IL PRETORE
   Pronunziando fuori udienza nelle  tre  cause  riunite  promosse  da
 Maria Fiorina Di Ciocco (la prima), Lina Bongiovanni + 8 (la seconda)
 e  Adelmina  Maini  (la  terza)  contro  l'Istituto  nazionale  della
 previdenza sociale, cause tutte ora iscritte sotto il n. 3906 del Rgl
 dell'anno 1993 della pretura di Bologna;
   Sciogliendo la riserva;
                              Os s e r v a
   Richiami allo svolgimento del processo.
   1. - Con ricorso depositato il 29 settembre 1993 Maria  Fiorina  Di
 Ciocco,  titolare di due pensioni dell'Inps (l'una d'invalidita', con
 decorrenza dal 1 dicembre 1965,  e  l'altra  di  riversibilita',  con
 decorrenza  dal 1 dicembre 1968), esponeva di avere presentato, il 29
 marzo 1986, domanda in  sede  amministrativa  per  l'integrazione  al
 trattamento  minimo  di  quest'ultima,  domanda  che  era stata pero'
 respinta dall'Inps "per avvenuto decorso  del  termine  decennale  di
 decorrenza per la proposizione dell'azione giudiziaria".
   Argomentato  in  ordine  all'infondatezza  della  posizione assunta
 dall'Inps   (ribadita   dall'Istituto    in    sede    d'impugnazione
 amministrativa)  l'attrice  concludeva  chiedendo la declaratoria del
 suo diritto alla predetta integrazione, negli eventuali limiti  della
 prescrizione,  con  applicazione della cristallizzazione, a decorrere
 dal 1 ottobre 1983, ex art. 6, settimo comma, del d.-l. 12  settembre
 1983,  n.  463  (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11
 novembre 1983, n. 638).
   Costituitosi in giudizio il convenuto contrastava in diritto quanto
 sostenuto dalla parte attrice eccependo l'estinzione per decadenza  e
 o  per  prescrizione  di  ogni  possibile  diritto  rivendicato dalla
 medesima e osservando che, quanto meno  a  decorrere  dal  1  ottobre
 1983, doveva certamente escludersi ogni trattamento integrativo della
 seconda  pensione  essendo, la cristallizzazione, esclusa nei casi di
 bititolarita', come da  interpretazione  autentica  dell'art.  6  del
 citato  d.-l.  12  settembre  1983,  n.  463,  recata  dall'art.  11,
 ventiduesimo comma, della legge 24  dicembre  1993,  n.  537;  l'Inps
 prendeva quindi le conseguenti conclusioni.
   2.  - Altra domanda di contenuto giuridico analogo veniva proposta,
 con ricorso depositato il 4  novembre  1993,  dai  nove  eredi  (Lina
 Bongiovanni  +  8)  della pensionata bititolare di pensioni dell'Inps
 Florinda Carpanelli; pure in  tal  caso  il  convenuto,  costituitosi
 ritualmente  in  giudizio, replicava con difese ed eccezioni simili a
 quelle del precedente giudizio.
   3. - Con un terzo ricorso, depositato il 21 dicembre 1993, Adelmina
 Maini,  anch'ella  bititolare di pensioni dell'Inps, lamentava che il
 predetto   Istituto   ricusasse   di    riconoscerle    il    diritto
 all'integrazione  al minimo sulla seconda pensione e proponeva dunque
 una  domanda  analoga  a  quella  degli  altri  ricorrenti;  in  tale
 giudizio,  tuttavia,  il  convenuto, nel costituirsi in giudizio, non
 contestava il  diritto  della  pensionata  al  trattamento  ordinario
 d'integrazione  sulla  seconda  pensione  fino  al 30 settembre 1983,
 limitandosi a negare il suo diritto  alla  cristallizzazione  per  il
 periodo successivo.
   4.  -  Riuniti i tre processi ai sensi dell'art. 151 disp. att. cpc
 ed acquisite agli atti, all'udienza del 28 marzo 1995,  dichiarazioni
 sostitutive  di  notorieta'  attestanti  i redditi percepiti nel 1983
 dalle  tre  pensionate  de  quibus,  prodotte   dal   difensore   dei
 ricorrenti, il pretore, all'udienza del 26 settembre 1995, invitava i
 difensori  a  prendere in esame, svolgendo le considerazioni ritenute
 in  proposito  piu'   opportune,   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.    6  del  d.-l.  12 settembre 1983, n. 463
 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre  1983,
 n.  638,  e  poi  piu' volte, successivamente, ancora modificato), in
 riferimento all'art. 3 della Costituzione,  nella  parte  in  cui  la
 disposizione   in   parola   prevede,   per  l'accesso  al  beneficio
 dell'integrazione, un limite di reddito diverso e piu' ampio rispetto
 alla  misura  reddituale  che  lo   stesso   meccanismo   integrativo
 garantisce come minima.
   Indi il pretore si riservava per pronunziare la presente ordinanza.
   Della   rilevanza   nel   presente   giudizio  della  questione  di
 legittimita' costituzionale supra indicata.
   5. - Thema decidendum comune a tutti e tre i giudizi riuniti e'  il
 diritto  alla  cristallizzazione  della  seconda  pensione in caso di
 bititolarita'; in due dei tre processi, tuttavia, l'Inps solleva,  in
 via  principale,  l'eccezione  di decadenza ex art. 47 del d.P.R.  30
 aprile 1970, n. 639, interpretato secondo i dettami dell'art.  6  del
 d.-l.  29  marzo 1991, n. 103, convertito in legge con legge 1 giugno
 1991, n. 166 ("I termini  previsti  dall'art.  47,  commi  secondo  e
 terzo,  del  d.P.R.  30  aprile  1970,  n.  639, sono posti a pena di
 decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale.
 La decadenza determina l'estinzione del diritto  ai  ratei  pregressi
 delle  prestazioni  previdenziali e l'inammissibilita' della relativa
 domanda giudiziale.  In  caso  di  mancata  proposizione  di  ricorso
 amministrativo  i  termini  decorrono  dall'insorgenza del diritto ai
 singoli ratei").
   6. - Deve preliminarmente osservarsi che la questione  della  retta
 interpretazione  delle norme sulla decadenza e' tema assai arduo (sul
 quale sembra stiano per pronunciarsi le sezioni unite della Corte  di
 cassazione);  se  qui  se ne accenna e' solo, ovviamente, nell'ambito
 della delibazione della rilevanza nel presente giudizio (rectius:  in
 ciascuno  dei  giudizi  riuniti)  della  questione  di   legittimita'
 costituzionale  che  il  pretore  ha  inteso prendere in esame: nella
 prospettazione dell'Inps, infatti, l'accoglimento  dell'eccezione  de
 qua  comporterebbe  de plano il rigetto delle domande attoree, con la
 conseguenza  che  le  norme  che  potrebbero   essere   sospette   di
 illegittimita'  costituzionale  sarebbero  prive di ogni rilevanza ai
 fini  della  decisione  delle  cause nelle quali l'eccezione e' stata
 sollevata.
   7. - Il pretore osserva tuttavia, a questo proposito,  che,  a  ben
 vedere,  una  pronuncia  di inesistenza del diritto per estinzione di
 esso per  decadenza  avrebbe,  sia  pure  solo  dal  punto  di  vista
 puramente  formale,  un  contenuto giuridico diverso da quello di una
 pronuncia di inesistenza del diritto per non  essere  lo  stesso  mai
 venuto  ad  esistenza  (e  quest'ultima  sarebbe  invece la pronuncia
 conseguente  a  un'eventuale  accoglimento,  da  parte  della   Corte
 costituzionale,   della  questione  che  e'  oggetto  della  presente
 ordinanza): gia' per questo verso, quindi, non sembra che,  anche  in
 caso  di accoglimento dell'eccezione di decadenza nei precisi termini
 prospettati dall'Inps, potrebbe parlarsi di irrilevanza, ai fini  del
 giudizio, della questione di legittimita' costituzionale in discorso.
   8.  -  Inoltre  va  osservato  (anche se l'osservazione riguarda in
 concreto solo la ricorrente  Maria  Fiorina  Di  Ciocco,  posto  che,
 nell'altro  giudizio  nel  quale  e'  stata  sollevata l'eccezione di
 decadenza, il ricorso e' stato proposto dagli eredi della  pensionata
 originariamente  interessata,  spirata  prima  della proposizione del
 ricorso   giudiziario)   che,   anche   in   caso   di   accoglimento
 dell'eccezione  dell'Inps, le conseguenze giuridiche, per la predetta
 ricorrente Maria Fiorina Di Ciocco, non  potrebbero  essere  in  toto
 quelle   prospettate  dallo  stesso  Istituto  (e  cioe'  il  rigetto
 integrale della domanda) posto che la decadenza di cui  trattasi  mai
 potrebbe investire l'eventuale diritto dell'attrice avente ad oggetto
 la   cristallizzazione  dell'integrazione  al  minimo  della  seconda
 pensione  limitatamente  ai  ratei  maturati   successivamente   alla
 notificazione  del  ricorso:  va  ricordato  infatti, sul punto, che,
 secondo quanto convincentemente affermato dalla Corte  costituzionale
 nella sentenza 20 maggio 1992, n. 246, "l'art. 6 del d.-l. n. 106 del
 1991,  cosi'  come l'art. 47 del  d.P.R. n. 639 del 1970, al quale si
 riferisce, non puo' riguardare la disciplina del diritto  a  pensione
 ma solo quella del diritto ai ratei di essa".
