per l'erogazione del trattamento minimo, e' stata, pertanto, circoscritta ai soli proventi derivanti da trattamenti pensionistici, restando invece esclusa la rilevanza dei redditi derivanti da attivita' lavorativa (v. art. 20 legge n. 153 del 1969 e art. 10, ultimo comma, legge 13 giugno 1975 n. 160); si e' reso obbligatorio, cioe', l'intervento solidaristico anche in ipotesi in cui i bisogni vitali del pensionato certamente risultavano altrimenti soddisfatti. Peraltro, in deroga alla norma che, in ordine al cumulo di pensioni, limitava l'integrazione al minimo all'ipotesi in cui l'importo complessivo delle pensioni cumulate fosse inferiore al minimo garantito, l'art. 23 legge n. 153 del 1969 ha consentito l'integrazione al minimo delle pensioni dirette Inps in caso di cumulo con pensioni di riversibilita' erogate dallo stesso Inps. A seguito della legge n. 114 del 1974 e della sentenza di questa Corte n. 230 del 1974 l'integrazione delle pensioni dirette Inps e' stata consentita anche in caso di cumulo con pensioni di riversibilita' erogate dallo stesso Inps. Ulteriori espansioni del diritto ad ottenere il trattamento minimo, in caso di cumulo di pensioni, si sono avute in conseguenza di successive decisioni di questa Corte: in particolare a seguito della sentenza n. 263 del 1976 (che ha reso possibile anche l'integrazione al minimo delle pensioni dirette d'invalidita' a carico dell'Inps nell'ipotesi di cumulo con pensioni dirette dello Stato) e della sent. n. 34 del 1981 ... nonche' dalla recente sentenza n. 314 del 1985. In tal modo il legislatore ed il diritto vivente hanno finito ancor piu' col nettamente distinguere la "pensione sociale", di cui al comma 1 dell'art. 38 Cost., dal trattamento minimo dei lavoratori pensionati in quanto la prima importa necessariamente l'effettiva dimostrazione dello stato di bisogno del beneficiario mentre il secondo non e' per nulla condizionato da tale dimostrazione ...". La Corte escludeva poi il prospettato contrasto con l'art. 3 della Costituzione richiamandosi alla sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale il precetto in parola "non puo' ritenersi violato allorche' il legislatore assoggetti a disciplina diverse situazioni che presentino elementi di differenziazione tali da giustificare una diversita' di regolamentazione". 30. - Il pretore condivide senz'altro alcune delle considerazioni svolte dalla Corte nella sentenza della quale supra si sono riportati alcuni significativi passi: non puo' essere messa in dubbio, ad esempio, la facolta' del legislatore, ed anzi il suo obbligo, di trattare in maniera differenziata i cittadini (di cui al primo comma dell'art. 38 della Costituzione) dai lavoratori di cui al secondo comma; naturalmente, inoltre, lo stesso legislatore e' legittimato a stabilire trattamenti differenziati tra le varie categorie di lavoratori, anche in questa materia dei trattamenti minimi di pensione, in ragione della rilevanza di varie connotazioni della fattispecie (come, per esempio, il differente prelievo contributivo incidente sulla categoria); il pretore osserva tuttavia che l'attenzione della Corte costituzionale aveva ad oggetto, nel caso della sentenza n. 31, fattispecie concrete differenziate secondo criteri generali aventi una propria ragion d'essere (cittadini non lavoratori, lavoratori autonomi appartenenti a varie categorie professionali, lavoratori subordinati). Nel caso dei commi 1 e 1 bis dell'art. 6 capita, al contrario, che la disciplina del trattamento minimo sia stata congegnata in modo da favorire del tutto casualmente coloro che si trovino in certe particolari condizioni, o meglio: da provocare, senza alcuna giustificazione, un trattamento indifferenziato di fattispecie assai diverse. 31. - Va poi osservato che la mancanza di una norma generale in ordine al limite di reddito relativo al diritto al trattamento minimo di pensione e' stata a lungo di fatto surrogata dalle norme che imponevano, in caso di bititolarita', di tener conto, ai fini dell'an e del quantum dell'integrazione, anche della seconda pensione (prima fra queste l'art. 10, quinto e sesto comma, della legge 4 novembre 1952, n. 218): poiche' erano pochi i pensionati che, titolari di una pensione che, a calcolo, sarebbe stata inferiore al trattamento minimo, potessero al tempo stesso vantare redditi diversi da quelli pensionistici, la norma in parola aveva, in concreto, quasi lo stesso effetto che avrebbe avuto una norma riferita a un generale limite di reddito pari al trattamento minimo garantito; l'art. 5 della legge 20 febbraio 1958, n. 55, prevedendo anche, ai fini dell'integrazione (o, quanto meno, ai fini dell'aumento dell'integrazione, prevista dalla stessa norma), che "il titolare della pensione non - prestasse - opera retribuita alle dipendenze di terzi..." incrementava viepiu', come del resto notato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 31, il rilievo giuridico delle condizioni reddituali del pensionato (potendo ritenersi veramente pochi i titolari di una pensione che, a calcolo, sarebbe stata inferiore al trattamento minimo i quali godessero al tempo stesso, in misura non trascurabile, di redditi fondiari, di capitale o d'impresa). 