IL PRETORE
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai
 sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e
 dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.  87,  di  rimessione  alla
 Corte  costituzionale  di  questioni  di legittimita' costituzionale,
 rilevate d'ufficio, nella causa r.g.  n.  3896/1995,  in  materia  di
 previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa da:
   Scaroni  Agnese, elettivamente domiciliata in Brescia presso l'avv.
 Gian Maria Maffezzoni, il quale la rappresenta e difende in forza  di
 procura  a  margine  del  ricorso,  ricorrente,  contro  l'I.N.P.S. -
 Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale,   in   persona   del
 Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dai dott. proc. Oreste
 Manzi  e  Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito
 del dott. Lupo, notaio in Roma,  con  domicilio  eletto  nel  proprio
 Ufficio di Avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto.
   Visti:
     gli atti difensivi delle parti;
     l'art. 11, ventiduesimo comma, legge 24 dicembre 1993, n. 537;
     la  sentenza  n.  240/1994  della Corte costituzionale, emessa in
 data 10 giugno 1994;
     l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 70, 71, 72, 73, 81, 101, 102, 104, 111, 134, 136 e  137
 della Costituzione.
   1.  -  Brevi premesse sulle deduzione e conclusioni formulate dalle
 parti in causa.
   1) Nelle conclusioni di parte attrice si chiede a  questo  Pretore,
 di  "dichiarare  tenuto  e  per  l'effetto condannare l'I.N.P.S. alla
 riliquidazione in favore della sig.ra Scaroni Agnese  della  pensione
 SR  421419  con  integrazione  al trattamento minimo, a far tempo dal
 11/76, ed alla conseguente corresponsione alla stessa, dalla medesima
 data, di tutte le differenze fra la pensione come sopra  integrata  e
 quella effettivamente goduta, fino al 30 settembre 1983.
   Condannare  altresi'  l'I.N.P.S. a corrispondere alla stessa, a far
 tempo dal 1 ottobre 1983, le differenze tra i ratei  di  pensione  di
 riversibilita' "cristalizzati" nell'ammontare erogato al 30 settembre
 1983 ed i ratei di fatto corrisposti, determinati a calcolo, il tutto
 nei   limiti  della  prescrizione  decennale,  fino  ad  oggi.  Oltre
 interessi e rivalutazione come per legge".
   2) L'I.N.P.S., ha espresso  le  seguenti,  riportate  testualmente,
 conclusioni:   "respingere   il  ricorso  siccome  inammissibile  per
 scadenza del termine di decadenza  per  agire  in  giudizio  previsto
 dalle vigenti disposizioni.
   In  via  subordinata respingere la domanda in quanto il richiedente
 possiede un reddito superiore  a  quello  consentito  dalla  legge  o
 comunque non ha fornito in proposito alcuna prova.
   In via di ulteriore subordine limitare il pagamento degli arretrati
 nell'ambito della prescrizione decennale dalla domanda.
   In  ogni  caso dichiarare inammissibile la domanda di rivalutazione
 monetaria degli eventuali ratei di pensione arretrati  nei  sensi  di
 cui alle premesse".
   3)  Non  e'  utile,  ne'  necessario  ricordare altri aspetti della
 controversia, perche', in relazione alla natura delle  questioni  che
 vengono oggi sollevate, essi sono ininfluenti.
   2.     -     Considerazioni     introduttive     sulle    questioni
 d'incostituzionalita' rilevanti per la decisione della causa.
   La giurisprudenza ormai costante di questo giudice del lavoro  nega
 l'efficacia  vincolante  per  l'Autorita'  giudiziaria delle sentenze
 della  Corte  costituzionale  di  natura  interpretativa,  addittiva,
 manipolativa  (di  tutte  le  decisioni,  cioe',  che  possono essere
 definite "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute  non
 conformi all'art. 136 della Costituzione.
   A  tale  proposito  non  sembra  fuori  luogo  ammettere il disagio
 provato  sin  dall'inizio  nel  pronunciare  sentenze  fortemente  in
 contrasto  con varie decisioni del Giudice delle leggi, ma soprattuto
 appare importante riconoscere che tale disagio si  e'  andato  sempre
 piu'   aggravando,   man  mano  che,  nell'evoluzione  della  propria
 giurisprudenza critica, questo pretore si e' reso  conto  dalla  vera
 portata   e   gravita'   del   problema   costituito  dalle  sentenze
 interpretative,  addittive,  manipolative,  su   tutto   il   sistema
 normativo,  poiche'  il  fenomeno dell'intervento "legislativo" della
 Corte costituzionale e' diffuso e di enorme  dimensione  e  determina
 l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte.
   Le  cause  storiche sono molteplici, ma possono individuarsi quelle
 piu' evidenti: il sempre piu' marcato  allontanamento  dalla  lettera
 dell'art.  136,  primo  comma, Cost., dopo una prima fase di corretta
 applicazione della stessa norma; la "fuga dalla responsabilita'"  del
 Legislatore, sovente spettatore passivo della progressiva sottrazione
 della  funzione  attribuitagli  dalla  Costituzione  e,  quanto meno,
 inefficiente nell'esercitare il potere specifico previsto nel secondo
 comma  dell'art.    136;  la  diffusione  nella  dottrina   e   nella
 giurisprudenza   di  merito  e  di  legittimita'  prevalenti  di  una
 concezione evoluzionistica del  diritto,  con  base  di  pura  natura
 giusnaturalistica, non rispettosa dei dati testuali e della rigidita'
 della legge Fondamentale della Repubblica.
   Non e' neppure estraneo alla problematica che si affronta affermare
 che,  sia  al fine di sanare, per il passato, quella situazione sopra
 descritta di doppia  normativa  e  sia  al  fine  di  precluderne  il
 ripetersi  in  futuro,  le varie autorita' dello Stato responsabili e
 coinvolte  hanno,  nell'ambito  delle  proprie  attribuzioni,   ampia
 possibilita'   d'intervento,   ma   non  puo'  tacersi  che  solo  il
 Legislatore puo' - e ben potrebbe subito dopo aver  avuto  conoscenza
 della  presente ordinanza (a seguito della notifica al Presidente del
 Consiglio dei Ministri e della comunicazione ai Presidenti delle  due
 Camere  del  Parlamento) e, quindi, ancor prima dell'incardinarsi del
 giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale   -   risolvere,   con
 l'emanazione  delle  norme  di  legge  ritenute  piu' idonee, in modo
 definitivo, organico e generale il problema  qui  messo  in  risalto,
 riaffermando  con forza e chiarezza le proprie esclusive attribuzioni
 fissate nella legge fondamentale dello Stato,  in  particolare  negli
 artt.  70, 71, 72 e 73, cosi' da ricondurre la Corte costituzionale e
 l'Autorita' giudiziaria nello stretto ambito delle loro specifiche  e
 altrettanto esclusive competenze.
   Tali considerazioni di portata generale non sono fini a se' stesse,
 ma  riguardano  direttamente i temi della presente ordinanza, poiche'
 questo  giudice  remittente,  benche'   convinto   della   fondatezza
 giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare l'efficacia
 delle  decisioni  "legislative"  della Corte costituzionale, non puo'
 trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente"  che  applica
 tali  decisioni  come  se  fossero  norme  di legge d'interpretazione
 autentica, affermandone in senso assoluto l'obbligatorieta'.
   Ne' poteva evitarsi di  mettere  in  piena  luce  la  rilevanza  di
 carattere  generale  sul diritto positivo vigente delle questioni che
 il Giudice delle leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve  essere
 affermato  con la massima chiarezza) una pronuncia di accoglimento di
 una o piu' delle questioni, tra quelle qui  sollevate,  attinenti  le
 problematiche  sopra evidenziate non potrebbe limitare i suoi effetti
 alle  sole  norme  direttamente  e   specificamente   colpite   dalla
 dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale,  ma comporterebbe la
 caducazione di quell'intero sistema di "diritto vivente"  (o  almeno,
 di  una  sua grande parte) - del quale si e' gia' detto, parallelo al
 diritto  scritto  e  codificato  -  che  nella  realta'   applicativa
 giurisprudenziale domina da piu' decenni.
   In  verita'  (anche  a  non  voler  tener  conto  di quanto sin qui
 esposto),  tutta  la  vasta  problematica  legata  al  non  facile  e
 traumatico  rifiuto dell'efficacia delle sentenze "legislative" della
 Corte non e'  di  poco  conto  e  non  e'  superabile  agevolmente  -
 contrariamente  a  quanto si e' affermato in dottrina - con la troppo
 semplicistica affermazione dell'assoluta prevalenza  delle  decisioni
 della  Corte  costituzionale  su  quelle  pretorili, poiche' non puo'
 dubitarsi' del fatto che il giudice deve, sempre e solo, applicare la
 legge e non e'  questione  da  poco  identificare  la  legge  vigente
 nell'attuale  paradosso  normativo, gia' ampiamente descritto: e' ben
 lecito, anzi e' assolutamente doveroso, per il  giudice,  nel  dubbio
 sul  testo  delle disposizioni da applicare (se quello promulgato dal
 legislatore,  o  quello  revisionato  dalla  Corte),   ricercare   la
 soluzione  piu'  vicina ai principi fondamentali sanciti nella nostra
 Costituzione per regolare e tutelare la funzione dell'amministrazione
 della giustizia, con necessaria scelta in favore della  legge,  anche
 al  doloroso  prezzo di negare l'efficacia delle sentenze del Giudice
 delle leggi.
   Si possono giustificare e comprendere le propensioni di parte della
 dottrina   favorevoli   alle   interpretazioni    (piu'    o    meno)
 giusnaturalistiche  -  indubitabilmente  in  buona  misura  frutto di
 spinte ideologiche - del diritto, in chiaro  antagonismo  con  quello
 che  e'  stato  da  taluno definito, con malcelato disprezzo, sterile
 positivismo,  ma  non  puo',  ne'  deve  essere  ritenuta   legittima
 l'assunzione generalizzata da parte dell'Autorita' giudiziaria di una
 scelta   evoluzionistica   nell'applicazione  della  legge,  poiche',
 invero, mentre la dottrina non e' vincolata al  rispetto  di  nessuna
 norma  nell'elaborazioni delle sue teorie e, per affermarle, puo' con
 la massima disinvoltura superare anche il testo normativo piu' chiaro
 ed univoco, altrettanto non e' consentito al giudice, il  quale  deve
 interpretare la legge in obbedienza ai canoni normativamente previsti
 (dalle Disposizioni sulla legge in generale, in particolare nell'art.
 12)  per  darne  corretta  applicazione  nelle  concrete  fattispecie
 portate al suo esame.