   9.  -  Per  concludere  l'argomento della eccezione di decadenza in
 relazione ai suoi effetti  circa  la  rilevanza  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale  in esame, va infine pur sempre tenuto a
 mente che la predetta eccezione di decadenza non e'  stata  sollevata
 nella  causa riunita promossa da Adelmina Maini, di guisa che, se non
 altro in relazione a tale giudizio,  del  tema  della  decadenza  non
 potrebbe   tenersi  alcun  conto  ai  fini  della  delibazione  della
 rilevanza della prospettata questione di legittimita' costituzionale.
   10. - Prima di entrare in medias res, per esaminare  da  vicino  la
 norma  che  il  pretore sospetta di illegittimita' costituzionale, e'
 necessario concludere la verifica della rilevanza della questione  di
 legittimita' costituzionale de qua.
   E'  opportuno a tal fine (ed anche al fine delle argomentazioni che
 si svolgeranno  ultra  circa  la  non  manifesta  infondatezza  della
 questione di legittimita' costituzionale che s'intende qui sollevare)
 richiamare  brevemente,  anche  dal punto di vista storico, il quadro
 normativo che viene in campo.
   11. - Con l'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463  (convertito
 in  legge,  con modificazioni, con legge 11 novembre 1983, n. 638) il
 legislatore aveva  dettato  una  disciplina  dell'integrazione  delle
 pensioni al minimo fondata su due principi: 1) esclusione del diritto
 all'integrazione  nel  caso di superamento, da parte del titolare, di
 certi limiti di reddito, indicati nel primo comma della  disposizione
 citata;  2)  integrabilita',  nel  caso  di  concorso  di  due o piu'
 pensioni e sempre che fossero rispettati i predetti  limiti,  di  una
 sola pensione, da individuarsi con i criteri indicati nel terzo comma
 (principio dell'unicita' dell'integrazione).
   Con  il  comma  settimo  si  disponeva  inoltre che l'importo della
 pensione non piu' integrabile erogato alla  data  di  cessazione  del
 diritto   all'integrazione   (30  settembre  1983)  fosse  conservato
 (cristallizzato) fino ad assorbimento di  esso  negli  aumenti  della
 pensione  base  determinata  ai  sensi  del  sesto comma del medesimo
 articolo,  aumenti  derivanti  dalla  disciplina  della  perequazione
 automatica richiamata nel quinto comma.
   Secondo l'interpretazione dell'Inps e di parte della giurisprudenza
 di  merito il settimo comma era riferibile esclusivamente all'ipotesi
 di cessazione del diritto all'integrazione di una sola  pensione  per
 superamento  dei  limiti  di  reddito  e  non  al  caso di bi o pluri
 titolarita' di pensioni tutte integrate o integrabili al  minimo:  in
 tale  ipotesi,  qualora  il  diritto all'integrazione al minimo fosse
 venuto   meno   per   superamento   del   limite   di   reddito    la
 cristallizzazione  sarebbe  stata  riconosciuta  solo con riferimento
 alla pensione principale (individuata ex art.  6,  terzo  comma,  del
 d.-l.  12  settembre 1983, n. 463) e non alle pensioni ulteriori, che
 sarebbero state ricondotte (ovvero:  sarebbero rimaste determinate) a
 calcolo, con esclusione, quindi, di ogni cristallizzazione.
   La giurisprudenza unanime  della  suprema  Corte,  invece  (v.,  ex
 multis,  Cass.  17 luglio 1990, n. 7315, in Rep. giur. lav., 89 - 90,
 1373, 52-bis; Cass. 3749/90; Cass. 842/91; Cass. 2  aprile  1993,  n.
 4015  e n. 3992, in Foro It. Rep., 1993, voce Previdenza Sociale, nn.
 783 e 784),  aveva  sostenuto  l'applicabilita'  del  settimo  comma,
 concernente  la  cristallizzazione,  non  solo al caso di superamento
 reddituale ma anche a quello di bititolarita' (v. anche  Corte  cost.
 19  novembre  1991,  n.  418, in Cons. St., ii, 1823, che aveva pero'
 ritenuto  il  settimo  comma  applicabile  a  tale  ipotesi  in   via
 analogica, anziche' diretta).
   Successivamente  il  legislatore e' intervenuto in materia dapprima
 con norme  contenute  in  alcuni  decreti-legge  non  convertiti  nei
 termini prescritti (e pertanto privi di efficacia ex tunc) e, infine,
 con  l'art.  11, ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n.
 537, che, in sostanza, reitera quanto gia' disposto  con  i  predetti
 decreti.   La norma in questione disponeva che l'art. 6, commi 5, 6 e
 7 del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 "si interpreta  nel  senso  che
 nel  caso  di  concorso  di  due o piu' pensioni integrate al minimo,
 liquidate con decorrenza anteriore alla data di entrata in vigore del
 predetto decreto-legge, il trattamento  minimo  spetta  su  una  sola
 delle  pensioni, come individuata secondo i criteri previsti al terzo
 comma dello stesso articolo,  mentre  l'altra  o  le  altre  pensioni
 spettano  nell'importo  a  calcolo  senza  alcuna integrazione".   La
 disposizione  citata  mirava  dunque  ad  impedire  l'estensione   ai
 bititolari,  affermata  dalla  giurisprudenza  di legittimita', della
 cristallizzazione della seconda pensione non piu' integrabile dopo il
 30 settembre 1983 e cio' riguardava sia il caso in cui il  bititolare
 non avesse piu' diritto all'integrazione ordinaria perche' superava i
 limiti  di reddito, sia il caso in cui il bititolare, non superando i
 limiti di reddito, godesse dell'integrazione in via ordinaria su  una
 sola pensione.  Nel primo caso dunque il pensionato, in base all'art.
 11  citato,  perdeva  il diritto alla cristallizzazione della seconda
 pensione mantenendo tuttavia il diritto sulla pensione principale  al
 mantenimento   del  trattamento  minimo  cristallizzato  nell'importo
 spettante al 30 settembre 1983; nel secondo caso il  pensionato,  non
 superando  il  limite reddituale, conservava l'integrazione al minimo
 sulla pensione principale ma perdeva invece, ex art. 11, il beneficio
 della cristallizzazione sulla seconda pensione.
   12. - La mancata differenziazione dei due  casi  ha  costituito  la
 base della motivazione con la quale la Corte costituzionale, ritenuta
 la  violazione  degli artt. 3 e 38 della Costituzione, ha pronunciato
 la sentenza 10 giugno 1994, n. 240 (in Foro It., i, 2019 e in  Giust.
 Civ.,  i,  1743).    Il  dispositivo di tale sentenza e' del seguente
 tenore:  "La  Corte  costituzionale  ...  dichiara   l'illegittimita'
 costituzionale  dell  'art.  11,  ventiduesimo  comma, della legge 24
 dicembre 1993, n. 537 ... nella parte in cui - nel caso  di  concorso
 di due o piu' pensioni integrate o integrabili al trattamento minimo,
 delle  quali  solo  una conserva il diritto all'integrazione ai sensi
 dell 'art. 6, terzo comma, del d.-l. 12 settembre 1983, n.  463  ...,
 non  risultando  superati al 30 settembre 1983 i limiti di reddito di
 cui ai commi precedenti -  prevede  la  riconduzione  dell'importo  a
 calcolo  dell'altra  o  delle  altre  pensioni  non piu' integrabili,
 anziche' il mantenimento di esse  nell'importo  spettante  alla  data
 indicata,  fino  ad  assorbimento  negli  aumenti della pensione base
 derivanti dalla perequazione automatica".
   13. - Poiche' i "limiti di reddito di cui ai commi precedenti",  di
 cui  parla la Corte nel dispositivo supra riportato, sono appunto gli
 stessi limiti di reddito che, ai sensi di tali "commi precedenti" (1,
 1-bis e 2 dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983, n.  463),  fungono
 da criterio per la concessione della integrazione al minimo ordinaria
 sulla   prima   pensione,   ne   deriverebbe   che,   in  conseguenza
 dell'applicazione   della    sentenza    costituzionale    de    qua,
 l'incontestato   godimento,   da   parte   di  un  pensionato,  della
 integrazione  al   minimo   ordinaria   sulla   pensione   principale
 costituirebbe  al  tempo  stesso la prova (proveniente dall'Inps) del
 diritto   del   pensionato   medesimo   ad    ottenere    anche    la
 cristallizzazione   della   integrazione   al  minimo  sulla  seconda
 pensione.   In effetti una  parte  della  giurisprudenza  di  merito,
 opinando  che  la  funzione  interpretativa  della motivazione di una
 sentenza rispetto al dispositivo soccorra solo entro gli spazi  delle
 interpretazioni  intrinsecamente  possibili  del dispositivo stesso e
 mai possa valere a conferire  al  dispositivo  un  senso  diverso  da
 quello  proprio  delle  parole  usate  nel  dispositivo  medesimo, ha
 ritenuto di applicare la disciplina di risulta nel modo suddetto  (va
 del resto incidentalmente notato che la scelta operata dalla predetta
 giurisprudenza e' in effetti confortata dalla costante giurisprudenza
 della  SC, la quale, prendendo in esame ex professo la questione, ha,
 anche di recente, ribadito  che  "la  motivazione  esaurisce  la  sua
 funzione  nel  fornire  la  ragione socio-giuridica del decisum della
 Corte (costituzionale) ma e' soltanto il dispositivo ad avere effetti
 sul tessuto normativo, che e' modificato dal giorno  successivo  alla
 pubblicazione  del  dispositivo  ed  e'  pertanto  al dispositivo che
 occorre  avere  riguardo per stabilire la norma vigente e regolatrice
 della fattispecie": s. u., 29 maggio 1995, n. 6041, in  Giust.  civ.,
 i, 1749, nella quale si richiamano numerosi precedenti conformi della
 stessa  SC,  tra  i  quali un'altra pronunzia delle s. u.: 7 novembre
 1993, n. 2904).
