IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 1363/1995 contro Giliberto Salvatore e Caccamo Giorgio, imputati dei reati di furto aggravato e altro; sulla richiesta dell'ufficio sanitario della casa circondariale di Giarre, trasmessa in data 22 novembre 1995, avente ad oggetto: "Applicazione legge n. 222 del 14 luglio 1993 nei confronti del detenuto Giliberto Salvatore, nato ad Ispica (Ragusa) in data 23 aprile 1959"; viste le informative richieste all'ufficio rogante in data 24 novembre 1995 e da questo rese in data 6 dicembre 1995. 1. - Va anzitutto ritenuto che la competenza a provvedere sulla richiesta, attivata, ai sensi del richiamato primo comma dell'art. 286-bis, dal servizio sanitario della casa circondariale di Giarre, dove il Giliberto in atto trovasi in stato di custodia cautelare a seguito della sentenza di condanna pronunciata da questo pretore nel giudizio direttissimo tenutosi all'udienza del 23 ottobre 1995, spetta al decidente, atteso che, pur in presenza di rinuncia all'impugnazione da parte dell'imputato (trasmessa in data 5 dicembre 1995), non e' ancora decorso il termine di cui al combinato disposto degli artt. 585, primo comma, lett. b) e secondo comma lett. d), u.p., in relazione all'art. 544, comma secondo del codice di procedura penale per l'appello del procuratore generale (avviso di deposito ed estratto della sentenza comunicati in data 17 novembre 1995). 2. - Tanto premesso nel rito e per venire al caso di specie, si osserva che l'art. 286-bis del codice di procedura penale, introdotto dall'art. 1 del d.-l. 14 maggio 1993, n. 139, convertito in legge 14 luglio 1993, n. 222, costituisce norma di favore nei confronti dei malati di AIDS in stato di custodia cautelare, i quali si trovino in uno stadio di malattia tale da doversi ritenere incompatibile con lo stato di detenzione. La sussistenza di tale condizione, che comporta la remissione in liberta' dell'imputato ovvero l'applicazione nei suoi confronti della misura degli arresti domiciliari, e' dichiarata dal giudice nel caso di AIDS conclamata (c.d. incompatibilita' presunta), ovvero e' ritenuta dal giudice, anche se non ricorre l'ipotesi di AIDS conclamata, nel caso di grave deficienza immunitaria. Con riguardo alla prima ipotesi cui, atteso il riferimento all'AIDS conclamata, sembra riferirsi la richiesta in esame, va aggiunto che la decisione del giudice deve conformarsi a criteri e parametri prefissati (che sono quelli stabiliti, ai sensi del secondo comma, u.p. della norma in esame, con decreto emanato dal Ministro della sanita' di concerto con quello di grazia e giustizia). 3. - Poiche' il tenore della richiesta, pur nella sua genericita' ("applicazione della legge n. 222 del 14 luglio 1993"), non puo' che riguardare l'escarcerazione del Giliberto (il cui "caso" si "ritiene (...) rientri tra quelli dell'art. 1 del d.-l. 14 maggio 1993, n. 139" - cosi' testualmente la richiesta del sanitario), e' d'uopo, ai fini della presente pronuncia, prendere le mosse dalla recente sentenza n. 439 del 18 ottobre 1995, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato "l'illegittimita' costituzionale dell'art. 286-bis, primo comma, del codice di procedura penale, nella parte in cui stabilisce il divieto di custodia cautelare in carcere (...) anche quando sussistono le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza di cui all'art. 275, quarto comma (...) e l'applicazione della misura possa avvenire senza pregiudizio per la salute del soggetto e di quella degli altri detenuti". La sentenza, la quale utilizza gli stessi parametri argomentativi svolti nella sentenza n. 438 resa in pari data (e con la quale e' stata dichiarata l'incostituzionalita' in parte qua, della parallela norma di cui all'art. 146 del codice penale), muove, nella sostanza, da una revisione critica di precedenti pronunce di rigetto (cfr. per tutte, le sentenze n. 70/1994 e n. 308/1994), le quali, pur ammettendo la gravita' dei rilievi mossi dai remittenti (principalmente in ordine al pericolo per la sicurezza pubblica e la incolumita' delle persone, proveniente da soggetti nei confronti dei quali la norma in questione finirebbe sostanzialmente per introdurre una "clausola d'immunita'" che priva detti soggetti "della soggettivita' penale" - cosi' il tribunale di Torino, nelle ordinanze di remissione del 15 e 22 dicembre 1992 - e in ordine alla disparita' di trattamento con altri soggetti in custodia pur affetti da gravi patologie diverse dall'AIDS), tuttavia non avevano ritenuto di ravvisare alcuna ipotesi di eccesso normativo. Nelle ricordate pronunce, infatti, la Corte delle leggi aveva escluso, con riguardo al primo profilo, che "l'eventuale lacunosita' dei servizi di sicurezza" potesse "costituire, in se' e per se', ragione sufficiente per incrinare la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare" e, cioe', "il bene della salute nello specifico contesto carcerario" e aveva aggiunto che "qualora la norma in esame fosse