32. - Quanto all'osservazione della Corte secondo la quale "ben presto leggi, giurisprudenza e prassi amministrativa hanno enucleato situazioni nelle quali il trattamento minimo delle pensioni dei lavoratori e' stato riguardato sotto un profilo oggettivo, quale garanzia, cioe', a che la prestazione pensionistica abbia comunque un determinato livello minimo, a prescindere dalle effettive condizioni soggettive del destinatario" il pretore ritiene non priva di rilevanza la considerazione che, di fatto (e a prescindere dalla questione, politicamente particolare, della compatibilita' delle pensioni in genere coi redditi di lavoro), le leggi che consentivano di superare i rigidi limiti in cui era normalmente possibile l'integrazione al minimo riguardavano casi statisticamente marginali: fu la serie di sentenze costituzionali inaugurata da quella n. 230 del 1974 ad ampliare via via questa casistica, di guisa che la giurisprudenza e la prassi amministrativa non potettero che prendere atto della nuova situazione normativa. Se si considera pero' che nessuna delle sentenze costituzionali ora ricordate fu pronunziata in riferimento all'art. 38 della Costituzione ma tutte, invece, in esclusivo riferimento all'art. 3 della Costituzione (essendo, in esse, assurte, le anomale norme derogatrici della regola generale, a tertium comparationis) appare difficile sostenere che, per effetto di tali sentenze, dovute a ragioni tanto contingenti e comunque del tutto estranee all'ambito dei principi del diritto previdenziale, l'istituto dell'integrazione al minimo abbia acquisito una valenza giuridico-costituzionale diversa dalla precedente. E' ben vero che un istituto potrebbe mutare i suoi connotati giuridici non in forza di atti diretti a tale scopo bensi' per effetto di una serie indistinta e casuale di atti o fatti socialmente rilevanti (e cioe', in breve, per un determinato corso della storia), tuttavia va notato che, nel caso dell'integrazione al minimo, era stata la stessa Corte costituzionale a ricusare la tesi secondo la quale le sue sentenze avessero cagionato uno snaturamento dell'istituto in parola. La Corte, infatti, nella sentenza 27 maggio 1982, n. 102, affermo' testualmente: "Non ignora la Corte la situazione che si e' venuta a determinare nella normativa previdenziale a seguito delle deroghe al principio originario (che vietava l'integrazione al minimo della pensione Inps quando veniva a cumularsi con altri trattamenti pensionistici e con tale cumulo si veniva a superare il minimo garantito) introdotte dal legislatore e dalle conseguenti decisioni di questa stessa Corte, che hanno esteso tali deroghe a situazioni analoghe, a tutela del principio costituzionale d'eguaglianza. Cio' rende quanto mai opportuno e urgente un intervento del legislator e che riesamini sul piano generale, ispirandosi ai principi contenuti negli artt. 3 e 38 Cost., la materia relativa all'integrazione al minimo delle pensioni Inps. Va da se' che lo stesso legislatore, sempre tenendo presenti i suddetti principi, dovra' riconsiderare in particolare il fondamento del criterio derogatore che e' stato all'origine della sequenza giurisprudenziale di questa Corte". Dunque, se il pretore mal non interpreta le parole della sentenza, la Corte, ripudiando la tesi del mutamento, o quanto meno dell'irreversibile mutamento, dell'istituto in parola, auspicava in quella occasione che il legislatore tornasse, per cosi' dire, alle origini, cancellando, con le deroghe che avevano occasionato gli interventi della Corte, anche quelle introdotte dalla Corte stessa. 33. - E in effetti l'auspicato intervento del legislatore ci fu, rappresentato proprio dall'art. 6 del d.-l. n. 463, non rammentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 31 ma assai importante, a parere del pretore, per dimostrare che il legislatore non intendeva affatto abbandonare - o intendeva comunque recuperare - la dimensione soggettiva del requisito della prestazione pensionistica integrativa: bene o male, infatti, un limite generale di reddito individuale fu, con la disposizione in discorso, introdotto, a prova che l'integrazione al minimo non veniva vista dal legislatore "sotto un profilo oggettivo, quale garanzia, cioe', a che la prestazione pensionistica abbia comunque un determinato livello minimo, a prescindere dalle effettive condizioni soggettive del destinatario". Si tratta ora, tuttavia, di verificare che il limite di reddito in questione sia conforme, anche nel quantum, a un criterio di ragionevolezza, cosi' come del resto devono obbedire al criterio predetto le regole che presiedono al computo del reddito del pensionato al fine dell'accertamento dell'esistenza del diritto all'integrazione al minimo della sua pensione. 