   Se volesse percorrersi la strada interpretativa ora  ricordata  non
 potrebbe  esservi  dubbio circa la fondatezza, nel merito, allo stato
 degli atti (salvi gli ulteriori profili da esaminare), delle  domande
 attoree (e dunque, di converso, circa la rilevanza della questione di
 legittimita' costituzionale in discorso nel presente giudizio); cio',
 quanto  meno, in riferimento all'attrice Adelmina Maini, per la quale
 non  ricorre  alcuna  ipotesi  di  decadenza:  poiche',  infatti,  e'
 pacifico  che  entrambe  le  pensionate  ricorrenti incontestatamente
 godono (e la pensionata dante causa degli  altri  ricorrenti  godeva)
 della  integrazione  al  minimo ordinaria sulla prima pensione, cio',
 allo stato attuale (e cioe' ove non intervenisse una pronuncia  della
 Corte  costituzionale di accoglimento della questione di legittimita'
 costituzionale oggetto della presente ordinanza), sarebbe sufficiente
 a dimostrare il diritto di tutte e  tre  le  pensionate  medesime  (o
 quanto meno, come si e' detto, di Adelmina Maina) ad ottenere (salvi,
 come  si  e'  accennato,  i  profili  ancora  da  esaminare) anche la
 cristallizzazione  della  integrazione  al   minimo   sulla   seconda
 pensione.
   14.  -  Il  pretore,  tuttavia,  in  conformita' anche con la prima
 giurisprudenza della SC successiva alla  sentenza  costituzionale  n.
 240,  non ritiene di poter dare un'interpretazione cosi' formalistica
 alla predetta  sentenza  costituzionale:  basti  solo  osservare,  in
 proposito,  che  una  tale interpretazione metterebbe nel nulla tutto
 l'iter  argomentativo  che  precede  il  dispositivo   e   che   cio'
 apparirebbe davvero inaccettabile; sulla scia - del resto - di quanto
 gia'    avvenne   in   occasione   dell'emanazione   della   sentenza
 costituzionale 18 giugno 1986, n. 137,  che,  parimenti,  plus  dixit
 (nel   dispositivo)  quam  voluit,  occorre  dunque  interpretare  la
 sentenza de qua come se la sua  parte  dispositiva  facesse  espresso
 richiamo alla parte motiva di essa, e segnatamente al suo @ 6, ove la
 Corte  fa  in effetti riferimento, per individuare coloro per i quali
 deve operare la regola della  cristallizzazione,  ai  pensionati  che
 "pur  con  l'apporto di una seconda pensione, risulta(no) in possesso
 di un reddito complessivamente inferiore al limite legale".
   15. - Naturalmente, anche cosi' interpretata,  la  pronuncia  della
 Corte lascia spazio a una serie di interrogativi in ordine ai criteri
 da  utilizzare  per  la verifica del mancato superamento dei redditi,
 sia in ordine al criterio di individuazione  degli  elementi  addendi
 (per  esempio: va computato o meno, ai fini che qui vengono in campo,
 l'importo della prima pensione  (il  quale,  come  e'  noto,  non  e'
 computabile,  ex art. 6, comma 1-bis, del d.-l. 12 settembre 1983, n.
 463, ''introdotto dall'art. 4 del d.lgs. 30  dicembre 1992, n. 503'',
 ai fini della verifica reddituale relativa  all'integrabilita'  della
 stessa  prima  pensione)?)  sia  in  ordine  al criterio temporale di
 riferimento.
   16. - Con specifico riguardo alle questioni afferenti a tale ultimo
 criterio e' stato in alcune pronunzie affermato che  dovrebbe  essere
 preso  in  esame  solo  il  periodo di entrata in vigore del d.-l. 12
 novembre 1983, n. 463; tale orientamento, nell'ambito del  quale  non
 sempre  e'  chiaro  se si intenda che debba essere considerato l'anno
 civile 1983 oppure l'anno  solare  decorrente  dal  1  ottobre  1983,
 consegue in sostanza a un'applicazione meccanica e del tutto astorica
 del  concetto  posto dalla Corte costituzionale a base della sentenza
 n.  240.  Si tratta, in breve, di questo: la  Corte  ha  testualmente
 affermato:    "Quando l'intervento legislativo incide sul trattamento
 di soggetti i quali, sebbene titolari di due o piu'  pensioni,  hanno
 un  reddito  complessivo inferiore al limite fissato dal d.-l. n. 463
 del 1983, cosi' che per essi la  modifica  legislativa  comporta  una
 compressione   delle   esigenze   di  vita  cui  era  precedentemente
 commisurata   la   prestazione   previdenziale,   il   principio   di
 solidarieta'  (sotteso all'art. 38 Cost.) coordinato col principio di
 razionalita'-equita'  (art.   3   Cost.),   impone   una   disciplina
 transitoria  che  assicuri  un passaggio graduale al trattamento meno
 favorevole": certamente,  stando  alla  semplice  lettura  di  quanto
 affermato  dalla  Corte  costituzionale,  sembrerebbe  doversi  avere
 riguardo al momento in cui interviene "la  modifica  legislativa",  e
 cioe',   appunto,   al   1983;   tuttavia  il  pretore  ritiene  che,
 nell'applicazione  concreta  del  decisum  della  Corte,  non   possa
 prescindersi   del   tutto   dalla  realta'  storica  e  cioe'  dalla
 considerazione che, di fatto, all'atto  dell'entrata  in  vigore  del
 d.-l. n. 463, solo una trascurabile minoranza di pensionati percepiva
 una  duplice  integrazione  al minimo, e cio' sia perche' solo con la
 successiva sentenza del 1985 la Corte elimino' la maggior  parte  dei
 limiti   (che   a  quel  momento  ancora  permanevano)  alle  duplici
 integrazioni  sia  perche',  avendo   l'Inps   sempre   ricusato   di
 corrispondere  d'ufficio il doppio beneficio, di fatto solo pochi dei
 pensionati formalmente interessati alle pronuncie costituzionali  che
 gia'  erano  intervenute  avevano  ottenuto la prestazione in parola.
 Un'interpretazione logica della disciplina risultante dalla pronuncia
 costituzionale di cui trattasi non  puo'  che  condurre,  dunque,  se
 coordinata  coi  dati storici supra ricordati, alla conclusione della
 necessita'  di  ripetere  annualmente  (prendendo  a  base,  dato  il
 necessario  collegamento  con  la  normativa  fiscale, i singoli anni
 civili) la verifica reddituale  voluta  dalla  Corte  costituzionale.
 Giustamente,  dunque,  il  SC  ha affermato, in varie cause del tutto
 analoghe alle presenti, ai  sensi  dell'art.  384  cpc,  il  seguente
 principio di diritto:
    "In  ipotesi  di  cumulo  di  pensioni,  gia'  tutte  integrate  o
 integrabili  al  trattamento  minimo  secondo  il  regime   anteriore
 all'entrata  in  vigore  dell'art.  6  del  d.-l.  n.  463  del 1983,
 convertito  in  legge  n.  638  dello  stesso  anno,  la   successiva
 operativita'  del  divieto di integrazioni plurime, posta dalla prima
 parte del terzo comma di tale norma, implica -  ai  sensi  dei  commi
 quinto,  sesto  e  settimo  della  stessa  norma, come autenticamente
 interpretati dall'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537 del
 1993,  nel  testo   risultante   dalla   parziale   declaratoria   di
 illegittimita'  costituzionale  di  cui  alla  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 240  del  1994  -  che  la  seconda  (o  ulteriore)
 pensione  (considerata  tale  rispetto all'unica integrabile, a norma
 del terzo comma del d.-l. n. 463 del 1983) continua a  essere  fruita
 nell'ammontare  conseguito  alla  data  del  30  settembre  1983 (per
 effetto  di  operativita',  fino  ad  allora,   del   meccanismo   di
 integrazione al trattamento minimo e salvo progressivo riassorbimento
 delle   quote  a  tale  meccanismo  imputabili  negli  aumenti  degli
 importi-base derivanti da perequazione  automatica),  sempre  che  il
 titolare  non  percepisse  alla medesima data un reddito superiore al
 limite indicato dall'art. 6, primo comma, del d.-l. n. 463 del  1983,
 perdendosi,  invece,  nell'opposta  ipotesi (rilevante cosi' a questa
 data come in qualsiasi  altro  successivo  momento  in  cui  abbia  a
 verificarsi la condizione reddituale ostativa della conservazione del
 beneficio)   il   godimento   delle   indicate  quote  integrative  e
 riconducendosi l'ammontare della seconda - o ulteriore - pensione  al
 suo  importo  a  calcolo,  ancorche'  in  tal  modo  si determini una
 riduzione del trattamento complessivamente raggiunto  dall'assicurato
 al momento dell'entrata in vigore della disposizione impeditiva delle
 integrazioni  plurime"  (Cass. 4 gennaio 1995, n. 87 e numerose altre
 conformi).
