ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 309 e 310 del
 codice di procedura penale,  promossi  con  ordinanze  emesse  il  20
 giugno  1995,  l'11 maggio 1995 (n. 14 ordinanze) e il 25 maggio 1995
 (n. 2 ordinanze) dal Tribunale di Catanzaro, iscritte ai nn.  da  758
 a  774  del  registro  ordinanze  1995  e  pubblicate  nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 47,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1995;
   Visti  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
 ministri;
   Udito nella camera di consiglio del  7  febbraio  1996  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                            Ritenuto in fatto
   1.  -  Chiamato  a pronunciarsi in sede di appello proposto avverso
 una ordinanza adottata in materia di misure cautelari  personali,  il
 Tribunale   di  Catanzaro  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 310 cod. proc. pen., in  relazione  all'art.
 429  del  medesimo  codice,  nella  parte in cui e' precluso, dopo il
 decreto di rinvio a giudizio,  il  controllo  sulla  persistenza  del
 requisito  di  "gravita'  indiziaria  di  colpevolezza"  ai  fini del
 mantenimento del regime cautelare, in riferimento agli artt.  3,  24,
 secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione.
   Rileva  il giudice a quo che la giurisprudenza ha in piu' occasioni
 avuto modo di affermare che, in tema di provvedimenti riguardanti  la
 liberta'   personale  dell'imputato,  l'avvenuto  rinvio  a  giudizio
 preclude la proposizione e l'esame di ogni questione  attinente  alla
 sussistenza  dei  gravi indizi di colpevolezza, fatta salva l'ipotesi
 in cui si sia in presenza di fatti nuovi o sopravvenuti che,  percio'
 stesso,  non  vengono  ad  essere  in  contrasto  con  la intervenuta
 decisione.   Tale principio, osserva  il  rimettente,  troverebbe  la
 propria  forza  "in due argomenti di non trascurabile rilievo": da un
 lato, infatti, si fa leva sulle conseguenze  che  scaturiscono  dalla
 soppressione dell'inciso "evidente" che compariva nel testo dell'art.
 425 cod.  proc. pen., dall'altro si rivaluta la disciplina del rinvio
 a  giudizio  prevista  dall'art.  374  del  codice  di rito abrogato,
 rispetto   alla   quale   "la    giurisprudenza    era    consolidata
 nell'escludere,  una volta emanata la ordinanza di rinvio a giudizio,
 qualsiasi   discussione   sul   fondamento   della   accusa,    sulla
 qualificazione giuridica del fatto e sulla sufficienza degli indizi".
   Osserva  tuttavia  il giudice a quo che la riforma del 1993, che ha
 soppresso il requisito della "evidenza" prima sancito dall'art.   425
 cod.  proc.  pen.,  non  avrebbe delineato alcun parametro sui poteri
 valutativi del giudice della udienza preliminare, sicche' nessun dato
 normativo comporterebbe la "asserita coincidenza del  criterio  della
 gravita'  indiziaria anche ai fini del rinvio a giudizio", militando,
 anzi, argomenti sistematici in senso opposto. Per un verso,  infatti,
 il criterio decisorio della udienza preliminare non puo' individuarsi
 nella   "probabile   condanna  dell'imputato",  mentre,  sotto  altro
 profilo, neppure puo' prospettarsi una assimilazione con  il  vecchio
 proscioglimento  istruttorio,  caratterizzato dalla completezza della
 istruzione e dalla presenza della formula del dubbio.
   Prospettata,  quindi,  l'autonomia  del  procedimento  cautelare  e
 rilevato  come nulla esclude che, "nel rispetto della separazione dei
 giudizi, l'imputato sia rinviato a giudizio in stato di liberta'", il
 rimettente ritiene nella specie vulnerati:
     1) l'art. 111, secondo comma, della Costituzione,  in  quanto  il
 controllo  di  merito,  preliminare  a  quello di legittimita', viene
 precluso  in  virtu'  di  una  "probabile  colpevolezza"  insita  nel
 provvedimento di rinvio a giudizio;
     2)  l'art. 3 della Costituzione, per la disparita' di trattamento
 connessa alla diversita' di  fase  processuale,  considerato  che  il
 differente  regime  si collega ad una "decisione preliminare, a tasso
 garantistico non ben definito", e che si pone come fatto  occasionale
 e sopravvenuto "rispetto ai giudizi cautelari pendenti";
     3)  l'art.  24,  secondo  comma, della Costituzione, in quanto si
 restringe la sfera delle censure proponibili avverso il provvedimento
 cautelare impugnato.