ritenuta non conforme ai principi costituzionali per il solo fatto che dalla sua applicazione possano in concreto scaturirne situazioni di pericolosita' per la sicurezza collettiva, ne conseguirebbe che all'esecuzione della pena verrebbe assegnata, in via esclusiva, una funzione di prevenzione generale e di difesa sociale, obliterandosi in tal modo quella eminente finalita' rieducativa (...) che certo informa anche l'istituto del rinvio che qui viene in discorso" (cosi' la sentenza n. 70/1994). Con riguardo al secondo profilo aveva osservato la Corte che non poteva ravvisarsi alcuna "discriminazione (...) tra malati ''comuni'' e persone affette da AIDS, in quanto le caratteristiche affatto peculiari che contraddistinguono quest'ultima sindrome adeguatamente giustificano un trattamento particolare, che, giova ribadirlo, si incentra sulla necessita' di salvaguardare il bene della salute nello specifico contesto carcerario: una finalita', dunque, eterogenea rispetto ad altre gravi malattie" (argomento questo utilizzato anche per escludere l'ipotizzato contrasto con gli artt. 27, terzo comma e 32, primo comma, della Costituzione che impongono la prova in concreto che l'applicazione della pena lede il fondamentale diritto alla salute o si risolva in un trattamento contrario al senso di umanita'). 4. - Va da se' che la norma sottoposta a revisione costituzionale (e, dunque, lo stesso presupposto argomentativo dei giudici remittenti e delle sentenze di rigetto della Corte) non avrebbe ragione di esistere se, come e' stato osservato e come ha, nelle stesse sentenze richiamate, piu' volte auspicato la stessa Corte, gli istituti carcerari fossero, anzitutto, dimensionati e adeguati, oltre che alle esigenze custodiali, anche alla popolazione carceraria e ai principii di civilta' che esigono il trattamento umanitario delle persone soggette a restrizione della liberta' personale, e, per cio' che riguarda il problema che ci occupa, convenientemente attrezzati con l'istituzione delle strutture terapeutiche e ricettive richieste dalla gravita' e peculiarita' della patologia conseguente a gravi malattie (compresa, naturalmente, quella derivante dalla infezione da HIV) e ai detenuti che ne sono affetti. Orbene, la Corte, con la sentenza del 18 ottobre 1995, partendo dalla constatazione che non e' stata attivata o e' stata inadeguatamente attivata l'"intera gamma di presidi e provvidenze che nei confronti dei malati di AIDS erano stati previsti dalla legge 5 giugno 1990, n. 135 e dallo stesso d.-l. n. 139 del 1993", ha, innovando rispetto alle precedenti decisioni, ora ritenuto che "la custodia cautelare in carcere sembra (...) adottabile anche nei confronti delle persone che versino in condizioni di incompatibilita' con la misura carceraria", sia pure nella sola ipotesi, prevista dall'art. 275, quarto comma, del codice di procedura penale, come sostituito dell'art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, vale a dire "allorche' esigenze cautelari di eccezionale rilevanza facciano ritenere inadeguata ogni altra misura", non senza raccomandare, "ovviamente, l'attivazione (...) di tutti gli istituti che l'ordinamento prevede al fine di assicurare il fondamentale bene della salute" nei confronti dei soggetti considerati. 5. - Va qui subito detto che, in ogni caso, siccome risulta dallo stesso dato testuale offerto dall'art. 286-bis, primo comma, u.p., l'insussistenza dell'"eccezionale rilevanza", non fa venir meno tout court l'esigenza della custodia fuori dall'ambito carcerario. Ma, se questo e' vero, e' altresi' vero che continua a rimanere, in concreto, assai ardua l'attuazione di presidi e cautele in tema di arresti domiciliari, specie nei confronti di persone che hanno gia' superato, a seguito dell'accertata patologia, ogni remora al compimento di reati per una sorta di sindrome da "non ritorno", tipica di chi ritiene di aver piu' nulla da perdere, non solo per la prognosi infausta, ma anche per la certezza di non dover subire la restrizione della liberta' in carcere (per cui, come la stessa Corte rileva, ogni misura alternativa a quella carceraria, nei casi in esame, mancando "la volonta' adesiva di chi vi e' sottoposto", ha "finito per atteggiarsi alla stregua di un provvedimento meramente liberatorio, senza alcuna concreta possibilita' di coercizione"). A prescindere da cio', resta, in ogni caso, da vedere in qual modo possa conciliarsi il concetto (e la finalita') della norma di cui all'art. 286-bis, che prescrive l'incompatibilita' tra la patologia e la misura carceraria (sul punto non vulnerata da incostituzionalita') con il mantenimento della misura ... incompatibile. In effetti, la sussistenza dell'eccezionale rilevanza, stando a quanto si ricava dal dictum della Corte, non fa venir meno l'incompatibilita', ma, cio' nonostante, fa si che essa divenga, per necessita' di cose e in casi particolari, compatibile. In altri termini, solo la presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza