ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  270,  primo
 comma,  del  codice  penale  militare di pace, promosso con ordinanza
 emessa il 7 dicembre 1995 dal giudice  per  le  indagini  preliminari
 presso il Tribunale militare di Roma nel procedimento penale a carico
 di  Erich  Priebke,  iscritta al n. 914 del registro ordinanze 1995 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  52,  prima
 serie speciale, dell'anno 1995;
   Visti  gli  atti  di  costituzione  di  Erich  Priebke,  di Roberto
 Massari, di Giuseppe Nobili, dell'A.N.F.I.M., di Nicoletta Leoni,  di
 Anna Rivalta, della provincia e del comune di Roma, nonche' l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
   Udito  nella  udienza  pubblica  del  6  febbraio  1996  il Giudice
 relatore Mauro Ferri;
   Uditi gli avvocati Enrico  Baccino  per  Erich  Priebke,  Giancarlo
 Maniga  e  Sebastiano  Di Lascio per Anna Rivalta, Marcello Gentili e
 Sebastiano Di Lascio per Nicoletta Leoni, Sebastiano  Di  Lascio  per
 l'A.N.F.I.M.,  Paola  Severino  per Giuseppe Nobili, Rocco Ventre per
 Roberto Massari, Nicola Lombardi per la provincia di  Roma,  Giuseppe
 Lo  Mastro  per  il  comune  di  Roma, nonche' l'Avvocato dello Stato
 Plinio Sacchetto per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                            Ritenuto in fatto
   1. - Con ordinanza emessa  il  7  dicembre  1995  nel  procedimento
 penale  a  carico di Erich Priebke, imputato del reato di concorso in
 violenza con omicidio  continuato  in  danno  di  cittadini  italiani
 (artt. 13 e 185, primo e secondo comma, del codice penale militare di
 guerra,  in  relazione  agli articoli 81, 110, 575, 577, nn. 3 e 4, e
 61, n.  4, del codice penale), il giudice per le indagini preliminari
 presso il Tribunale  militare  di  Roma  ha  sollevato  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  270, primo comma, del codice
 penale militare di pace, in riferimento  agli  artt.  3  e  24  della
 Costituzione.
   2. - Premette il remittente che in sede di udienza preliminare sono
 state  presentate  dalle  persone alle quali il reato ha recato danno
 (ovvero dai loro successori universali) dichiarazioni di costituzione
 di parte civile, ai  sensi  degli  artt.  74  e  ss.  del  codice  di
 procedura penale.
   Posto  che  sulla  base  del  primo  comma dell'art. 270 del codice
 penale militare di pace "l'azione civile per le restituzioni e per il
 risarcimento del danno non puo' essere proposta davanti ai  tribunali
 militari",  il giudice a quo osserva che dopo l'entrata in vigore del
 nuovo   codice  di  procedura  penale  molto  si  e'  discusso  sulla
 perdurante vigenza di questa disposizione, negata da numerosi  organi
 giudiziari militari.
   Detto  contrasto  giurisprudenziale  e' stato risolto dalle sezioni
 unite della Corte di cassazione, le quali, confermandone la  vigenza,
 hanno  ribadito l'inammissibilita' della costituzione di parte civile
 nel  procedimento  penale  militare;  da  qui  la   rilevanza   della
 questione,  dato  che, proprio in applicazione della norma impugnata,
 dovrebbe  esser  dichiarata  l'inammissibilita'  dei  detti  atti  di
 costituzione.
   3.  -  Sottolinea  il  giudice  militare  che, successivamente alla
 sentenza n. 78 del 1989, con la quale questa Corte ha dichiarato  non
 fondata  la  medesima  questione, il contesto normativo e' mutato con
 l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, uno dei cui
 obiettivi e' costituito proprio dalla tutela  della  posizione  della
 persona offesa dal reato.
   Osserva al riguardo il remittente che la contemporanea vigenza, per
 il  processo  penale  militare,  delle norme riguardanti i diritti di
 iniziativa e di intervento  della  persona  offesa  (o  dei  prossimi
 congiunti  di  essa)  e della norma preclusiva impugnata conduce alla
 situazione  paradossale  che,  mentre  alla   persona   offesa   sono
 riconosciuti  specifici poteri nella fase delle indagini preliminari,
 la stessa, nelle fasi successive, puo' esercitare  esclusivamente,  o
 quasi,  i  diritti  previsti  in  generale dall'art. 90 del codice di
 procedura penale.
