IL PRETORE
   Ha pronunziato la  seguente  ordinanza  nel  processo  indicato  in
 epigrafe a carico di Magrutti Giuseppe.
 
                             O s s e r v a
   All'odierno   processo  le  parti  concludevano  come  da  separato
 verbale.
   Ritiene il  giudicante  che  la  decisione  allo  stato  non  possa
 emettersi,  in  quanto  va  preliminarmente  affrontata l'esame degli
 effetti sull'imputazione di cui al  capo  a)  dell'art.  12  d.-l.  8
 gennaio  1996,  n.  8,  di  cui  occorre  valutare  la  questione  di
 legittimita' costituzionale.
 
                                Rilevanza
   Dalle emergenze  processuali,  segnatamente  dalla  deposizione  di
 Bagnetti  Antonio,  quale  tecnico dell'ambiente USL, che riferiva di
 aver ritenuto "presso un capannone adibito  a  verniciatura  del  qui
 presente  Magrutti"  "tutti  i  residui  della  lavorazione",  sembra
 risultare,  salva  ogni  successiva   determinazione,   la   presenza
 nell'odierna vicenda di rifiuti classificabili, ex art. 2 del d.-l. 8
 gennaio   2996,  n.    8,  come  "residui".  Per  l'effetto  potrebbe
 applicarsi all'odierna fattispecie l'art. 12, quarto e quinto  comma,
 d.-l.  n.  8 del 1996, che abroga la normativa penale dell'originario
 impianto sanzionatorio del d.P.R.  10  settembre  1982,  n.  915,  in
 particolare  nel punto in cui, richiamando il contenuto dell'art. 14,
 primo comma, d.-l. n.   8 del  1996,  esclude  la  punibilita'  della
 condotta   incriminata.   Riesaminando,   cosi'  come  imposto  dalla
 precedente ordinanza interlocutoria (Corte  costituzionale  ordinanza
 29  giugno  1995,  n.  289),  i  parametri  normativi suscettibili di
 applicazione nel caso di  specie,  deve  ritenersi  che  nell'odierna
 vicenda  persistano i dubbi di costituzionalita', gia' espressi nella
 propria ordinanza datata 15 novembre 1994 con riferimento al  dettato
 dell'art.  12  d.-l. 7 novembre 1994 n. 619, all'epoca ipoteticamente
 applicabile, e che appaiono rafforzati sia  sotto  il  profilo  della
 rilevanza   della   questione,   grazie   alle   ulteriore  emergenze
 processuali, sia sotto quello della non manifesta infondatezza,  alla
 luce  della  giurisprudenza costituzionale intervenuta nel successivo
 arco temporale.
                       Non manifesta infondatezza
   Cio'  premesso  si  nota,  come  testualmente  affermato  da  Corte
 costituzionale  9  marzo  1988-10  marzo 1988, n. 302, che "in via di
 principio la  reiterazione  dei  decreti-legge  suscita  gravi  dubbi
 relativamente    agli   equilibri   istituzionali   e   ai   principi
 costituzionali, tanto piu' gravi allorche' gli effetti sorti in  base
 al  decreto  reiterato  sono  praticamente  irreversibili  (come,  ad
 esempio, quando incidono sulla liberta' personale  dei  cittadini)  o
 allorche'   gli   stessi   effetti   sono   fatti  salvi.  nonostante
 l'intervenuta  decadenza,  ad  opera  dei   decreti   successivamente
 riprodotti".
   Tali  gravi  dubbi  appaiono  particolarmente  fondati nell'odierna
 vicenda in cui il  d.-l.  n.  8  del  1996  e'  il    quattordicesimo
 decreto-legge  che  fa  seguito  ai decreti-legge, non convertiti nei
 termini e ripresentati anche  con  modifiche,  di  seguito  indicati:
 d.-l.  9  novembre 1993 n.  443, d.-l. 7 gennaio 1994 n. 12, d.-l. 10
 marzo 1994, n. 169, d.-l.   6 maggio 1994, n.  279,  d.-l.  8  luglio
 1994,  n. 438, d.-l. 7 settembre 1994, n. 530, d.-l. 7 novembre 1994,
 n. 619, d.-l. 7 gennaio 1995, n. 3, d.-l. 9 marzo 1995, n. 66,  d.-l.