   2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  manifestamente
 infondata.
   L'Avvocatura, dopo aver escluso qualsiasi rilevanza dei riferimenti
 relativi  all'art.  425  cod.  proc.  pen., osserva che se il giudice
 dell'udienza preliminare ha pronunciato il  decreto  che  dispone  il
 giudizio,  cio'  significa  che  l'accusa  e' sembrata sostenibile in
 dibattimento, sicche' la valutazione e la portata di  tale  pronuncia
 e' questione - conclude l'Avvocatura - che appartiene alla competenza
 esclusiva  del  giudice  che  deve  decidere  sulla  sussistenza  dei
 presupposti della misura cautelare.
   3. - Con numerose altre ordinanze, tutte di identico contenuto,  il
 medesimo  Tribunale  di  Catanzaro,  adi'to  in  sede  di riesame, ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 309 cod.
 proc. pen., in relazione agli artt. 292, secondo comma, e  425  dello
 stesso  codice,  nella  parte  in  cui precludono, dopo il decreto di
 rinvio a giudizio, il controllo sulla sussistenza  del  requisito  di
 "gravita'  indiziaria  di  colpevolezza"  ai  fini della legittimita'
 della ordinanza custodiale. Le considerazioni svolte a sostegno della
 impugnazione  sono  nella  sostanza  analoghe  a quelle relative alla
 questione sub 1), anche se difettano gli argomenti  ivi  addotti  per
 contrastare  l'orientamento  giurisprudenziale  su cui si radicano le
 varie  censure.    Comuni  sono  anche  le  ragioni  per   le   quali
 risulterebbero  violati  gli  artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della
 Costituzione, indicandosi, quale ulteriore profilo di illegittimita',
 la violazione anche dell'art.  13, secondo comma, della Costituzione,
 giacche', nell'ipotesi di specie, la  motivazione  del  provvedimento
 restrittivo della liberta' "sarebbe ex lege superflua".
   4. - Nello spiegare atto di intervento, l'Avvocatura generale dello
 Stato  ha contestato la fondatezza della questione. Osserva, infatti,
 l'Avvocatura che non si profilerebbe alcun contrasto  con  l'art.  13
 della  Costituzione,  giacche'  "non  puo'  dubitarsi che il rinvio a
 giudizio rientri tra gli atti motivati" della autorita'  giudiziaria,
 cosi'  come  non  violato  deve  ritenersi l'art. 111, secondo comma,
 della Costituzione, in  quanto  "non  puo'  parlarsi  di  presunzione
 assoluta  di "probabile colpevolezza" indicata nel decretato rinvio a
 giudizio".
   Quanto al  dedotto  contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,
 l'Avvocatura ritiene "ragionevole attribuire al pubblico ministero la
 discrezionalita'  nella  scelta  del momento procedimentale nel quale
 azionare  la  pretesa  cautelare",  concludendo,   dunque,   per   la
 insussistenza del lamentato "aggiramento" dell'istituto del riesame.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Ancorche'  riferite  a  differenti  previsioni normative, le
 questioni che il giudice ha sollevato con le varie ordinanze appaiono
 fra loro intimamente connesse,  avuto  riguardo  alla  identita'  del
 petitum  perseguito  e  degli  argomenti  addotti  a  sostegno  delle
 prospettate censure: i relativi giudizi vanno  pertanto  riuniti  per
 essere decisi con un'unica sentenza.
   2.  -  Investito  da  numerose richieste di riesame e da un appello
 proposto avverso una  ordinanza  pronunciata  in  materia  di  misure
 cautelari  personali,  il  Tribunale di Catanzaro ha sollevato, nelle
 corrispondenti   sedi   incidentali,   questione   di    legittimita'
 costituzionale  degli artt. 309 e 310 del codice di procedura penale,
 nella parte in cui precludono al giudice delle impugnazioni  (riesame
 ed   appello)   il  controllo  del  requisito  dei  gravi  indizi  di
 colpevolezza dopo l'emissione del decreto che  dispone  il  giudizio.
