ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 30, commi  4  e
 5,  della  legge  6  agosto  1990,  n.  223  (Disciplina  del sistema
 radiotelevisivo pubblico e privato), promosso con ordinanza emessa il
 29 marzo 1995 dal giudice  per  le  indagini  preliminari  presso  il
 tribunale  di  Milano  nel  procedimento  penale  a carico di Incerti
 Caselli Patrizia ed altri, iscritta al n. 373 del registro  ordinanze
 1995  e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26,
 prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Visto l'atto di costituzione di Randazzo  Rosa  nonche'  l'atto  di
 intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nella  udienza  pubblica  del  23  gennaio  1996  il giudice
 relatore Enzo Cheli;
   Udito l'avvocato dello Stato Nicola Bruni  per  il  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri.
                            Ritenuto in fatto
   1.  - Il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di
 Milano, con l'ordinanza in esame, propone nuovamente la questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 30, commi 4 e 5, della legge 6
 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo  pubblico
 e  privato), in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione.  La
 questione viene sollevata con riferimento  particolare  alla  seconda
 parte  del comma 5, dove, per i reati di diffamazione commessi con il
 mezzo radiotelevisivo e consistenti  nell'attribuzione  di  un  fatto
 determinato,  la  competenza  territoriale,  in  deroga  al  criterio
 generale, viene radicata presso il giudice  del  luogo  di  residenza
 della parte offesa e non del luogo dove il reato e' stato consumato.
   Il  giudice rimettente ricorda innanzitutto di aver sollevato nello
 stesso procedimento, con ordinanza  del  26  ottobre  1993,  identica
 questione  che questa Corte, con sentenza n. 344 del 1994, dichiarava
 inammissibile per mancanza di una adeguata motivazione in  ordine  al
 requisito  della  rilevanza.  Al  fine di motivare sulla rilevanza il
 giudice richiama ora i fatti che stanno alla base del procedimento  a
 quo,  che,  a  seguito  di  querela presentata da Rosa Randazzo, vede
 Patrizia Incerti Caselli e Pietro Vigorelli, in  quanto  responsabili
 di  una  trasmissione  televisiva  andata  in  onda  il 2 marzo 1992,
 imputati di diffamazione aggravata, ed Antonino  Mangano,  in  quanto
 ospite della stessa trasmissione, imputato di diffamazione semplice.
   Pertanto, in base alla norma impugnata, per i primi dovrebbe essere
 competente  l'autorita'  giudiziaria  di  Milano  in  quanto luogo di
 residenza della parte lesa, mentre il secondo dovrebbe affrontare  il
 processo  a Roma in quanto luogo di diffusione della trasmissione. Su
 questa base, il giudice rimettente ritiene che il giudizio non  possa
 essere  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione
 di costituzionalita' sollevata.
   In ordine alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  il
 giudice,  riportando  integralmente  la precedente ordinanza, osserva
 che il criterio adottato dal legislatore con la norma  impugnata  non
 rientra  neppure  tra  quelli  indicati  come residuali dal codice di
 procedura penale, venendo, di conseguenza, a  introdurre  una  deroga
 irragionevole al criterio generale, valevole solo per la diffamazione
 aggravata  dall'attribuzione  di un fatto determinato commessa con il
 mezzo  radiotelevisivo.    Ne'  i  lavori  parlamentari  fornirebbero
 elementi  utili  a chiarire se tale deroga risponda ad un particolare
 favor per la parte offesa da tale delitto o sia,  invece,  frutto  di
 una semplice dimenticanza degli altri reati.
   Viene,  di conseguenza, prospettata la violazione dell'art. 3 della
 Costituzione, per l'irragionevole disparita' di  trattamento  che  la
 norma  impugnata introdurrebbe per la diffamazione aggravata rispetto
 a  tutti  gli  altri  reati  commessi  attraverso  l'uso  del   mezzo
 radiotelevisivo,   e,  in  particolare,  rispetto  alla  diffamazione
 semplice.
   Il giudice rimettente contesta, poi,  la  violazione  dell'art.  25
 della Costituzione, dal momento che l'autorita' giudiziaria del luogo
 in  cui  il  reato e' stato consumato non puo' conoscere dello stesso
 reato in tutte le  ipotesi  in  cui  l'evento  non  coincida  con  la
 residenza dell'offeso.
   Questo   verrebbe   a  determinare  una  lesione  al  principio  di
 precostituzione del giudice naturale, in base al quale la  disciplina
 della competenza da parte del legislatore dovrebbe essere "in qualche
 modo" ancorata al luogo di consumazione del reato.
   2.  -  Si  e' ritualmente costituita la parte offesa Rosa Randazzo,
 riportandosi all'ordinanza  di  rimessione  e  sottolineando  che  la
 stessa risulta ora motivata in punto di rilevanza.
   La  parte  privata sviluppa poi le censure relative sia all'art.  3
 che all'art. 25 della Costituzione.
