IL PRETORE Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, di rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimita' costituzionale, rilevate d'ufficio, nella causa r.g. n. 3896/1995, in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa da: Scaroni Agnese, elettivamente domiciliata in Brescia presso l'avv. Gian Maria Maffezzoni, il quale la rappresenta e difende in forza di procura a margine del ricorso, ricorrente, contro l'I.N.P.S. - Istituto nazionale della previdenza sociale, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dai dott. proc. Oreste Manzi e Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del dott. Lupo, notaio in Roma, con domicilio eletto nel proprio Ufficio di Avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto. Visti: gli atti difensivi delle parti; l'art. 11, ventiduesimo comma, legge 24 dicembre 1993, n. 537; la sentenza n. 240/1994 della Corte costituzionale, emessa in data 10 giugno 1994; l'art. 23 e l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87; l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1; gli artt. 70, 71, 72, 73, 81, 101, 102, 104, 111, 134, 136 e 137 della Costituzione. 1. - Brevi premesse sulle deduzione e conclusioni formulate dalle parti in causa. 1) Nelle conclusioni di parte attrice si chiede a questo Pretore, di "dichiarare tenuto e per l'effetto condannare l'I.N.P.S. alla riliquidazione in favore della sig.ra Scaroni Agnese della pensione SR 421419 con integrazione al trattamento minimo, a far tempo dal 11/76, ed alla conseguente corresponsione alla stessa, dalla medesima data, di tutte le differenze fra la pensione come sopra integrata e quella effettivamente goduta, fino al 30 settembre 1983. Condannare altresi' l'I.N.P.S. a corrispondere alla stessa, a far tempo dal 1 ottobre 1983, le differenze tra i ratei di pensione di riversibilita' "cristalizzati" nell'ammontare erogato al 30 settembre 1983 ed i ratei di fatto corrisposti, determinati a calcolo, il tutto nei limiti della prescrizione decennale, fino ad oggi. Oltre interessi e rivalutazione come per legge". 2) L'I.N.P.S., ha espresso le seguenti, riportate testualmente, conclusioni: "respingere il ricorso siccome inammissibile per scadenza del termine di decadenza per agire in giudizio previsto dalle vigenti disposizioni. In via subordinata respingere la domanda in quanto il richiedente possiede un reddito superiore a quello consentito dalla legge o comunque non ha fornito in proposito alcuna prova. In via di ulteriore subordine limitare il pagamento degli arretrati nell'ambito della prescrizione decennale dalla domanda. In ogni caso dichiarare inammissibile la domanda di rivalutazione monetaria degli eventuali ratei di pensione arretrati nei sensi di cui alle premesse". 3) Non e' utile, ne' necessario ricordare altri aspetti della controversia, perche', in relazione alla natura delle questioni che vengono oggi sollevate, essi sono ininfluenti. 2. - Considerazioni introduttive sulle questioni d'incostituzionalita' rilevanti per la decisione della causa. La giurisprudenza ormai costante di questo giudice del lavoro nega l'efficacia vincolante per l'Autorita' giudiziaria delle sentenze della Corte costituzionale di natura interpretativa, addittiva, manipolativa (di tutte le decisioni, cioe', che possono essere definite "legislative", essendo tali di fatto), perche' ritenute non conformi all'art. 136 della Costituzione. A tale proposito non sembra fuori luogo ammettere il disagio provato sin dall'inizio nel pronunciare sentenze fortemente in contrasto con varie decisioni del Giudice delle leggi, ma soprattuto appare importante riconoscere che tale disagio si e' andato sempre piu' aggravando, man mano che, nell'evoluzione della propria giurisprudenza critica, questo pretore si e' reso conto dalla vera portata e gravita' del problema costituito dalle sentenze interpretative, addittive, manipolative, su tutto il sistema normativo, poiche' il fenomeno dell'intervento "legislativo" della Corte costituzionale e' diffuso e di enorme dimensione e determina l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte. Le cause storiche sono molteplici, ma possono individuarsi quelle piu' evidenti: il sempre piu' marcato allontanamento dalla lettera dell'art. 136, primo comma, Cost., dopo una prima fase di corretta applicazione della stessa norma; la "fuga dalla responsabilita'" del Legislatore, sovente spettatore passivo della progressiva sottrazione della funzione attribuitagli dalla Costituzione e, quanto meno, inefficiente nell'esercitare il potere specifico previsto nel secondo comma dell'art. 136; la diffusione nella dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita' prevalenti di una concezione evoluzionistica del diritto, con base di pura natura giusnaturalistica, non rispettosa dei dati testuali e della rigidita' della legge Fondamentale della Repubblica. Non e' neppure estraneo alla problematica che si affronta affermare che, sia al fine di sanare, per il passato, quella situazione sopra descritta di doppia normativa e sia al fine di precluderne il ripetersi in futuro, le varie autorita' dello Stato responsabili e coinvolte hanno, nell'ambito delle proprie attribuzioni, ampia possibilita' d'intervento, ma non puo' tacersi che solo il Legislatore puo' - e ben potrebbe subito dopo aver avuto conoscenza della presente ordinanza (a seguito della notifica al Presidente del Consiglio dei Ministri e della comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento) e, quindi, ancor prima dell'incardinarsi del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale - risolvere, con l'emanazione delle norme di legge ritenute piu' idonee, in modo definitivo, organico e generale il problema qui messo in risalto, riaffermando con forza e chiarezza le proprie esclusive attribuzioni fissate nella legge fondamentale dello Stato, in particolare negli artt. 70, 71, 72 e 73, cosi' da ricondurre la Corte costituzionale e l'Autorita' giudiziaria nello stretto ambito delle loro specifiche e altrettanto esclusive competenze. Tali considerazioni di portata generale non sono fini a se' stesse, ma riguardano direttamente i temi della presente ordinanza, poiche' questo giudice remittente, benche' convinto della fondatezza giuridica degli argomenti che gli hanno imposto di negare l'efficacia delle decisioni "legislative" della Corte costituzionale, non puo' trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente" che applica tali decisioni come se fossero norme di legge d'interpretazione autentica, affermandone in senso assoluto l'obbligatorieta'. Ne' poteva evitarsi di mettere in piena luce la rilevanza di carattere generale sul diritto positivo vigente delle questioni che il Giudice delle leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve essere affermato con la massima chiarezza) una pronuncia di accoglimento di una o piu' delle questioni, tra quelle qui sollevate, attinenti le problematiche sopra evidenziate non potrebbe limitare i suoi effetti alle sole norme direttamente e specificamente colpite dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale, ma comporterebbe la caducazione di quell'intero sistema di "diritto vivente" (o almeno, di una sua grande parte) - del quale si e' gia' detto, parallelo al diritto scritto e codificato - che nella realta' applicativa giurisprudenziale domina da piu' decenni. In verita' (anche a non voler tener conto di quanto sin qui esposto), tutta la vasta problematica legata al non facile e traumatico rifiuto dell'efficacia delle sentenze "legislative" della Corte non e' di poco conto e non e' superabile agevolmente - contrariamente a quanto si e' affermato in dottrina - con la troppo semplicistica affermazione dell'assoluta prevalenza delle decisioni della Corte costituzionale su quelle pretorili, poiche' non puo' dubitarsi' del fatto che il giudice deve, sempre e solo, applicare la legge e non e' questione da poco identificare la legge vigente nell'attuale paradosso normativo, gia' ampiamente descritto: e' ben lecito, anzi e' assolutamente doveroso, per il giudice, nel dubbio sul testo delle disposizioni da applicare (se quello promulgato dal legislatore, o quello revisionato dalla Corte), ricercare la soluzione piu' vicina ai principi fondamentali sanciti nella nostra Costituzione per regolare e tutelare la funzione dell'amministrazione della giustizia, con necessaria scelta in favore della legge, anche al doloroso prezzo di negare l'efficacia delle sentenze del Giudice delle leggi. Si possono giustificare e comprendere le propensioni di parte della dottrina favorevoli alle interpretazioni (piu' o meno) giusnaturalistiche - indubitabilmente in buona misura frutto di spinte ideologiche - del diritto, in chiaro antagonismo con quello che e' stato da taluno definito, con malcelato disprezzo, sterile positivismo, ma non puo', ne' deve essere ritenuta legittima l'assunzione generalizzata da parte dell'Autorita' giudiziaria di una scelta evoluzionistica nell'applicazione della legge, poiche', invero, mentre la dottrina non e' vincolata al rispetto di nessuna norma nell'elaborazioni delle sue teorie e, per affermarle, puo' con la massima disinvoltura superare anche il testo normativo piu' chiaro ed univoco, altrettanto non e' consentito al giudice, il quale deve interpretare la legge in obbedienza ai canoni normativamente previsti (dalle Disposizioni sulla legge in