   Tutto cio' che si e' sinora  rappresentato  in  via  generale  vale
 anche  in relazione alla sentenza 10 giugno 1994, n. 240, della Corte
 costituzionale che ha modificato l'art. 11, ventiduesimo comma  della
 legge 24 dicembre 1993, n. 537, determinando l'esistenza di una norma
 "virtuale"  ormai  divenuta  (in tempi brevissimi) "diritto vivente",
 della quale questo pretore, benche' non ravvisi, allo  stato,  alcuna
 ragione  di  natura  giuridica  per  mutare la propria giurisprudenza
 contraria (gia' ricordata), deve tenere conto, poiche' nella  realta'
 applicativa  la  predetta  versione dell'art. 11, ventiduesimo comma,
 legge  n.  537/1993  ha  sinora  prevalso  su  quella  approvata  dal
 Parlamento.
   Poiche'  deve  darsi  atto  della realta' suddetta e poiche' appare
 vulnerato l'art. 136, primo comma, Costituzione, non resta altro  che
 sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale a carico della
 norma "virtuale" sopra individuata.
   In forza delle stesse argomentazioni che precedono,  risulta  anche
 rilevante  l'accertamento della legittimita' costituzionale dell'art.
 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953,  in  relazione  all'art.
 136,  primo  comma, della Costituzione, poiche' e' in particolare con
 riferimento al  testo  del  predetto  art.  30  che  viene  affermata
 l'efficacia      ex      tunc     delle     sentenze     dichiarative
 d'incostituzionalita', in  aperta  e  piena  violazione  del  dettato
 costituzionale.
   E',  invero,  piu'  che  evidente  che,  qualora venisse dichiarata
 l'incostituzionalita' dell'art. 30, terzo comma, legge n. 87/1953, la
 tesi dell'efficacia ex tunc  delle  decisioni  d'incostituzionalita',
 sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, perderebbe
 l'unico  (per  quanto  labile  ed  insignificante e gia' disatteso da
 questo pretore) argomento testuale, cosi' rendendo  chiaro  a  tutti,
 anche  ai piu' fervidi fautori della "costituzione materiale", che le
 norme della Costituzione Formale sono  le  uniche  vigenti  e  devono
 essere rispettate.
   Nella   presente   causa   la  dichiarazione  d'incostituzionalita'
 dell'art.  30 renderebbe indiscutibile la pronuncia di rigetto  della
 domanda  relativa  alla  "cristallizzazione" proposta in ricorso, per
 assenza di norma regolatrice del diritto, risultando  applicabile  il
 testo  originario  dell'art.  11,  ventiduesimo comma, della legge n.
 537/1993, poiche' la sua parziale inefficacia (ancora  una  volta  si
 tiene  conto  della realta' del "diritto vivente", senza riconoscerne
 pero' la fondatezza), prendendo decorrenza dal giorno successivo alla
 pubblicazione della sentenza n.  240  del  1994,  nor  avrebbe  alcun
 effetto  nella  presente  controversia,  precedente  la pubblicazione
 della decisione della Corte costituzionale: constatazione questa  che
 chiarisce  in  modo  inequivoco la rilevanza (anche se non esclusiva)
 nel giudizio della medesima questione.   Sempre  avendo  presenti  le
 considerazioni  appena  sopra  sviluppate,  e', altresi', necessario,
 nella  presente  fattispecie,  sollevare  un  ulteriore  rilievo   di
 incostituzionalita'  di  particolare  carattere:    dubita,  infatti,
 questo  pretore  della  legittimita'  costituzionale  dell'art.   11,
 ventiduesimo  comma, della legge n. 537/1993, come "manipolato" dalla
 sentenza  n.  240/1994,  in  relazione  all'art.  81,  ultimo  comma,
 Costituzione  e  tale  dubbio,  deve  essere  risolto  dal necessario
 intervento della Corte costituzionale.
   3.  -  Considerazioni  generali  in  ordine   alle   questioni   di
 legittimita' costituzionale di natura preliminare.
   Poiche'  la  controversia  puo'  essere  risolta  sotto  molteplici
 profili,  ciascuno  dei  quali  da  solo  sufficiente  per   motivare
 (l'obbligatorieta' della motivazione dei provvedimnti giurisdizionali
 e'  sancita nell'art.   111 Costituzione, tra i principi fondamentali
 delle norme sulla giurisdizione)  la  pronuncia,  con  consequenziale
 possibilita'  per  questo pretore di scegliere, se fondare la propria
 decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli  o  limitazioni  (si
 tratta, infatti, di scelta insindacabile, perche', nell'obbedienza al
 dettato   dell'art.   111  citato,  indiscutibile  manifestazione  di
 autonomia e  di  libera  determinazione  dell'Autorita'  giudiziaria,
 secondo  la  previsione  degli  artt.  101  e 104, primo comma, della
 Costituzione), il Giudice delle  leggi  non  dovrebbe  esaminare  nel
 merito le suddette questioni, negandone l'ammissibilita', perche' non
 rilevanti,   potendo   certamente   il   giudizio   "essere  definito
 indipendentemente dalla risoluzione" delle qui sollevate questioni di
 legittimita'  costituzionale,  come  chiaramente  recita  l'art.  23,
 secondo  comma,  della  legge n. 87 del 1953.  Deve, pertanto, essere
 sollevata   d'ufficio   l'ulteriore   questione    di    legittimita'
 costituzionale,  a  carico  della  specifica disposizione, come sopra
 riportata nella sua testualita', del citato art. 23,  secondo  comma,
 della  legge  n. 87/1953, per violazione dell'art. 134, nonche' degli
 artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.  Questione che
 la  Corte  dovra'  esaminare in via preventiva al fine di passare, in
 caso di suo accoglimento, all'esame delle  questioni  precedentemente
 individuate.    Per  le  stesse ragioni, appena sopra esposte, con le
 stesse finalita'  e  con  il  medesimo  carattere  preliminare,  deve
 altresi  essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  23  della  legge  ordinaria  11   marzo   1953,   n.   87,
 limitatamente   a   quelle  sue  parti  (quali  verranno  esattamente
 evidenziate in  seguito)  che  stabiliscono  condizioni  e  forme  di
 proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese
 violazione  della  riserva di legge costituzionale prevista dall'art.
 137, primo comma, Costituzione.
   4. - Precisazione delle questioni  di  legittimita'  costituzionale
 rilevate d'ufficio.
   A)   Questione   di   legittimita'   costituzionale  dell'art.  11,
 ventiduesimo comma, legge 22 dicembre 1993, n. 537,  come  modificato
 dalla  sentenza 10 giugno 1994 n. 240 della Corte costituzionale, per
 violazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104,
 primo comma, della Costituzione.
   B) Questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  30,  terzo
 comma,  della  legge  11  marzo  1953 n. 87, per violazione dell'art.
 136, primo comma, della Costituzione.
   C)  Questione  di   legittimita'   costituzionale   dell'art.   11,
 ventiduesimo  comma,  legge  24  dicembre  1993,  n.  537/1993,  come
 modificato dalla sentenza n. 240/1994 della Corte costituzionale, per
 violazione dell'art.  81, ultimo comma, della Costituzione.
   D) In  via  preliminare  rispetto  alla  precedenti,  questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge
 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede che "il giudizio non  possa  essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale"  e  limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione dell'art.  134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della
 Costituzione.
   E)  Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti indicati
 in quella sub D, questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 23  della  legge  ordinaria  11  marzo  1953,  n. 87, nelle parti che
 stabiliscono condizioni e forme  di  proponibilita'  dei  giudizi  di
 legittimita'  costituzionale,  per palese violazione della riserva di
 legge   costituzionale   prevista   dall'art.   137,   primo   comma,
 Costituzione.
   5. - Motivazione delle singole questioni.
   A)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.  11, ventiduesimo comma, legge 24 dicembre  1993,  n.  537,
 come  modificato  dalla  sentenza  10  giugno 1994 n. 240 della Corte
 costituzionale, per violazione dell'art. 136,  primo  comma,  nonche'
 degli  artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione.  La Corte ha
 dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  del  citato  art.   11,
 ventiduesimo comma, legge n. 537/1993, "nella parte in cui - nel caso
 di  concorso  di  due  o  piu'  pensioni  integrate  o integrabili al
 trattamento  minimo,  delle  quali  una  sola  conserva  il   diritto
 all'integrazione  ai  sensi  dell'art.  6,  terzo comma, del d.-l. 12
 settembre 1993, n.  463 ..., convertito nella legge 11 novembre 1993,
 n. 638, non risultando superati al 30  settembre  1983  i  limiti  di
 reddito  fissati  nei  commi  precedenti  -  prevede  la riconduzione
 dell'importo a calcolo dell'altra o delle  altre  pensioni  non  piu'
 integrabili,  anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante
 alla  data  indicata,  fino  all'assorbimento  negli  aumenti   della
 pensione-base  derivanti  dalla perequazione automatica".  Si ritiene
 nella dottrina e nella giurisprudenza prevalenti che  tale  decisione
 della  Corte  costituzionale  (come  le altre del genere che e' stato
 gia' in precedenza qualificato  "legislativo"  per  ricomprendere  in
 un'unica  definizione  tutte  le  sentenze del Giudice delle leggi di
 natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle
 che non si limitano a sancire  semplicemente  l'illegittimita'  delle
 norme   che   violano   la   Costituzione)  abbia  valore  correttivo
 dell'incostituzionalita' della norma ed efficacia erga  omnes,  cosi'
 da  dover  essere  applicata  (per  di  piu'  ex  tunc, ma di cio' si
 trattera' piu' avanti) dall'Autorita' giudiziaria.    Questo  giudice
 (abbandonata  ormai  da  tempo  la propria giurisprudenza che aderiva
 all'erronea  tesi  dominante  appena  sopra  sintetizzata),   e'   di
 contrario  avviso  e  deve  confermare  anche  in  questa  sede senza
 esitazione, in piena coerenza con le  proprie  precedenti  decisioni,
 che  l'art.  11,  ventiduesimo comma, legge n. 537/1993 e' rimasto in
 vigore nella sua integrale formulazione  letterale,  quale  norma  di
 legge  dello Stato, regolarmente approvata (art. 72 Costituzione) dal
 Parlamento, regolarmente promulgata dal Presidente della Repubblica e
 regolarmente  pubblicata  (art.  73  Cost.),  poiche'   la   sentenza
 "legislativa"   n.   240/1994   della  Corte  costituzionale  non  e'
 giuridicamente idonea  a  determinare  la  cessazione  dell'efficacia
 della  norma  dichiarata  illegittima in una parte non scritta (nella
 parte in cui prevede...),  posto  che  l'evento  dell'inefficacia  si
 realizza    solo    quando   la   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale colpisce la letteralita' dell'intera norma  o  di  una
 sua  parte  (scritta:  deve  essere ribadito), causandone le semplice