   3. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, concludendo per l'inammissibilita' e, in via subordinata,  per
 l'infondatezza della questione.
   Quanto  all'inammissibilita',  l'Avvocatura  richiama  la pronuncia
 della Corte n. 344 del 1994, che non considera superata  dalla  nuova
 motivazione   dell'ordinanza   con   riferimento   al  profilo  della
 rilevanza.
   Nel merito, l'Avvocatura ritiene che  la  scelta  discrezionalmente
 operata  dal  legislatore  attraverso  la  norma  impugnata  non  sia
 censurabile, ne' sotto il profilo della razionalita' ne' sotto quello
 della parita' di trattamento.
   La difesa dello Stato si  sofferma,  in  particolare,  sulla  ratio
 della disposizione, rinvenendola nell'esigenza di controbilanciare la
 sproporzione  di  forze  esistente  tra  chi,  disponendo  del  mezzo
 televisivo, pone  in  essere  condotte  diffamatorie  particolarmente
 gravi  e  lesive  per  il soggetto diffamato, e quest'ultimo, che ha,
 invece, come unico mezzo di reazione la presentazione della querela.
   In questa situazione, il giudice del luogo di residenza della parte
 offesa si presenta - sempre ad avviso dell'Avvocatura - come il  piu'
 idoneo  al  fine  di conoscere quei fatti determinati che, attraverso
 l'azione  diffamatoria,  sono  stati  attribuiti  all'offeso,  mentre
 l'eventuale  decisione favorevole resa dallo stesso giudice nel luogo
 di  residenza  abituale  della  persona   offesa   puo'   agevolmente
 restituire alla stessa la reputazione lesa.
                         Considerato in diritto
   1.  - Il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di
 Milano solleva questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
 30,  commi  4  e 5, della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del
 sistema radiotelevisivo pubblico  e  privato),  nella  parte  in  cui
 individua  il  giudice  territorialmente  competente  per  i reati di
 diffamazione consistenti nell'attribuzione di un  fatto  determinato,
 commessi   attraverso   l'impiego   del  mezzo  radiotelevisivo,  con
 riferimento al luogo di residenza della persona offesa.
   Tale criterio - derogando al principio generale espresso  nell'art.
 8,  comma  1,  del  codice  di  procedura  penale, dove la competenza
 territoriale viene individuata con riferimento al  luogo  in  cui  il
 reato e' stato consumato - verrebbe a violare:
     a)  l'art. 3 della Costituzione, per la disparita' di trattamento
 operata nei confronti  della  diffamazione  aggravata  rispetto  agli
 altri  reati commessi con il mezzo radiotelevisivo e, in particolare,
 rispetto alla diffamazione semplice;
     b) l'art.  25  della  Costituzione,  che  imporrebbe,  attraverso
 l'obbligo  di  precostituzione del giudice naturale, di collegare "in
 qualche modo" la competenza territoriale del giudice penale al  luogo
 in cui il reato e' stato consumato.
   2.   -   Va   in   primo   luogo  presa  in  esame  l'eccezione  di
 inammissibilita' prospettata dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui
 l'ordinanza  in   esame   non   avrebbe   superato   i   profili   di
 inammissibilita'  gia'  sanzionati da questa Corte con la sentenza n.
 344 del 1994.
   L'eccezione non puo' essere accolta.
   Nella sentenza n. 344 del 1994 l'inammissibilita'  della  questione
 era  stata  affermata  sul presupposto che la precedente ordinanza di
 rimessione aveva completamente omesso  di  motivare  in  ordine  alla
 rilevanza della questione, ne' aveva esposto i fatti che avevano dato
 luogo  al  giudizio,  impedendo  cosi' di identificare l'oggetto ed i
 termini dello stesso. L'ordinanza  in  esame  contiene,  invece,  una
 sommaria esposizione dei fatti ed una motivazione sulla rilevanza che
 puo'  ritenersi  adeguata,  dal  momento  che  pone in luce come, nel
 giudizio a quo,  venga  a  profilarsi,  sul  piano  della  competenza
 territoriale,   l'eventualita'   di   un  diverso  trattamento  degli
 imputati, due dei quali sono  chiamati  a  rispondere  del  reato  di
 diffamazione  aggravata (da sottoporre, in base alla norma impugnata,
 al giudice di Milano) ed uno del reato di diffamazione  semplice  (da
 sottoporre, invece, in base al criterio generale, al giudice di Roma,
 luogo di diffusione della trasmissione).
   Sulla  scorta  di tali precisazioni anche la contraddittorieta' tra
 dispositivo e motivazione, che era stata posta in luce nella sentenza
 n.  344  del  1994  nei  confronti  della  precedente  ordinanza   di
 rimessione,  appare  superata,  stante la riproposizione, nella nuova
 ordinanza, di una domanda che mira inequivocabilmente  non  tanto  ad
 estendere  quanto a caducare la deroga introdotta attraverso la norma
 impugnata e, di conseguenza, a  spogliare  il  giudice  a  quo  della
 competenza a giudicare.