generale, in particolare nell'art. 12) per darne corretta applicazione nelle concrete fattispecie portate al suo esame. Tutto cio' che si e' sinora rappresentato in via generale vale anche in relazione alla sentenza 10 giugno 1994, n. 240, della Corte costituzionale che ha modificato l'art. 11, ventiduesimo comma della legge 24 dicembre 1993, n. 537, determinando l'esistenza di una norma "virtuale" ormai divenuta (in tempi brevissimi) "diritto vivente", della quale questo pretore, benche' non ravvisi, allo stato, alcuna ragione di natura giuridica per mutare la propria giurisprudenza contraria (gia' ricordata), deve tenere conto, poiche' nella realta' applicativa la predetta versione dell'art. 11, ventiduesimo comma, legge n. 537/1993 ha sinora prevalso su quella approvata dal Parlamento. Poiche' deve darsi atto della realta' suddetta e poiche' appare vulnerato l'art. 136, primo comma, Costituzione, non resta altro che sollevare questione di legittimita' costituzionale a carico della norma "virtuale" sopra individuata. In forza delle stesse argomentazioni che precedono, risulta anche rilevante l'accertamento della legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, in relazione all'art. 136, primo comma, della Costituzione, poiche' e' in particolare con riferimento al testo del predetto art. 30 che viene affermata l'efficacia ex tunc delle sentenze dichiarative d'incostituzionalita', in aperta e piena violazione del dettato costituzionale. E', invero, piu' che evidente che, qualora venisse dichiarata l'incostituzionalita' dell'art. 30, terzo comma, legge n. 87/1953, la tesi dell'efficacia ex tunc delle decisioni d'incostituzionalita', sostenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, perderebbe l'unico (per quanto labile ed insignificante e gia' disatteso da questo pretore) argomento testuale, cosi' rendendo chiaro a tutti, anche ai piu' fervidi fautori della "costituzione materiale", che le norme della Costituzione Formale sono le uniche vigenti e devono essere rispettate. Nella presente causa la dichiarazione d'incostituzionalita' dell'art. 30 renderebbe indiscutibile la pronuncia di rigetto della domanda relativa alla "cristallizzazione" proposta in ricorso, per assenza di norma regolatrice del diritto, risultando applicabile il testo originario dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, poiche' la sua parziale inefficacia (ancora una volta si tiene conto della realta' del "diritto vivente", senza riconoscerne pero' la fondatezza), prendendo decorrenza dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza n. 240 del 1994, nor avrebbe alcun effetto nella presente controversia, precedente la pubblicazione della decisione della Corte costituzionale: constatazione questa che chiarisce in modo inequivoco la rilevanza (anche se non esclusiva) nel giudizio della medesima questione. Sempre avendo presenti le considerazioni appena sopra sviluppate, e', altresi', necessario, nella presente fattispecie, sollevare un ulteriore rilievo di incostituzionalita' di particolare carattere: dubita, infatti, questo pretore della legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, come "manipolato" dalla sentenza n. 240/1994, in relazione all'art. 81, ultimo comma, Costituzione e tale dubbio, deve essere risolto dal necessario intervento della Corte costituzionale. 3. - Considerazioni generali in ordine alle questioni di legittimita' costituzionale di natura preliminare. Poiche' la controversia puo' essere risolta sotto molteplici profili, ciascuno dei quali da solo sufficiente per motivare (l'obbligatorieta' della motivazione dei provvedimnti giurisdizionali e' sancita nell'art. 111 Costituzione, tra i principi fondamentali delle norme sulla giurisdizione) la pronuncia, con consequenziale possibilita' per questo pretore di scegliere, se fondare la propria decisione su uno o piu' argomenti, senza vincoli o limitazioni (si tratta, infatti, di scelta insindacabile, perche', nell'obbedienza al dettato dell'art. 111 citato, indiscutibile manifestazione di autonomia e di libera determinazione dell'Autorita' giudiziaria, secondo la previsione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione), il Giudice delle leggi non dovrebbe esaminare nel merito le suddette questioni, negandone l'ammissibilita', perche' non rilevanti, potendo certamente il giudizio "essere definito indipendentemente dalla risoluzione" delle qui sollevate questioni di legittimita' costituzionale, come chiaramente recita l'art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953. Deve, pertanto, essere sollevata d'ufficio l'ulteriore questione di legittimita' costituzionale, a carico della specifica disposizione, come sopra riportata nella sua testualita', del citato art. 23, secondo comma, della legge n. 87/1953, per violazione dell'art. 134, nonche' degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. Questione che la Corte dovra' esaminare in via preventiva al fine di passare, in caso di suo accoglimento, all'esame delle questioni precedentemente individuate. Per le stesse ragioni, appena sopra esposte, con le stesse finalita' e con il medesimo carattere preliminare, deve altresi essere sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, limitatamente a quelle sue parti (quali verranno esattamente evidenziate in seguito) che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dall'art. 137, primo comma, Costituzione. 4. - Precisazione delle questioni di legittimita' costituzionale rilevate d'ufficio. A) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, legge 22 dicembre 1993, n. 537, come modificato dalla sentenza 10 giugno 1994 n. 240 della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. B) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione. C) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, legge 24 dicembre 1993, n. 537/1993, come modificato dalla sentenza n. 240/1994 della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione. D) In via preliminare rispetto alla precedenti, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art. 134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. E) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti indicati in quella sub D, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dall'art. 137, primo comma, Costituzione. 5. - Motivazione delle singole questioni. A) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, ventiduesimo comma, legge 24 dicembre 1993, n. 537, come modificato dalla sentenza 10 giugno 1994 n. 240 della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. La Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del citato art. 11, ventiduesimo comma, legge n. 537/1993, "nella parte in cui - nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate o integrabili al trattamento minimo, delle quali una sola conserva il diritto all'integrazione ai sensi dell'art. 6, terzo comma, del d.-l. 12 settembre 1993, n. 463 ..., convertito nella legge 11 novembre 1993, n. 638, non risultando superati al 30 settembre 1983 i limiti di reddito fissati nei commi precedenti - prevede la riconduzione dell'importo a calcolo dell'altra o delle altre pensioni non piu' integrabili, anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante alla data indicata, fino all'assorbimento negli aumenti della pensione-base derivanti dalla perequazione automatica". Si ritiene nella dottrina e nella giurisprudenza prevalenti che tale decisione della Corte costituzionale (come le altre del genere che e' stato gia' in precedenza qualificato "legislativo" per ricomprendere in un'unica definizione tutte le sentenze del Giudice delle leggi di natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle che non si limitano a sancire semplicemente l'illegittimita' delle norme che violano la Costituzione) abbia valore correttivo dell'incostituzionalita' della norma ed efficacia erga omnes, cosi' da dover essere applicata (per di piu' ex tunc, ma di cio' si trattera' piu' avanti) dall'Autorita' giudiziaria. Questo giudice (abbandonata ormai da tempo la propria giurisprudenza che aderiva all'erronea tesi dominante appena sopra sintetizzata), e' di contrario avviso e deve confermare anche in questa sede senza esitazione, in piena coerenza con le proprie precedenti decisioni, che l'art. 11, ventiduesimo comma, legge n. 537/1993 e' rimasto in vigore nella sua integrale formulazione letterale, quale norma di legge dello Stato, regolarmente approvata (art. 72 Costituzione) dal Parlamento, regolarmente promulgata dal Presidente della Repubblica e regolarmente pubblicata (art. 73 Cost.), poiche' la sentenza "legislativa" n. 240/1994 della Corte costituzionale non e' giuridicamente idonea a determinare la cessazione dell'efficacia della norma dichiarata illegittima in una parte non scritta (nella parte in cui prevede...), posto che l'evento dell'inefficacia si realizza solo quando la dichiarazione di illegittimita' costituzionale colpisce la letteralita' dell'intera norma o di una sua parte (scritta: deve essere ribadito), causandone le semplice caducazione. In altri termini: le sentenze "legislative" non possono (ma si veda anche la diversa ipotesi di soluzione giuridica della questione, piu' avanti prospettata) dar luogo agli effetti previsti dall'art. 136, primo comma, Costituzione, ne' hanno efficacia modificativa del diritto positivo, poiche' (il rilievo sembra pacifico ed incontestabile) non