 caducazione.  In altri termini: le sentenze "legislative" non possono
 (ma si veda anche la diversa ipotesi  di  soluzione  giuridica  della
 questione,  piu'  avanti prospettata) dar luogo agli effetti previsti
 dall'art.   136,  primo  comma,  Costituzione,  ne'  hanno  efficacia
 modificativa   del  diritto  positivo,  poiche'  (il  rilievo  sembra
 pacifico  ed   incontestabile)   non   e'   attribuito   alla   Corte
 costituzionale   il   potere   legislativo,   ne'   una  funzione  di
 interpretazione  autentica  della  legge.  E',   infatti,   al   solo
 legislatore  che la nostra Costituzione attribuisce il potere, in via
 generale (art. 70 e seguenti, nonche' art. 117 per cio' che  concerne
 le  Regioni)  e in via specifica (art. 136, secondo comma), di creare
 la norma di legge, giuridicamente vincolante.  Tutto cio' vale  anche
 per quelle decisioni additive che vengono definite "a rime obbligate"
 -  e' chiaro che l'argomento viene esposto per ragioni di completezza
 del discorso; giacche' potrebbe assumere qui  rilievo  concreto  solo
 qualora  si affermasse che la sentenza n.  240/1994 appartiene a tale
 categoria, anche se davvero non si intravede  nella  motivazione  una
 valida   indicazione  in  proposito  -,  le  quali  vengono  ritenute
 "autoapplicative" e cogenti  in  quanto  connaturate  all'ordinamento
 giuridico:  se  le  sentenze  additive  "a  rime  obbligate"  fossero
 veramente idonee  di  immediata  applicazione  per  la  loro  diretta
 derivazione dal diritto positivo dovrebbe essere possibile rinvenire,
 se  non  la  norma  di  riferimento  suscettibile  di interpretazione
 estensiva o di  applicazione  analogica,  quanto  meno  il  principio
 assoluto    da    applicare    per    la    correzione   dell'aspetto
 d'incostituzionalita',   con   la  conseguenza  che,  se  cio'  fosse
 possibile, l'intervento additivo "a rime obbligate"  della  Corte  si
 rivelerebbe,  a  maggior  ragione, non solo illegittimo rispetto alla
 previsione dell'art. 136, primo comma, Costituzione, ma anche inutile
 e ridondante, essendo logicamente  sufficiente  una  tipica  sentenza
 caducatoria,  poiche'  sarebbe (anche in tal caso, come in ogni caso)
 di esclusiva competenza dell'autorita' giudiziaria la decisione sulla
 possibilita' di riempire, ai sensi dell'art.  12  delle  disposizioni
 sulla  legge  in generale, il vuoto normativo (eventualmente ritenuto
 intollerabile)  conseguente  alla  caducazione   della   disposizione
 dichiarata  costituzionalmente  illegittima dalla Corte.   In tema si
 propone un'ultima nota d'interesse: in  una  recente  (rimasta  pero'
 isolata) sentenza (la n. 218 del  29 maggio - 1 giugno 1995) la Corte
 costituzionale  ha ritenuto di dover motivare la decisione, qualifica
 come additiva,  affermando  che  "La  reductio  ad  legitimitatem  e'
 possibile  con  una  pronuncia  additiva,  perche' desumibile..." (e'
 irrilevante il seguito): anche senza voler attribuire un  significato
 "freudiano"  alla  rarita'  dell'espressa motivazione sull'intervento
 additivo, appare, tuttavia,  lecito,  se  non  altro  ad  colorandum,
 portare   all'attenzione  del  Giudice  delle  leggi  il  precedente,
 giacche' puo'  ritenersi  che  costituisca  un  sintomo  di  iniziale
 ripensamento  sulla legalita' e correttezza costituzionale del genere
 di sentenze qui  criticate.    Tanto  rilevato  e  rappresentato  con
 riferimento  al  primo comma dell'art   .   136, si deve passare alla
 discussione inerente l'altro aspetto d'incostituzionalita'  dell'art.
 11,   comma   22,   della   legge   n.   537/1993,   come  modificato
 dall'intervento del Giudice delle leggi, per violazione  degli  artt.
 101  e  104,  primo  comma,  della Costituzione.   Deve subito essere
 affermata la natura anche interpretativa della sentenza "legislativa"
 n.  240/94  e  deve  precisarsi  che  tale  natura  non  puo'  essere
 (contrariamente  a quanto sostenuto dalla, quasi unanime, dottrina e,
 nella recente sentenza emessa in data  5  ottobre  1995  nella  causa
 Belloli  Lucia  contro I.N.P.S., dal Tribunale del lavoro di Brescia)
 razionalmente negata, poiche' nella sentenza  n.  240/1994  la  Corte
 costituzionale propone una lettura del contenuto dell'art.  11, comma
 22,  della  legge  n.  537/1993,  in contrasto con quella dei giudici
 remittenti, giungendo a scindere il disposto del comma 22 predetto in
 due sottodisposizioni da nessun altro interprete  prima  individuate,
 ed,  inoltre,  perviene  a  tali  risultati  in forza di un elaborato
 ragionamento correlato ad una particolare esegesi dell'art.  6, comma
 7, del decreto-legge n. 463/93, convertito nella legge n.   638/1983,
 contrastante  con  quella  della Corte di cassazione e di buona parte
 della giurisprudenza di merito: se tutto cio' non e' interpretazione,
 allora non si addice  alla  sentenza  n.  240/1994  l'appellativo  di
 interpretiva,  ma  pare  arduo negare l'evidenza.   L'interpretazione
 della legge e'  attivita'  intellettuale  non  riservata    :    ogni
 operatore  del diritto ed ogni singolo cittadino e' ovviamente libero
 di interpretare la normativa,  per  tutti  i  fini  possibili,  senza
 limiti.    Ma  quando l'interpretazione e' correlata all'applicazione
 della legge in sede giurisdizionale,  quando  cioe'  e'  legata  alla
 funzione  specifica  dell'amministrazione della giustizia in nome del
 popolo e  nella  soggezione  alla  sola  legge  (101  Cost.),  allora
 l'attivita'  d'interpretazione  e'  riservata  ed  esclusiva  perche'
 demandata al giudice (102 Cost. per quello  ordinario),  autonomo  ed
 indipendente da ogni altro potere (104, primo comma, Cost.).
   Ne discende che, qualora una norma di legge trovi (o possa trovare)
 nella  giurisprudenza  di  merito  e,  soprattutto,  di legittimita',
 diverse soluzioni interpretative, non puo' essere  ritenuto  conforme
 alla  Costituzione un intervento di sostanziale natura interpretativa
 autentica della Corte costituzionale, che (come nel caso  di  specie)
 determini  una  modifica del contenuto della norma, pur non incidendo
 sul suo tenore letterale, cosi'  da  imporre  una  specifica  scelta,
 fondata su una delle possibili interpretazioni del dettato normativo,
 o  (e  sembra  essere  questa  l'ipotesi  che meglio si attaglia alla
 sentenza n.  240/94)  da  precludere  ogni  diversa  interpretazione,
 togliendo  al  giudice competente spazio per esercitare pienamente la
 propria funzione, poiche' in tal modo viene concretamente violato  il
 principio  della  divisione dei poteri, con la compressione di quello
 giudiziario, in evidente contrasto con gli articoli 101 e 104, quarto
 comma, Costituzione.  Cio' non significa che il Giudice  delle  leggi
 non possa interpretare la legge (negarlo sarebbe pura assurdita'), ma
 significa solo che non e' consentito a nessun potere (inteso in senso
 lato)  dello  Stato e, pertanto, neppure alla Corte costituzionale di
 superare  i  confini  delle  proprie  attribuzioni.     E  la   Corte
 soprattutto  deve  esercitare  la sua elevatissima funzione, posta al
 vertice delle garanzie costituzionali,  nel  piu'  assoluto  rispetto
 delle  attribuzioni degli altri poteri (il termine viene usato sempre
 nel significato piu' ampio e non strettamente tecnico), poiche'  ogni
 sua   decisione   che  comporti  il  superamento  della  sfera  delle
 specifiche competenze, rischia di scardinare il  delicato  equilibrio
 istituzionale voluto dalla legge fondamentale della Repubblica, senza
 neppure  la  possibilita' di un rimedio giuridico, poiche' "contro le
 decisioni  della  Corte  costituzionale   non   e'   ammessa   alcuna
 impugnazione"   (art.  137,  ultimo  comma,  Cost.)  e  poiche'  deve
 escludersi l'ammissibilita' dell'istituto del giudizio "sui conflitti
 di attribuzione tra i poteri dello Stato" (art. 134,  secondo  comma,
 Cost.),  se non altro, perche' la Corte costituzionale ne sarebbe nel
 contempo parte e giudice.  Se questa questione, in  uno  o  piu'  dei
 rilievi  di  legittimita' costituzionale prospettati, venisse accolta
 dal  Giudice   delle   leggi,   la   dichiarazione   d'illegittimita'
 costituzionale della versione normativa dell'art. 11, comma 22, legge
 n.  537/1993,  come  risultante  dalla  sentenza  n. 240/94, dovrebbe
 comportare la perdita  di  efficacia  della  stessa  versione  ed  il
 ripristino  (deve  presumersi  e preferirsi) della versione originale
 della norma, quella approvata dal legislatore  del  1993,  con  ovvia
 rilevanza nel presente giudizio pretorile.
   Per  il vero, pero', la Corte costituzionale - come anche la stessa
 Autorita' giudiziaria, ma soprattutto il  Parlamento  con  una  legge
 chiarificatrice,  decisamente auspicabile - potrebbe dare una diversa
 soluzione  giuridica  in  ordine   agli   effetti   delle   decisioni
 "legislative",  affermando  in  modo  esplicito  che  queste non sono
 idonee a modificare,  integrare  e  correggere  le  norme  dichiarate
 incostituzionali,  bensi'  puramente  e  semplicemente determinano la
 radicale perdita di efficacia delle medesime norme,  poiche',  lo  si
 puo'  ben  sostenere  con  piena  logica  giuridica  e  razionalita',
 l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella  parte  in
 cui  ..."  si  ripercuote  sull'intera norma, giacche' questa nel suo
 complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che
 la   Corte   rispettivamente   afferma   essere   costituzionalemente
 illegittimo o legittimo.  Le conseguenze di tale  soluzione  radicale
 potrebbero essere assai meno dirompenti di quelle causate dalla prima
 scelta  indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al sistema
 giuridico  il  rischio  di  una  paralizzante  crisi  interpretativa,
 dipendente  dalla  difficolta'  di  stabilire, se la norma dichiarata
 incostituzionale  dalla  Corte  con  intervento  "legislativo"  possa
 ritenersi  ripristinata in tutta la sua primigenia portata, ovvero se
 debba   considerarsi   implicitamente   travolta   in   toto    dalla
 dichiarazione  d'illegittimita' costituzionale della lettura volutane
 dalla Corte, ovvero ancora se sia necessario (ipotesi questa,  pero',
 da  escludere  recisamente)  attendere  un intervento del Legislatore
 diretto a confermare, o abrogare, o modificare la norma.
   B) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    30,  terzo  comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della  Costituzione.    L'art.
 136,  primo  comma, Costituzione cosi' dispone testualmente:  "Quando
 la Corte dichiara l'illegittimita' costituzionale  di  una  norma  di
 legge  o  di  atto  avente  forza  di  legge, la norma cessa di avere
 efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della  decisione".