 10  maggio  1995,  n.  162,  d.-l.    10 luglio 1995, n. 274, d.-l. 7
 settembre 1995, n. 373 e d.-l. 8 novembre  1995,  n.  463.  Sorge  il
 fondato  sospetto che la reiterazione cosi' ostinata di decreti-legge
 non  convertiti  nei  termini  e  talvolta  contenenti anche profonde
 modifiche  l'uno  dall'altro  con  rilevanti  effetti  in   tema   di
 abrogazione   o  meno  delle  norme  contenenti  fattispecie  penali,
 costituisca una palese violazione del combinato disposto degli  artt.
 25  e  77  della  Costituzione  in  materia  penale;  infatti  non si
 comprende come la necessita' ed urgenza della decretazione  normativa
 e  la  connessa provvisorieta' della normativa nonostante la naturale
 vocazione del decreto-legge a disporre anche in via definitiva, possa
 conciliarsi, in materia penale, con la mancanza  di  alcuna  scadenza
 temporale  o di qualche limite al legislatore in sede di conversione.
 Tale contrasto si acuisce allorche'  la  precarieta'  legislativa  si
 protragga,  come  nel  caso  di specie, per l'arco di oltre due anni,
 sempre che l'attuale  decreto-legge  venga  finalmente  convertito  o
 definitivamente  abbandonato.  In  pratica  questo  Pretore  potrebbe
 emettere una sentenza assolutoria per un fatto che,  pur  essendo  in
 ipotesi  offensivo  di un bene, quale la salute pubblica, tutelato al
 massimo rango costituzionale viene  depenalizzato  in  forza  di  una
 normativa non solo provvisoria, ma costantemente reiterata nel tempo,
 addirittura  con  modifiche  e  con palesi imprecisioni materiali (si
 veda l'avviso di rettifica contenuto nella Gazzetta Ufficiale  n.  63
 del  16  marzo 1995, relativa a numerose disposizioni del d.-l. n. 66
 del  1995),  sempre  in  mancanza  di  una  conversione  legislativa.
 Inoltre,  l'arco  temporale  coperto  dai  quattordici  decreti-legge
 succedutisi in materia, pari a ventotto mesi,  copre  per  oltre  due
 terzi  il  decorso del termine di prescrizione del reato disciplinato
 dall'art. 26 d.P.R. n. 915 del 1982  ed  individuato  dall'art.  152,
 primo  comma, n. 5 c.p. in tre anni. Il dettato dell'art. 12 d.-l. n.
 8 del 1996, astrattamente  applicabile  al  caso  di  specie,  sembra
 dunque  in conflitto con i principi costituzionali che statuiscono il
 principio di legalita' e la riserva di legge in materia penale.
   Sul punto del rispetto del principio di legalita', la situazione di
 incertezza  legislativa  cagiona  perniciosi  effetti  in   tema   di
 prevedibilita'  delle  decisioni  giudiziarie  in quanto gli imputati
 sottoposti a processo penale per un medesimo fatto vengono  giudicati
 in forza di una normativa precaria e mutevole nel tempo; infatti "una
 volta  decaduto il decreto-legge contemplante un'ipotesi di reato, la
 condotta illecita posta in essere nel periodo di  sua  efficacia  non
 costituisce titolo per la condanna" (cosi' Cass., sez. I, 30 novembre
 1993,  Osalobua,  in  Cass.  Pen.,  1995, m. 911). Cio' e' tanto piu'
 grave in materia penale ove e' doveroso stabilire un discrimine certo
 tra condotta lecita  e  comportamento  illecito,  come  ricordato  in
 generale  anche  dalla  giurisprudenza  costituzionale  (per tutte v.
 Corte costituzionale 24 marzo  1986  n.  364).  Al  riguardo  non  e'
 superfluo  ricordare  l'esito  della  sanatoria in tema di disciplina
 penale degli scarichi; infatti mentre l'art. 7 d.-l. 17 marzo 1995 n.
 79, facendo seguito a  reiterati  decreti-legge  non  convertiti  nei
 termini, consentiva la richiesta dell'autorizzazione in sanatoria per
 i  reati  pregressi,  con cio' recependo quanto disposto per la prima
 volta nell'art. 5 del d.-l. 15  luglio  1994  n.  449,  la  legge  di
 conversione  17  maggio  1995  n.  172  ha soppresso la previsione di
 sanatoria.