e' attribuito alla Corte costituzionale il potere legislativo, ne' una funzione di interpretazione autentica della legge. E', infatti, al solo legislatore che la nostra Costituzione attribuisce il potere, in via generale (art. 70 e seguenti, nonche' art. 117 per cio' che concerne le Regioni) e in via specifica (art. 136, secondo comma), di creare la norma di legge, giuridicamente vincolante. Tutto cio' vale anche per quelle decisioni additive che vengono definite "a rime obbligate" - e' chiaro che l'argomento viene esposto per ragioni di completezza del discorso; giacche' potrebbe assumere qui rilievo concreto solo qualora si affermasse che la sentenza n. 240/1994 appartiene a tale categoria, anche se davvero non si intravede nella motivazione una valida indicazione in proposito -, le quali vengono ritenute "autoapplicative" e cogenti in quanto connaturate all'ordinamento giuridico: se le sentenze additive "a rime obbligate" fossero veramente idonee di immediata applicazione per la loro diretta derivazione dal diritto positivo dovrebbe essere possibile rinvenire, se non la norma di riferimento suscettibile di interpretazione estensiva o di applicazione analogica, quanto meno il principio assoluto da applicare per la correzione dell'aspetto d'incostituzionalita', con la conseguenza che, se cio' fosse possibile, l'intervento additivo "a rime obbligate" della Corte si rivelerebbe, a maggior ragione, non solo illegittimo rispetto alla previsione dell'art. 136, primo comma, Costituzione, ma anche inutile e ridondante, essendo logicamente sufficiente una tipica sentenza caducatoria, poiche' sarebbe (anche in tal caso, come in ogni caso) di esclusiva competenza dell'autorita' giudiziaria la decisione sulla possibilita' di riempire, ai sensi dell'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, il vuoto normativo (eventualmente ritenuto intollerabile) conseguente alla caducazione della disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte. In tema si propone un'ultima nota d'interesse: in una recente (rimasta pero' isolata) sentenza (la n. 218 del 29 maggio - 1 giugno 1995) la Corte costituzionale ha ritenuto di dover motivare la decisione, qualifica come additiva, affermando che "La reductio ad legitimitatem e' possibile con una pronuncia additiva, perche' desumibile..." (e' irrilevante il seguito): anche senza voler attribuire un significato "freudiano" alla rarita' dell'espressa motivazione sull'intervento additivo, appare, tuttavia, lecito, se non altro ad colorandum, portare all'attenzione del Giudice delle leggi il precedente, giacche' puo' ritenersi che costituisca un sintomo di iniziale ripensamento sulla legalita' e correttezza costituzionale del genere di sentenze qui criticate. Tanto rilevato e rappresentato con riferimento al primo comma dell'art . 136, si deve passare alla discussione inerente l'altro aspetto d'incostituzionalita' dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537/1993, come modificato dall'intervento del Giudice delle leggi, per violazione degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione. Deve subito essere affermata la natura anche interpretativa della sentenza "legislativa" n. 240/94 e deve precisarsi che tale natura non puo' essere (contrariamente a quanto sostenuto dalla, quasi unanime, dottrina e, nella recente sentenza emessa in data 5 ottobre 1995 nella causa Belloli Lucia contro I.N.P.S., dal Tribunale del lavoro di Brescia) razionalmente negata, poiche' nella sentenza n. 240/1994 la Corte costituzionale propone una lettura del contenuto dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537/1993, in contrasto con quella dei giudici remittenti, giungendo a scindere il disposto del comma 22 predetto in due sottodisposizioni da nessun altro interprete prima individuate, ed, inoltre, perviene a tali risultati in forza di un elaborato ragionamento correlato ad una particolare esegesi dell'art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 463/93, convertito nella legge n. 638/1983, contrastante con quella della Corte di cassazione e di buona parte della giurisprudenza di merito: se tutto cio' non e' interpretazione, allora non si addice alla sentenza n. 240/1994 l'appellativo di interpretiva, ma pare arduo negare l'evidenza. L'interpretazione della legge e' attivita' intellettuale non riservata : ogni operatore del diritto ed ogni singolo cittadino e' ovviamente libero di interpretare la normativa, per tutti i fini possibili, senza limiti. Ma quando l'interpretazione e' correlata all'applicazione della legge in sede giurisdizionale, quando cioe' e' legata alla funzione specifica dell'amministrazione della giustizia in nome del popolo e nella soggezione alla sola legge (101 Cost.), allora l'attivita' d'interpretazione e' riservata ed esclusiva perche' demandata al giudice (102 Cost. per quello ordinario), autonomo ed indipendente da ogni altro potere (104, primo comma, Cost.). Ne discende che, qualora una norma di legge trovi (o possa trovare) nella giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimita', diverse soluzioni interpretative, non puo' essere ritenuto conforme alla Costituzione un intervento di sostanziale natura interpretativa autentica della Corte costituzionale, che (come nel caso di specie) determini una modifica del contenuto della norma, pur non incidendo sul suo tenore letterale, cosi' da imporre una specifica scelta, fondata su una delle possibili interpretazioni del dettato normativo, o (e sembra essere questa l'ipotesi che meglio si attaglia alla sentenza n. 240/94) da precludere ogni diversa interpretazione, togliendo al giudice competente spazio per esercitare pienamente la propria funzione, poiche' in tal modo viene concretamente violato il principio della divisione dei poteri, con la compressione di quello giudiziario, in evidente contrasto con gli articoli 101 e 104, quarto comma, Costituzione. Cio' non significa che il Giudice delle leggi non possa interpretare la legge (negarlo sarebbe pura assurdita'), ma significa solo che non e' consentito a nessun potere (inteso in senso lato) dello Stato e, pertanto, neppure alla Corte costituzionale di superare i confini delle proprie attribuzioni. E la Corte soprattutto deve esercitare la sua elevatissima funzione, posta al vertice delle garanzie costituzionali, nel piu' assoluto rispetto delle attribuzioni degli altri poteri (il termine viene usato sempre nel significato piu' ampio e non strettamente tecnico), poiche' ogni sua decisione che comporti il superamento della sfera delle specifiche competenze, rischia di scardinare il delicato equilibrio istituzionale voluto dalla legge fondamentale della Repubblica, senza neppure la possibilita' di un rimedio giuridico, poiche' "contro le decisioni della Corte costituzionale non e' ammessa alcuna impugnazione" (art. 137, ultimo comma, Cost.) e poiche' deve escludersi l'ammissibilita' dell'istituto del giudizio "sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato" (art. 134, secondo comma, Cost.), se non altro, perche' la Corte costituzionale ne sarebbe nel contempo parte e giudice. Se questa questione, in uno o piu' dei rilievi di legittimita' costituzionale prospettati, venisse accolta dal Giudice delle leggi, la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della versione normativa dell'art. 11, comma 22, legge n. 537/1993, come risultante dalla sentenza n. 240/94, dovrebbe comportare la perdita di efficacia della stessa versione ed il ripristino (deve presumersi e preferirsi) della versione originale della norma, quella approvata dal legislatore del 1993, con ovvia rilevanza nel presente giudizio pretorile. Per il vero, pero', la Corte costituzionale - come anche la stessa Autorita' giudiziaria, ma soprattutto il Parlamento con una legge chiarificatrice, decisamente auspicabile - potrebbe dare una diversa soluzione giuridica in ordine agli effetti delle decisioni "legislative", affermando in modo esplicito che queste non sono idonee a modificare, integrare e correggere le norme dichiarate incostituzionali, bensi' puramente e semplicemente determinano la radicale perdita di efficacia delle medesime norme, poiche', lo si puo' ben sostenere con piena logica giuridica e razionalita', l'accertata ed affermata illegittimita' della norma "nella parte in cui ..." si ripercuote sull'intera norma, giacche' questa nel suo complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che la Corte rispettivamente afferma essere costituzionalemente illegittimo o legittimo. Le conseguenze di tale soluzione radicale potrebbero essere assai meno dirompenti di quelle causate dalla prima scelta indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al sistema giuridico il rischio di una paralizzante crisi interpretativa, dipendente dalla difficolta' di stabilire, se la norma dichiarata incostituzionale dalla Corte con intervento "legislativo" possa ritenersi ripristinata in tutta la sua primigenia portata, ovvero se debba considerarsi implicitamente travolta in toto dalla dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della lettura volutane dalla Corte, ovvero ancora se sia necessario (ipotesi questa, pero', da escludere recisamente) attendere un intervento del Legislatore diretto a confermare, o abrogare, o modificare la norma. B) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione. L'art. 136, primo comma, Costituzione cosi' dispone