IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 246/92 r.g. Trib. contro Pahor Samo, nato a Trbovlje (Slo) il 22 maggio 1939, residente a Trieste, Salita di Vuardel n. 21, imputato dei reati di cui agli artt. 650 c.p., 336 c.p., 337 c.p., 582, 585, 576, primo comma, n. 1, 61 n. 2, 61 n. 10 c.p. e 341, primo e quarto comma c.p. Premesso in fatto All'udienza dibattimentale del 18 dicembre 1995 nel suindicato procedimento penale il p.m., in esito all'espletata istruttoria, eccepiva l'illegittimita' costituzionale, per violazione degli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma e 112 Cost., degli artt. 159 c.p. 46, terzo comma c.p.p., 47, primo e secondo comma c.p.p., 48, quarto comma c.p.p., 49, secondo comma c.c.p. nella parte in cui fanno divieto al giudice del merito di sindacare l'ammissibilita' e la fondatezza della richiesta di rimessione nonche' di pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta stessa, cosi' di fatto impedendo, nei confronti degli imputati che si siano strumentalmente avvalsi dell'istituto a fini dilatori, l'esercizio della giurisdizione penale, con conseguente possibile maturazione dei termini di prescrizione. Considerato in diritto Ritiene il Collegio che, ricorrendo i requisiti della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale prospettata dal p.m., essa dev'essere sollevata con ogni conseguente provvedimento. Appare, anzitutto, sicuramente sussistente il requisito della rilevanza, essendo evidente che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale della normativa eccepita, ed in particolare del ricordato divieto dell'art. 47, primo comma, c.p.p., consentirebbe l'attuazione della giurisdizione penale attraverso la pronuncia della sentenza di merito, allo stato del tutto preclusa. Sotto il diverso profilo della non manifesta infondatezza, e' opportuno ricordare che all'udienza dibattimentale del 20 luglio 1995 l'imputato ha ulteriormente riproposto, per pretesi nuovi motivi, la richiesta di rimessione ex art. 45 e segg. c.p.p. gia' altre tre volte formulata nel corso del dibattimento (ud. 9 novembre 1992; ud. 8 novembre 1993 e ud. 8 novembre 1994) e altrettante volte respinta ovvero dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione (ord. dd. 15 aprile 1993; dd. 2 febbraio 1994 e dd. 11 gennaio 1995). L'uso strumentale dell'istituto della rimessione, operato attraverso la reiterazione di richieste, solo apparentemente fondate su nuovi motivi, ha comportato a tutta evidenza, da un lato, la pratica impossibilita' di definizione del processo, con conseguente sottrazione dell' imputato all'esercizio della giurisdizione penale, dall'altro il concreto pericolo di prescrizione di alcuni dei reati contestati (per quello di cui all'art. 650 c.p. si sono gia' maturati i termini di prescrizione ordinaria), non essendo, tra l'altro, la proposizione dell'istanza in esame ricompresa tra le cause che ex art. 159 c.p. determinano la sospensione del corso della prescrizione. Tali gravi effetti di un uso distorto dell'istituto della rimessione sono solo in parte conseguenti al difetto, risultante dal combinato disposto degli artt. 46, 48 e 49 c.p.p., di potere delibatorio del giudice in ordine all'ammissibilita' o alla fondatezza della richiesta di rimessione, anche nei casi in cui la stessa appaia manifestamente inammissibile o infondata, siccome riservata all'esclusiva competenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. ss.uu. n. 6925 del 1995, Romanelli). Appare, invero, evidente che, quand'anche fosse riconosciuto al giudice del merito un sindacato di ammissibilita' sulla richiesta di rimessione, nulla impedirebbe all'imputato, dopo la declaratoria di inammissibilita' della prima istanza, di riproporla sulla base di motivi anche solo apparentemente nuovi, ottenendo comunque l'effetto di impedire la decisione finale (cfr. in tal senso, le conclusioni dell'Avvocatura generale dello Stato nel giudizio di legittimita' costituzionale definito con sentenza n. 460 del 1995 della Corte costituzionale). Per contro, e' il rigido divieto codificato nell'art. 47 c.p.p. di pronunciare sentenza "fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta", a porsi, ad avviso del Collegio, alla base delle lamentate distorsioni dell'attuale assetto dell'istituto della rimessione. Tale divieto, peraltro sconosciuto all'abrogato codice di rito ed introdotto dai compilatori di quello vigente allo scopo di evitare le incertezze interpretative insorte nel passato sui rapporti tra la pronuncia della sentenza non definitiva nel processo principale e l'esame dell'istanza di rimessione nonche' sulla sorte della sentenza di merito una volta accolta la richiesta di rimessione, appare in sicuro contrasto con i parametri degli artt. 3, 97 e 101 Cost. Non sembra dubbio, infatti, per quanto sopra evidenziato, che la normativa in esame da un lato non corrisponde al canone di ragionevolezza rispetto all'esigenza del "buon andamento" dell'amministrazione della giustizia ed, in particolare, a quella dell'efficienza del processo penale (artt. 3 e 97, primo comma, Cost.); dall'altro confligge con il principio che vuole il giudice soggetto solo alla legge, laddove invece nell'attuale assetto dell'istituto l'esercizio della giurisdizione resta di fatto assoggettato alle iniziative, piu' o meno arbitrarie, dell'imputato (art. 101 Cost.). Si impone, pertanto, ad avviso del Collegio, un intervento del giudice delle leggi diretto a consentire anche nella pendenza della richiesta di rimessione la pronuncia della sentenza di merito, fermo restando il potere della S.C., per l'ipotesi di accoglimento della richiesta, di annullare la sentenza predetta siccome emessa "in difetto temporaneo di potere giurisdizionale" (cfr. Cass. ss.uu. n. 6925 del 1995 cit.). Consegue la sospensione del processo del processo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per il giudizio.