   Si rileva, inoltre, che nel processo  penale  militare  non  appare
 precluso    l'intervento    degli   enti,   o   delle   associazioni,
 rappresentativi di interessi  lesi  dal  reato.  Cio'  in  quanto  la
 disposizione  di  cui  al  citato  art.  270  non puo', ad avviso del
 remittente, ritenersi suscettibile di una  interpretazione  analogica
 tale  da implicare, oltre al divieto di costituzione di parte civile,
 anche il divieto di intervento  di  detti  enti  e  associazioni.  Ne
 consegue  che,  mentre  nel  processo  penale  comune  si  e'  voluto
 differenziare  la  posizione  degli  enti   e   delle   associazioni,
 riconoscendo  ad  essi poteri meno incisivi di quelli attribuiti alla
 parte civile,  nel  processo  penale  militare,  al  contrario,  data
 l'impossibilita' per la persona offesa dal reato di costituirsi parte
 civile,  l'ente  o  l'associazione  usufruirebbero  di  strumenti  di
 intervento addirittura piu'  ampi  di  quelli  della  stessa  persona
 offesa  (cfr.  artt.  505  e  511,  comma  6, del codice di procedura
 penale).
   La compressione dei diritti di azione e  di  difesa  della  persona
 danneggiata  dal  reato  nel  processo  penale  militare  ed  il  suo
 deteriore  trattamento  appaiono,  pertanto,   irragionevoli,   anche
 perche'  non fondati sulla esigenza di tutela di interessi meritevoli
 di preminente considerazione.
   Inoltre, prosegue il giudice a quo, dopo la riforma della giustizia
 militare, avvenuta  a  partire  dal  1981,  risulterebbe  chiaramente
 inattuale   uno   dei   principali  motivi  che  avevano  portato  il
 legislatore, nel 1941, a stabilire la regola  di  cui  all'art.  270:
 vale  a  dire che i tribunali militari si configurano prevalentemente
 come giudici del fatto,  non  idonei,  in  quanto  tali,  a  valutare
 questioni di carattere patrimoniale.
   La situazione normativa e' oggi ben diversa essendo state eliminate
 alcune  delle  principali  diversita'  del diritto penale sostanziale
 militare, ed ancor piu' significative sono le  modifiche  intervenute
 nel   processo   penale   militare;  processo  in  cui  trovano  oggi
 applicazione le norme del  codice  di  procedura  penale  ispirate  a
 principi  fondamentali  del  nuovo  modello  processuale,  quali,  ad
 esempio, quelle in tema di misure cautelari.
   A cio' puo' aggiungersi, ad avviso del remittente, il fatto che  la
 Corte    costituzionale    a   partire   dal   1989   ha   dichiarato
 l'illegittimita' di tutte  le  norme  speciali  del  processo  penale
 militare che sono state sottoposte al suo esame, cosi' che l'art. 270
 rimane  in sostanza l'unica norma contenente una significativa deroga
 alla procedura penale comune.
   4. - La disparita' di  trattamento  nel  diritto  di  difesa  della
 persona  danneggiata dal reato appare poi - prosegue il giudice a quo
 -  particolarmente  evidente  in  ordine  ai  delitti,  come   quello
 contestato  nel presente procedimento, che sono specificamente lesivi
 di interessi della persona piuttosto che di  interessi  attinenti  il
 servizio e la disciplina militare.
   Il  reato  previsto  dall'art.  185  del  codice penale militare di
 guerra e' infatti caratterizzato dalla "non estraneita' alla  guerra"
 delle  cause  che hanno determinato l'atto di violenza contro persone
 civili che non prendono parte alle operazioni militari. Cio' comporta
 la qualificazione del fatto come "crimine di guerra" e l'applicazione
 delle norme, sostanziali e di giurisdizione,  previste  per  i  reati
 militari.   Non   sembra   tuttavia,   ad   avviso   del  remittente,
 specificatamente nei casi in cui la violenza consiste  nell'omicidio,
 che   il  bene  sostanzialmente  protetto  sia  individuabile  in  un
 interesse  militare,  piuttosto  che  nella  vita   e   nei   diritti
 inviolabili dell'individuo.