testualmente: "Quando la Corte dichiara l'illegittimita' costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". L'art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, prevede: "Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Sono possibili due soluzioni interpretative dell'art. 30 in esame: una fedele al dettato costituzionale, l'altra non rispettosa della lettera e del contenuto dell'art. 136 Cost.: la prima attribuisce un puro significato esplicativo all'art. 30, evidenziando l'ovvia conseguenza della perdita di efficacia della norma dichiarata incostituzionale, cioe' la sua inapplicabilita' per regolamentare le situazioni giuridiche sorte successivamente alla pubblicazione della decisione della Corte; la seconda tenta di modificare la costituzione formale per farla soggiacere alla volonta' dei fautori della "costituzione materiale", sostenendo che il divieto di applicazione delle norme incostituzionali, derivante dalla originaria incostituzionalita' delle norme stesse, determina necessariamente l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte. A contrastare la tesi che sostiene l'efficacia ex tunc delle sentenze della Corte costituzionale si ergono insuperabili, non solo la lettera del primo comma dell'art. 136 Cost., ma anche il secondo comma dello stesso articolo. Per chiarire esaustivamente quanto appena sopra affermato sembra sufficiente riportare quanto gia' sostenuto da questo pretore in varie decisioni aventi lo stesso oggetto della presente causa (tra le altre, nella sentenza n. 1534/95 emessa in data 3 luglio 1995, nella causa Zeni Angela contro I.N.P.S.): "Il primo comma dell'art. 136 della Costituzione cosi' testualmente afferma" - omissis: la norma e' sopra riprodotta - ": e' evidente, per il significato inequivocabile della disposizione, che corrispondentemente viene negata qualsiasi efficacia ex tunc alla dichiarazione d'incostituzionalita' e che la norma dichiarata incostituzionale e' perfettamente efficace (e, per quanto cio' possa apparire paradossale, anche legittima) sino al giorno, compreso, della pubblicazione della decisione della Corte costituzionale". Omissis L'esattezza della tesi qui sostenuta trova conferma di forte valore giuridico nell'assenza di una previsione (difficile da ipotizzare, peraltro) di legge che limiti, imponendo alla Consulta il rispetto dell'art. 81 della Costituzione, gli effetti talvolta dirompenti (da molti denunciati e da tutti indistintamente riconosciuti) sul bilancio dello Stato della valenza ex tunc, attribuita contra legem alle sentenze della Corte costituzionale sulle norme dichiarate incostituzionali: e', ancor piu' che evidente, lapalissiano che l'unica esatta interpretazione, dell'art. 136, primo comma, Costituzione, nel senso imposto dalla sua univoca formulazione letterale e qui sostenuto, rende superflua ed insussistente l'esigenza di ridurre o regolamentare l'impatto sulla finanza pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non essendo lecito attribuire efficacia ex tunc alle dichiarazioni d'illegittimita' costituzionale, nessun danno puo' derivarne, cio' che spiega razionalmente perche' il Legislatore, costituzionale e ordinario, non abbia previsto e ritenuto di dover creare qualche strumento giuridico per imporre alla Corte il rispetto dell'art. 81 Costituzione. In altri termini: nessuna necessita' di limitare gli effetti economici delle sentenze della Corte costituzionale sussiste, poiche' esse non sono idonee, secondo la previsione del primo comma dell'art. 136, a determinare situzioni di danno. Il rigore logico e la piena razionalita' dell'art. 136, primo comma, trova ulteriore conferma nel secondo comma: "La decisione della Corte e' pubblicata e comunicata alle Camere e ai Consigli regionali interessati, affinche', ove lo ritengano necessario provvedano nelle forme costituzionali": e' quasi superfluo far notare che questa disposizione e' diretta ad imporre (non si dimentichi mai che il potere attribuito alle Istituzioni della Repubblica e' potere-dovere e non arbitrio) al Legislatore di provvedere alla soluzione dei problemi causati dalle dichiarazioni d'incostituzionalita', problemi derivanti, per il futuro, dal possibile vuoto normativo e, per il passato, dalla necessita' od opportunita' di riparare (secondo la discrezionalita' politica del Legislatore e, dunque, anche e soprattutto nei limiti delle compatibilita' di bilancio) i danni eventuali determinati dalle norme incostituzionali. Cio' che conferma l'esattezza dell'affermazione, secondo la quale l'esigenza e l'obbligo di rispettare l'art. 81 della Costituzione e', come solo puo' e deve essere, a carico del legislatore. Per tentare di superare il ragionamento sopra riprodotto, si dovrebbe spiegare, perche' il Legislatore costituzionale avrebbe previsto, nel secondo comma dell'art. 136, la comunicazione alle Camere della decisione della Corte "affinche', ove lo ritengano necessario provvedano nelle forme costituzionali", se non avesse voluto chiarire con forza che solo al Legislatore e' attribuito il potere di provvedere, nelle forme costituzionali, alla produzione legislativa eventualmente necessaria per risolvere le conseguenze dell'inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali, posto che altre norme della Costituzione (artt. 70 e seguenti) gia' regolano l'attivita' legislativa e non si puo' certo ridurre l'art. 136, secondo comma, a norma puramente ripetitiva senza valore alcuno. A tali argomenti non sembra superfluo aggiungere brevemente alcuni elementi di fatto storici, con lo scopo dichiarato di rendere difficilmente praticabili possibili obiezioni fondate su discorsi inerenti la volonta' del Legislatore e la ratio legis, cari ai giusnaturalisti, anche a fronte di norme esemplari per la loro assoluta limpidezza di lettera e di contenuto, qual'e' certamente l'art. 136 Costituzione. Nelle fasi iniziali dell'iter per l'introduzione della Corte costituzi onale nel nostro ordinamento, la sottocomissione per i problemi costituzionali della "Comissione per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato", istituita dal Ministero per la Costituente, negli studi e proposte pubblicati nel 1946, tra l'altro, aveva espressamente ipotizzato l'annullamento en tunc delle leggi, quale conseguenza della dichiarazione d'incostituzionalita'. Tale soluzione in sede di Assemblea Costituente venne chiaramente abbandonata dalla Commissione dei 75, alla quale era stata affidata la redazione del progetto costituzionale: nel progetto presentato il 31 gennaio 1947, infatti, nell'art. 128, al terzo comma, era previsto che "Se la Corte, nell'uno o nell'altro caso, dichiara la incostituzionalita' della norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della Corte e' comunicata al Parlamento, perche', ove lo ritenga necessario, provveda nelle forme istituzionali". Da quell'art. 128 e' derivato l'attuale art. 136, nel quale pero' e' stato opportunamente previsto anche il momento iniziale (fissato nel giorno successivo alla pubblicazione) della perdita di efficacia delle norme dichiarate incostituzionali. Nessun commento e' necessario. Anche se possono ritenersi sufficienti le considerazioni sin qui sviluppate, l'esigenza di massima completezza del discorso impone di tenere conto di una possibile critica alla tesi qui sostenuta della efficacia solo ex tunc delle sentenze della Corte che dichiarano l'illegittimita' costituzionale di norme di legge o di atti aventi forza di legge: si sostiene, infatti, che le predette decisioni sarebbero naturaliter retroattive in ragione, sia del carattere incidentale del giudizio di costituzionalita', sia della necessita' che le pronuncie del Giudice delle leggi siano produttive di effetti ex tunc nel giudizio a quo (ed ovviamente anche per tutte le posizioni giuridiche similiari), giacche', altrimenti, non vi sarebbe alcun interesse delle parti in causa a sollevare eccezioni di legittimita' costituzionale, non potendo trarre alcun vantaggio dalle eventuali pronuncie favorevoli, con conseguente certo inaridimento della fonte privata delle eccezioni e parallela contrazione del controllo di costituzionalita'. La contestazione sopra sintetizzata ha indubbie ragioni sostanziali, giacche' e' sussistente, in astratto, il rischio paventato di una perdita d'interesse delle parti in causa nel giudizio a quo a sollevare eccezioni d'incostituzionalita', in assenza della certezza di conseguire immediati vantaggi (di natura economica soprattutto, se pure non esclusivamente) anche per il passato, ma non certo per questo motivo puo' ritenersi fondata, come si dimostrera' nel prosieguo. In primo luogo, e' doveroso e necessario notare che il giudizio di costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge non ha il fine di accertare la sussistenza di diritti vantati da singoli o da gruppi organizzati per dare loro tutela diretta, bensi' quello diverso, ben superiore ed imprescindibile, di garantire la legittimita' del sistema giuridico, rendendo inefficaci ed inapplicabili per il futuro le disposizioni di legge dichiarate incostituzionali, cosicche' le eventuali posizioni d'interesse particolare radicate (anche, o soltanto) nel passato e correlate alle questioni di legittimita' costituzionale portate all'esame del Giudice delle leggi sono totalmente ininfluenti ed irrilevanti, come irrilevante ed ininfluente e' il rischio che le parti private del giudizio