 L'art.  30,  terzo  comma,  della  legge n. 87 del 1953, prevede: "Le
 norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione  dal
 giorno   successivo   alla  pubblicazione  della  decisione".    Sono
 possibili due soluzioni interpretative dell'art. 30 in  esame:    una
 fedele  al  dettato  costituzionale,  l'altra  non  rispettosa  della
 lettera e del contenuto dell'art. 136 Cost.: la prima attribuisce  un
 puro   significato  esplicativo  all'art.  30,  evidenziando  l'ovvia
 conseguenza  della  perdita  di  efficacia  della  norma   dichiarata
 incostituzionale,  cioe' la sua inapplicabilita' per regolamentare le
 situazioni giuridiche sorte successivamente alla pubblicazione  della
 decisione della Corte; la seconda tenta di modificare la costituzione
 formale   per  farla  soggiacere  alla  volonta'  dei  fautori  della
 "costituzione materiale", sostenendo che il divieto  di  applicazione
 delle    norme    incostituzionali,    derivante   dalla   originaria
 incostituzionalita' delle  norme  stesse,  determina  necessariamente
 l'efficacia  ex  tunc  delle sentenze della Corte.   A contrastare la
 tesi che sostiene l'efficacia ex  tunc  delle  sentenze  della  Corte
 costituzionale  si ergono insuperabili, non solo la lettera del primo
 comma dell'art. 136 Cost., ma anche il  secondo  comma  dello  stesso
 articolo.   Per chiarire esaustivamente quanto appena sopra affermato
 sembra sufficiente riportare quanto gia' sostenuto da questo  pretore
 in varie decisioni aventi lo stesso oggetto della presente causa (tra
 le  altre,  nella  sentenza  n. 1534/95 emessa in data 3 luglio 1995,
 nella causa Zeni Angela contro I.N.P.S.): "Il primo  comma  dell'art.
 136  della  Costituzione  cosi'  testualmente  afferma" - omissis: la
 norma e' sopra riprodotta  -  ":  e'  evidente,  per  il  significato
 inequivocabile  della  disposizione,  che  corrispondentemente  viene
 negata   qualsiasi   efficacia    ex    tunc    alla    dichiarazione
 d'incostituzionalita'  e  che la norma dichiarata incostituzionale e'
 perfettamente  efficace  (e,   per   quanto   cio'   possa   apparire
 paradossale,   anche  legittima)  sino  al  giorno,  compreso,  della
 pubblicazione della decisione della Corte costituzionale".
                                Omissis
   L'esattezza della tesi qui sostenuta trova conferma di forte valore
 giuridico  nell'assenza  di  una previsione (difficile da ipotizzare,
 peraltro) di legge che limiti, imponendo alla  Consulta  il  rispetto
 dell'art.  81 della Costituzione, gli effetti talvolta dirompenti (da
 molti  denunciati  e  da  tutti  indistintamente  riconosciuti)   sul
 bilancio  dello  Stato della valenza ex tunc, attribuita contra legem
 alle sentenze  della  Corte  costituzionale  sulle  norme  dichiarate
 incostituzionali:    e',  ancor  piu'  che evidente, lapalissiano che
 l'unica  esatta  interpretazione,   dell'art.   136,   primo   comma,
 Costituzione,  nel  senso  imposto  dalla  sua  univoca  formulazione
 letterale  e  qui  sostenuto,  rende   superflua   ed   insussistente
 l'esigenza   di  ridurre  o  regolamentare  l'impatto  sulla  finanza
 pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non essendo
 lecito   attribuire   efficacia   ex    tunc    alle    dichiarazioni
 d'illegittimita'  costituzionale,  nessun  danno puo' derivarne, cio'
 che spiega razionalmente perche'  il  Legislatore,  costituzionale  e
 ordinario,  non  abbia  previsto  e  ritenuto di dover creare qualche
 strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto dell'art.   81
 Costituzione.    In altri termini: nessuna necessita' di limitare gli
 effetti economici delle sentenze della Corte costituzionale sussiste,
 poiche' esse non sono idonee, secondo la previsione del  primo  comma
 dell'art.  136, a determinare situzioni di danno.  Il rigore logico e
 la  piena  razionalita'  dell'art.  136, primo comma, trova ulteriore
 conferma nel secondo comma: "La decisione della Corte e' pubblicata e
 comunicata  alle  Camere  e  ai   Consigli   regionali   interessati,
 affinche',   ove  lo  ritengano  necessario  provvedano  nelle  forme
 costituzionali":    e'  quasi  superfluo  far   notare   che   questa
 disposizione  e'  diretta  ad  imporre  (non si dimentichi mai che il
 potere attribuito alle Istituzioni della Repubblica e'  potere-dovere
 e  non  arbitrio)  al  Legislatore  di  provvedere alla soluzione dei
 problemi causati dalle dichiarazioni d'incostituzionalita',  problemi
 derivanti,  per  il  futuro,  dal possibile vuoto normativo e, per il
 passato, dalla necessita' od opportunita'  di  riparare  (secondo  la
 discrezionalita'   politica   del  Legislatore  e,  dunque,  anche  e
 soprattutto nei limiti delle  compatibilita'  di  bilancio)  i  danni
 eventuali   determinati  dalle  norme  incostituzionali.    Cio'  che
 conferma l'esattezza dell'affermazione, secondo la quale l'esigenza e
 l'obbligo di rispettare l'art. 81 della Costituzione  e',  come  solo
 puo'  e  deve  essere,  a  carico  del  legislatore.   Per tentare di
 superare il ragionamento  sopra  riprodotto,  si  dovrebbe  spiegare,
 perche'  il  Legislatore costituzionale avrebbe previsto, nel secondo
 comma dell'art. 136, la comunicazione  alle  Camere  della  decisione
 della  Corte "affinche', ove lo ritengano necessario provvedano nelle
 forme costituzionali", se non avesse voluto chiarire  con  forza  che
 solo  al  Legislatore  e'  attribuito  il potere di provvedere, nelle
 forme  costituzionali,  alla  produzione  legislativa   eventualmente
 necessaria  per risolvere le conseguenze dell'inefficacia delle norme
 dichiarate incostituzionali, posto che altre norme della Costituzione
 (artt.  70 e seguenti) gia' regolano l'attivita' legislativa e non si
 puo' certo ridurre l'art.  136,  secondo  comma,  a  norma  puramente
 ripetitiva  senza  valore  alcuno.    A  tali  argomenti  non  sembra
 superfluo aggiungere brevemente alcuni elementi di fatto storici, con
 lo scopo dichiarato di rendere  difficilmente  praticabili  possibili
 obiezioni  fondate su discorsi inerenti la volonta' del Legislatore e
 la  ratio  legis,  cari  ai  giusnaturalisti, anche a fronte di norme
 esemplari per la loro assoluta limpidezza di lettera e di  contenuto,
 qual'e'  certamente  l'art.  136  Costituzione.   Nelle fasi iniziali
 dell'iter per l'introduzione della Corte costituzi  onale nel  nostro
 ordinamento,  la  sottocomissione per i problemi costituzionali della
 "Comissione per  gli  studi  attinenti  alla  riorganizzazione  dello
 Stato",  istituita  dal  Ministero  per la Costituente, negli studi e
 proposte  pubblicati  nel  1946,  tra  l'altro,  aveva  espressamente
 ipotizzato  l'annullamento  en  tunc  delle  leggi, quale conseguenza
 della dichiarazione d'incostituzionalita'.  Tale soluzione in sede di
 Assemblea Costituente venne chiaramente abbandonata dalla Commissione
 dei 75, alla quale era  stata  affidata  la  redazione  del  progetto
 costituzionale:  nel progetto presentato il 31 gennaio 1947, infatti,
 nell'art. 128, al  terzo  comma,  era  previsto  che  "Se  la  Corte,
 nell'uno  o  nell'altro  caso,  dichiara la incostituzionalita' della
 norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della  Corte  e'
 comunicata   al  Parlamento,  perche',  ove  lo  ritenga  necessario,
 provveda nelle forme istituzionali".  Da quell'art. 128  e'  derivato
 l'attuale  art. 136, nel quale pero' e' stato opportunamente previsto
 anche  il  momento  iniziale  (fissato  nel  giorno  successivo  alla
 pubblicazione)  della  perdita  di  efficacia  delle norme dichiarate
 incostituzionali.  Nessun commento e' necessario.   Anche se  possono
 ritenersi   sufficienti   le   considerazioni   sin  qui  sviluppate,
 l'esigenza di massima completezza del discorso impone di tenere conto
 di una possibile critica alla tesi qui sostenuta della efficacia solo
 ex tunc delle sentenze della Corte  che  dichiarano  l'illegittimita'
 costituzionale  di norme di legge o di atti aventi forza di legge: si
 sostiene, infatti, che le predette  decisioni  sarebbero  naturaliter
 retroattive in ragione, sia del carattere incidentale del giudizio di
 costituzionalita',  sia della necessita' che le pronuncie del Giudice
 delle leggi siano produttive di effetti ex tunc nel  giudizio  a  quo
 (ed  ovviamente  anche  per tutte le posizioni giuridiche similiari),
 giacche', altrimenti, non vi sarebbe alcun interesse delle  parti  in
 causa  a  sollevare  eccezioni  di  legittimita'  costituzionale, non
 potendo trarre alcun vantaggio dalle eventuali pronuncie  favorevoli,
 con   conseguente   certo  inaridimento  della  fonte  privata  delle
 eccezioni e parallela contrazione del controllo di costituzionalita'.
 La contestazione sopra sintetizzata ha indubbie ragioni  sostanziali,
 giacche'  e'  sussistente,  in  astratto, il rischio paventato di una
 perdita d'interesse delle  parti  in  causa  nel  giudizio  a  quo  a
 sollevare  eccezioni d'incostituzionalita', in assenza della certezza
 di conseguire immediati vantaggi (di natura economica soprattutto, se
 pure non esclusivamente) anche per  il  passato,  ma  non  certo  per
 questo  motivo  puo'  ritenersi  fondata,  come  si  dimostrera'  nel
 prosieguo.  In primo luogo, e' doveroso e necessario  notare  che  il
 giudizio  di  costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza
 di legge non ha il  fine  di  accertare  la  sussistenza  di  diritti
 vantati  da  singoli  o  da  gruppi  organizzati per dare loro tutela
 diretta, bensi' quello diverso, ben superiore ed imprescindibile,  di
 garantire  la legittimita' del sistema giuridico, rendendo inefficaci
 ed inapplicabili per il futuro le disposizioni  di  legge  dichiarate
 incostituzionali,   cosicche'   le  eventuali  posizioni  d'interesse
 particolare radicate (anche, o soltanto) nel passato e correlate alle
 questioni  di  legittimita'  costituzionale  portate  all'esame   del
 Giudice  delle leggi sono totalmente ininfluenti ed irrilevanti, come
 irrilevante ed ininfluente e' il rischio che  le  parti  private  del
 giudizio   a   quo  non  sollevino  piu'  eccezioni  di  legittimita'
 costituzionale.  In secondo luogo, deve dirsi che l'interesse riposto
 nel valore retroattivo  delle  sentenze  della  Corte  costituzionale
 dipende   in   gran   parte  (e  forse  solo)  dal  fatto  che  molte
 dichiarazioni d'incostituzionalita' hanno riguardato ed  ancora  oggi
 riguardano,  direttamente  o indirettamente - nel caso della sentenza
 n. 240 del 1994 vale la seconda ipotesi, trattandosi di decisione che
 tende a  ripristinare  per  talune  categorie  di  titolari  di  piu'
 pensioni  il  diritto  alla "cristallizzazione", previsto dal comma 7
 dell'art. 6 del decreto-legge n. 463/1993, convertito nella legge  n.