   3. - Nel merito, la questione non e' fondata.
   Per  quanto  concerne  il  profilo relativo all'asserita violazione
 dell'art. 3 della Costituzione va, innanzitutto, rilevato che, con la
 previsione espressa attraverso la norma oggetto dell'impugnativa,  il
 legislatore  ha  inteso  introdurre  una  disciplina di favore per le
 persone colpite dal reato di diffamazione aggravata, quando lo stesso
 risulti commesso attraverso l'impiego del mezzo radiotelevisivo.
   Tale  disciplina  non  puo'  ritenersi  lesiva  del  principio   di
 eguaglianza, ove si consideri che la sua giustificazione puo' trovare
 fondamento  proprio  nella  particolare natura, o, se vogliamo, nella
 particolare forza e diffusivita' del mezzo impiegato, suscettibile di
 manifestare,  anche  in  relazione  all'ampiezza  della  platea   dei
 destinatari  del  messaggio,  una  potenzialita' lesiva nei confronti
 della persona e della sua  reputazione  di  gran  lunga  superiore  a
 quella  di qualsivoglia altro strumento di comunicazione di massa. Da
 qui l'esigenza di attenuare  l'evidente  squilibrio  delle  posizioni
 che,  nell'azione  diffamatoria  consistente  nell'attribuzione di un
 fatto determinato, e' dato constatare tra chi,  attraverso  l'impiego
 del  mezzo  radiotelevisivo,  commette  il  reato  e chi del reato si
 trova, invece, a subire  le  conseguenze  lesive.  Su  questo  piano,
 l'individuazione  del  giudice competente con riferimento al luogo di
 residenza della persona offesa, anziche' al luogo di consumazione del
 reato, appare, dunque, giustificata, in quanto strumento destinato  a
 rendere  piu'  agevole  la possibilita' di reazione del soggetto leso
 che, presso il giudice del luogo della propria  residenza,  sara'  in
 grado  di  attivarsi  a  difesa  della propria reputazione con minore
 dispendio di tempo e di risorse economiche.
   Ma  non  vanno neppure trascurate due considerazioni ulteriori, che
 la dottrina ha avuto modo di porre in luce.  La  prima  e'  che,  per
 quanto  concerne  la  valutazione  di quei "fatti determinati" la cui
 attribuzione integra il reato di diffamazione aggravata,  il  giudice
 del  luogo  di residenza della persona offesa puo' ritenersi l'organo
 piu' idoneo al giudizio, in relazione alla sua presumibile  vicinanza
 con  il  luogo  di  svolgimento  di  tali  fatti.  La seconda e' che,
 nell'ipotesi di accertata sussistenza  dell'azione  diffamatoria,  la
 sentenza  di  condanna,  ove  adottata  nel  luogo  di  residenza del
 soggetto leso,  sara'  in  grado  di  avere  una  maggiore  efficacia
 riparatoria,  collegata  alla  piu'  ampia  conoscenza  che la stessa
 sentenza   potra'   ottenere   nell'ambiente   sociale    normalmente
 frequentato da tale soggetto.
   Tutto questo induce, dunque, a sottolineare la non irragionevolezza
 della  scelta  operata dal legislatore attraverso l'introduzione, per
 il reato di diffamazione aggravata, della deroga al criterio generale
 di individuazione della competenza territoriale introdotta attraverso
 la norma di cui e' causa.
   4. - Infondata si presenta anche la censura  riferita  all'art.  25
 della  Costituzione.  In  proposito,  va  ricordato come questa Corte
 abbia avuto ripetutamente occasione di affermare  che  "il  principio
 della  precostituzione del giudice sancito dall'art. 25, primo comma,
 della  Costituzione  deve  ritenersi  rispettato  allorche'  l'organo
 giudicante  sia  stato  istituito  dalla  legge sulla base di criteri
 generali  fissati  in  anticipo  e  non  gia'  in  vista  di  singole
 controversie"  (v.  sentenze n. 217 del 1993 e n. 269 del 1992) e che
 "la  nozione  di  giudice  naturale   non   si   cristallizza   nella
 determinazione  legislativa  di  una competenza generale, ma si forma
 anche  di  tutte  quelle  disposizioni,  le  quali  derogano  a  tale
 competenza  sulla  base  di  criteri  che  razionalmente  valutino  i
 disparati interessi in gioco nel processo" (v. ordinanza n.  508  del
 1989 e sentenza n. 274 del 1974).
   La  norma in esame, avendo indicato preventivamente, e non in vista
 di singole controversie,  il  foro  territorialmente  competente  per
 determinati  reati, si presenta, dunque, in sintonia con il parametro
 costituzionale,   tenuto   conto   che   lo   stesso   affida    alla
 discrezionalita'   del   legislatore   l'individuazione  del  giudice
 naturale, senza stabilire, per la competenza in  materia  penale,  il
 vincolo  di  un  collegamento  necessario tra lo stesso giudice ed il
 luogo di consumazione del reato.