a quo non sollevino piu' eccezioni di legittimita' costituzionale. In secondo luogo, deve dirsi che l'interesse riposto nel valore retroattivo delle sentenze della Corte costituzionale dipende in gran parte (e forse solo) dal fatto che molte dichiarazioni d'incostituzionalita' hanno riguardato ed ancora oggi riguardano, direttamente o indirettamente - nel caso della sentenza n. 240 del 1994 vale la seconda ipotesi, trattandosi di decisione che tende a ripristinare per talune categorie di titolari di piu' pensioni il diritto alla "cristallizzazione", previsto dal comma 7 dell'art. 6 del decreto-legge n. 463/1993, convertito nella legge n. 638/1983, poi negato, nei termini ivi precisati, dall'art. 11, comma 22, della legge n. 537/1993 -, disposizioni di legge vigenti da lungo tempo, dando cosi' origine alla legittima aspettattiva di vedere riconosciuti benefici prima preclusi, oppure negati da leggi successive, e cio' anche per il passato e non solo per il futuro. Le cause di tale situazione sono sicuramente molteplici e non possono qui essere tutte individuate e valutate, ma due sono evidenti: a) l'enorme ritardo, piu' di cinque anni, con il quale la Corte ha iniziato a funzionare, dopo l'entrata in vigore della Costituzione e b) l'"invenzione" e l'affermazione nella giurisprudenza della Corte delle sentenze "legislative" (gia' ampiamente contestate), che, pretendendo di sostituire le parti ritenute incostituzionali delle disposizioni di legge con nuovi contenuti normativi stabiliti (senza potere) dalla Corte, hanno determinato nella generale opinione il "credo" sull'assoluta obbligatorieta' erga omnes (anche per il potere legislativo ed esecutivo) delle scelte della Consulta e contestualmente una lettura "distratta" dell'art. 136 della Costituzione, del quale si e' (volutamente) omesso di valutare nella sua interezza il dettato, chiaro e razionale. In forza di tali rilievi, risulta palese che l'interesse delle parti in causa a sollevare questioni di legittimita' costituzionale legate preminentemente all'aspettattiva di ottenere vantaggi anche per il passato (tanto da affievolirsi e scomparire in assenza di efficia ex tunc della dichiarazione di illegittimita' costituzionale) non deriva da una situazione di normalita', ma e' radicato nella patologia del sistema, come e' altrettanto evidente che costituisce una vera anomalia giuridica attribuire efficacia naturaliter retroattiva alle sentenze della Corte. In terzo luogo, non e' vero che certamente, sicuramente, necessariamente ed ineluttabilmente debba mancare l'interesse alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale che determini (come voluto nella legge fondamentale dello Stato) la perdita di efficacia della norma di legge solo a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della relativa decisione della Corte, poiche' deve ritenersi che, se il Giudice delle leggi riterra' di accogliere le eccezioni sollevate ai punti D) ed E), la maggior facilita' di attivare il giudizio di costituzionalita', liberato dai vincoli e dalle illegittime condizioni ostative oggi presenti nell'ordinamento, produrra' una maggiore estensione e una notevole accelerazione del controllo di legittimita' costituzionale, consentendo alle parti private di sollevare, con largo anticipo rispetto ad oggi, eccezioni non direttamente rilevanti in causa ed essenziali per la decisione della controversia (essendo sufficiente la loro non manifesta infondatezza), con conseguente nuovo e maggiore interesse a proporre anticipatamente le questioni di legittimita' costituzionale. In quarto luogo: anche se tutto cio' che si e' fin qui detto fosse errato, resta sempre l'ultima e piu' forte obiezione di diritto positivo costituzionale: e' al Legislatore che compete in via esclusiva, ai sensi dell'art. 136, secondo comma, della Costituzione - qualora rilevi un'intollerabile violazione di legittime aspettative degli interessati (singoli o collettivi, organizzati o meno) correlate alla dichiarazione di illegittimita' costituzionale, aventi radici anche nel passato - di intervenire (con discrezionale ed insindacabile, se razionale, valutazione politica delle compatibilita' di bilancio e, percio', non necessariamente in totale corrispondenza con le aspettattive delle quali si e' detto, utilizzando gli strumenti legislativi di gestione della finanza pubblica piu' idonei) per riconoscere ed estendere anche alle situazioni giuridiche sorte nel passato il diritto affermato dalle decisioni della Corte costituzionale aventi giuridica efficacia solo per il futuro. Anche in tale prospettiva, dunque, risulta confermato che ben puo' sussistere l'interesse delle parti in causa del giudizio a quo a sollevare eccezioni di legittimita' costituzionale, pur nella consapevolezza dell'efficacia caducatoria solo per il futuro delle decisioni della Consulta, poiche' permane la possibilita' di ottenere dal Legislatore, almeno in qualche misura, il riconoscimento normativo delle istanze dirette a trasferire anche nel passato il contenuto sostanziale delle sentenze della Corte. Se quanto si e' detto e' minimamente vero (e non si riescono' ad intravedere serie ragioni in contrario), allora e' ben chiaro che il sistema costituzionale come qui interpretato, grazie alla sua semplice ed agevole lettura, fortemente ancorata al senso univoco delle parole e' perfetto ed e', invece, solo la triste realta' storica dell'insufficienza cronica delle istituzioni a rispondere con rigore alle richieste di certezza del diritto del paese reale a determinare le asintonie che vengono ritenute naturaliter implicanti il valore retroattivo delle decisioni della Corte, sicuramente non voluto ed, anzi, espressamente escluso dal Legislatore costituzionale. Per quanto, poi, riguarda quella parte della contestazione fondata sul carattere incidentale della questione di legittimita' costituzionale nel giudizio a quo, deve solo dirsi che essa nulla dimostra, poiche', lo si e' gia' detto e lo si dira' piu' avanti, il giudizio di costituzionalita' non e' istituito per dare ragione o torto a chi e' portatore d'interessi particolari, ma solo per garantire la legittimita' costituzionale della legge, cosicche' il sistema incidentale previsto per sollevare le questioni non assume rilievo sostanziale nel giudizio a quo, ma e' solo lo strumento procedurale prescelto (uno tra i tanti costituzionalmente possibili, ed e' davvero superfluo elencare gli altri ipotizzabili) e da esso non puo' alcunche' validamente dedursi per affermare l'efficacia ex tunc delle decisioni della Corte, a fronte di precisi dati normativi contrari. E', infatti, certo, pacifico ed incontestabile che il giudizio di costituzionalita' non e' finalizzato a dirimere una controversia tra parti in causa, ne' a dare ragione o torto ad una delle parti del giudizio a quo, ne' a formare un giudicato in senso tecnico, ne' ad affermare il principio giuridico al quale deve attenersi l'Autorita' giudiziaria remittente. Se, in tutto o in parte, cio' che precede e' vero, l'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve essere dichiarato illegittimo per contrasto con l'art. 136, primo comma, Costituzione. in quanto consente un'interpretazione totalmente difforme dal dettato costituzionale, divenuta "diritto vivente", cosi' da rendere estremamente difficoltosa, se pur non impossibile, l'affermazione della lettura legittima della disposizione. Certamente e' nel potere della Corte costituzionale negare la fondatez za della questione di legittimita' costituzionale teste' esposta, eventualmente anche in forza del principio, esattamente affermato, che impone nello scontro tra due o piu' interpretazioni possibili l'affermazione della prevalenza di quella conforme a Costituzione (e non vi e' dubbio che la relativa decisione sarebbe giuridicamente perfetta ed inattaccabile), ma, a sommesso avviso di questo giudice remittente, una siffatta soluzione non potrebbe avere valore definitivo, poiche' lascerebbe sempre spazio aperto all'interpretazione non costituzionalmente corretta. Ne' e' poi il caso di porsi scrupoli particolari, nel caso di specie, sugli effetti della dichiarazione d'illegittimita' costituzionale: la conseguente perdita di efficacia del terzo comma dell'art. 30 legge n. 87/1953 non causerebbe un grave vuoto normativo (e' sempre presente nella giurisprudenza della Corte la preoccupazione di evitare, per quanto possibile, tale evento), poiche' tale disposizione (come gia' notato) nulla aggiunge al disposto del primo comma dell'art. 136 Cost., limitandosi a esplicitare l'ovvia conseguenza della perdita di efficacia delle norme dichiarate incostituzionali "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" e cioe' la loro inapplicabilita' (nei termini gia' chiariti) a decorrere dallo stesso giorno. C) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 22, legge 24 dicembre 1993, n. 537, come modificato dalla citata sentenza 10 giugno 1994, n. 240, della Corte costituzionale, per violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione La Corte, con la sentenza n. 240 del 1994 (si ripete per comodita' di esposizione) ha dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto con gli articoli 3 e 38 Costituzione, dell'art. 11, comma 22, della legge n. 537 del 1993 "nella parte in cui - nel caso di concorso di due o piu' pensioni integrate o integrabili al trattamento minimo, delle quali una sola conserva il diritto all'integrazione ai sensi dell'art. 6, comma 3, del d.