   Per quanto riguarda il secondo profilo, la ratio della  riserva  dl
 legge  consiste  nell'attribuire  al  potere legislativo il monopolio
 penale col duplice scopo di evitare l'arbitrio del potere giudiziario
 e di quello del potere esecutivo.
   Non  si  contesta  certo  la  natura  di fonte legale di diritto al
 decreto-legge, sancita dall'art. 77 della Costituzione, ma  si  vuole
 ricordare  come l'appartenenza di una propria potesta' legislativa al
 Governo presupponga la sussistenza di casi straordinari di necessita'
 ed urgenza.  In  effetti  per  il  decreto-legge  si  tratta  -  come
 riconosciuto  dalla dottrina la cui citazione nominativa degli autori
 e' preclusa  da  un'opportuna  applicazione  analogica  del  disposto
 dell'art. 118, terzo comma, r.d. 18 dicembre 1941, n. 1368 contenente
 le  disposizioni  per l'attuazione del codice di procedura cvile - di
 una fonte assolutamente unica nel suo genere  in  quanto  subordinata
 alla  conversione  legislativa.    Si  pensi  ai  problemi  che  puo'
 suscitare il passaggio in giudicato,  per  mancata  impugnazione  nei
 termini  di  rito,  di una sentenza penale del giudice di primo grado
 che abbia  applicato  la  norma  abrogata  da  un  decreto-legge  non
 convertito  nel  termine  di sessanta giorni.  Senza ignorare inoltre
 l'ipotesi, non necessariamente solo scolastica, in cui il giudicante,
 avvalendosi della facolta' di cui al combinato disposto  degli  artt.
 544,  549 e 567 c.p.p., rediga la motivazione della sentenza in epoca
 successiva alla lettura del dispositivo con cio' andando incontro  al
 rischio  di  motivare  una sentenza pronunciata, mediante lettura del
 solo dispositivo, nel vigore di un decreto-legge non convertito nelle
 more della stesura della motivazione della sentenza.
   Sebbene la prassi della rinnovazione dei decreti-legge sia divenuta
 pressoche' costante, al punto che  decreti-legge  vengono  modificati
 nelle more del procedimento di conversione con separato decreto-legge
 (v. d.-l. 15 dicembre 1994, n. 684 il cui art. 1 modificava l'art.  1
 d.-l.  25  novembre  1994  n.  649  in  una  materia  la  cui attuale
 disciplina va individuata nel dettato dell'art.  39  della  legge  23
 dicembre  1994, n. 724, sua volta modificato dall'art. 14 della legge
 22 marzo 1995 n. 85 e dall'art. 1 d.-l. 25  novembre  1995  n.  498),
 questo  pretore  non ritiene che l'unico strumento di garanzia per il
 cittadino sia costituito da un'eventuale revisione costituzionale sul
 punto che riformuli i presupposti per l'esercizio della  decretazione
 d'urgenza.
   Infatti,  e'  pacifico, in primo luogo, che i decreti-legge possono
 essere sindacati sotto il profilo dei vizi propri che ne inficiano la
 legittimita', ancor prima  dell'intervento  dell'eventuale  legge  di
 conversione;  per  tale  motivo  e'  ammesso, qualora ne sussistano i
 presupposti, sollevare un questione  di  legittimita'  costituzionale
 avverso  un  decreto-legge  non ancora convertito. Ma oltre a cio' si
 ricorda che ai sensi dell'art. 77, secondo comma, della  Costituzione
 il   governo   si   assume   la   responsabilita'  dell'adozione  del
 decreto-legge.  Le sanzioni a cui l'esecutivo  soggiace  in  caso  di
 mancata  conversione  del decreto-legge non consistono esclusivamente
 in quelle di natura politica, che  per  loro  natura  ovviamente  non
 possono  essere  comminate  dal  giudice penale, ma coinvolgono anche
 l'ambito strettamente giuridico.    Infatti  va  considerato  che  la
 facolta',  di  cui  all'art.  77, terzo comma, della Costituzione, di
 regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei  decreti
 non  convertiti  e'  meramente  eventuale  e non obbligatoria. Sembra
 percio' logico ritenere che, qualora il decreto-legge  venga  emanato
 in   assenza   dei  presupposti  giustificativi,  non  e'  necessario
 attendere l'intervento del legislatore, ma il giudice puo' dichiarare
 l'illegittimita'    della    norma   contenuta   nel   decreto-legge.