 638/1983, poi negato, nei termini ivi precisati, dall'art.  11, comma
 22, della legge n. 537/1993 -, disposizioni di legge vigenti da lungo
 tempo,  dando  cosi'  origine  alla  legittima aspettattiva di vedere
 riconosciuti  benefici  prima  preclusi,  oppure  negati   da   leggi
 successive, e cio' anche per il passato e non solo per il futuro.  Le
 cause  di  tale  situazione sono sicuramente molteplici e non possono
 qui essere tutte individuate e valutate, ma  due  sono  evidenti:  a)
 l'enorme  ritardo,  piu'  di  cinque  anni,  con il quale la Corte ha
 iniziato a funzionare, dopo l'entrata in vigore della Costituzione  e
 b)  l'"invenzione"  e l'affermazione nella giurisprudenza della Corte
 delle  sentenze  "legislative"  (gia'  ampiamente  contestate),  che,
 pretendendo  di  sostituire  le parti ritenute incostituzionali delle
 disposizioni di legge con nuovi contenuti normativi stabiliti  (senza
 potere)  dalla  Corte,  hanno  determinato nella generale opinione il
 "credo" sull'assoluta obbligatorieta' erga omnes (anche per il potere
 legislativo   ed   esecutivo)   delle   scelte   della   Consulta   e
 contestualmente   una   lettura  "distratta"  dell'art.    136  della
 Costituzione, del quale si e' (volutamente) omesso di valutare  nella
 sua  interezza  il  dettato,  chiaro  e razionale.   In forza di tali
 rilievi, risulta palese  che  l'interesse  delle  parti  in  causa  a
 sollevare    questioni    di   legittimita'   costituzionale   legate
 preminentemente all'aspettattiva di ottenere vantaggi  anche  per  il
 passato  (tanto da affievolirsi e scomparire in assenza di efficia ex
 tunc della dichiarazione di illegittimita' costituzionale) non deriva
 da una situazione di normalita', ma e' radicato nella  patologia  del
 sistema,  come  e'  altrettanto  evidente  che  costituisce  una vera
 anomalia giuridica attribuire efficacia naturaliter retroattiva  alle
 sentenze della Corte.
   In   terzo   luogo,   non  e'  vero  che  certamente,  sicuramente,
 necessariamente ed ineluttabilmente debba  mancare  l'interesse  alla
 dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale che determini (come
 voluto nella legge fondamentale dello Stato) la perdita di  efficacia
 della  norma  di  legge  solo  a decorrere dal giorno successivo alla
 pubblicazione della relativa  decisione  della  Corte,  poiche'  deve
 ritenersi  che,  se  il Giudice delle leggi riterra' di accogliere le
 eccezioni sollevate ai punti  D)  ed  E),  la  maggior  facilita'  di
 attivare  il  giudizio  di  costituzionalita', liberato dai vincoli e
 dalle illegittime condizioni ostative oggi presenti nell'ordinamento,
 produrra' una maggiore estensione e una  notevole  accelerazione  del
 controllo  di  legittimita'  costituzionale,  consentendo  alle parti
 private di sollevare, con largo anticipo rispetto ad oggi,  eccezioni
 non  direttamente  rilevanti  in causa ed essenziali per la decisione
 della   controversia  (essendo  sufficiente  la  loro  non  manifesta
 infondatezza), con conseguente nuovo e maggiore interesse a  proporre
 anticipatamente  le  questioni  di  legittimita' costituzionale.   In
 quarto luogo: anche se tutto cio' che  si  e'  fin  qui  detto  fosse
 errato,  resta  sempre  l'ultima  e  piu'  forte obiezione di diritto
 positivo  costituzionale:  e'  al  Legislatore  che  compete  in  via
 esclusiva,  ai sensi dell'art. 136, secondo comma, della Costituzione
 - qualora rilevi un'intollerabile violazione di legittime aspettative
 degli  interessati  (singoli  o  collettivi,  organizzati   o   meno)
 correlate alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale, aventi
 radici  anche  nel  passato  -  di  intervenire (con discrezionale ed
 insindacabile,   se    razionale,    valutazione    politica    delle
 compatibilita'  di bilancio e, percio', non necessariamente in totale
 corrispondenza  con  le  aspettattive  delle  quali  si   e'   detto,
 utilizzando  gli  strumenti  legislativi  di  gestione  della finanza
 pubblica  piu'  idonei)  per  riconoscere  ed  estendere  anche  alle
 situazioni  giuridiche  sorte  nel passato il diritto affermato dalle
 decisioni della Corte costituzionale aventi giuridica efficacia  solo
 per il futuro.  Anche in tale prospettiva, dunque, risulta confermato
 che ben puo' sussistere l'interesse delle parti in causa del giudizio
 a quo a sollevare eccezioni di legittimita' costituzionale, pur nella
 consapevolezza  dell'efficacia  caducatoria  solo per il futuro delle
 decisioni della Consulta, poiche' permane la possibilita' di ottenere
 dal  Legislatore,  almeno  in  qualche  misura,   il   riconoscimento
 normativo  delle  istanze  dirette  a trasferire anche nel passato il
 contenuto sostanziale delle sentenze della Corte.   Se quanto  si  e'
 detto  e'  minimamente  vero (e non si riescono' ad intravedere serie
 ragioni  in  contrario),  allora  e'  ben  chiaro  che   il   sistema
 costituzionale  come  qui  interpretato,  grazie alla sua semplice ed
 agevole lettura, fortemente ancorata al senso univoco delle parole e'
 perfetto  ed   e',   invece,   solo   la   triste   realta'   storica
 dell'insufficienza  cronica delle istituzioni a rispondere con rigore
 alle richieste di certezza del diritto del paese reale a  determinare
 le  asintonie  che  vengono ritenute naturaliter implicanti il valore
 retroattivo delle decisioni della Corte, sicuramente non  voluto  ed,
 anzi, espressamente escluso dal Legislatore costituzionale.
   Per  quanto, poi, riguarda quella parte della contestazione fondata
 sul   carattere   incidentale   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale  nel  giudizio  a  quo, deve solo dirsi che essa nulla
 dimostra, poiche', lo si e' gia' detto e lo si dira' piu' avanti,  il
 giudizio  di  costituzionalita'  non  e' istituito per dare ragione o
 torto a  chi  e'  portatore  d'interessi  particolari,  ma  solo  per
 garantire  la  legittimita'  costituzionale della legge, cosicche' il
 sistema incidentale previsto per sollevare le  questioni  non  assume
 rilievo  sostanziale  nel  giudizio  a  quo,  ma e' solo lo strumento
 procedurale prescelto (uno tra i tanti costituzionalmente  possibili,
 ed  e'  davvero  superfluo elencare gli altri ipotizzabili) e da esso
 non puo' alcunche' validamente dedursi per affermare  l'efficacia  ex
 tunc  delle decisioni della Corte, a fronte di precisi dati normativi
 contrari.   E', infatti, certo, pacifico  ed  incontestabile  che  il
 giudizio  di  costituzionalita'  non  e'  finalizzato  a dirimere una
 controversia tra parti in causa, ne' a dare ragione o  torto  ad  una
 delle  parti  del giudizio a quo, ne' a formare un giudicato in senso
 tecnico, ne' ad  affermare  il  principio  giuridico  al  quale  deve
 attenersi  l'Autorita'  giudiziaria  remittente.    Se, in tutto o in
 parte, cio' che precede e' vero, l'art. 30, terzo comma, della  legge
 11  marzo  1953,  n.  87,  deve  essere  dichiarato  illegittimo  per
 contrasto con  l'art.  136,  primo  comma,  Costituzione.  in  quanto
 consente   un'interpretazione   totalmente   difforme   dal   dettato
 costituzionale,  divenuta  "diritto  vivente",   cosi'   da   rendere
 estremamente  difficoltosa,  se  pur  non impossibile, l'affermazione
 della lettura legittima della disposizione.  Certamente e' nel potere
 della Corte costituzionale negare la fondatez  za della questione  di
 legittimita'  costituzionale  teste'  esposta, eventualmente anche in
 forza del principio, esattamente affermato, che impone nello  scontro
 tra   due  o  piu'  interpretazioni  possibili  l'affermazione  della
 prevalenza di quella conforme a Costituzione (e non vi e' dubbio  che
 la    relativa   decisione   sarebbe   giuridicamente   perfetta   ed
 inattaccabile), ma, a sommesso avviso di questo  giudice  remittente,
 una  siffatta soluzione non potrebbe avere valore definitivo, poiche'
 lascerebbe   sempre    spazio    aperto    all'interpretazione    non
 costituzionalmente  corretta.    Ne' e' poi il caso di porsi scrupoli
 particolari, nel caso di specie, sugli  effetti  della  dichiarazione
 d'illegittimita' costituzionale:  la conseguente perdita di efficacia
 del  terzo  comma  dell'art.  30 legge   n. 87/1953 non causerebbe un
 grave vuoto normativo (e' sempre presente nella giurisprudenza  della
 Corte  la  preoccupazione  di  evitare,  per  quanto  possibile, tale
 evento), poiche' tale disposizione (come gia' notato) nulla  aggiunge
 al  disposto  del  primo  comma  dell'art.   136 Cost., limitandosi a
 esplicitare l'ovvia conseguenza  della  perdita  di  efficacia  delle
 norme   dichiarate   incostituzionali  "dal  giorno  successivo  alla
 pubblicazione della decisione" e cioe' la loro inapplicabilita'  (nei
 termini gia' chiariti) a decorrere dallo stesso giorno.