-l. 12 settembre 1983, n. 463 ..., convertito nella legge 11 novembre 1983, n. 638, non risultando superati al 30 settembre 1983 i limiti di reddito fissati nei commi precedenti - prevede la riconduzione dell'importo a calcolo dell'altra o delle altre pensioni non piu' integrabili, anziche' il mantenimento di esse nell'importo spettante alla data indicata, fino all'assorbimento negli aumenti della pensione-base derivanti dalla perequazione automatica". La norma in discorso, come modificata per effetto del suddetto intervento della Consulta, determina per l'I.N.P.S. una forte esposizione debitoria, priva di finanziamento (e' fatto notorio); la causa di tutto cio' deve rinvenirsi nell'opinione (erronea) secondo la quale le sentenze di natura addittiva della Corte costituzionale avrebbero efficacia vincolante erga omnes ed ex tunc, opinione tuttora prevalente in dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita'. Nessun atto legislativo e' sinora intervenuto per reperire la copertur a finanziaria necessaria al fine di consentire all'I.N.P.S. di provvedere, previa riliquidazione delle pensioni di riversibilita' secondo il dettato della sentenza n. 240/1994, al pagamento delle somme arretrate, con gli accessori di legge, derivanti da detta riliquidazione. E' piu' che evidente che il Legislatore, a tutt'oggi (anche se deve darsi atto che gli organi d'informazione hanno di recente riportato notizie su tentativi diretti a ricercare una soluzione per finanziare il fabbisogno di spesa previdenziale non previsto in bilancio e legato anche alle conseguenze economiche della sentenza n. 240 del 1994), non ha ritenuto di dover dare attuazione alla sentenza in discorso, nonostante la vigenza dell'art. 2, settimo camma, della legge 11 marzo 1988, n. 67, che cosi' dispone: "Qualora nel corso di attuazione di leggi si verifichino scostamenti rispetto alle previsioni di spesa a di entrate, il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative. La stessa procedura e' applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri". Potra' pure essere affermata la responsabilita' politica dei Governi che si sono succeduti dalla data di pubblicazione della sentenza n. 240/1994 ad oggi, ma nessun risultato giuridico puo' conseguirne, restando certo il fatto che nessun intervento e' stato posto in essere per la copertura finanziaria dei maggiori oneri, ne' totalmente, ne' parzialmente. Peraltro, in relazione a quanto si e' accennato in ordine alle notizie giornalistiche sulla ricerca di una soluzione normativa del problema (che, pero', ora sembra accantonato), non appare lecito attendere che il Legislatore eserciti sino in fondo i suoi poteri, prima di procedere alla trasmissione della presente questione di legittimita' costituzionale: deve, infatti, rilevarsi con estrema chiarezza che una futura, possibile e sempre auspicabile soluzione legislativa al problema della copertura finanziaria degli effetti economici della sentenza n. 240/94, avra' (se in linea con i principi costituzionali, e' ovvio) naturalmente efficacia anche sulla presente questione di legittimita' costituzionale, facendole perdere ogni attualita', rilevanza e fondatezza. Deve altresi' essere con forza notato che Autorita' giudiziaria non puo', in nessun caso, correlare i provvedimenti previsti dalla legge per amministare giustizia ad indebite ed illecite valutazioni di opinabile opportunita' politica. Dal riscontrato attuale dato di fatto storico dell'assenza di copertur a finanziaria, a parere di questo pretore, non puo' che discendere obbligatoriamente l'affermazione dell'illegittimita' costituzionale dell'art. 11, comma 22, legge n. 537/1993, come modificato dal Giudice delle leggi, per violazione dell'ultimo comma dell'art. 81 Cost., a nulla rilevando sapere se tale violazione dipenda da semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore, ovvero (ed e', purtroppo, questa l'ipotesi piu' veritiera) dalla realta' di una situazione critica delle finanze dello Stato, tale da aver reso, sino ad oggi, impossibile il reperimento delle risorse finanziarie necessarie, senza determinare un ulteriore aggravamento nel desolante bilancia della nostra Repubblica. Unica conseguenza e soluzione possibile sembra essere quella di una pronuncia dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale del detto ventiduesimo comma dell'art. 11, legge n. 537 del 1993 nella nuova formulazione creata dalla sentenza n. 240/94, con conseguente cessazione dell'efficacia della medesima norma ai sensi dell'art. 136, primo comma, della Costituzione e ripristino della situazione normativa preesistente l'intervento del Giudice delle leggi. Ne' puo', in contrario, sostenersi con giuridica fondatezza che le norme "virtuali" create dalle sentenze "leggi" della Corte costituzionale siano avulse dal sistema giuridico costituzionale, cosi' da non dover obbedire (anche) al dettato dell'art. 81, ultimo comma, Cost., ovvero che siano, senza alcuna fondata ragione (ma in dottrina si e' elaborata una tesi contraria, che verra' piu' avanti sottoposta a critica), "refrattarie" al controllo di legittimita' costituzionale, ovvero ancora che il legislatore debba dare esecuzione, sempre e comunque, alla volonta' della Corte e che abbia tempi illimitati per provvedere alla copertura finanziaria: se le sentenze di natura legislativa della Corte hanno davvero forza innovativa nel diritto positivo con obbligo di applicazione (ipotesi, deve ribadirsi ancora, qui fortemente negata), tanto da fondersi, in modo simile a quanto avviene per le leggi di interpretazione autentica, con la norma dichiarata incostituzionale, determinandone un nuovo contenuto, ebbene, allora, queste norme "virtuali" devono essere totalmente conformi alla Costituzione e soggiacere al vaglio del giudizio di legittimita' costituzionale, come qualsivoglia altra norma di legge. Ne' puo', sempre in contrario, avere valore la tesi, sostenuta da parte illustre della dottrina, della obbligatorieta' per il Legislatore di provvedere, comunque, al reperimento delle necessarie risorse finanziarie per l'attuazione delle sentenze cosi' dette "additive di spesa" (ma il discorso vale per tutte) del Giudice delle leggi, obbligatorieta' dalla quale di necessita' discenderebbe l'inapplicabilita' dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione, alla norma "corretta" dalla Corte, sul presupposto di una minore forza costituzionale dell'art. 81 rispetto alle norme della Costituzione portatrici di principi fondamentali, quali quelli d'uguaglianza, di razionalita' e di solidarieta', per quanto qui interessa: se pure deve riconoscersi che la tesi non manca di fascino, la sua erroneita' e' totale, poiche' svilisce il contenuto vero dell'art. 81, non riconoscendovi il valore di norma essenziale per tutela del sistema giuridico-economico-sociale-etico dello Stato. La nostra Costituzione ha, invero, il grande pregio, grazie forse alla sua stessa origine pluri-ideologica, di contenere tutti i principi piu' alti della civilta' e di tutelare tutte le liberta', senza dare prevalenza ad una visione politica dello Stato specifica e limitatrice, ma, nel contempo, nella consapevolezza del necessario rispetto della realta' economica, quale limite e strumento essenziale per la possibile e sempre tendenziale attuazione concreta dei grandi ideali di giustizia, uguaglianza e liberta', pone un principio ancora superiore, presente proprio nell'art. 81: la compatibilita' delle concrete risorse economiche quale limite di realta' al "sogno" di perfezione, quale strumento di difesa della realizzabilita' dei grandi principi ideali, etici e materiali, quale freno alla spesa illimitata di risorse future (purtroppo, sempre piu' future) al fine di tutelare l'esistenza stessa dello Stato, quale monito etico, infine, alla necessaria responsabilita' verso le future generazioni e alla piu' corretta distribuzione della ricchezza per quelle presenti. Cosi', se si volesse proporre una diversa classificazione delle norme costituzionali, l'art. 81 dovrebbe essere definito "norma di realta'" in contrapposizione alle "norme di ideale" e dovrebbe in questa prospettiva essere collocato al vertice di una nuova graduatoria d'importanza, dovendosi riconoscere che, pur non affermando elevati principi "sacrali", si pone a garanzia della realizzabilita' (invero pur sempre tendenziale) delle "norme di ideale", statuendo l'obbligatorio rispetto dei limiti delle risorse disponibili, in modo tale da consentire al sistema economico dello Stato di sostenere il costo della continua evoluzione dei bisogni di civilta' nei confini del possibile, senza sperperare ricchezze future non ancora prodotte, al fine di evitare il grande rischio (oggi sempre piu' drammaticamente concreto) di allontanare sempre piu' nel tempo e forse di precludere definitivamente l'attuazione delle "norme di ideale" della Costituzione. Il doveroso ed ineludibile riconoscimento dei suddetti valori costituz ionali presenti nell'art. 81, non solo, come gia' detto, impone il superamento della tesi dottrinaria sopra criticata, ma (lo si puo' qui dire con un breve appunto, anche se non perfettamente in tema) deve determinare anche a carico del Giudice delle leggi l'ogglibo di valutare sempre, nelle proprie decisioni che comportino una spesa non prevista in bilancio, l'art. 81 della