   17. - Le stesse esigenze e considerazioni passate in  rassegna  sub
 16)  impongono  inoltre,  a  parere  del  pretore,  di avvalersi, nel
 computo annuale  dei  redditi  del  pensionato,  di  un  criterio  di
 competenza  e  non  di  cassa: poiche' la disciplina risultante dalla
 sentenza costituzionale n. 240 si  fonda  su  una  ricostruzione  per
 competenza  del  reddito  fruito  dal pensionato fino al 30 settembre
 1983 (posto che in tale reddito non era  entrata,  per  cassa,  nella
 quasi  totalita'  dei  casi,  alcuna  duplice integrazione al minimo)
 sarebbe illogico non applicare lo stesso criterio di  competenza  nel
 momento  dell'applicazione  della  disciplina stessa; in altre parole
 puo' dirsi che, cosi' come la "compressione delle  esigenze  di  vita
 cui  era  precedentemente  commisurata la prestazione previdenziale",
 presa dalla Corte costituzionale a base della sua pronuncia  n.  240,
 fu  in  realta',  per i motivi detti, solo virtuale, analogo criterio
 virtuale  deve  essere  adottato  per  valutare   l'incidenza   della
 compressione  stessa  sulle  esigenze di vita del pensionato, e cioe'
 per computare i suoi redditi dell'epoca.
   18. - Tornando ora a volgere l'attenzione alle fattispecie concrete
 che sono oggetto del presente giudizio deve darsi atto che  le  parti
 attrici  hanno  prodotto  atti  sostitutivi  degli atti di notorieta'
 diretti a dimostrare che il reddito rispettivamente  percepito  dalle
 pensionate  Maria  Fiorina  Di  Ciocco,  Adelmina  Maini  e  Florinda
 Carpanelli ammonto', in ciascuno  dei  casi,  relativamente  all'anno
 civile 1983, ad importo inferiore al limite richiamato dalla sentenza
 costituzionale  10  giugno  1994, n. 240, calcolato secondo i criteri
 supra indicati (puo' anche ammettersi, con il  conforto  della  prima
 giurisprudenza,  la rilevanza probatoria degli atti sostitutivi degli
 atti di notorieta' in questa speciale materia).
   19. - Conviene ora porre in luce che  il  mancato  superamento  del
 limite  reddituale  annuale,  costituendo  un elemento negativo della
 fattispecie costitutiva  del  diritto  alla  cristallizzazione  della
 seconda  (o  ulteriore)  pensione,  e'  senz'altro  oggetto,  per chi
 agisce, di onere probatorio ma, a questo riguardo,  va  anche  notato
 che,  se  non  altro  per  fictio  juris  la  disciplina  sui  limiti
 reddituali deve aversi per introdotta nell'ordinamento, ad ogni  fine
 di  ricostruzione giuridica della vicenda, dall'art. 11, ventiduesimo
 comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (oggetto del giudizio  di
 legittimita'  costituzionale  sfociato  nella  sentenza  n.  240): la
 pronuncia interpretativa di accoglimento della  Corte  costituzionale
 rappresenta   infatti,   teoricamente,  non  gia'  ius  novum  bensi'
 disvelamento della  vera  e  genuina  norma  giuridica  recata  dalla
 disposizione  oggetto  della  pronuncia stessa, di guisa che la norma
 disvelata deve ritenersi in vigore fin dal  momento  in  cui  divenne
 vigente  la  legge  contenente la disposizione suddetta.   Poiche' la
 disposizione in questione e' entrata in vigore  durante  la  pendenza
 dei giudizi riuniti sarebbe fuor di luogo ipotizzare che sia scattata
 a  carico  degli  attori, ex art. 416 cpc (applicabile, come e' noto,
 anche alle parti attrici, per costante giurisprudenza  costituzionale
 e  ordinaria), una qualsiasi preclusione in ordine al tema dei limiti
 reddituali, al quale pure essi non avevano, ovviamente,  fatto  alcun
 cenno nei rispettivi ricorsi introduttivi del giudizio.
   20.  -  Nell'ambito della delibazione sommaria che e' necessaria in
 questa sede  ai  fini  del  giudizio  di  rilevanza  puo'  senz'altro
 ritenersi  corretto,  come  si  e'  detto,  il  criterio  del computo
 reddituale  adottato  dalle  parti  ricorrenti   e,   risultando   la
 prescrizione  utilmente  interrotta, da tutto cio' consegue che, allo
 stato degli atti, le domande attoree relative alla  cristallizzazione
 della  seconda  pensione con decorrenza dal 1 ottobre 1983 dovrebbero
 essere accolte,  sia  pure  soltanto  per  quanto  riguarda  i  ratei
 relativi ai mesi di ottobre, novembre e dicembre 1983 (o quanto meno,
 ove   fosse  ritenuta  fondata  l'eccezione  di  decadenza  sollevata
 dall'Inps  in  riferimento  alla  posizione  delle  pensionate  Maria
 Fiorina  Di  Ciocco  e  Florinda Carpanelli, dovrebbe essere accolta,
 limitatamente ai ratei indicati, la domanda di Adelmina Maini).
   21. - Non v'ha dubbio, allora, che  la  questione  di  legittimita'
 costituzionale  che  si  intende  sollevare  appaia rilevante ai fini
 della decisione,  quanto  meno  rispetto  alle  quote  d'integrazione
 cristallizzate  eventualmente  dovute ad Adelmina Maini per i mesi di
 ottobre, novembre e dicembre 1983: allo stato  degli  atti,  infatti,
 tale  domanda,  alla  luce  di  quanto  si  e'  fin  qui argomentato,
 dovrebbe, come si e' detto, essere accolta; del pari, pero', non v'ha
 dubbio che la stessa domanda dovrebbe essere rigettata se, invece, la
 Corte costituzionale, ritenendo  fondata  la  questione  che  qui  si
 propone, dovesse statuire che i commi 1 e 1-bis dell'art. 6 del d.-l.
 12  settembre  1983,  n. 463 (convertito in legge, con modificazioni,
 con legge 11 novembre 1983 n. 638), come risultano  a  seguito  delle
 modifiche operate dall'art. 4 del decreto leg.vo 30 dicembre 1992, n.
 503, e dall'art. 2, quattordicesimo comma, della legge 8 agosto 1995,
 n. 335, sono costituzionalmente illegittimi:
     a)  nella parte in cui negli stessi non e' previsto, quale limite
 di reddito oltre il quale viene meno il diritto  all'integrazione  al
 minimo delle pensioni, l'importo del trattamento minimo che la stessa
 integrazione assicura;
     b)  nella  parte  in  cui tale limite non e' previsto per tutti i
 pensionati, compresi i coniugati (salva, ovviamente, la potesta'  del
 legislatore  di aumentare, per i pensionati con persone a carico, non
 gia'  il  limite  di  reddito  entro  il  quale   poter   beneficiare
 dell'integrazione   ma   la  stessa  misura  del  trattamento  minimo
 garantito);
     g) nella parte in cui non e' prescritto che tutti i  redditi  non
 soggetti  a  tassazione  separata ai fini dell'irpef, compreso quello
 della pensione da integrare, concorrano al  computo  necessario  alla
 verifica reddituale di cui trattasi.
    Dalla  non  manifesta infondatezza della questione di legittimita'
 costituzionale supra indicata.
   22. - I commi 1, 1-bis e 2 dell'art. 6 del d.-l. 12 settembre 1983,
 n. 463 (convertito in legge, con modificazioni, con legge 11 novembre
 1983 n. 638), nel testo  risultante  dalle  modificazioni  apportate,
 dapprima,  dall'art.  4,  primo  comma, del d.-lgs. 30 dicembre 1992,
 n.503, e poscia dall'art. 2, quattordicesimo  comma,  della  legge  8
 agosto 1995, n. 335, sono del seguente tenore:
   "1.  L'integrazione  al  trattamento minimo delle pensioni a carico
 dell'assicurazione  generale  obbligatoria  per   l'invalidita',   la
 vecchiaia  ed  i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni
 sostitutive ed  esclusive  della  medesima,  nonche'  delle  gestioni
 previdenziali  per  i  commercianti,  gli  artigiani,  i  coltivatori
 diretti, mezzadri  e  coloni,  della  gestione  speciale  minatori  e
 dell'Enasarco non spetta ai soggetti che posseggano:
     a)  nel  caso  di  persona  non  coniugata,  ovvero  coniugata ma
 legalmente ed effettivamente separata, redditi propri  assoggettabili
 all'imposta   sul  reddito  delle  persone  fisiche  per  un  importo
 superiore a due volte l'ammontare annuo del  trattamento  minimo  del
 Fondo  pensioni  lavoratori  dipendenti  calcolato  in  misura pari a
 tredici volte l'importo mensile in vigore al  1  gennaio  di  ciascun
 anno;
     b)   nel   caso   di   persona   coniugata,   non  legalmente  ed
 effettivamente separata, redditi propri per un  importo  superiore  a
 quello richiamato al punto a), ovvero redditi cumulati con quello del
 coniuge  per  un  importo  superiore  a  quattro volte il trattamento
 minimo medesimo.  Per i lavoratori andati in pensione successivamente
 al 31 dicembre 1993 e fino al 31 dicembre 1994, il predetto limite di
 reddito e' elevato a cinque volte il trattamento minimo.