34. - Il fatto certo, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 31, e' che l'integrazione pensionistica di cui si tratta non ha, per il suo beneficiario, una diretta copertura contributiva: cio' rimane vero sia che s'intenda ricollegare l'istituto in questione alla garanzia assistenziale apprestata dal primo comma dell'art. 38 della Costituzione sia che, invece, lo stesso istituto venga ritenuto pertinente al secondo comma dello stesso articolo, e pertanto di natura previdenziale: in entrambi i casi il peso economico dell'integrazione gravera' su persone diverse dal beneficiario: tendera' a gravare sull'intera collettivita' nazionale se prevarra', nel legislatore, l'idea che l'intervento abbia natura assistenziale mentre sara' posto specialmente a carico del gruppo professionale nel quale il pensionato ha maturato la pensione integranda nel caso contrario, in cui si affermi la sua natura previdenziale. In ciascuna delle due ipotesi interpretative supra illustrate occorre pur sempre, a parere del pretore, che i terzi siano chiamati a prestare la loro solidarieta per un giustificato motivo e non a causa di situazioni non indicative, di per se', di una necessita' di solidarieta' maggiore rispetto a quella obiettivamente presentata da situazioni del tutto consimili, che il legislatore non ritiene invece meritevoli di tale solidarieta'. Una persona puo' trovarsi ad essere titolare di una pensione inferiore al minimo, insieme con altra pensione superiore al minimo, solo per avere, a suo tempo, fatto la scelta di non richiedere una ricongiunzione (oppure per avere dimenticato di richiedere tale ricongiunzione o per non avere mai saputo di poterla richiedere): l'ipotetico principio per cui, di la' dalla considerazione della condizione soggettiva di tale pensionato, la sua pensione, solo per la circostanza obiettiva che essa si trova ad essere inferiore a un certo minimo, dovrebbe comunque essere incrementata fino al raggiungimento del minimo stesso soddisfa certamente un'astratta esigenza di uniformita', riguardata come valore in se', ma non appare in alcun modo ricollegabile, a parere del pretore, a sostanziali motivi di ordine giuridico, sociale od economico. 35. - Il primo comma dell'art. 38 della Costituzione afferma il diritto di ogni cittadino "al mantenimento e all'assistenza sociale" mentre il capoverso garantisce ai lavoratori "mezzi adeguati alle loro esigenze di vita": entrambe le disposizioni, dunque, prendono in considerazione la persona del cittadino o del lavoratore, con le sue complessive esigenze di vita, e non certo le singole prestazioni pensionistiche, distinguibili tra loro attraverso criteri meramente giuridici; non sembra, dunque, che il principio di un'incondizionata integrazione di ogni prestazione pensionistica inferiore a un certo minimo possa in qualunque modo desumersi dall'art. 38 della Costituzione e comunque, al contrario, pare in ogni caso che lo stesso principio sia incompatibile con l'art. 3 della Costituzione: si compari la situazione del pensionato ipotizzata sub par. 34 con quella di altro pensionato avente la stessa storia lavorativa e la stessa situazione patrimoniale del primo, il quale pero' abbia invece chiesto la ricongiunzione contributiva dei suoi periodi lavorativi ottenendo quindi, alla cessazione della sua attivita' di lavoro, la liquidazione di un unico trattamento di quiescenza, ovviamente superiore al minimo: certamente questo secondo lavoratore non otterra', al contrario del primo, alcuna integrazione, anche se la difformita' tra le due fattispecie non appare affatto tale da giustificare ragionevolmente il diverso trattamento giuridico cui esse danno luogo. 36. - Deve dunque riconoscersi che la questione di legittimita' costituzionale dei commi 1 e 1-bis dell'art. 6 del d.-l. 12 novembre 1983 n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre 1983 n. 638), come risultano a seguito delle modifiche operate dall'art. 4 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 e dall'art. 2, quattordicesimo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 335: a) nella parte in cui negli stessi non e' previsto, quale limite di reddito oltre il quale viene meno il diritto all'integrazione al minimo delle pensioni, l'importo del trattamento minimo che la stessa integrazione assicura; b) nella parte in cui tale limite non e' previsto per tutti i pensionati, compresi i coniugati (salva, ovviamente, la potesta' del legislatore di aumentare, per i pensionati con persone a carico, non gia' il limite di reddito entro il quale poter beneficiare dell'integrazione ma la stessa misura del trattamento minimo garantito); g) nella parte in cui non e' prescritto che tutti i redditi non soggetti a tassazione separata ai fini dell'irpef, compreso quello della pensione da integrare, concorrano al computo necessario alla verifica reddituale di cui trattasi; non e', in riferimento all'art. 3 della Costituzione, manifestamente infondata. 37. - Va ordinata pertanto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; il presente giudizio va sospeso.