Costituzione, quale norma di primaria e vitale importanza. Se poi si dovesse porre la domanda se sia lecito che il legislatore rifiuti - in tutto o in parte, per ragioni legate allo stretto rispetto di una grave realta' di deficit di bilancio non piu' espandibile - di dare piena e concreta attuazione alle decisioni "additive di spesa" della Corte, la risposta dovrebbe essere affermativa (cfr., in proposito, la recente sentenza della Corte costituzionale 28 giugno-13 luglio 1995, n. 320, nella quale si rinvengono argomenti in parte coincidenti con quelli qui espressi), sia nel caso che si vogliano ritenere legittime le sentenze "legislative" della Corte, sia che si neghi la loro efficacia per palese contrasto con l'art. 136 della Costituzione, poiche' la discrezionalita' politica del legislatore - se sorretta da insuperabili e provate ragioni imposte dalla realta', non ultima delle quali potrebbe essere legata alla considerazione che "le generazioni future non possono essere gravate oltre misura facendo vivere quelle attuali a loro spese", come sottolineato da attenta dottrina - non puo' essere limitata da nessun'altra volonta', trovando fondamento nell'art. 81 della Costituzione, norma di "realta'" posta a tutela della conservazione dello Stato e delle prospettive della sua stessa evoluzione. Poiche' ai fini del decidere e' importante, anche se non essenziale (che', come si e' gia' detto, la controversia relativa alla domanda di "cristallizzazione" puo' ben essere decisa "indipendentemente" sotto vari altri profili), avere certezza in ordine alla vigenza o meno dell'art. 11, ventiduesimo comma, della legge n. 537/1993, come determinata (nell'opinione prevalente, qui contrastata) dalla sentenza n. 240/94, e poiche' tale certezza puo' derivare, con valore assoluto (che' le tesi di questo giudice sono rimaste davvero minoritarie e marginali), solo (salvo ovviamente un sempre possibile intervento legislativo) da una decisione della Corte costituzionale, risulta necessario investire il Giudice delle leggi della questione di costituzionalita' come sopra precisata, essendone, peraltro, piu' che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo commento, anche la rilevanza nel presente giudizio, poiche' l'eventuale dichiarazione d'illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 81 sarebbe, senza possibilita' di contrasto neppure negli eventuali gradi successivi del giudizio, motivo di rigetto del dedotto diritto alla "cristallizzazione", anche se, in ipotesi estrema, solo concorrente, o anche solo subordinato e residuale. D) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove prevede che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" e limitatamente a tale parte, per violazione dell'art. 134, nonche' degli artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione. L' art. 134, per quanto qui interessa, dispone testualmente: "La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimita' costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle regioni". L'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art. 137, primo comma, della Costituzione, recita: "La questione di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e ritenuta dal giudice non manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione". A fronte di tali norme costituzionali, l'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, invece, cosi' dispone: "L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso". Il ben diverso contenuto sostanziale del secondo comma dell'art. 23, contrastante con le disposizioni dell'art. 134 della Costituzione e dell'art. 1 legge costituzionale n. 1/48, risalta evidente: la previsione della necessita' che "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale" al fine di introdurre il giudizio di costituzionalita' dinanzi al Giudice delle leggi non trova minimo riscontro a livello di normativa costituzionale. Non solo: appare anche chiaro, tanto da risultare quasi superfluo parlarne, che quella previsione dell'art. 23, ben individuata sopra, riduce enormemente la possibilita' di attivare il controllo della Corte sulla legittimita' costituzionale "delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato", poiche' impone che la rilevanza della questione di costituzionalita' sia tale da comportare da sola la definizione del giudizio, rendendo in tal modo irrilevanti e, percio', inammissibili tutte le questioni di legittimita' costituzionale l'oggetto delle quali sia solo concorrente nella decisione della causa. Viene cosi' patentemente incatenato il controllo della costituzionalit a' delle leggi e degli atti normativi di pari forza e contestualmente mortificata la garanzia costituzionale di tale controllo, svilito nell'attuale realta' a strumento di tutela di interessi puramente privati (di singoli o di collettivita', come gia' si e' avuto modo di rilevare), mentre la sua ragion d'essere risponde al ben superiore interesse di mantenere la normativa all'interno dei principi e delle norme costituzionali, restando irrilevante, o solo eventuale, la contestuale soddisfazione di aspettative particolari. In forza delle considerazioni che precedono, appare consequenziale riconoscere che, nel sistema vigente della legislazione ordinaria in relazione alle norme della legge fondamentale della Repubblica in tema di garanzie costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena attuazione dei principi costituzionali e cio' con particolare riferimento alla possibilita' di accesso al giudizio di legittimita' costituzionale, tanto da rendere possibile la permanenza nel diritto positivo di numerose norme contrarie alla Costituzione, senza che queste possano trovare controllo e verifica di legittimita', posto che la struttura procedimentale che consente di giungere dinanzi al Giudice delle leggi e' eccessivamente limitativa. Non e' certo nella competenza di questo giudice, ne' del Giudice delle leggi, la ricerca delle soluzioni normative necessarie per la realizzazione della Costituzione, ma la constatazione della difficolta' di accesso al giudizio dinanzi alla Corte costituzionale doveva qui essere chiaramente manifestata, non soltanto perche' direttamente attinente la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche perche' non puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/1953, e non il solo secondo comma dell'art. 23 nella parte specifica sopra individuata, violano l'art. 134 della Costituzione, riducendo a minimi livelli la possibilita' del controllo di conformita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge, mentre il sistema costituzionale nasce con un impianto assai vasto, che appare, comunque, illecitamente compresso e mortificato dalla legge ordinaria, e non solo nella sostanza, ma anche nella forma normativa utilizzata, come risultera' piu' che evidente nello sviluppo della successiva questione sub E). Prima di passare oltre pero', deve essere chiarito ancora in quali termini si ritengono violati gli artt. 101 e 104 della Costituzione dall'art. 23 legge n. 87/1953, nella parte in cui dispone che, per potersi procedere alla trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale". La disposizione contestata e' illegittima, poiche' determina una riduzione e compressione dell'autonomia ed indipendenza del giudice, impedendogli di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per la decisione dei processi, causando grave danno all'amministrazione della giustizia, poiche' (essendo precluso alle questioni non essenziali l'accesso al giudizio di costituzionalita') sottrae alla motivazione (art. 111 della Costituzione) delle sentenze ragioni ulteriori di potenziale accoglimento o rigetto della domanda (per quanto concernente in particolare le controversie nella materia demandata alla competenza di questo pretore), idonee a rendere piu' "resistente" la motivazione e non e' superfluo qui ricordare che il bene giuridico della certezza del diritto si fonda anche sulla forza di resistenza delle pronuncie giurisdizionali nei successivi gradi di giudizio. E) In relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale, per palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista dal primo comma dell'art. 137 Costituzione. La riserva di legge imposta dal primo comma dell'art. 137, viene, per quanto qui interessa, cosi' formulata: "Una legge costituzionale stabilisce le condizioni, le forme, i termini di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale": la materia e', dunque, riservata a legge costituzionale e non ordinaria. Ed invero sono state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9 febbraio 1948, n. 1, e 11 marzo 1953, n. 1, delle quali la prima e' pienamente conforme al dettato costituzionale, tant'e' vero che all'art. 1 la legge costituzionale n. 1/48 prevede che "La questione di legittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione", mentre l'art. 1 della legge costituzionale n. 1/53 lascia perplessi, poiche' non si limita ad affermare che "La Corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme e nei limiti e alle condizioni di cui alla Carta costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1" ma aggiunge un richiamo generico e generale anche "alla legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali", con buona pace per la riserva di legge costituzionale espressamente disposta nell'art. 137, terzo