   1-bis. Dal computo dei redditi sono esclusi i trattamenti  di  fine
 rapporto  comunque  denominati, il reddito della casa di abitazione e
 le  competenze  arretrate  sottoposte  a  tassazione  separata.   Non
 concorre  alla  formazione  dei  redditi  l'importo della pensione da
 integrare al trattamento minimo. Per i lavoratori  autonomi  agricoli
 il  reddito dichiarato dal titolare dell'azienda ai fini dell'imposta
 sul reddito delle persone fisiche viene  imputato,  indipendentemente
 dall'effettiva  percezione,  a  ciascun  componente attivo del nucleo
 familiare, in  proporzione  alla  quantita'  e  qualita'  del  lavoro
 effettivamente  prestato  da  ciascuno  di essi in modo continuativo,
 attestato con dichiarazione dello stesso titolare dell'azienda.
   2. Qualora  il  reddito,  come  determinato  al  comma  1,  risulti
 inferiore   ai   limiti   previsti,   l'integrazione   al  minimo  e'
 riconosciuta in misura tale  che  non  comporti  il  superamento  del
 limite stesso".
   22.  -  Il  criterio derivante dall'applicazione delle disposizioni
 riportate testualmente sotto il par. precedente,  e  segnatamente  di
 quelle  di  cui  ai  commi 1 e 1-bis, presenta, a parere del pretore,
 profili di  profonda  irragionevolezza,  come  bene  viene  posto  in
 evidenza dall'esempio che segue, riferito all'anno 1995.  Va premesso
 che  l'importo del trattamento minimo per il 1995 risulta essere pari
 a L. 8.143.850 (626.450, e  cioe'  l'importo  mensile  fissato  al  1
 gennaio  1995, moltiplicato per 13); il limite di reddito per il 1995
 e' pari dunque a 16.287.300 lire (8.143.850 moltiplicato per 2).   Si
 prenda ora il caso di un pensionato, A, che possieda un unico cespite
 di  reddito, costituito da una pensione che, a calcolo, sarebbe pari,
 poniamo,  a  6.000.000  di  lire:  egli  godra',  sulla  base   della
 disciplina  in  esame,  di  un'integrazione della sua pensione pari a
 2.143.850 lire.  Si faccia ora, invece, l'ipotesi del  pensionato  B,
 il  quale  possieda,  oltre  alla stessa pensione di A (ammontante, a
 calcolo, a  L.  6.000.000),  ulteriori  redditi  per  complessive  L.
 14.143.450:  ebbene,  egli  otterra'  la stessa identica integrazione
 spettante ad A, e cioe' 2.143.850  lire.    Cio'  vuol  dire  che  la
 solidarieta'  si muove per A nella stessa forma e nella stessa misura
 che  per  B,  solo  che  B   possiede   gia'   di   suo,   al   netto
 dell'integrazione,  un  reddito  di  20.143.150 lire ed A, invece, di
 6.000.000 di lire.  L'irrazionalita' del sistema  sarebbe  poi  ancor
 piu'  evidente  se  la  pensione a calcolo di B fosse d'importo anche
 inferiore a 6.000.000 di lire (essendo pari, poniamo, a 4.000.000  di
 lire):  orbene,  sol  che  gli ulteriori redditi di B non superino la
 quota di L. 12.143.450, questi potra' ottenere in toto l'integrazione
 al minimo sulla sua pensione e cioe' potra' ottenere  a  tale  titolo
 4.143.850  lire:  guadagnando  egli il triplo rispetto ad A gli viene
 concesso, per solidarieta', il doppio.
   24. - Ne' si dimentichi che, se per avventura A dovesse pagare  per
 la  sua  abitazione un canone di locazione e B invece fosse immune da
 questa spesa per essere egli proprietario della sua casa, anche  tale
 profilo  di differenziazione in fatto fra le due fattispecie concrete
 sarebbe per legge irrilevante, provvedendo a  statuire  l'irrilevanza
 giuridica  di cio' l'espresso disposto del comma 1-bis dell'art. 6 in
 esame.   Piu'  in  generale  va  osservato  che  non  sembra  sensato
 escludere  dal  computo  dei redditi rilevanti ai fini della verifica
 del  mancato  superamente  del  limite  reddituale  l'importo   della
 pensione  da  integrare  e in generale tutti i redditi per i quali il
 comma 1-bis prevede il mancato computo, con  esclusione  dei  redditi
 per i quali la disciplina tributaria delle imposte dirette prevede la
 cd  tassazione  separata:   l'esclusione in questione aumenta infatti
 l'irragionevolezza del criterio, contribuendo  viepiu'  a  parificare
 tra  loro,  ai fini del diritto all'integrazione al minimo e alla sua
 misura, fattispecie diverse.
   25. - Ugualmente conseguente a un'impostazione irrazionale, se  non
 irrazionale  in se', e' inoltre, secondo il pretore, la fissazione al
 quadruplo del trattamento minimo (e, fino all'entrata in vigore della
 citata legge 8 agosto 1995, n. 335, al triplo) per i  coniugati  (non
 legalmente   ed  effettivamente  separati)  del  limite  del  reddito
 (cumulato con quello del coniuge): per convincersene basti immaginare
 che il nostro A, con la sua pensione di 6.000.000 di lire (a calcolo)
 sia celibe (non legalmente ed effettivamente separato) mentre  B  sia
 coniugato:  A  percepira'  la sua integrazione al minimo di 2.143.850
 lire e B avra' diritto alla stessa integrazione  sulla  sua  pensione
 purche'  gli ulteriori suoi redditi, cumulati con quelli del coniuge,
 non superino il limite di L. 30.431.550: A e B percepiranno  insomma,
 in  questo caso, la stessa integrazione, pur godendo A di un reddito,
 al netto dell'integrazione, di L. 6.000.000 e  B  di  36.431.550;  e'
 vero  che  B, al contrario di A, e', nella presente ipotesi, sposato,
 ma egli puo' offrire pur sempre, a giustificazione del tanto notevole
 incremento  del  limite  di  reddito,  una  sola  moglie  (come  deve
 presumersi) e non cinque.
   Se  ci  sia  - o meno - una logica in questa follia lo statuira' la
 Corte costituzionale.
   26.  -  L'unico  criterio  che,  secondo  il  pretore,  apparirebbe
 conforme  al  canone  della ragionevolezza, imposto dall'art. 3 della
 Costituzione,  consisterebbe  nella  introduzione,  nella  disciplina
 recata dai primi tre commi, dei seguenti tre punti:
     a)  limite  reddituale  (di  cui al primo comma) pari allo stesso
 importo del trattamento minimo garantito;
     b) uguale  limite  valevole  anche  per  i  pensionati  coniugati
 (consistendo,  l'unica  maniera  giusta  e ragionevole per far valere
 giuridicamente la  difformita'  delle  fattispecie  concrete  di  cui
 trattasi,  nella  previsione differenziata, da parte del legislatore,
 della misura del trattamento minimo da garantirsi ai  pensionati  con
 persone  a carico rispetto a quella da garantirsi ai pensionati privi
 di persone a carico);
     g) computo, ai fini della verifica del  mancato  superamento  del
 limite  reddituale, di tutti i redditi imponibili ai fini dell'Irpef,
 esclusi solo quelli soggetti a  tassazione  separata  (a  prescindere
 dalla  norma  transitoria riguardante i lavoratori andati in pensione
 successivamente al 31 dicembre 1993 e fino al 31 dicembre 1994).
   27. - Gli interventi di cui al par. che precede appaiono al pretore
 costituzionalmente obbligati in quanto costituiscono l'unica via  per
 riportare  al  principio  d'uguaglianza la disciplina del criterio di
 attribuzione del diritto all'integrazione al minimo  delle  pensioni;
 tuttavia  cio'  vale  ovviamente  in riferimento ai poteri, puramente
 rescindenti, della Corte costituzionale: e' ovvio che, ove  la  Corte
 dovesse  condividere  quanto il Pretore qui sostiene e dovesse quindi
 accogliere la questione che si solleva con la presente ordinanza,  il
 legislatore,  nell'esercizio  di  una  potesta' politica sua propria,
 potrebbe decidere di aumentare per tutti i pensionati  i  trattamenti
 pensionistici minimi e potrebbe (ed anzi dovrebbe) prevedere che tali
 trattamenti siano maggiori per i pensionati con persone a carico (con
 il   correlativo  aumento,  per  essi,  come  e'  ovvio,  dei  limiti
 reddituali, da mantenersi in ogni caso pari all'importo  del  reddito
 garantito  dall'integrazione):  con  gli interventi legislativi supra
 ipotizzati, insomma, ben potrebbero essere redistribuite alla  classe
 dei  pensionati,  in forza di atto legislativo ad hoc, le risorse che
 sarebbero risparmiate in conseguenza  della  sentenza  costituzionale
 che  accogliesse  la  questione  che  qui  si  solleva;  in tal modo,
 tuttavia, le predette risorse sarebbero  distribuite  in  conformita'
 dell'art.  3 della Costituzione e non in ispreto ad esso.