   In  conclusione, il giudice a quo ritiene che si ponga in contrasto
 con i principi costituzionali di eguaglianza e di inviolabilita'  del
 diritto di difesa la disposizione secondo cui il soggetto che subisce
 un danno a beni della persona in conseguenza di un reato militare non
 puo'  esercitare  nel  processo  penale dinanzi al giudice militare i
 medesimi diritti riconosciutigli nel processo penale, primo fra tutti
 quello, che  appare  il  piu'  significativo,  di  costituirsi  parte
 civile.
   5.  -  Si  e'  costituito  in  giudizio Erich Priebke, imputato nel
 giudizio a quo, il quale ha concluso per  la  manifesta  infondatezza
 della  questione, richiamando in proposito gli argomenti posti a base
 delle sentenze nn. 78 del 1989 e 106 del 1977 di questa Corte.
   6. -  Si  sono  altresi'  costituiti  nel  presente  giudizio  Anna
 Rivalta,   Nicoletta   Leoni,  Giuseppe  Nobili  e  Roberto  Massari,
 familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, nonche'  l'A.N.F.I.M.,
 la  provincia  di  Roma e il comune di Roma, tutti concludendo per la
 declaratoria di illegittimita' dell'art. 270, primo comma, sulla base
 dei medesimi motivi espressi dal giudice a quo, e  sottolineando,  in
 particolare,  che  per  effetto  della  denunciata disposizione viene
 impedito  alla  persona  danneggiata   dal   reato   di   partecipare
 all'accertamento del fatto storico che e' fonte e presupposto del suo
 diritto al risarcimento dei danni, non potendo concorrere ne' portare
 il  suo  contributo  di  conoscenza  e  di  prove alla formazione del
 convincimento   del   giudice   in   ordine   alla    responsabilita'
 dell'imputato.
   7.  -  E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata.
   Premette  la  difesa  del  Presidente  del  Consiglio  che la norma
 impugnata deve senz'altro ritenersi vigente alla luce della  corrente
 interpretazione  giurisprudenziale,  per  cui  la questione sollevata
 puo' trovare soluzione solo in sede di giudizio di costituzionalita'.
   Nel merito, l'Avvocatura sottolinea che,  pur  essendosi  la  Corte
 costituzionale gia' pronunciata sulla medesima questione, la disamina
 allora  compiuta  si  era  polarizzata  sulla  portata della norma in
 relazione agli aspetti salienti emersi in quel contesto;  mentre  ora
 sembra necessaria una radicale reductio ad unitatem dell'istituto che
 superi  la  logica istituzionalistica dell'ordinamento militare (come
 la sentenza n.  278  del  1987  di  questa  Corte  aveva  osservato),
 riconducendolo  nell'ambito  dell'ordinamento  generale  dello Stato,
 garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini.
   Non i soli fatti  costituenti  illeciti  penali  militari,  osserva
 l'Avvocatura,  ma  tutti  gli illeciti penali offendono, prima ancora
 che i singoli e specifici beni, l'intera collettivita'.
   Circa il  contrasto  tra  la  norma  impugnata  e  l'art.  3  della
 Costituzione, l'Avvocatura rileva che non puo' negarsi il trattamento
 fortemente  discriminatorio tra il danneggiato dal reato comune ed il
 danneggiato dal reato militare;  disparita'  di  trattamento  le  cui
 ragioni  giustificatrici non possono piu' ritenersi valide, sia per i
 mutamenti  del  panorama  normativo  che  per  i  plurimi  interventi
 "demolitori"  di  questa  Corte,  per  effetto  dei quali la norma in
 questione viene di fatto a restare l'ultimo significativo aspetto  di
 differenziazione tra i due processi.