   C)  In  relazione  alla  questione  di  legittimita' costituzionale
 dell'art.   11, comma 22,  legge  24  dicembre  1993,  n.  537,  come
 modificato  dalla citata sentenza 10 giugno 1994, n. 240, della Corte
 costituzionale, per violazione  dell'art.  81,  ultimo  comma,  della
 Costituzione La Corte, con la sentenza n. 240 del 1994 (si ripete per
 comodita'  di  esposizione)  ha dichiarato l'incostituzionalita', per
 contrasto con gli articoli 3 e 38 Costituzione, dell'art.  11,  comma
 22,  della  legge  n.  537 del 1993 "nella parte in cui - nel caso di
 concorso  di  due  o  piu'  pensioni  integrate  o   integrabili   al
 trattamento   minimo,  delle  quali  una  sola  conserva  il  diritto
 all'integrazione  ai  sensi  dell'art.  6,  comma  3,  del  d.-l.  12
 settembre  1983, n. 463 ..., convertito nella legge 11 novembre 1983,
 n. 638, non risultando superati al 30  settembre  1983  i  limiti  di
 reddito  fissati  nei  commi  precedenti  -  prevede  la riconduzione
 dell'importo a calcolo dell'altra o delle  altre  pensioni  non  piu'
 integrabili,  anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante
 alla  data  indicata,  fino  all'assorbimento  negli  aumenti   della
 pensione-base  derivanti dalla perequazione automatica".  La norma in
 discorso, come modificata per effetto del suddetto  intervento  della
 Consulta,  determina  per l'I.N.P.S. una forte esposizione debitoria,
 priva di finanziamento (e' fatto notorio); la  causa  di  tutto  cio'
 deve  rinvenirsi nell'opinione (erronea) secondo la quale le sentenze
 di natura addittiva della Corte  costituzionale  avrebbero  efficacia
 vincolante  erga  omnes  ed  ex  tunc, opinione tuttora prevalente in
 dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita'.   Nessun
 atto  legislativo  e'  sinora intervenuto per reperire la copertur  a
 finanziaria  necessaria  al  fine  di  consentire   all'I.N.P.S.   di
 provvedere,  previa  riliquidazione  delle pensioni di riversibilita'
 secondo il dettato della sentenza n.  240/1994,  al  pagamento  delle
 somme  arretrate,  con  gli  accessori  di  legge, derivanti da detta
 riliquidazione.
   E' piu' che evidente che il Legislatore, a tutt'oggi (anche se deve
 darsi atto che gli organi d'informazione hanno di  recente  riportato
 notizie su tentativi diretti a ricercare una soluzione per finanziare
 il  fabbisogno  di  spesa  previdenziale  non  previsto in bilancio e
 legato anche alle conseguenze economiche della sentenza  n.  240  del
 1994),  non  ha  ritenuto  di  dover dare attuazione alla sentenza in
 discorso, nonostante la vigenza dell'art.  2,  settimo  camma,  della
 legge  11 marzo 1988, n. 67, che cosi' dispone: "Qualora nel corso di
 attuazione  di  leggi  si  verifichino  scostamenti   rispetto   alle
 previsioni  di  spesa  a  di  entrate,  il  Governo  ne  da'  notizia
 tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e
 assume le conseguenti iniziative.  La stessa procedura  e'  applicata
 in  caso  di  sentenze  definitive  di organi giurisdizionali e della
 Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa  vigente
 suscettibili di determinare maggiori oneri".
   Potra'  pure  essere  affermata  la  responsabilita'  politica  dei
 Governi che si sono  succeduti  dalla  data  di  pubblicazione  della
 sentenza  n.  240/1994  ad  oggi,  ma nessun risultato giuridico puo'
 conseguirne, restando certo il fatto che nessun intervento  e'  stato
 posto  in essere per la copertura finanziaria dei maggiori oneri, ne'
 totalmente, ne' parzialmente.  Peraltro, in relazione a quanto si  e'
 accennato  in ordine alle notizie giornalistiche sulla ricerca di una
 soluzione  normativa   del   problema   (che,   pero',   ora   sembra
 accantonato), non appare lecito attendere che il Legislatore eserciti
 sino  in  fondo  i  suoi poteri, prima di procedere alla trasmissione
 della  presente  questione  di  legittimita'  costituzionale:   deve,
 infatti,  rilevarsi con estrema chiarezza che una futura, possibile e
 sempre auspicabile soluzione legislativa al problema della  copertura
 finanziaria  degli  effetti economici della sentenza n. 240/94, avra'
 (se in linea con i principi costituzionali,  e'  ovvio)  naturalmente
 efficacia    anche   sulla   presente   questione   di   legittimita'
 costituzionale,  facendole  perdere  ogni  attualita',  rilevanza   e
 fondatezza.    Deve  altresi'  essere  con forza notato che Autorita'
 giudiziaria non puo',  in  nessun  caso,  correlare  i  provvedimenti
 previsti  dalla  legge  per  amministare  giustizia  ad  indebite  ed
 illecite  valutazioni  di  opinabile  opportunita'  politica.     Dal
 riscontrato attuale dato di fatto storico dell'assenza di copertur  a
 finanziaria,  a  parere  di  questo  pretore, non puo' che discendere
 obbligatoriamente l'affermazione  dell'illegittimita'  costituzionale
 dell'art.  11,  comma  22,  legge  n.  537/1993,  come modificato dal
 Giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo  comma  dell'art.  81
 Cost.,  a  nulla  rilevando  sapere  se  tale  violazione  dipenda da
 semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore,  ovvero  (ed
 e',  purtroppo, questa l'ipotesi piu' veritiera) dalla realta' di una
 situazione critica delle finanze dello Stato, tale da aver reso, sino
 ad  oggi,  impossibile  il  reperimento  delle  risorse   finanziarie
 necessarie, senza determinare un ulteriore aggravamento nel desolante
 bilancia  della  nostra  Repubblica.    Unica conseguenza e soluzione
 possibile   sembra   essere  quella  di  una  pronuncia  dichiarativa
 dell'illegittimita'  costituzionale  del  detto  ventiduesimo   comma
 dell'art.  11,  legge n. 537 del 1993 nella nuova formulazione creata
 dalla sentenza n. 240/94, con conseguente  cessazione  dell'efficacia
 della  medesima  norma  ai  sensi dell'art.   136, primo comma, della
 Costituzione e ripristino  della  situazione  normativa  preesistente
 l'intervento  del  Giudice  delle  leggi.    Ne'  puo', in contrario,
 sostenersi con giuridica fondatezza che le  norme  "virtuali"  create
 dalle  sentenze  "leggi"  della Corte costituzionale siano avulse dal
 sistema giuridico costituzionale, cosi' da non dover obbedire (anche)
 al dettato dell'art. 81, ultimo comma, Cost., ovvero che siano, senza
 alcuna fondata ragione (ma in  dottrina  si  e'  elaborata  una  tesi
 contraria,   che   verra'   piu'   avanti   sottoposta   a  critica),
 "refrattarie" al controllo  di  legittimita'  costituzionale,  ovvero
 ancora  che  il legislatore debba dare esecuzione, sempre e comunque,
 alla volonta' della Corte e che abbia tempi illimitati per provvedere
 alla copertura finanziaria: se  le  sentenze  di  natura  legislativa
 della  Corte  hanno davvero forza innovativa nel diritto positivo con
 obbligo  di  applicazione  (ipotesi,  deve  ribadirsi   ancora,   qui
 fortemente  negata),  tanto  da  fondersi,  in  modo  simile a quanto
 avviene per le leggi  di  interpretazione  autentica,  con  la  norma
 dichiarata   incostituzionale,  determinandone  un  nuovo  contenuto,
 ebbene, allora, queste  norme  "virtuali"  devono  essere  totalmente
 conformi  alla  Costituzione  e  soggiacere al vaglio del giudizio di
 legittimita' costituzionale, come qualsivoglia altra norma di  legge.
 Ne'  puo',  sempre  in  contrario, avere valore la tesi, sostenuta da
 parte  illustre  della  dottrina,  della   obbligatorieta'   per   il
 Legislatore  di provvedere, comunque, al reperimento delle necessarie
 risorse finanziarie  per  l'attuazione  delle  sentenze  cosi'  dette
 "additive di spesa" (ma il discorso vale per tutte) del Giudice delle
 leggi,   obbligatorieta'  dalla  quale  di  necessita'  discenderebbe
 l'inapplicabilita' dell'art. 81, ultimo  comma,  della  Costituzione,
 alla  norma  "corretta"  dalla  Corte,  sul presupposto di una minore
 forza  costituzionale  dell'art.    81  rispetto  alle  norme   della
 Costituzione   portatrici  di  principi  fondamentali,  quali  quelli
 d'uguaglianza, di razionalita' e  di  solidarieta',  per  quanto  qui
 interessa:  se  pure  deve  riconoscersi  che  la  tesi  non manca di
 fascino, la sua erroneita' e' totale, poiche' svilisce  il  contenuto
 vero  dell'art.  81, non riconoscendovi il valore di norma essenziale
 per tutela del sistema giuridico-economico-sociale-etico dello Stato.
 La nostra Costituzione ha, invero, il  grande  pregio,  grazie  forse
 alla  sua  stessa  origine  pluri-ideologica,  di  contenere  tutti i
 principi piu' alti della civilta' e di tutelare  tutte  le  liberta',
 senza dare prevalenza ad una visione politica dello Stato specifica e
 limitatrice,  ma,  nel  contempo, nella consapevolezza del necessario
 rispetto della realta' economica, quale limite e strumento essenziale
 per la possibile e sempre tendenziale attuazione concreta dei  grandi
 ideali di giustizia, uguaglianza e liberta', pone un principio ancora
 superiore,  presente  proprio  nell'art.  81: la compatibilita' delle
 concrete risorse economiche quale limite di  realta'  al  "sogno"  di
 perfezione,  quale  strumento  di  difesa  della  realizzabilita' dei
 grandi principi ideali, etici e materiali,  quale  freno  alla  spesa
 illimitata  di risorse future (purtroppo, sempre piu' future) al fine
 di tutelare l'esistenza  stessa  dello  Stato,  quale  monito  etico,
 infine, alla necessaria responsabilita' verso le future generazioni e
 alla piu' corretta distribuzione della ricchezza per quelle presenti.
   Cosi',  se  si  volesse  proporre una diversa classificazione delle
 norme costituzionali, l'art. 81 dovrebbe essere  definito  "norma  di
 realta'"  in  contrapposizione  alle  "norme di ideale" e dovrebbe in
 questa  prospettiva  essere  collocato  al  vertice  di   una   nuova
 graduatoria   d'importanza,   dovendosi   riconoscere  che,  pur  non
 affermando elevati principi  "sacrali",  si  pone  a  garanzia  della
 realizzabilita'  (invero  pur  sempre  tendenziale)  delle  "norme di
 ideale", statuendo l'obbligatorio rispetto dei limiti  delle  risorse
 disponibili,  in  modo  tale da consentire al sistema economico dello
 Stato di sostenere il costo della continua evoluzione dei bisogni  di
 civilta' nei confini del possibile, senza sperperare ricchezze future
 non  ancora  prodotte,  al  fine  di  evitare il grande rischio (oggi
 sempre piu' drammaticamente concreto) di allontanare sempre piu'  nel
 tempo e forse di precludere definitivamente l'attuazione delle "norme
 di   ideale"   della  Costituzione.     Il  doveroso  ed  ineludibile
 riconoscimento  dei  suddetti  valori  costituz     ionali   presenti
 nell'art.  81, non solo, come gia' detto, impone il superamento della
 tesi dottrinaria sopra criticata, ma (lo si  puo'  qui  dire  con  un
 breve  appunto,  anche se non perfettamente in tema) deve determinare
 anche a carico del Giudice delle leggi l'ogglibo di valutare  sempre,
 nelle  proprie  decisioni  che  comportino  una spesa non prevista in
 bilancio, l'art. 81 della Costituzione, quale  norma  di  primaria  e
 vitale importanza.