   28.  - Ancora, per mera completezza, puo' essere ricordato che, ove
 la Corte costituzionale accogliesse  la  presente  questione,  nessun
 pensionato,   a  parere  del  Pretore,  potrebbe  essere  chiamato  a
 restituire   quanto   gia'   incassato   precedentemente   in   forza
 dell'applicazione della disciplina sull'integrazione al minimo di cui
 trattasi:  le  riscossioni di somme, da parte dei pensionati, che, in
 conseguenza dell'ipotizzata sentenza  costituzionale,  verrebbero  ad
 essere  qualificate,  ora per allora, sine titulo o sarebbero infatti
 coperte dalla prescrizione ovvero sarebbero comunque irripetibili  ex
 artt.  52  della  legge  9 marzo 1989, n. 88 e 13, primo comma, della
 legge 30 dicembre 1991, n. 412  (potendo  ragionevolmente  prevedersi
 che  l'Inps  e gli organi su di esso vigilanti non insisterebbero, in
 tal caso, nell'interpretazione fatta propria dalla SC  a  s.  u.  con
 sentenza  22  febbraio  1995, n.   1966, in Guida norm. de Il Sole 24
 ore, 28 marzo 1995, 59, 20).
   29. - Il pretore  non  ignora  che,  con  l'importante  sentenza  5
 febbraio  1988  n.  31, con la quale furono dichiarate non fondate le
 questioni di legittimita' costituzionale degli  artt.  2  e  9  della
 legge  3 giugno 1975, n. 160 (sollevate in riferimento agli artt. 3 e
 38  della  Costituzione),  la  Corte  costituzionale  ebbe  modo   di
 esprimere alcuni concetti che possono, per qualche verso, apparire in
 contrasto  con  quanto  si  e'  fin qui cercato di sostenere.  Appare
 allora opportuno, a questo punto,  ripercorrere  brevemente  i  punti
 salienti  di  quella motivazione.  Va ricordato che le norme predette
 erano state impugnate nella parte in cui  le  stesse  prevedevano  un
 diverso  trattamento  minimo  di  pensione  per i lavoratori autonomi
 rispetto  ai  lavoratori  dipendenti  e  disciplinavano  in   maniera
 differente  la  perequazione  antomatica del trattamento minimo delle
 pensioni stesse.  Era stato osservato, nelle ordinanze di rimessione,
 che, trattandosi di minimi pensionistici, "in quanto tali finalizzati
 ad assicurare, nell'ambito  del  sistema  di  sicurezza  sociale,  il
 minimo  indispensabile  a  soddisfare  le  piu elementari esigenze di
 sopravvivenza", la previsione  d'un  diverso  criterio  d'adeguamento
 automatico  e,  conseguentemente,  la  diversa deteminazione del loro
 ammontare contrastasse, da un lato, con l'art. 38 della Costituzione,
 dovendosi ritenere non raggiunto, per la categoria meno favorita,  il
 minimo  indispensabile  per  vivere  (come  quantificato dallo stesso
 legislatore per la categoria piu' favorita) e, dall'altro, con l'art.
 3 della  Costituzione,  non  essendovi  alcun  razionale  motivo  che
 potesse  giustificare,  in  ordine  ai  bisogni  minimi  vitali,  una
 discriminazione fra i titolari dei bisogni stessi a  seconda  che  si
 trattasse di lavoratori autonomi oppure di lavoratori dipendenti.  La
 Corte  ritenne  tali  questioni non fondate osservando che l'art.  38
 della Costituzione distingueva "nettamente i cittadini in genere,  di
 cui   al   comma   1",  dai  "lavoratori,  cittadini  particolarmente
 qualificati...;  il  Costituente,  privilegiando  la  posizione   dei
 lavoratori,  anche  in  considerazione  del  contributo  di benessere
 offerto   alla   collettivita'    oltreche'    delle    contribuzioni
 previdenziali  prestate, nel comma 1 dell'art. 38 Cost. garantisce ai
 cittadini il minimo esistenziale, i mezzi necessari per vivere mentre
 nel  comma  2  dello  stesso  articolo  garantisce  non  soltanto  la
 soddisfazione dei bisogni alimentari, di pura "sussistenza" materiale
 bensi'  anche  il  soddisfacimento  di ulteriori esigenze relative al
 tenore di vita dei lavoratori.  Le prestazioni previdenziali adeguate
 alle  esigenze  dei  lavoratori   ben   possono,   pertanto,   essere
 differenziate  tra  le  diverse  categorie dei medesimi. Non si puo',
 dunque, genericamente far riferimento al "minimo vitale", richiamando
 l'art. 38 Cost.; occorre puntualizzare, invece, se ci si riferisce al
 comma 1 dello stesso articolo, e cioe' ai mezzi necessari per vivere,
 al minimo esistenziale, alimentare,  ed  in  tal  caso  e'  legittimo
 richiedere  un'indifferenziazione, un'uniformita', una determinazione
 quantitativa unica, per tutti i cittadini; se, invece ci si riferisce
 al comma 2 dell'art. 38 Cost.  (ed  a  questo  comma  si  rifanno  le
 ordinanze   di   rinvio)   non   e'   piu  legittimo  richiedere  una
 determinazione quantitativa unica, uniforme, per tutti i  lavoratori,
 in  quanto  l'oggetto  della  valutazione  che conduce al giudizio di
 adeguatezza dei mezzi alle esigenze di vita puo' riguardare anche  la
 posizione  economico-sociale delle diverse categorie di lavoratori, i
 rischi volontariamente  assunti  o  comunque  incombenti,  i  redditi
 conseguiti  durante  l'attivita'  lavorativa  ecc. la valutazione ora
 indicata  puo'  ben  condurre  a   determinazioni   quantitativamente
 diversificate delle prestazioni previdenziali".
   Inoltre,  osservava  ancora la Corte, mentre la garanzia assicurata
 ai cittadini dal primo comma  dell'art.  38  della  Costituzione  "si
 fonda unicamente sulla solidarieta' collettiva, chiamando i cittadini
 tutti  a  fornire  i  mezzi  economico-finanziari  indispensabili  ad
 attuare le prestazioni assistenziali..., la garanzia assicurativa  ai
 lavoratori...    (di  cui  all'art.  38,  secondo  comma)  si  rifa',
 implicitamente,  almeno  finche'  sia  attuata   mediante   strumenti
 mutualistico-assicurativi,   alle  contribuzioni  versate  durante  i
 periodi di lavoro. Ed e',  invero,  questo  profilo  modale  che  non
 permette  di ricondurre, senza adeguate considerazioni, al modello di
 cui al comma 2 dell'art. 38 Cost. l'istituto  della  pensione  minima
 dei lavoratori, per altro verso rientrante in esso...  Per la verita'
 argomentava  ancora la Corte - il legislatore del 1952 fu motivato ad
 istituire la pensione minima dai casi di bisogno, "quasi" tendendo ad
 istituire una pensione sociale per  i  lavoratori:    e,  se  non  si
 fossero  verificati mutamenti nelle previsioni legislative successive
 e nel diritto vivente,  si  sarebbero  posti  ulteriori  dubbi  sulla
 natura  della pensione previdenziale minima.  Senonche' ... il motivo
 iniziale, per il quale i minimi pensionistici per i lavoratori furono
 istituiti, e' via via  venuto  meno;  ed  oggi  puo'  tranquillamente
 affermarsi  che l'istituto della prestazione pensionistica minima dei
 lavoratori va  ricondotto,  senza  piu'  alcun  dubbio,  al  comma  2
 dell'art. 38 Cost.
   Essendo  l'integrazione al minimo concessa anche nei casi di cumulo
 di pensioni e di pensione e lavoro retribuito, essa  non  costituisce
 una  pensione  sociale dovuta ai lavoratori bensi' uno strumento atto
 ad offrire mezzi  adeguati  alle  esigenze  di  vita  dei  lavoratori
 stessi.    Vale, infatti, ricordare che, nel sistema originario delle
 norme che regolavano l'integrazione al minimo delle pensioni  gestite
 dall'Inps,  il  trattamento  minimo  pensionistico dei lavoratori era
 riguardato sotto un profilo squisitamente soggettivo (cfr.  art.  10,
 legge  4 aprile 1952 n. 218, nonche' la legge 20 febbraio 1958 n. 55,
 che ha accentuato questo profilo). In tale logica,  l'erogazione  del
 trattamento  minimo  veniva subordinata al verificarsi di particolari
 condizioni soggettivo-negative (oltreche' al mancato  svolgimento  di
 attivita'   lavorativa,   al   non  godimento  di  altre  prestazioni
 previdenziali,  a  qualunque  titolo  percepite,   il   cui   importo
 complessivo  superasse  quello  del  minimo  garantito,  ecc.)  tutte
 concorrenti a dimostrare che il reddito globale del pensionato fosse,
 effettivamente, inferiore al minimo  pensionistico.    Senonche'  ben
 presto  leggi, giurisprudenza e prassi amministrativa hanno enucleato
 situazioni nelle quali  il  trattamento  minimo  delle  pensioni  dei
 lavoratori  e'  stato  riguardato  sotto  un profilo oggettivo, quale
 garanzia, cioe', a che la prestazione pensionistica abbia comunque un
 determinato livello minimo, a prescindere dalle effettive  condizioni
 soggettive del destinatario.  Vanno ricordate, a questo proposito, le
 leggi  12  agosto 1962 n.   1338, 27 ottobre 1965 n. 1199 e 30 aprile
 1969 n. 153, per effetto delle  quali  l'integrazione  al  minimo  e'
 stato  esclusa,  in  linea  generale, soltanto per i titolari di piu'
 pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria o di altre
 forme  di  previdenza sostitutiva di detta assicurazione, qualora per
 effetto del cumulo il pensionato fruisca d'un trattamento complessivo
 di pensione superiore al minimo garantito.