   Condividendo  le  motivazioni  addotte dal giudice a quo a sostegno
 del  progressivo  venir  meno  del  carattere  di  "specialita'"  del
 processo militare rispetto e quello comune, e del positivo contributo
 che  la  partecipazione  della  parte  civile  puo' dare per giungere
 celermente all'accertamento della verita' processuale, la difesa  del
 Presidente  del  Consiglio  valuta  come  argomento  di scarso pregio
 l'ulteriore tesi della inidoneita' dei  tribunali  militari,  per  la
 presenza  di  militari  di  carriera  nei collegi, a valutare i fatti
 nella loro valenza di illeciti civili. Detta presenza,  infatti,  per
 effetto  della  legge n. 180 del 1981, e' divenuta ormai minoritaria,
 per cui, volendo ancora sostenere l'inidoneita' di tale collegio,  si
 dovrebbe  -  a fortiori - negare ingresso all'azione civile anche nei
 giudizi davanti alla corte d'assise, collegio in cui la  presenza  di
 componenti non togati e' nettamente maggioritaria.
   Se,  quindi,  non  sembra potersi negare - nel complessivo contesto
 dell'istituto e della sua ratio - che la norma in esame confligga con
 l'art. 3 della Costituzione, non minore, ad  avviso  dell'Avvocatura,
 sembra il suo contrasto con l'art. 24 della Costituzione.
   Infatti,  non  potrebbe  piu' ritenersi decisiva la considerazione,
 svolta nelle citate precedenti decisioni di questa Corte, per cui  la
 limitazione  del  diritto  di  azione  del  danneggiato  e' di ordine
 meramente  temporale,  sostanziandosi  nella  mera  sospensione   del
 giudizio civile, sino alla definizione del processo penale, stabilita
 dal secondo comma del cit. art. 270.
   Basterebbe  osservare  che una piu' coerente ed adeguata evoluzione
 dell'istituto sposta il suo  fulcro  dal  petitum  (liquidazione  del
 danno)  alla  causa  petendi (accertamento dell'illecito), sicche' la
 ratio della possibilita' di costituirsi  parte  civile  nel  processo
 penale  finisce  per  risiedere  non  piu'  nel principio di economia
 processuale o di unita' della giurisdizione, ma nell'interesse  della
 parte  lesa  ad  essere presente ed a cooperare nell'accertamento del
 reato.
   8. -  Hanno  depositato  memorie  aggiuntive  Erich  Priebke,  Anna
 Rivalta,   Giuseppe  Nobili  e  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,
 ribadendo  le  argomentazioni  gia'  svolte   ed   insistendo   nelle
 conclusioni gia' formulate.
   La  difesa  di Erich Priebke, in particolare, ribadisce quanto gia'
 esposto nell'atto di costituzione, sostenendo che, dal punto di vista
 costituzionale, qualunque regime giuridico in tema  di  rapporti  tra
 azione  civile  e azione penale e' legittimo; la scelta, pertanto, e'
 di esclusiva competenza del legislatore, come  si  evincerebbe  anche
 dal  fatto che la sola dichiarazione di illegittimita' costituzionale
 dell'art. 270 lascerebbe privo di regolamentazione  l'istituto  della
 costituzione di parte civile nel processo penale militare.
   La medesima difesa insiste, infine, sulla "specialita'" del diritto
 penale  militare;  specialita'  che  attiene  all'aspetto sostanziale
 della res iudicanda, rappresentato dalla tutela  della  disciplina  e
 del servizio militare.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Il  giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare   di   Roma   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 270, primo comma, del codice penale militare
 di pace, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
    Ad  avviso  del  remittente  la  norma impugnata, secondo cui "nei
 procedimenti di competenza del giudice militare, l'azione civile  per
 le  restituzioni  e  per  il  risarcimento  del danno non puo' essere
 proposta davanti ai tribunali militari", si pone in contrasto:
     con  l'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  il  trattamento
 deteriore  della  persona  danneggiata  dal reato nel processo penale
 militare,  a  fronte  dell'inesistenza  di  un  analogo  divieto  nel
 processo  penale ordinario, risulta, nell'attuale contesto normativo,
 non  fondato  sull'esigenza  di  tutela  di  specifici  e  preminenti
 interessi, e quindi privo di razionale giustificazione;
     con   l'art.   24   della  Costituzione,  poiche'  la  denunciata
 preclusione e' suscettibile di comprimere illegittimamente il diritto
 del danneggiato di agire in giudizio  per  la  tutela  delle  proprie
 ragioni.
   2.  -  Questa  Corte,  dunque,  e' chiamata a decidere se, ai sensi
 degli artt. 3 e 24  della  Costituzione,  possa  ritenersi  legittima
 l'attuale  diversita'  di  disciplina  tra processo penale militare e
 processo penale ordinario in ordine alla possibilita'  di  esercitare
 l'azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno.