comma, Costituzione. E' palese ed indubbio (nonostante l'ambiguita', per il suo eccesso di genericita', dell'errato ed infelice riferimento alla legge ordinaria appena rilevato) che il sistema costituzionale del giudizio di legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge, pur stabilendo il chiaro limite della non manifesta infondatezza (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto meno, se non anche esclusiva, competenza dell'autorita' giudiziaria) delle questioni di legittimita' costituzionale, quale barriera per l'accesso al giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, non ha istituito quegli altri, diversi e assai piu' stringenti , confini che risultano, invece, nella legge ordinaria. E' allora certo che tutte le disposizioni della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87 che regolano "le condizioni, le forme, i termini di proponibilita' dei giudizi di legittimita' costituzionale" in modo difforme dal sistema costituzionale che si e' sopra individuato sono illegittime nella stessa fonte e forma legislativa che le pone (per quanto espressamente riguardante la questione di legittimita' costituzionale ora discussa) per palese violazione dell'art. 137, primo comma, della Costituzione. Cosi' risulta illegittimo, in particolare, l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale solo si vuole limitare la trattazione, restando comunque ed ovviamente, integro il potere della Corte, nell'ipotesi di accoglimento della presente questione, di decidere se sussistano gli estremi per procedere all'applicazione dell'ultima parte dell'art. 27 della medesima legge. L'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, cosi dispone: "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una regione, viziate da illegittimita' costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate. L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. La questione di legittimita' costituzionale puo' essere sollevata, di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza contenente le indicazioni previste alle lettere a) e b) del primoo comma e le disposizioni di cui al comma precedente. L'autorita' giurisdizionale ordina che cura della cancel'leria l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al pubblico ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonche' al presidente del Consiglio dei ministri od al presidente della Giunta regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una regione. L'ordinanza viene comunicata dal cancelliere anche ai presidenti delle due Camere del paralmento e al presidente del Consiglio regionale interessato". L'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87 e' nel suo complesso illegittimo, per la violazione del tutto evidente dell' art. 137, primo comma, della Carta costituzionale, con la sola esclusione delle seguenti specifiche parti, nelle quali nulla dispone in ordine alle condizioni e forme di accesso al giudizio dinanzi alla Corte, o si limita a ribadire immutato quanto gia' previsto dalla normativa di livello costituzionale: "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale. L'autorita' giurisdizionale, qualora " ... " non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La questione di legittimita' costituzionale puo' essere sollevata, di ufficio, dall' autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza"... In tutte le restanti parti l'art. 23 legge n. 87/53 e' radicalmente viziato da illegittimita' costituzionale e non vi e' nulla da aggiungere sulla questione ora discussa, poiche' sorretta dalla pura constatazione di una realta' evidente; si deve soltanto chiarire che la sua rilevanza nel presente giudizio e' identica a quella individuata per la questione sub D), giacche' anch'essa presupposto logico giuridico dell'ammissibilita' delle prime tre questioni. Considerazioni conclusive. Senza dubbio le questioni di legittimita' costituzionale sollevate presentano molti altri aspetti di grande interesse e, cosi', si potrebbero ancora esaminare e discutere le diverse elaborazioni dottrinarie e giuresprudenziali contrastanti con le tesi qui affermate, ma la dimensione gia' troppo vasta della presente ordinanza ne sconsiglia ogni ulteriore evoluzione, anche in considerazione del fatto che gli argomenti gia' diffusamente motivati non trarrebbero maggior forza dalla critica di tutte le contrarie posizioni. Questo giudice remittente non intende sostenere che dalla trasmissione della presente ordinanza derivi un obbligo giuridico della Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le varie questioni rilevate d'ufficio, poiche' e' intuitivo che l'eventuale decisione di accoglimento o rigetto di alcune di esse rende superfluo l'esame delle altre, eppure, in ultima analisi, ritiene di dover mettere l'accento sulla grande importanza e utilita' di una pronuncia del giudice delle leggi su tutte le questioni portate alla sua attenzione, considerato che, poiche' tutte sono riconducibili alla necessita' primaria di riportare le "regole di svolgimento del gioco" (prendendo in prestito una recente espressione della dottrina), per tutti gli organi istituzionali, all'interno della vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida e formale, tutte hanno pari rilevanza e valore e tutte sono tese al fine di ricondurre il sistema giuridico del controllo di costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge nell'alveo della nostra Carta costituzionale. Sistema nel quale, e' opportuno ricordarlo, se e' vero che e' demandat o alla Corte costituzionale il potere di decidere sulla legittimita' delle norme di legge e degli atti aventi forza di legge, e' anche vero che il primo controllo di legittimita' costituzionale e' attribuito dalla legge all'autorita' giudiziaria, cio' che ampiamente legittima i rilievi sviluppati nel presente atto e consente di affermare che, ai fini della decisione alla quale e chiamata la Corte sulle questioni sub A), B) e C), non puo' assumere rilievo giuridico la constatazione del fatto che da decenni si perpetuino le violazioni della Costituzione qui denunciate e che tale realta' sia avallata dai paladini del "diritto vivente" e della "costituzione materiale", poiche' il reiterarsi dell'errore non ne determina il superamento e con esso la liceita' di fatto, ma solo la maggior gravita' e la piu' difficile sanabilita'. Parimenti non puo' essere di ostacolo all'accoglimento eventuale delle questioni qui sollevate il timore dei vuoti normativi conseguenti alle dichiarazioni d'illegittimita' costituzionale solo caducatorie, correlato al dubbio (non certo privo di riscontri storici) della Corte costituzionale sulla reale capacita' o volonta' del legislatore di riempire i vuoti con nuove leggi costituzionalmente corrette (quello che e' stato definito horror vacui da valida dottrina), giacche' e', su tutto, prioritario il ripristino della legalita' e, comunque, anche in caso di fondato timore sul mancato intervento del legislatore, non e' giustificabile ne' la conservazione di norme illegittime, ne' la loro modifica tramite le sentenze "leggi" non in sintonia con l'art. 136 della Costituzione, poiche' non rispondenti ai poteri ed obblighi attribuiti dalla Costituzione al giudice delle leggi, mentre non puo' dimenticarsi, in primo luogo, che il sistema giuridico e' in grado di sanare in parte i vuoti normativi in sede giudiziaria, in secondo luogo, che la responsabilita' del legislatore inadempiente puo' essere sanzionata politicamente in sede di manifestazione del voto popolare e, in terzo luogo, che esistono nella societa' forti strumenti di pressione politica per indurre il legislatore a legiferare. Non sembra necessaria una motivazione ulteriore sulla fondatezza e sulla rilevanza delle questioni sopra trattate, stanti gli argomenti sviluppati in relazione ai precisi riferimenti normativi costituzionali indicati sui singoli temi, di certo sufficienti per escludere, quanto meno, la manifesta infondatezza di tutti i rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi, i quali, comunque, rivestono grande importanza, sia in ordine alla ricerca della massima forza di resistenza della sentenza che dovra' essere emanata per la risoluzione della presente controversia (e delle altre pendenti, aventi simile, o identico contenuto), sia in relazione al necessario riesame delle tesi critiche sopra esposte sulle sentenze "legislative" della Consulta, alla luce degli argomenti giuridici che, in caso di eventuale pronuncia negativa, la Corte costituzionale riterra' di sviluppare in sede di motivazione, giacche' questo giudice ben potrebbe mutare opinione e di certo dovrebbe, se le considerazioni della Corte dovessero evidenziare sostanziali errori di diritto nell'impostazione delle tesi qui sostenute, o gravi lacune nell'individuzione delle norme di legge rilevanti per la corretta soluzione delle problematiche discusse, tali da dimostrare in modo incontrovertibile l'infondatezza totale dei presupposti logico giuridici della giurisprudenza di questo pretore sui temi qui trattati. Benche' si sia affermato in modo esplicito che le questioni di legittimita' costituzionale rimesse all'esame della Corte costituzionale non sono essenziali per la decisione della causa, il presente giudizio pretorile deve essere sospeso ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, tuttora vigente, pur se anch'esso imputato d'incostituzionalita'.