   L'originaria valutazione del reddito  globale  del  pensionato,  ai
 fini   dell'accertamento   delle   condizioni  per  l'erogazione  del
 trattamento minimo, e' stata, pertanto, circoscritta ai soli proventi
 derivanti da trattamenti pensionistici, restando  invece  esclusa  la
 rilevanza  dei  redditi derivanti da attivita' lavorativa (v. art. 20
 legge n.  153 del 1969 e art. 10, ultimo comma, legge 13 giugno  1975
 n.  160);  si e' reso obbligatorio, cioe', l'intervento solidaristico
 anche in ipotesi in cui i bisogni vitali  del  pensionato  certamente
 risultavano  altrimenti soddisfatti.   Peraltro, in deroga alla norma
 che, in ordine al cumulo  di  pensioni,  limitava  l'integrazione  al
 minimo  all'ipotesi  in  cui  l'importo  complessivo  delle  pensioni
 cumulate fosse inferiore al minimo garantito, l'art.  23 legge n. 153
 del 1969  ha  consentito  l'integrazione  al  minimo  delle  pensioni
 dirette Inps in caso di cumulo con pensioni di riversibilita' erogate
 dallo stesso Inps.
   A  seguito  della  legge n. 114 del 1974 e della sentenza di questa
 Corte n. 230 del 1974 l'integrazione delle pensioni dirette  Inps  e'
 stata   consentita   anche   in   caso  di  cumulo  con  pensioni  di
 riversibilita' erogate dallo stesso Inps.   Ulteriori espansioni  del
 diritto  ad  ottenere  il  trattamento  minimo,  in caso di cumulo di
 pensioni, si sono avute in conseguenza  di  successive  decisioni  di
 questa Corte: in particolare a seguito della sentenza n. 263 del 1976
 (che  ha reso possibile anche l'integrazione al minimo delle pensioni
 dirette d'invalidita' a carico dell'Inps nell'ipotesi di  cumulo  con
 pensioni  dirette  dello  Stato)  e  della  sent.  n. 34 del 1981 ...
 nonche' dalla recente sentenza n. 314 del  1985.    In  tal  modo  il
 legislatore  ed  il  diritto  vivente  hanno  finito  ancor  piu' col
 nettamente distinguere la "pensione  sociale",  di  cui  al  comma  1
 dell'art.  38 Cost., dal trattamento minimo dei lavoratori pensionati
 in quanto la prima importa necessariamente l'effettiva  dimostrazione
 dello  stato di bisogno del beneficiario mentre il secondo non e' per
 nulla condizionato da tale dimostrazione ...".   La  Corte  escludeva
 poi   il  prospettato  contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione
 richiamandosi alla sua consolidata giurisprudenza, secondo  la  quale
 il  precetto  in  parola  "non  puo'  ritenersi  violato allorche' il
 legislatore assoggetti a disciplina diverse situazioni che presentino
 elementi di differenziazione tali da giustificare una  diversita'  di
 regolamentazione".
   30.  -  Il pretore condivide senz'altro alcune delle considerazioni
 svolte dalla Corte nella sentenza della quale supra si sono riportati
 alcuni significativi passi: non  puo'  essere  messa  in  dubbio,  ad
 esempio,  la  facolta'  del  legislatore,  ed anzi il suo obbligo, di
 trattare in maniera differenziata i cittadini (di cui al primo  comma
 dell'art.    38  della Costituzione) dai lavoratori di cui al secondo
 comma; naturalmente, inoltre, lo stesso legislatore e' legittimato  a
 stabilire   trattamenti  differenziati  tra  le  varie  categorie  di
 lavoratori,  anche  in  questa  materia  dei  trattamenti  minimi  di
 pensione,  in  ragione  della  rilevanza  di varie connotazioni della
 fattispecie (come, per esempio, il differente  prelievo  contributivo
 incidente   sulla   categoria);   il  pretore  osserva  tuttavia  che
 l'attenzione  della  Corte  costituzionale aveva ad oggetto, nel caso
 della sentenza n.  31,  fattispecie  concrete  differenziate  secondo
 criteri  generali  aventi  una propria ragion d'essere (cittadini non
 lavoratori,  lavoratori  autonomi  appartenenti  a  varie   categorie
 professionali, lavoratori subordinati).
   Nel  caso dei commi 1 e 1 bis dell'art. 6 capita, al contrario, che
 la disciplina del trattamento minimo sia stata congegnata in modo  da
 favorire  del  tutto  casualmente  coloro  che  si  trovino  in certe
 particolari  condizioni,  o  meglio:  da  provocare,   senza   alcuna
 giustificazione,  un trattamento indifferenziato di fattispecie assai
 diverse.
   31. - Va poi osservato che la mancanza di  una  norma  generale  in
 ordine al limite di reddito relativo al diritto al trattamento minimo
 di  pensione  e'  stata  a  lungo  di fatto surrogata dalle norme che
 imponevano, in caso di bititolarita', di tener conto, ai fini dell'an
 e del quantum dell'integrazione, anche della seconda pensione  (prima
 fra  queste  l'art.  10, quinto e sesto comma, della legge 4 novembre
 1952, n.  218): poiche' erano pochi i pensionati che, titolari di una
 pensione che, a  calcolo,  sarebbe  stata  inferiore  al  trattamento
 minimo,  potessero  al tempo stesso vantare redditi diversi da quelli
 pensionistici, la norma in parola aveva, in concreto, quasi lo stesso
 effetto che avrebbe avuto una norma riferita a un generale limite  di
 reddito pari al trattamento minimo garantito; l'art. 5 della legge 20
 febbraio 1958, n. 55, prevedendo anche, ai fini dell'integrazione (o,
 quanto  meno,  ai fini dell'aumento dell'integrazione, prevista dalla
 stessa norma), che "il titolare della  pensione  non  -  prestasse  -
 opera  retribuita  alle dipendenze di terzi..." incrementava viepiu',
 come del resto notato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza
 n.  31,  il  rilievo  giuridico  delle  condizioni   reddituali   del
 pensionato  (potendo  ritenersi  veramente  pochi  i  titolari di una
 pensione che, a  calcolo,  sarebbe  stata  inferiore  al  trattamento
 minimo i quali godessero al tempo stesso, in misura non trascurabile,
 di redditi fondiari, di capitale o d'impresa).
   32.  -  Quanto  all'osservazione  della Corte secondo la quale "ben
 presto leggi, giurisprudenza e prassi amministrativa hanno  enucleato
 situazioni  nelle  quali  il  trattamento  minimo  delle pensioni dei
 lavoratori e' stato riguardato  sotto  un  profilo  oggettivo,  quale
 garanzia, cioe', a che la prestazione pensionistica abbia comunque un
 determinato  livello minimo, a prescindere dalle effettive condizioni
 soggettive  del  destinatario"  il  pretore  ritiene  non  priva   di
 rilevanza  la  considerazione  che,  di  fatto (e a prescindere dalla
 questione,  politicamente  particolare,  della  compatibilita'  delle
 pensioni  in genere coi redditi di lavoro), le leggi che consentivano
 di  superare  i  rigidi  limiti  in  cui  era  normalmente  possibile
 l'integrazione al minimo riguardavano casi statisticamente marginali:
 fu  la  serie  di sentenze costituzionali inaugurata da quella n. 230
 del 1974 ad ampliare via  via  questa  casistica,  di  guisa  che  la
 giurisprudenza  e la prassi amministrativa non potettero che prendere
 atto della nuova situazione normativa.   Se si  considera  pero'  che
 nessuna delle sentenze costituzionali ora ricordate fu pronunziata in
 riferimento  all'art.  38  della  Costituzione  ma  tutte, invece, in
 esclusivo riferimento all'art.  3  della  Costituzione  (essendo,  in
 esse,  assurte, le anomale norme derogatrici della regola generale, a
 tertium comparationis) appare difficile sostenere che, per effetto di
 tali  sentenze,  dovute  a  ragioni  tanto contingenti e comunque del
 tutto estranee all'ambito dei  principi  del  diritto  previdenziale,
 l'istituto  dell'integrazione  al  minimo abbia acquisito una valenza
 giuridico-costituzionale diversa dalla precedente.  E' ben  vero  che
 un  istituto  potrebbe mutare i suoi connotati giuridici non in forza
 di atti diretti  a  tale  scopo  bensi'  per  effetto  di  una  serie
 indistinta  e casuale di atti o fatti socialmente rilevanti (e cioe',
 in breve, per un determinato corso della storia), tuttavia va  notato
 che,  nel caso dell'integrazione al minimo, era stata la stessa Corte
 costituzionale a ricusare la tesi secondo la quale  le  sue  sentenze
 avessero cagionato uno snaturamento dell'istituto in parola.