 Naturalmente il giudice di merito nel  nostro  ordinamento  non  puo'
 esercitare  il  potere  di disapplicazione della legge ordinaria, per
 cui spetta alla Corte costituzionale, qualora ritenga, come  sostiene
 questo  pretore, che il decreto-legge non poteva essere presentato o,
 come nel caso di  specie,  reiteratamente  presentato,  con  o  senza
 modifiche,  essendo  venuto  meno il presupposto giustificativo della
 decretazione  d'urgenza,  affermare  l'illegittimita'  costituzionale
 della norma.
   Tale  opinione  sembra  trovare  autorevole  ed  idoneo supporto in
 quanto   affermato   testualmente    anche    dalla    giurisprudenza
 costituzionale  (Corte  costituzionale 27 gennaio 1995 n. 29) secondo
 cui, a norma dell'art. 77 della Costituzione,  "la  pre-esistenza  dl
 una  situazione  dl  fatto  comportante  la necessita' e l'urgenza di
 provvedere tramite  l'utilizzazione  di  uno  strumento  eccezionale,
 quale   il  decreto-legge,  costituisce  un  requisito  dl  validita'
 costituzionale  dell'adozione  del  predetto  atto,   di   modo   che
 l'eventuale  evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un
 vizio di legittimita' costituzionale del  decreto-legge,  in  ipotesi
 adottato  al  di  fuori  dell'ambito  delle  possibilita' applicative
 costituzionalmente previste, quanto  un  vizio  in  procedendo  della
 stessa   legge   di   conversione,   avendo  quest'ultima,  nel  caso
 ipotizzato,  valutato  erroneamente  l'esistenza  di  presupposti  di
 validita'  in realta' insussistenti e, quindi, convertito in legge un
 atto  che  non  poteva  essere  legittimo  oggetto  di   conversione.
 Pertanto,   non   esiste   alcuna   preclusione  affinche'  la  Corte
 costituzionale proceda all'esame del decreto-legge e/o della legge di
 conversione sotto il profilo del rispetto dei requisiti di  validita'
 costituzionale   relativi   alla   preesistenza  dei  presupposti  di
 necessita' ed urgenza, dal momento che  il  correlativo  esame  delle
 Camere  in  sede  di  conversione  comporta una valutazione del tutto
 diversa  e,  precisamente,  di  tipo  prettamente  politico  sia  con
 riguardo  al contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti
 della stessa".  Questa  affermazione,  ripetuta  anche  in  sucessive
 decisioni  (cfr. Corte costituzionale 10 maggio 1995, n. 161), sembra
 poi  logicamente  coincidere  con  il   contenuto   delle   ordinanze
 costituzionali  in  cui,  prendendo  in  esame  un  decreto legge non
 convertito nei termini in una materia disciplinata allo stato  da  un
 successivo  decreto-legge, non e' dichiarata la mera inammissibilita'
 della questione, ma si sono restituiti gli atti al giudice remittente
 per  una  nuova  valutazione  (per  tutte,  si  rinvia  proprio  alla
 menzionata  ordinanza  emessa  dalla  Corte  costituzionale in questo
 processo).
   A questo punto, tuttavia, appare necessario, ad  avviso  di  questo
 giudice,  sindacare  quello  che si ritiene un uso costituzionalmente
 scorretto del potere normativo del governo, non solo con  riferimento
 al  dettato  dell'art. 12, d.-l. n. 8 del 1996, ma anche in relazione
 all'art. 15, secondo comma, lett. c) della legge 23 agosto  1988,  n.