   La   persona  danneggiata  dal  reato,  infatti,  ove  il  presunto
 responsabile sia sottoposto a processo militare, non  puo'  in  alcun
 modo esercitare l'azione civile prima che quel processo sia definito,
 ne' in sede penale - stante il divieto in esame - ne' in sede civile,
 a  causa  della  sospensione  obbligatoria  del  giudizio civile fino
 all'esito  del  giudizio  penale,  disposta  dal  secondo  comma  del
 medesimo art.  270.
   Il  termine  di  raffronto  costituito  dalla disciplina di diritto
 comune esprime, invece, un principio del tutto opposto,  in  base  al
 quale il danneggiato dal reato puo' usufruire subito della scelta tra
 entrambe  le vie, ciascuna delle quali consente l'esercizio immediato
 del diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi.
   e' in questi termini, pertanto, che la questione va sostanzialmente
 esaminata: e cioe' in quanto investe il divieto  di  costituzione  di
 parte   civile   nel  processo  penale  militare,  sotto  il  duplice
 significato che tale divieto, nel sistema complessivamente  delineato
 dal  codice  penale  militare  di  pace,  assume  in  raffronto  alle
 corrispondenti norme di diritto comune;  da  un  lato,  quindi,  come
 regola di esclusione del diritto di agire immediatamente in giudizio,
 dall'altro,  come divieto di partecipare attivamente all'accertamento
 dei fatti  in  sede  penale  (se  non  con  i  piu'  limitati  poteri
 riconosciuti  alla persona offesa), con conseguente impossibilita' di
 avvalersi dei mezzi di prova propri di tale procedimento.
   Nella delineata differenza di disciplina i parametri costituzionali
 invocati  assumono  entrambi  rilievo,  e  vanno,  quindi,  esaminati
 congiuntamente.
   3. - La questione e' fondata.
   Invero,   la  medesima  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.   270 del codice penale militare  di  pace  e'  gia'  stata
 sottoposta,  in  passato, all'esame di questa Corte (v. sentt. n. 106
 del 1977 e, in particolare, n. 78 del 1989), la quale, ritenendo  che
 la   legittimita'   della   singola  norma  che  ammette  od  esclude
 l'esperibilita' dell'azione  civile  nel  giudizio  penale  fosse  da
 valutare  "anche  e  soprattutto  in relazione al generale quadro dei
 rapporti tra le giurisdizioni delineato  dal  legislatore  ordinario"
 (cfr. cit. sent. n. 78 del 1989), era allora pervenuta a decisioni di
 non fondatezza.
   Sulla  base  del medesimo criterio, in riferimento al mutamento del
 quadro normativo a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di
 procedura penale, ed alla luce dei principi successivamente affermati
 dalla giurisprudenza di questa Corte in tema  di  armonizzazione  fra
 diritto  penale  militare  e  diritto  comune, si deve ora giungere a
 conclusioni diverse.
   4. - Occorre innanzitutto riaffermare il  principio  in  forza  del
 quale, con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, viene
 superata  radicalmente  la logica istituzionalistica dell'ordinamento
 militare,  ricondotto  nell'ambito  del  generale  ordinamento  dello
 Stato,  rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di
 tutti i cittadini, militari oppure no, di guisa che il diritto penale
 militare di pace, "non  solo  non  puo'  piu'  ritenersi  avulso  dal
 sistema  generale  garantistico  dello Stato, ma non va piu' esaltato
 come posto a tutela di beni e valori di tale  particolare  importanza
 da  superare,  nella gerarchia dei valori garantiti, tutti gli altri"
 (v. sent. n. 278 del 1987).
   Da un lato, quindi, non puo' essere impedito, per  principio,  alla
 giurisdizione  ordinaria  di assumere la cognizione di reati militari
 allorche'   esistano   preminenti   ragioni   d'interesse   generale,
 dall'altro  occorre  di  volta  in  volta  stabilire  se  particolari
 esigenze, beni o valori  possano  essere  considerati  preminenti,  o
 sottordinati, rispetto ad esigenze, beni o valori tutelati attraverso
 la  speciale giurisdizione dei tribunali militari di pace (sul punto,
 v. citt. sentt. n. 278 del 1987 e n. 78 del 1989).