   Se poi si dovesse porre la domanda se sia lecito che il legislatore
 rifiuti  -  in  tutto  o  in  parte,  per ragioni legate allo stretto
 rispetto di una  grave  realta'  di  deficit  di  bilancio  non  piu'
 espandibile  -  di  dare  piena  e concreta attuazione alle decisioni
 "additive  di  spesa"  della  Corte,  la  risposta  dovrebbe   essere
 affermativa  (cfr.,  in  proposito,  la  recente sentenza della Corte
 costituzionale 28 giugno-13 luglio  1995,  n.  320,  nella  quale  si
 rinvengono  argomenti  in parte coincidenti con quelli qui espressi),
 sia  nel  caso  che  si  vogliano  ritenere  legittime  le   sentenze
 "legislative"  della  Corte,  sia  che si neghi la loro efficacia per
 palese contrasto  con  l'art.  136  della  Costituzione,  poiche'  la
 discrezionalita'   politica   del   legislatore   -  se  sorretta  da
 insuperabili e provate ragioni  imposte  dalla  realta',  non  ultima
 delle  quali  potrebbe  essere  legata  alla  considerazione  che "le
 generazioni future non possono essere gravate  oltre  misura  facendo
 vivere  quelle  attuali  a  loro spese", come sottolineato da attenta
 dottrina  -  non  puo'  essere  limitata  da  nessun'altra  volonta',
 trovando   fondamento  nell'art.  81  della  Costituzione,  norma  di
 "realta'" posta a tutela della  conservazione  dello  Stato  e  delle
 prospettive  della  sua  stessa  evoluzione.    Poiche'  ai  fini del
 decidere e' importante, anche se non essenziale  (che',  come  si  e'
 gia'    detto,    la    controversia   relativa   alla   domanda   di
 "cristallizzazione" puo' ben essere decisa "indipendentemente"  sotto
 vari  altri  profili),  avere  certezza in ordine alla vigenza o meno
 dell'art. 11, ventiduesimo  comma,  della  legge  n.  537/1993,  come
 determinata   (nell'opinione   prevalente,   qui  contrastata)  dalla
 sentenza n. 240/94, e poiche' tale certezza puo' derivare, con valore
 assoluto (che'  le  tesi  di  questo  giudice  sono  rimaste  davvero
 minoritarie  e marginali), solo (salvo ovviamente un sempre possibile
 intervento  legislativo) da una decisione della Corte costituzionale,
 risulta necessario investire il Giudice delle leggi  della  questione
 di  costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu'
 che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo
 commento,  anche  la  rilevanza  nel   presente   giudizio,   poiche'
 l'eventuale   dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per
 violazione dell'art. 81  sarebbe,  senza  possibilita'  di  contrasto
 neppure  negli  eventuali  gradi  successivi  del giudizio, motivo di
 rigetto del dedotto diritto alla "cristallizzazione",  anche  se,  in
 ipotesi  estrema,  solo  concorrente,  o  anche  solo  subordinato  e
 residuale.
   D) In  relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.    23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove
 prevede che "il giudizio non possa essere definito  indipendentemente
 dalla  risoluzione  della questione di legittimita' costituzionale" e
 limitatamente a tale parte, per  violazione  dell'art.  134,  nonche'
 degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.  L' art.
 134,  per  quanto  qui  interessa,  dispone  testualmente:  "La Corte
 costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimita'
 costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello
 Stato e delle regioni".    L'art.  1  della  legge  costituzionale  9
 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art. 137, primo comma,
 della   Costituzione,   recita:      "La  questione  di  legittimita'
 costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge  della
 Repubblica,  rilevata  d'ufficio  o  sollevata da una delle parti nel
 corso di un  giudizio  e  ritenuta  dal  giudice  non  manifestamente
 infondata,   e'   rimessa   alla  Corte  costituzionale  per  la  sua
 decisione".   A fronte  di  tali  norme  costituzionali,  l'art.  23,
 secondo  comma,  della  legge  11  marzo  1953,  n. 87, invece, cosi'
 dispone: "L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non  possa
 essere  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione
 di  legittimita'  costituzionale  e  non  ritenga  che  la  questione
 sollevata  sia  manifestamente  infondata,  emette  ordinanza  con la
 quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con  la  quale  fu
 sollevata  la  questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso".   Il  ben
 diverso  contenuto  sostanziale  del  secondo  comma  dell'art.   23,
 contrastante con le disposizioni dell'art. 134 della  Costituzione  e
 dell'art.  1  legge  costituzionale  n.  1/48,  risalta  evidente: la
 previsione  della  necessita'  che  "il  giudizio  non  possa  essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita' costituzionale" al fine di  introdurre  il  giudizio  di
 costituzionalita'  dinanzi  al  Giudice  delle leggi non trova minimo
 riscontro a livello di normativa costituzionale.   Non  solo:  appare
 anche chiaro, tanto da risultare quasi superfluo parlarne, che quella
 previsione dell'art. 23, ben individuata sopra, riduce enormemente la
 possibilita'  di attivare il controllo della Corte sulla legittimita'
 costituzionale "delle leggi e degli  atti,  aventi  forza  di  legge,
 dello  Stato",  poiche'  impone  che  la rilevanza della questione di
 costituzionalita' sia tale da comportare da sola la  definizione  del
 giudizio,  rendendo in tal modo irrilevanti e, percio', inammissibili
 tutte le questioni di  legittimita'  costituzionale  l'oggetto  delle
 quali  sia solo concorrente nella decisione della causa.  Viene cosi'
 patentemente incatenato il controllo della costituzionalit  a'  delle
 leggi  e  degli  atti  normativi  di  pari  forza  e  contestualmente
 mortificata la garanzia costituzionale  di  tale  controllo,  svilito
 nell'attuale  realta'  a  strumento  di tutela di interessi puramente
 privati (di singoli o di collettivita', come gia' si e' avuto modo di
 rilevare), mentre la sua ragion d'essere risponde  al  ben  superiore
 interesse  di mantenere la normativa all'interno dei principi e delle
 norme costituzionali, restando  irrilevante,  o  solo  eventuale,  la
 contestuale soddisfazione di aspettative particolari.  In forza delle
 considerazioni  che precedono, appare consequenziale riconoscere che,
 nel sistema vigente della legislazione ordinaria  in  relazione  alle
 norme  della  legge fondamentale della Repubblica in tema di garanzie
 costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena  attuazione  dei
 principi  costituzionali  e  cio'  con  particolare  riferimento alla
 possibilita' di accesso al giudizio di  legittimita'  costituzionale,
 tanto  da  rendere  possibile  la  permanenza nel diritto positivo di
 numerose norme contrarie alla Costituzione, senza che queste  possano
 trovare  controllo e verifica di legittimita', posto che la struttura
 procedimentale che consente di  giungere  dinanzi  al  Giudice  delle
 leggi e' eccessivamente limitativa.  Non e' certo nella competenza di
 questo  giudice,  ne'  del  Giudice  delle  leggi,  la  ricerca delle
 soluzioni   normative   necessarie   per   la   realizzazione   della
 Costituzione,  ma  la  constatazione  della difficolta' di accesso al
 giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale  doveva   qui   essere
 chiaramente  manifestata, non soltanto perche' direttamente attinente
 la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche
 perche' non puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/1953, e
 non il solo secondo comma dell'art. 23 nella  parte  specifica  sopra
 individuata,  violano  l'art.  134  della  Costituzione,  riducendo a
 minimi livelli la possibilita' del  controllo  di  conformita'  delle
 leggi  e  degli  atti  aventi  forza  di  legge,  mentre  il  sistema
 costituzionale  nasce  con  un  impianto  assai  vasto,  che  appare,
 comunque,   illecitamente   compresso   e   mortificato  dalla  legge
 ordinaria, e non solo nella sostanza, ma anche nella forma  normativa
 utilizzata,  come  risultera'  piu' che evidente nello sviluppo della
 successiva questione sub E).   Prima di  passare  oltre  pero',  deve
 essere  chiarito  ancora  in  quali  termini si ritengono violati gli
 artt. 101 e 104 della Costituzione dall'art.  23  legge  n.  87/1953,
 nella   parte   in  cui  dispone  che,  per  potersi  procedere  alla
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il  giudizio  non
 possa  essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della
 questione  di  legittimita'   costituzionale".      La   disposizione
 contestata   e'   illegittima,  poiche'  determina  una  riduzione  e
 compressione dell'autonomia ed indipendenza del giudice, impedendogli
 di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per la  decisione
 dei   processi,   causando   grave  danno  all'amministrazione  della
 giustizia, poiche' (essendo precluso alle  questioni  non  essenziali
 l'accesso  al giudizio di costituzionalita') sottrae alla motivazione
 (art. 111 della Costituzione) delle  sentenze  ragioni  ulteriori  di
 potenziale   accoglimento   o   rigetto  della  domanda  (per  quanto
 concernente in particolare le controversie  nella  materia  demandata
 alla   competenza   di   questo   pretore),  idonee  a  rendere  piu'
 "resistente" la motivazione e non e' superfluo qui ricordare  che  il
 bene  giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla forza
 di resistenza delle pronuncie giurisdizionali nei successivi gradi di
 giudizio.
    E)  In  relazione  alla  questione  di legittimita' costituzionale
 dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle  parti
 che  stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge   costituzionale   prevista   dal  primo  comma  dell'art.  137
 Costituzione.
   La riserva di legge imposta dal primo comma dell'art.  137,  viene,
 per  quanto qui interessa, cosi' formulata: "Una legge costituzionale
 stabilisce le condizioni, le forme, i termini di  proponibilita'  dei
 giudizi  di  legittimita'  costituzionale":  la  materia  e', dunque,
 riservata a legge costituzionale e non ordinaria.    Ed  invero  sono
 state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9 febbraio 1948,
 n.  1,  e  11  marzo  1953,  n. 1, delle quali la prima e' pienamente
 conforme al dettato costituzionale, tant'e' vero che  all'art.  1  la
 legge   costituzionale   n.   1/48   prevede  che  "La  questione  di
 legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di
 legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle  parti  nel  corso
 del  giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e'
 rimessa alla Corte  costituzionale  per  la  sua  decisione",  mentre
 l'art. 1 della legge costituzionale n. 1/53 lascia perplessi, poiche'
 non  si  limita ad affermare che "La Corte costituzionale esercita le
 sue funzioni nelle forme e nei limiti e alle condizioni di  cui  alla
 Carta  costituzionale,  alla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.