 40,  che  disciplina  l'attivita'  di  governo  e l'ordinamento della
 Presidenza del Consiglio dei Ministri; infatti,  si  ritiene  che  il
 divieto   per   il   governo   di   "rinnovare  le  disposizioni  dei
 decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge  con
 il  voto di una delle due Camere" debba essere interpretato nel senso
 che, qualora un decreto-legge non venga convertito  nei  termini,  il
 governo  perda  la  possibilita' di intervenire di nuovo sulla stessa
 materia con un decreto-legge, identico a quello  non  convertito  nei
 termini.  Qualora venisse adottata quest'interpretazione, sembrerebbe
 evidente il difetto dei presupposti giustificativi del  decreto-legge
 n.  8  del  1996.  Non  e'  escluso che il giudice ordinario potrebbe
 dichiarare la nullita' del d.-l. n. 8 del 1996,  qualora  si  ritenga
 che  la sua emanazione sia in contrasto con l'art. 15, secondo comma,
 lett. c) della legge 23  agosto1988  n.  400;  peraltro  quest'ultima
 legge  non  e' di rango costituzionale, per cui la parita' gerarchica
 delle fonti normative sembra precludere tale soluzione.  Diversamente
 appare  piu' corretto che si dichiari l'illegittimita' costituzionale
 anche dell'art. 15, secondo comma, lett. c)  della  legge  23  agosto
 1988  n.  400,  nel  senso  di  inibire  un  uso improprio del potere
 normativo  dell'esecutivo,   mediante   il   divieto   di   reiterare
 incondizionatamente un decreto-legge, non convertito nei termini, per
 la disciplina della stessa materia.
   Non  e'  inutile ricordare che sotto tale ultimo profilo sono state
 sollevate altre questioni di  legittimita'    costituzionale  sia  da
 questo  pretore,  con  ordinanze  in  data  21 novembre 1995, che dal
 pretore di Padova, sezione distaccata di Monselice (ordinanza  datata
 20  luglio  1995, in Gazzetta Ufficiale, serie speciale, n. 47 del 15
 novembre 1995).
   Quindi,  ritenuta  la  rilevanza  nell'odierna  vicenda  non   solo
 dell'art.  12 d.-l. 8 gennaio 1996 n. 8,  immediatamente applicabile,
 ma  anche  dell'art.15, secondo comma, lett. c) della legge 23 agosto
 1988, n. 400,    che  costituisce  il  presupposto  per  l'intervento
 normativo  del  governo  nella  materia  in  esame,  sussistendo    i
 presupposti  questo  giudice   puo'   sollevare   la   questione   di
 legittimita'  costituzionale,  con  riferimento al menzionato dettato
 costituzionale, sia dell'art.   12 d.-l. 8 gennaio  1996  n.  8,  che
 dell'art.  15,  secondo  comma, lett.   c), legge  23 agosto 1988, n.
 400.
   In ogni caso il disposto dell'art. 12 d.P.R. n. 8 del  1996  sembra
 confliggere   con   il   dettato  costituzionale  anche  sotto  altri
 parametri,   che   per   brevita'   espositiva   possono   intendersi
 sostanzialmente indicati nei seguenti:
     con  gli  articoli  3  e  25  della  Costituzione,  in  quanto il
 combinato disposto degli articoli 2 e  12,  quarto  e  quinto  comma,
 d.-l. n. 8 del 1996, che sembra reintrodurre il contenuto del d.m. 26
 gennaio     1990    gia'    parzialmente    dichiarato    illegittimo
 costituzionalmente (Corte costituzionale 15  ottobre  1990  n.  512),
 sottrae  la  disciplina dei rifiuti a quelle sotanze che la camera di
 commercio inserisce nei listini ufficiali (art. 3, terzo comma, d.-l.
 n. 8 del 1996), con cio' creando un contrasto di fatto  coi  principi
 costituzionali  di  parita' di trattamento e riserva di legge penale,
 (cfr decreto Ministero dell'ambiente 5 settembre 1994  pubblicato  in
 Gazzetta Ufficiale 10 settembre 1994, n. 212, supplemento ordinario).
 Non   puo'   inoltre   sfuggire   come  dalle  prime  interpretazioni
 giurisprudenziali, in tema di art. 12 del d.-l. 7 settembre  1994  n.