   In applicazione di tale principio, questa Corte e' intervenuta piu'
 volte  per  armonizzare  con i valori costituzionali, in relazione al
 tertium  comparationis  costituito  dalle  disposizioni  del  diritto
 penale  sostanziale e processuale comune, il processo penale militare
 e le stesse sanzioni stabilite per alcune fattispecie di reato  (cfr.
 sentt.   n. 298 del 1995, nonche' n. 49 del 1995, n. 429 del 1992, n.
 469 e n. 274 del 1990, n. 503 e n. 49 del 1989).
   Ora, ai fini che qui interessano, occorre considerare che, se da un
 lato la garanzia di poter agire in giudizio per la tutela dei  propri
 diritti   ed   interessi   legittimi,   sancita  dall'art.  24  della
 Costituzione,  non  eleva  a   regola   costituzionale   quella   del
 simultaneus  processus,  dall'altro,  l'intervento della parte civile
 nel processo penale trova giustificazione, oltre che nella necessita'
 di tutelare un legittimo  interesse  della  persona  danneggiata  dal
 reato,  nell'unicita'  del  fatto storico valutabile sotto il duplice
 profilo dell'illiceita' penale e dell'illiceita' civile (v. sent.  n.
 532  del  1995); si deve rilevare, inoltre, che la salvaguardia della
 posizione del danneggiato costituisce  uno  specifico  obiettivo  del
 nuovo  codice  di  procedura  penale,  previsto dal legislatore nella
 legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81 (cfr. art. 2, direttive da n.
 20 a n. 28).
   Pertanto, la disposizione di cui al primo comma dell'art.  270  del
 codice  penale  militare  di  pace (la quale, giova ripetere, pone un
 divieto  derogatorio  del  principio  generale  di  diritto   comune)
 potrebbe  essere  ritenuta  legittima  solo  ove  si riconoscesse una
 ragionevole giustificazione nella  natura  propria  del  procedimento
 militare,  ovvero  nella  tutela  di interessi considerati preminenti
 (cosi' come, ad esempio, avviene  in  ordine  alla  esclusione  della
 parte   civile   nel   processo  penale  minorile,  che  ha  una  sua
 significativa motivazione nel tutelare "la  personalita'  del  minore
 dalle  tensioni che puo' sviluppare la presenza dell'accusa privata":
 v. relazione al progetto preliminare delle disposizioni sul  processo
 penale minorile).
   5. - Come si e' gia' detto, nel contesto delineato dal nuovo codice
 di  procedura  penale  (diversamente  da  quanto  avveniva nel codice
 previgente, cui e' riferita la cit. sent. n.  78  del  1989),  ed  in
 coerenza   con  la  recente  giurisprudenza  di  questa  Corte,  tale
 disparita'  di  trattamento  non  puo'  oggi  ritenersi  sorretta  da
 ragionevole ed adeguata giustificazione.
   Sono  venute  meno,  infatti,  le  ragioni  che sostenevano la tesi
 (posta a base della cit.  sent.  n.  78  del  1989)  secondo  cui  la
 giurisdizione  militare, istituita esclusivamente per la tutela della
 disciplina e del  servizio  militare,  non  avrebbe  ne'  motivo  ne'
 capacita' per l'apprezzamento di questioni di carattere patrimoniale,
 in  quanto  i  tribunali  militari  si configurerebbero come "giudici
 prevalentemente di fatto".
   Sul punto questa Corte ha gia' avuto  occasione  di  affermare  che
 l'evoluzione  complessiva  dell'ordinamento  giudiziario  militare di
 pace e'  diretta  a  perseguire  l'equiparazione  della  magistratura
 militare  a  quella  ordinaria;  pertanto,  essendo la condizione dei
 magistrati militari oggi del tutto assimilata, per  stato  giuridico,
 garanzie  di  indipendenza ed articolazione di carriera, a quella dei
 magistrati ordinari (v. sent. n. 71 del 1995), non e' piu'  possibile
 porre in dubbio l'idoneita' del giudice militare - il quale nella sua
 attuale  composizione  collegiale  e'  formato  da una maggioranza di
 magistrati di carriera - a conoscere degli interessi civili  nascenti
 da reato.