 Osserva,  infatti,  il  giudice a quo che, a seguito della entrata in
 vigore della legge 8 aprile 1993, n. 105, dalla quale e' derivata  la
 soppressione  della  parola  "evidente" che prima compariva nel testo
 dell'art. 425 del codice di procedura penale, ha finito per prevalere
 in giurisprudenza la tesi secondo la quale, in tema di  provvedimenti
 riguardanti   la   liberta'  personale  dell'imputato,  l'intervenuto
 provvedimento che dispone il giudizio integra motivo  di  preclusione
 in  ordine  alla proposizione e all'esame di ogni questione attinente
 alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza;  una  preclusione,
 denuncia  il rimettente, che porrebbe le norme impugnate in contrasto
 con piu' principii sanciti dalla Carta fondamentale. Violato sarebbe,
 infatti, a parere del giudice a quo l'art. 111, secondo comma,  della
 Costituzione,  in quanto la tutela assicurata in sede di legittimita'
 contro i provvedimenti sulla liberta' personale, risulterebbe  invece
 esclusa   nel   preliminare  controllo  di  merito  a  causa  di  una
 presunzione  di  "probabile  colpevolezza"  insita  nel  decreto  che
 dispone  il  giudizio.  Risulterebbe  poi  violato  il  principio  di
 uguaglianza,  in quanto la indicata preclusione viene fatta dipendere
 da un provvedimento che, come il decreto che dispone il giudizio,  da
 un  lato  "si pone come fatto occasionale e sopravvenuto, rispetto ai
 giudizi cautelari pendenti", dall'altro si presenta  come  "decisione
 preliminare  a tasso garantistico non ben definito", essendo atto del
 tutto privo di motivazione e insuscettibile di qualsiasi controllo di
 merito. La normativa censurata si appaleserebbe inoltre in  contrasto
 con  l'art.  24, secondo comma, della Costituzione, giacche', osserva
 il giudice a quo  restringendosi  l'area  delle  censure  proponibili
 proprio  sul  "fondamento  sostanziale  di  merito" del provvedimento
 cautelare  impugnato,  viene  ad   essere   "ingiustificatamente   ed
 aleatoriamente  sacrificato il diritto di difesa in relazione al bene
 primario  della  liberta'".  Limitatamente,  infine,  alla  questione
 concernente  l'art.  309 del codice di procedura penale, il Tribunale
 rimettente ritiene violato anche  l'art.  13,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  in  quanto  nel  caso  di  specie  la  motivazione del
 provvedimento coercitivo "sarebbe ex lege superflua".
   Il giudice a quo fonda dunque le proprie censure non su aspetti che
 direttamente scaturiscono dall'analisi  testuale  delle  disposizioni
 coinvolte,   ma   su  un  postulato  interpretativo  elaborato  dalla
 giurisprudenza  di  legittimita',  ove  si  e'  in   piu'   occasioni
 individuata nella translatio iudicii disposta all'esito della udienza
 preliminare  una  decisione di pregnanza delibativa tale da assorbire
 qualsiasi  profilo  inerente  al  presupposto  dei  gravi  indizi  di
 colpevolezza,  al  punto  da  precluderne la rivalutazione in sede di
 impugnativa proposta  avverso  i  provvedimenti  de  libertate.    Un
 orientamento,  questo,  che, gia' largamente prevalente, ha da ultimo
 ricevuto l'avallo di due sentenze delle sezioni  unite  penali  della
 Corte  di  cassazione  (v. sentenze nn. 36 e 38 del 25 ottobre 1995).
 In tali pronunce detta Corte ha infatti avuto modo di ribadire che, a
 seguito della modifica dell'art. 425 del codice di procedura  penale,
 operata dalla legge n. 105 del 1993 nel chiaro intento di ampliare la
 valutazione del merito da parte del giudice dell'udienza preliminare,
 risulta  sicuramente  confermato  che  il  provvedimento  di rinvio a
 giudizio  emesso  a  conclusione  di  quella   udienza   implica   un
 accertamento positivo della sussistenza di elementi tali da integrare
 la  possibilita'  dell'affermazione  di responsabilita' e, quindi, la
 "qualificata probabilita' di colpevolezza" richiesta perche' si possa
 parlare dei "gravi indizi" di cui all'art.  273 del codice  di  rito.
 Da  cio'  la  conclusione  che  anche il rinvio a giudizio disposto a
 norma dell'art. 429 del codice di procedura penale entra a far  parte
 di  quelle statuizioni adottate da organi giurisdizionali nell'ambito
 del processo a fondamento delle quali e' posta, in modo esplicito  od
 implicito,  la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e che, per
 giurisprudenza ormai costante, precludono, in mancanza di fatti nuovi
 sopravvenuti, la rivalutazione del  requisito  della  gravita'  degli
 indizi.