 530  (Cass.,  sez.  III, ordinanza 12 ottobre 1994, Rozzi, inedita) e
 dell'art. 12 d.-l. 7 gennaio 1994 n. 12 (in Cass. Pen. 1995, n.  313)
 affiori  il  richiamo  al  d.m.  26  gennaio  1990,  la  cui  portata
 precettiva nel settore penale e' quanto  meno  discutibile  in  forza
 della menzionata declaratoria di illegittimita' costituzionale;
     con l'art. 10 della Costituzione per il contrasto di fondo tra il
 combinato  disposto  degli  articoli  2  e 12, quarto e quinto comma,
 d.-l.  n.  8  del  1996  e  la  normativa  comunitaria,  segnatamente
 direttive  CEE n. 156 del 18 marzo 1991, n. 689 del 12 dicembre 1991,
 ancora da recepire e richiamate nella premessa dell'art. 1 del  d.-l.
 n.  8 del 1996 al fine di delimitare il proprio campo d'applicazione,
 e regolamento n. 259 del 1 febbraio 1993. Il legislatore statale puo'
 intervenire   normativamente  per  correggere  delle  interpretazioni
 giurisprudenziali che ritiene non condivisibili,  come  nel  caso  di
 specie  in  cui  si  pone  in  contrasto  con la tesi secondo cui "le
 materie prime secondarie, ovvero i  residui  derivanti  dai  processi
 produttivi suscettibili di essere riutilizzati, non costituiscono una
 categoria  autonoma,  diversa  o  comunque  alternativa  rispetto  ai
 rifiuti giacche' si tratta pur sempre di sostanze ed oggetti dismessi
 o destinati ad essere dismessi dal loro detentore in quanto non  piu'
 idonei   a  soddisfare  i  bisogni  cui  essi  erano  originariamente
 destinati" (cosi' Cass., sez., un., 27 marzo 1992, Viezzoli, in  Foro
 It.,  1992,  II, c. 419), non puo' pero' disattendere le disposizioni
 della CEE  (Corte  costituzionale  18  aprile  1991,  n.  168;  Corte
 costituzionale  8  giugno  1984,  n.  170),  ne' ignorare le sentenze
 interpretative della Corte  di  giustizia  (Corte  costituzinoale  23
 aprile  1985,  n.  113).  Considerato  che  per interpretazione degli
 organi comunitari europei "la nozione di rifiuto, ai sensi  dell'art.
 1  delle  diretive  del Consiglio n.  75/442/CEE e n. 78/319/CEE, non
 deve essere intesa nel senso di escludere  dalla  applicazione  delle
 direttive  le  sostanze  e  gli  oggetti  che  siano  suscettibili di
 riutilizzazione  economica"  (Corte  di  giustizia  delle   Comunita'
 europee, 10 maggio 1995 (causa n. 422/1992), in riv.  giur. Ambiente,
 1995,  p.  653) sembrerebbe dimostrata l'inadempienza del legislatore
 italiano rispetto alla normativa comunitaria;
     con  il  combinato  disposto  degli  articoli  9   e   32   della
 Costituzione  che  tutelano  l'ambiente  e  la  salute  come ambiente
 naturale in senso lato; la sottrazione  all'intervento  penale  delle
 sostanze  classificabili come residui da parte del combinato disposto
 degli articoli 2 e 12, quarto e quinto comma, d.-l.  n.  8  del  1996
 viola   l'obbligo   di   salvaguardia   del   diritto   assoluto   ed
 incondizionato alla fruizione del paesaggio, inteso  come  ecosistema
 nel  suo  complesso. Sul punto appare opportuno rilevare come non sia
 inibita a questo giudice la possibilita' di sollevare la questione di
 legittimita' costituzionale, in quanto non si e' in presenza  di  una
 norma  penale  di favore. Infatti, oltre alla considerazione che tali
 questioni  non  sono  in  linea  di  principio  inammissibili  (Corte
 costituzionale  3  giugno  1983,  n.  148),  nel caso in esame non si
 tratta  di  introdurre  nuovi  illeciti  penali,  ma  di   dichiarare
 l'incostituzionalita'  di  norme  abrogative  di  reati gia' previsti
 dalla legislazione vigente.
   Per queste considerazioni la questione  nel  presente  processo  e'
 rilevante   e  non  manifestamente  infondata  per  cui  deve  essere
 sollevata anche d'ufficio.
   Il giudizio in corso va sospeso  con  riferimento  ad  entrambe  le
 imputazioni, stante la necessita' della loro unitaria ed inscindibile
 trattazione.