   La  Corte, infatti, nella sentenza 27 maggio 1982, n. 102, affermo'
 testualmente:
   "Non ignora la Corte la situazione che si e' venuta  a  determinare
 nella  normativa  previdenziale  a seguito delle deroghe al principio
 originario (che vietava l'integrazione al minimo della pensione  Inps
 quando  veniva  a cumularsi con altri trattamenti pensionistici e con
 tale cumulo si veniva a superare il minimo garantito) introdotte  dal
 legislatore e dalle conseguenti decisioni di questa stessa Corte, che
 hanno  esteso  tali  deroghe  a  situazioni  analoghe,  a  tutela del
 principio  costituzionale  d'eguaglianza.    Cio'  rende  quanto  mai
 opportuno e urgente un intervento del legislator  e che riesamini sul
 piano  generale, ispirandosi ai principi contenuti negli artt. 3 e 38
 Cost., la materia relativa all'integrazione al minimo delle  pensioni
 Inps.  Va da se' che lo stesso legislatore, sempre tenendo presenti i
 suddetti  principi, dovra' riconsiderare in particolare il fondamento
 del criterio derogatore  che  e'  stato  all'origine  della  sequenza
 giurisprudenziale  di  questa Corte".   Dunque, se il pretore mal non
 interpreta le parole della sentenza, la Corte, ripudiando la tesi del
 mutamento, o quanto meno dell'irreversibile mutamento,  dell'istituto
 in parola, auspicava in quella occasione che il legislatore tornasse,
 per cosi' dire, alle origini, cancellando, con le deroghe che avevano
 occasionato gli interventi della Corte, anche quelle introdotte dalla
 Corte stessa.
   33.  -  E  in effetti l'auspicato intervento del legislatore ci fu,
 rappresentato proprio dall'art. 6 del d.-l. n.  463,  non  rammentato
 dalla  Corte costituzionale nella sentenza n. 31 ma assai importante,
 a parere del pretore, per dimostrare che il legislatore non intendeva
 affatto abbandonare - o intendeva comunque recuperare - la dimensione
 soggettiva del requisito della prestazione pensionistica integrativa:
 bene o male, infatti, un limite generale di reddito  individuale  fu,
 con   la   disposizione   in   discorso,   introdotto,  a  prova  che
 l'integrazione al minimo non veniva vista dal legislatore  "sotto  un
 profilo  oggettivo,  quale  garanzia,  cioe',  a  che  la prestazione
 pensionistica  abbia  comunque  un  determinato  livello  minimo,   a
 prescindere dalle effettive condizioni soggettive del destinatario".
   Si  tratta ora, tuttavia, di verificare che il limite di reddito in
 questione  sia  conforme,  anche  nel  quantum,  a  un  criterio   di
 ragionevolezza,  cosi'  come  del  resto  devono obbedire al criterio
 predetto  le  regole  che  presiedono  al  computo  del  reddito  del
 pensionato  al  fine  dell'accertamento  dell'esistenza  del  diritto
 all'integrazione al minimo della sua pensione.
   34. - Il fatto certo, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale
 nella  sentenza  n. 31, e' che l'integrazione pensionistica di cui si
 tratta non  ha,  per  il  suo  beneficiario,  una  diretta  copertura
 contributiva:   cio'   rimane  vero  sia  che  s'intenda  ricollegare
 l'istituto in questione alla garanzia  assistenziale  apprestata  dal
 primo  comma  dell'art.  38  della  Costituzione  sia che, invece, lo
 stesso istituto venga ritenuto  pertinente  al  secondo  comma  dello
 stesso  articolo,  e  pertanto di natura previdenziale: in entrambi i
 casi il peso economico dell'integrazione gravera' su persone  diverse
 dal   beneficiario:  tendera'  a  gravare  sull'intera  collettivita'
 nazionale se prevarra',  nel  legislatore,  l'idea  che  l'intervento
 abbia  natura  assistenziale mentre sara' posto specialmente a carico
 del gruppo professionale nel  quale  il  pensionato  ha  maturato  la
 pensione  integranda  nel  caso  contrario,  in cui si affermi la sua
 natura previdenziale.
   In ciascuna  delle  due  ipotesi  interpretative  supra  illustrate
 occorre  pur sempre, a parere del pretore, che i terzi siano chiamati
 a prestare la loro solidarieta per un giustificato  motivo  e  non  a
 causa  di situazioni non indicative, di per se', di una necessita' di
 solidarieta' maggiore rispetto a quella obiettivamente presentata  da
 situazioni del tutto consimili, che il legislatore non ritiene invece
 meritevoli di tale solidarieta'.
   Una  persona  puo'  trovarsi  ad  essere  titolare  di una pensione
 inferiore al minimo, insieme con altra pensione superiore al  minimo,
 solo  per  avere,  a suo tempo, fatto la scelta di non richiedere una
 ricongiunzione (oppure  per  avere  dimenticato  di  richiedere  tale
 ricongiunzione  o  per  non  avere mai saputo di poterla richiedere):
 l'ipotetico principio per cui,  di  la'  dalla  considerazione  della
 condizione  soggettiva  di tale pensionato, la sua pensione, solo per
 la circostanza obiettiva che essa si trova ad essere inferiore  a  un
 certo   minimo,   dovrebbe   comunque  essere  incrementata  fino  al
 raggiungimento del  minimo  stesso  soddisfa  certamente  un'astratta
 esigenza di uniformita', riguardata come valore in se', ma non appare
 in  alcun  modo  ricollegabile,  a  parere del pretore, a sostanziali
 motivi di ordine giuridico, sociale od economico.
   35. - Il primo comma dell'art. 38  della  Costituzione  afferma  il
 diritto  di ogni cittadino "al mantenimento e all'assistenza sociale"
 mentre il capoverso garantisce ai  lavoratori  "mezzi  adeguati  alle
 loro esigenze di vita": entrambe le disposizioni, dunque, prendono in
 considerazione  la persona del cittadino o del lavoratore, con le sue
 complessive esigenze di vita, e  non  certo  le  singole  prestazioni
 pensionistiche,  distinguibili  tra loro attraverso criteri meramente
 giuridici; non sembra, dunque, che il principio di  un'incondizionata
 integrazione  di  ogni prestazione pensionistica inferiore a un certo
 minimo  possa  in  qualunque  modo  desumersi  dall'art.   38   della
 Costituzione  e  comunque,  al  contrario,  pare  in ogni caso che lo
 stesso principio sia incompatibile con l'art. 3  della  Costituzione:
 si  compari  la  situazione del pensionato ipotizzata sub par. 34 con
 quella di altro pensionato avente la stessa storia  lavorativa  e  la
 stessa situazione patrimoniale del primo, il quale pero' abbia invece
 chiesto  la  ricongiunzione  contributiva dei suoi periodi lavorativi
 ottenendo quindi, alla cessazione della sua attivita' di  lavoro,  la
 liquidazione  di  un  unico  trattamento  di  quiescenza,  ovviamente
 superiore  al  minimo:  certamente  questo  secondo  lavoratore   non
 otterra',  al  contrario  del primo, alcuna integrazione, anche se la
 difformita'  tra  le  due  fattispecie  non  appare  affatto  tale da
 giustificare ragionevolmente il  diverso  trattamento  giuridico  cui
 esse danno luogo.
   36.  -  Deve  dunque  riconoscersi che la questione di legittimita'
 costituzionale dei commi 1 e 1-bis dell'art. 6 del d.-l. 12  novembre
 1983  n.  463  (convertito  in legge, con modificazioni, con legge 11
 novembre 1983 n. 638),  come  risultano  a  seguito  delle  modifiche
 operate  dall'art. 4 del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 e dall'art.
 2, quattordicesimo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 335:
     a) nella parte in cui negli stessi non e' previsto, quale  limite
 di  reddito  oltre il quale viene meno il diritto all'integrazione al
 minimo delle pensioni, l'importo del trattamento minimo che la stessa
 integrazione assicura;
     b) nella parte in cui tale limite non e'  previsto  per  tutti  i
 pensionati,  compresi i coniugati (salva, ovviamente, la potesta' del
 legislatore di aumentare, per i pensionati con persone a carico,  non
 gia'   il   limite  di  reddito  entro  il  quale  poter  beneficiare
 dell'integrazione  ma  la  stessa  misura  del   trattamento   minimo
 garantito);
     g)  nella  parte in cui non e' prescritto che tutti i redditi non
 soggetti a tassazione separata ai fini  dell'irpef,  compreso  quello
 della  pensione  da  integrare, concorrano al computo necessario alla
 verifica reddituale di cui trattasi;
   non   e',   in   riferimento   all'art.   3   della   Costituzione,
 manifestamente infondata.
   37.  -  Va  ordinata pertanto la trasmissione degli atti alla Corte
 costituzionale; il presente giudizio va sospeso.