   6.  -  In  assenza,  quindi,  di  speciali o preminenti ragioni che
 giustifichino la disciplina in esame, l'attuale differenziazione, nel
 processo militare, delle modalita' di esercizio del diritto di azione
 e del diritto di difesa non puo' che ritenersi lesiva degli artt. 3 e
 24 della Costituzione.
   La citata decisione  n.  78  del  1989  aveva  affermato:  "nessuna
 limitazione,  se  non  temporale,  del  diritto  d'azione  subisce il
 danneggiato da reato militare".
   Ma se detta "limitazione temporale" era coerente al  sistema  sotto
 la  vigenza  del  vecchio  codice di procedura penale, il quale anche
 prevedeva, all'art. 24, la sospensione  dell'azione  civile  fino  al
 definitivo  accertamento  dei  fatti  in  sede  penale,  non  e' piu'
 possibile ritenerla legittima ora che  il  termine  di  raffronto  e'
 costituito  dall'attuale  codice di procedura penale, il cui art. 75,
 comma 2, consente l'esercizio immediato dell'azione civile nella sede
 propria, senza alcuna sospensione sino all'esito del giudizio penale.
   Fin dalla sent. n. 55 del 1971, questa Corte ha  riconosciuto  come
 componente  essenziale  del diritto di difesa la disponibilita' della
 prova dei fatti ritenuti idonei a far risultare la  fondatezza  delle
 proprie ragioni.
   In  coerenza  con tale principio il legislatore ha mantenuto, anche
 nel nuovo processo penale, la  possibilita'  di  esercitare  l'azione
 civile in sede penale; rimettendo in tal modo allo stesso danneggiato
 la  scelta sull'opportunita' di avvalersi degli strumenti di indagine
 e dei mezzi di acquisizione delle prove propri  di  questo  processo,
 ovvero  di  utilizzare,  in  sede  civile,  le presunzioni probatorie
 stabilite dalla  legge  in  determinate  materie.  Non  solo,  ma  in
 conseguenza  della radicale innovazione consistente nello svolgimento
 autonomo dei due giudizi, prospettato come regola  (e  quindi,  nella
 eliminazione   della  pregiudizialita'  necessaria  del  procedimento
 penale rispetto a quello civile di danno), il legislatore ha ora reso
 possibile l'esercizio dell'azione  civile,  immediatamente,  sia  nel
 giudizio penale che in quello civile.
   7. - In conclusione, in raffronto a tali principi, che nel processo
 penale  ordinario  consentono  la  piu'  ampia  tutela  della persona
 danneggiata dal reato, l'esclusione della parte civile  dal  processo
 penale   militare   impedisce,   senza   alcun   ragionevole  motivo,
 l'esercizio del diritto di agire in  giudizio,  non  solo  in  quanto
 divieto di partecipare attivamente all'accertamento dei fatti in sede
 penale,  ma  anche  come  impossibilita'  di  iniziare immediatamente
 l'azione per le restituzioni ed il risarcimento del danno.
   Va, pertanto, dichiarata l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
 270, primo comma, del codice penale militare  di pace.
   8.  -Ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953 n. 87, poiche'
 parte della medesima  regula  iuris  ora  dichiarata  illegittima  e'
 contenuta  anche  nel secondo comma del medesimo art. 270, il quale -
 disponendo la  sospensione  obbligatoria  del  giudizio  civile  fino
 all'esito di quello penale militare - impedisce anch'esso l'immediato
 esercizio  dell'azione  civile, e realizza la medesima ingiustificata
 disparita' di trattamento in raffronto alla corrispondente disciplina
 vigente  nel processo penale ordinario (v. cit. art. 75, comma 2), la
 dichiarazione d'illegittimita' costituzionale va  estesa  al  secondo
 comma dello stesso art. 270.
   9.  - e' appena il caso di sottolineare, infine, che, in virtu' del
 rinvio  esplicitamente  operato  dall'art.  261  del  codice   penale
 militare di pace alle disposizioni del codice di procedura penale, la
 dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale della norma impugnata
 comporta l'automatica applicazione nel processo penale militare delle
 corrispondenti norme di diritto  comune  sulla  partecipazione  della
 parte  civile,  e  sui suoi diritti, nel giudizio penale, nonche' sui
 rapporti tra azione civile e azione penale.