 1" ma aggiunge un richiamo generico  e  generale  anche  "alla  legge
 ordinaria  emanata  per  la  prima  attuazione  delle  predette norme
 costituzionali",  con  buona   pace   per   la   riserva   di   legge
 costituzionale  espressamente  disposta  nell'art.  137, terzo comma,
 Costituzione.  E' palese ed indubbio (nonostante l'ambiguita', per il
 suo eccesso di genericita', dell'errato ed infelice riferimento  alla
 legge  ordinaria  appena  rilevato) che il sistema costituzionale del
 giudizio di legittimita' delle norme di legge  e  degli  atti  aventi
 forza  di  legge, pur stabilendo il chiaro limite della non manifesta
 infondatezza (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto meno,  se
 non  anche  esclusiva,  competenza  dell'autorita' giudiziaria) delle
 questioni  di  legittimita'  costituzionale,   quale   barriera   per
 l'accesso  al  giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale, non ha
 istituito quegli altri, diversi e assai piu' stringenti , confini che
 risultano, invece, nella legge ordinaria.  E' allora certo che  tutte
 le  disposizioni  della  legge  ordinaria  11  marzo  1953, n. 87 che
 regolano "le condizioni, le forme, i termini  di  proponibilita'  dei
 giudizi  di legittimita' costituzionale" in modo difforme dal sistema
 costituzionale che si e' sopra  individuato  sono  illegittime  nella
 stessa   fonte   e   forma   legislativa  che  le  pone  (per  quanto
 espressamente riguardante la questione di legittimita' costituzionale
 ora discussa) per palese violazione dell'art. 137, primo comma, della
 Costituzione.  Cosi' risulta illegittimo, in particolare,  l'art.  23
 della  legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale solo si vuole limitare la
 trattazione, restando comunque ed ovviamente, integro il potere della
 Corte, nell'ipotesi di  accoglimento  della  presente  questione,  di
 decidere  se  sussistano  gli  estremi per procedere all'applicazione
 dell'ultima parte dell'art.  27 della medesima legge.
   L'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, cosi dispone:
    "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale
 una  delle  parti o il pubblico ministero possono sollevare questione
 di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando:
     a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di  legge
 dello   Stato   o   di   una   regione,   viziate  da  illegittimita'
 costituzionale;
     b)   le   disposizioni   della   Costituzione   o   delle   leggi
 costituzionali che si assumono violate.
   L'autorita'  giurisdizionale,  qualora il giudizio non possa essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale e non ritenga che la questione sollevata
 sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti
 i termini ed i motivi dell'istanza  con  la  quale  fu  sollevata  la
 questione,  dispone  l'immediata  trasmissione  degli atti alla Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in  corso.    La  questione  di
 legittimita'   costituzionale  puo'  essere  sollevata,  di  ufficio,
 dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte  il  giudizio
 con ordinanza contenente le indicazioni previste alle lettere a) e b)
 del  primoo  comma  e  le  disposizioni  di  cui al comma precedente.
 L'autorita'  giurisdizionale  ordina  che  cura  della   cancel'leria
 l'ordinanza  di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia
 notificata, quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento,
 alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento
 sia obbligatorio, nonche' al presidente del Consiglio dei ministri od
 al presidente della Giunta regionale a seconda che sia  in  questione
 una  legge  o  un  atto  avente  forza  di legge dello Stato o di una
 regione.   L'ordinanza viene  comunicata  dal  cancelliere  anche  ai
 presidenti  delle  due  Camere  del  paralmento  e  al presidente del
 Consiglio regionale interessato".  L'art. 23 della legge ordinaria 11
 marzo 1953, n. 87 e' nel suo complesso illegittimo, per la violazione
 del  tutto  evidente  dell'  art.  137,  primo  comma,  della   Carta
 costituzionale,  con  la  sola  esclusione  delle seguenti specifiche
 parti, nelle quali nulla dispone in ordine alle condizioni e forme di
 accesso al giudizio dinanzi  alla  Corte,  o  si  limita  a  ribadire
 immutato   quanto   gia'   previsto   dalla   normativa   di  livello
 costituzionale:  "Nel corso di un giudizio dinanzi ad  una  autorita'
 giurisdizionale  una  delle  parti  o  il  pubblico ministero possono
 sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale.   L'autorita'
 giurisdizionale,  qualora  "  ...  "  non  ritenga  che  la questione
 sollevata sia  manifestamente  infondata,  emette  ordinanza  con  la
 quale,  riferiti  i  termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu
 sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione  degli  atti
 alla    Corte    costituzionale.   La   questione   di   legittimita'
 costituzionale puo' essere sollevata,  di  ufficio,  dall'  autorita'
 giurisdizionale   davanti   alla   quale   verte   il   giudizio  con
 ordinanza"...
   In tutte le restanti parti l'art. 23 legge n. 87/53 e' radicalmente
 viziato da  illegittimita'  costituzionale  e  non  vi  e'  nulla  da
 aggiungere  sulla questione ora discussa, poiche' sorretta dalla pura
 constatazione di una realta' evidente; si deve soltanto chiarire  che
 la   sua  rilevanza  nel  presente  giudizio  e'  identica  a  quella
 individuata per la questione sub D), giacche'  anch'essa  presupposto
 logico giuridico dell'ammissibilita' delle prime tre questioni.
   Considerazioni conclusive.
   Senza  dubbio le questioni di legittimita' costituzionale sollevate
 presentano molti altri aspetti  di  grande  interesse  e,  cosi',  si
 potrebbero  ancora  esaminare  e  discutere  le  diverse elaborazioni
 dottrinarie  e  giuresprudenziali  contrastanti  con  le   tesi   qui
 affermate,   ma  la  dimensione  gia'  troppo  vasta  della  presente
 ordinanza  ne  sconsiglia  ogni  ulteriore   evoluzione,   anche   in
 considerazione del fatto che gli argomenti gia' diffusamente motivati
 non  trarrebbero  maggior  forza  dalla critica di tutte le contrarie
 posizioni.  Questo giudice remittente non intende sostenere che dalla
 trasmissione della presente ordinanza  derivi  un  obbligo  giuridico
 della  Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le
 varie  questioni  rilevate  d'ufficio,  poiche'  e'   intuitivo   che
 l'eventuale  decisione  di  accoglimento  o rigetto di alcune di esse
 rende superfluo l'esame  delle  altre,  eppure,  in  ultima  analisi,
 ritiene di dover mettere l'accento sulla grande importanza e utilita'
 di  una  pronuncia  del  giudice  delle  leggi  su tutte le questioni
 portate alla sua attenzione,  considerato  che,  poiche'  tutte  sono
 riconducibili  alla  necessita'  primaria  di riportare le "regole di
 svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione
 della dottrina), per  tutti  gli  organi  istituzionali,  all'interno
 della  vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e formale,
 tutte hanno pari rilevanza e valore e tutte  sono  tese  al  fine  di
 ricondurre  il  sistema  giuridico del controllo di costituzionalita'
 delle leggi e degli atti  aventi  forza  di  legge  nell'alveo  della
 nostra  Carta  costituzionale.    Sistema  nel  quale,  e'  opportuno
 ricordarlo, se e' vero che e' demandat  o alla  Corte  costituzionale
 il potere di decidere sulla legittimita' delle norme di legge e degli
 atti  aventi  forza di legge, e' anche vero che il primo controllo di
 legittimita' costituzionale e' attribuito dalla  legge  all'autorita'
 giudiziaria,  cio'  che ampiamente legittima i rilievi sviluppati nel
 presente atto e consente di affermare che, ai  fini  della  decisione
 alla  quale  e chiamata la Corte sulle questioni sub A), B) e C), non
 puo' assumere rilievo giuridico la constatazione  del  fatto  che  da
 decenni si perpetuino le violazioni della Costituzione qui denunciate
 e  che tale realta' sia avallata dai paladini del "diritto vivente" e
 della "costituzione materiale", poiche' il reiterarsi dell'errore non
 ne determina il superamento e con esso la liceita' di fatto, ma  solo
 la maggior gravita' e la piu' difficile sanabilita'.
   Parimenti  non  puo'  essere di ostacolo all'accoglimento eventuale
 delle  questioni  qui  sollevate  il  timore  dei   vuoti   normativi
 conseguenti  alle  dichiarazioni d'illegittimita' costituzionale solo
 caducatorie, correlato  al  dubbio  (non  certo  privo  di  riscontri
 storici)  della Corte costituzionale sulla reale capacita' o volonta'
 del   legislatore   di   riempire   i   vuoti   con    nuove    leggi
 costituzionalmente  corrette  (quello  che  e'  stato definito horror
 vacui da valida dottrina), giacche'  e',  su  tutto,  prioritario  il
 ripristino  della  legalita'  e,  comunque,  anche in caso di fondato
 timore sul mancato intervento del legislatore, non e'  giustificabile
 ne'  la  conservazione  di  norme  illegittime,  ne' la loro modifica
 tramite le sentenze "leggi" non in  sintonia  con  l'art.  136  della
 Costituzione,   poiche'   non   rispondenti  ai  poteri  ed  obblighi
 attribuiti dalla Costituzione al giudice delle leggi, mentre non puo'
 dimenticarsi, in primo luogo, che il sistema giuridico e' in grado di
 sanare in parte i vuoti normativi in  sede  giudiziaria,  in  secondo
 luogo,  che  la  responsabilita'  del  legislatore  inadempiente puo'
 essere sanzionata politicamente in sede di  manifestazione  del  voto
 popolare  e,  in  terzo  luogo,  che  esistono  nella  societa' forti
 strumenti  di  pressione  politica  per  indurre  il  legislatore   a
 legiferare.    Non  sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla
 fondatezza e sulla rilevanza delle questioni sopra  trattate,  stanti
 gli   argomenti   sviluppati  in  relazione  ai  precisi  riferimenti
 normativi  costituzionali  indicati  sui  singoli  temi,   di   certo
 sufficienti  per escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di
 tutti i rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi,  i  quali,
 comunque,  rivestono  grande  importanza,  sia in ordine alla ricerca
 della massima forza di resistenza della sentenza  che  dovra'  essere
 emanata per la risoluzione della presente controversia (e delle altre
 pendenti,  aventi  simile, o identico contenuto), sia in relazione al
 necessario riesame delle tesi critiche sopra esposte  sulle  sentenze
 "legislative"  della  Consulta,  alla  luce degli argomenti giuridici
 che, in caso di eventuale pronuncia negativa, la Corte costituzionale
 riterra' di  sviluppare  in  sede  di  motivazione,  giacche'  questo
 giudice  ben  potrebbe  mutare  opinione  e  di certo dovrebbe, se le
 considerazioni della Corte dovessero evidenziare  sostanziali  errori
 di diritto nell'impostazione delle tesi qui sostenute, o gravi lacune
 nell'individuzione  delle  norme  di  legge rilevanti per la corretta
 soluzione delle problematiche discusse, tali da  dimostrare  in  modo
 incontrovertibile   l'infondatezza   totale  dei  presupposti  logico
 giuridici  della  giurisprudenza  di  questo  pretore  sui  temi  qui
 trattati.    Benche'  si  sia  affermato  in  modo  esplicito  che le
 questioni di  legittimita'  costituzionale  rimesse  all'esame  della
 Corte  costituzionale  non  sono  essenziali  per  la decisione della
 causa, il presente giudizio pretorile deve essere  sospeso  ai  sensi
 dell'art.  23  legge  11  marzo  1953  n. 87, tuttora vigente, pur se
 anch'esso imputato d'incostituzionalita'.