   Tale  essendo,  quindi, il concreto atteggiarsi delle norme secondo
 un  ormai  cristallizzatosi  quadro  interpretativo  del  sistema,  e
 poiche'  da  tale  assetto  ermeneutico - che, pure, il giudice a quo
 mostra di non condividere ma  dal  quale  evidentemente  non  intende
 discostarsi  -  non  potra'  prescindersi  agli  effetti del presente
 giudizio   in  quanto  divenuto  parte  integrante  della  disciplina
 positiva, ne deriva che per risolvere il dubbio di  costituzionalita'
 avanzato   dal  Tribunale  rimettente  occorrera'  verificare  se  la
 preclusione, di cui innanzi si  e'  detto,  si  presenti  o  meno  in
 contrasto  con  i  parametri  che il medesimo giudice ha puntualmente
 evocato a sostegno delle dedotte censure. Devesi anzitutto richiamare
 l'assunto espresso  nelle  suddette  sentenze  delle  sezioni  unite,
 secondo  il  quale  la soluzione del quesito non puo' fondarsi su una
 concezione rigorosa ed astratta  della  autonomia  del  provvedimento
 incidentale  di  liberta'  rispetto a quello di merito, giacche' cio'
 condurrebbe alla paradossale conseguenza  di  ritenere  possibile  la
 rivalutazione  del  presupposto  dei  gravi indizi di colpevolezza in
 qualsiasi momento del processo  e,  dunque,  anche  dopo  l'eventuale
 intervento  di  una  sentenza di condanna, in aperta antinomia con la
 coerenza stessa del sistema, che certo non tollera il concorso di due
 pronunce  giurisdizionali  sul  tema  della   "colpevolezza",   l'una
 incidentale  e di tipo prognostico e l'altra fondata sul pieno merito
 e come tale suscettibile di passaggio in giudicato.
   Il punto di equilibrio deve  dunque  rinvenirsi  nel  rispetto  del
 principio  di assorbimento, nel senso che soltanto ove intervenga una
 decisione che in ogni caso contenga in se' una valutazione del merito
 di tale incisivita' da assorbire l'apprezzamento dei gravi indizi  di
 colpevolezza,  potra'  dirsi  ragionevolmente  precluso il riesame di
 tale punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi  in  sede  di
 impugnative  proposte  avverso i provvedimenti de libertate.  Il tema
 del  presente  giudizio  di  costituzionalita'   sta   dunque   tutto
 nell'esaminare se il decreto che dispone il giudizio emesso all'esito
 della  udienza  preliminare  possa  ritenersi o meno rispondente a un
 simile postulato.
   Puo' subito osservarsi, a tal proposito, che  il  decreto  previsto
 dall'art.  429 del codice di procedura penale, non a caso strutturato
 dal legislatore come provvedimento di impulso processuale  nel  quale
 e'  carente l'indicazione dei "motivi" che lo sostengono, equivale ad
 un enunciato giurisdizionale che afferma, in positivo, la  necessita'
 del  dibattimento  e,  in negativo, l'inesistenza dei presupposti per
 l'adozione della sentenza di non luogo a procedere,  sicche'  e'  del
 tutto  ovvio  che  le  modifiche  subite  dall'art. 425 del codice di
 procedura penale, come d'altra parte evidenziato dalla giurisprudenza
 di legittimita' di  cui  innanzi  si  e'  detto,  inevitabilmente  si
 riflettano  sull'"area" di valutazione del merito che quel decreto e'
 oggi in grado  di  esprimere.    Non  v'e'  dubbio,  quindi,  che  la
 soppressione dell'aggettivo "evidente", che prima circoscriveva entro
 angusti  confini  la  regola di giudizio che presiedeva alla adozione
 delle formule in fatto della sentenza di non luogo a procedere, abbia
 sensibilmente aumentato la  possibilita'  di  adottare  una  siffatta
 pronuncia  e,  per  converso,  incrementato  in corrispondente misura
 l'apprezzamento che, sempre in fatto, corrobora l'alternativa  scelta
 della  translatio  iudicii. Ma da tale pur significativo mutamento di
 regime non e' possibile trarre la conclusione che l'atto di rinvio  a
 giudizio  si  presenti  come decisione fondata su una valutazione del
 merito necessariamente sovrapponibile  a  quella  che  inerisce  alla
 verifica  del  presupposto  dei  gravi  indizi  di  colpevolezza  che
 legittima l'applicazione e il  mantenimento  delle  misure  cautelari
 personali,  con  la  conseguenza  di  non  poter  ritenere  assorbita
 quest'ultima   delibazione   nella  prima  e,  dunque,  coerentemente
 precluso il relativo controllo nella  incidentale  sede  del  gravame
 cautelare.
   Nell'apportare, infatti, la gia' evidenziata modifica all'art.  425
 cod.  proc.  pen.,  il  legislatore,  volutamente omettendo qualsiasi
 richiamo contenutistico alla disciplina della sentenza di assoluzione
 dettata dall'art. 530, ha evidentemente inteso  mantenere  nettamente
 separate  fra loro le due pronunce, non soltanto sul piano funzionale
 e degli effetti che dalle stesse scaturiscono, ma anche - ed e'  cio'
 che  qui  maggiormente  rileva  -  sotto  il  profilo  dei differenti
 elementi strutturali che caratterizzano i  corrispondenti  "giudizi".
 Mentre,  infatti, nel quadro di una valutazione comparata degli artt.
 425 e 530 cod. proc. pen. possono ritenersi fra loro assimilabili  le
 ipotesi di prova positiva dell'innocenza e quella speculare di totale
 assenza   di   prova  della  colpevolezza,  di  talche'  la  medesima
 situazione di fatto e' idonea  a  determinare,  su  di  un  piano  di
 sostanziale  simmetria,  la sentenza di assoluzione in dibattimento e
 quella  di  non  luogo  a  procedere  nell'udienza  preliminare,  non
 altrettanto  e'  a  dirsi in tutte le ipotesi in cui la prova risulti
 invece insufficiente o contraddittoria. In tal  caso,  infatti,  alla
 sentenza  di  assoluzione  imposta dall'art. 530, secondo comma, cod.
 proc. pen., non corrisponde un omologo per la sentenza di non luogo a
 procedere, ma  una  piu'  articolata  regola  di  giudizio  che  deve
 necessariamente  tener  conto  della  diversa  natura  e funzione che
 quella pronuncia e' destinata a svolgere nel sistema. L'apprezzamento
 del merito che il giudice e'  chiamato  a  compiere  all'esito  della
 udienza  preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia
 pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla
 ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o
 meno necessario dare ingresso alla successiva fase del  dibattimento:
 la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo
 le  modifiche  subite  dall'art. 425 cod. proc. pen., una sentenza di
 tipo "processuale", destinata null'altro che a paralizzare la domanda
 di giudizio formulata dal pubblico ministero.  Da cio' consegue  che,
 ove  la  prova  risulti  insufficiente  o contraddittoria, l'adozione
 della sentenza di non luogo a procedere potra' dirsi imposta soltanto
 nei casi in cui si appalesi la superfluita' del giudizio, vale a dire
 nelle sole ipotesi  in  cui  e'  fondato  prevedere  che  l'eventuale
 istruzione   dibattimentale  non  possa  fornire  utili  apporti  per
 superare il quadro di insufficienza o contraddittorieta'  probatoria.
 Ove  cio' non accada, quindi, risultera' scontato il provvedimento di
 rinvio  a  giudizio  che,  in  una  simile  eventualita',  lungi  dal
 rinvenire  il  proprio  fondamento  in  una  previsione  di probabile
 condanna, si radichera' null'altro che sulla ritenuta  necessita'  di
 consentire  nella dialettica del dibattimento lo sviluppo di elementi
 ancora non chiariti.
   E' evidente, allora, che in siffatte ipotesi il decreto che dispone
 il giudizio non potra' ritenersi in alcun  modo  assorbente  rispetto
 alla  valutazione  dei  gravi  indizi  di colpevolezza che sostengono
 l'adozione  e  il  mantenimento  delle  misure  cautelari  personali,
 sicche'  precluderne l'esame nelle impugnazioni de libertate equivale
 ad introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente
 discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo  del  diritto  di
 difesa,  per di piu' proiettato nella specie verso la salvaguardia di
 un bene di primario risalto quale e' quello della liberta' personale.
   Gli  artt.  309  e  310  cod.  proc. pen., cosi' come costantemente
 interpretati, devono essere  pertanto  dichiarati  costituzionalmente
 illegittimi,  per  contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione,
 nella parte in cui non consentono  di  valutare  la  sussistenza  dei
 gravi  indizi di colpevolezza nell'ipotesi in cui sia stato emesso il
 decreto che dispone il giudizio a norma dell'art.  429  dello  stesso
 codice.
   Restano   conseguentemente   assorbiti  gli  ulteriori  profili  di
 illegittimita' costituzionale denunciati dal giudice a quo.