sembra far si che il giudice possa procedere alla comparazione tra le necessita' custodiali e la salute del malato e degli altri detenuti. Insomma, rimane da vedere in qual modo possa conciliarsi il concetto (e la finalita') della norma che introduce una sorta d'incompatibilita' "a priori" tra la patologia e la misura carceraria, con il mantenimento della carcerazione. Invero, non e' chi non veda come il concetto stesso di incompatibilita' implichi di per se' un pregiudizio per la salute del soggetto e quella degli altri detenuti (essendo, il pregiudizio, presunto dalla malattia in se') e dovrebbe valere ad escludere ogni possibilita' di bilanciamento con le ipotizzate "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", le quali, peraltro, gia' erano previste dall'art. 275, quarto comma, utilizzato dalla sentenza al fine di emendare la portata della norma soggetta a revisione costituzionale. Tali esigenze devono, infatti, in ogni caso valutarsi fin dal momento in cui la misura viene "disposta", in tutti i casi in cui l'imputato si trovi "in condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detetenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere" (cosi', l'art. 275, quarto comma, inizialmente modificato dall'art. 1 del d.-l. n. 292/1991, convertito nella legge n. 356/1991, come sostituito, da ultimo, dall'art. 5, secondo comma, della legge 8 agosto 1995, n. 332). Per la verita', la norma predetta, nella sua ultima stesura (che, a quanto pare, risente degli indirizzi e delle istanze che hanno portato all'emanazione dell'art. 286-bis), contiene gia' in se' il germe dell'equivoco, laddove, a differenza di quanto avveniva in precedenza, ammette il mantenimento della custodia in carcere anche quando questa sia "incompatibile" con le condizioni di salute: una cosa e', infatti, prevedere (come avveniva in precedenza) una situazione che, in concreto, non consente la cura in carcere, e, quindi, implica l'escarcerazione, a seguito dell'accertata incompatibilita', ai soli fini della cura e un'altra e' ipotizzare una situazione che presuppone una dicotomia per cosi' dire ontologica tra due soluzioni: e, cioe', da una parte la necessita' dell'escarcerazione per l'assoluta incompatibilita' con la custodia in carcere comunque attuata e, dall'altra, la necessita' del mantenimento ultra vires del trattamento custodiale carcerario. Cio' che, comunque, continua a distinguere la norma di cui all'art. 275, quarto comma da quella dell'art. 286-bis, e' il fatto che, a prescindere dalla dicotomia supra rilevata (comune ad entrambe), mentre nella prima l'escarcerazione viene prevista a seguito di un'incompatibilita' accertata "in concreto" e "a posteriori", nonche' al solo fine della cura (e per il periodo imposto dalla terapia), ragione per cui si tratterebbe di un'incompatibilita' pur sempre relativa e provvisoria, nella seconda l'escarcerazione - esclusa (oggi) la deroga costituita dalle "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza" - viene imposta "a priori" per il fatto in se' della malattia, a prescindere dalle esigenze terapeutiche e dalla loro attuabilita' in carcere. Corrispondentemente, il mantenimento della custodia in carcere, nel primo caso non si pone in termini antinomici con l'incompatibilita' (relativa), essendo escluso solo nel momento in cui l'emergenza terapeutica sia talmente impellente da rendere attuabili e relativamente agevoli (anche per la temporaneita' dell'intervento e per l'obiettiva gravita' del male) le misure atte a tutelare le esigenze di tutela della collettivita' per il periodo strettamente riservato alla cura, mentre nel secondo caso non potrebbe mai conciliarsi con la situazione di incompatibilita' costituita dal fatto in se' della malattia. Il che vale a maggior ragione nel caso in cui la malattia non e' soggetta (allo stato delle conoscenze scientifiche) a remissione, regressione o guarigione, ma, viceversa, e' destinata ad aggravarsi sempre piu', come avviene nel caso dell'AIDS conclamata (questa che, tuttavia, finche' non si perviene allo stadio terminale, nonche' attenuare l'aggressivita' del malato, ne accentua spesso, come s'e' visto, la potenzialita' offensiva nei confronti del contesto sociale). 6. - In definitiva, l'art. 286-bis, cosi' come risulta a seguito della sentenza n. 439/1995, assegna al giudice di' merito il non agevole e, a sommesso parere del decidente, (allo stato) insolubile compito di risolvere, sul piano attuativo, un'anfibologia che non sembra offrire spazi di manovra, quanto meno sotto l'aspetto logico e, quel che piu' conta, nell'ipotesi in cui non si ravvisi l'ipotesi di deroga all'escarcerazione, gli impone la responsabilita' di una decisione che, escludendo la tutela custodiale, esclude anche, nella sostanza la possibilita' di controllo su imputati ad alto rischio con prevedibili conseguenze estremamente dannose, non solo per la societa', ma anche per gl'imputati medesimi. Inoltre, superato tale primo ostacolo, e' pur sempre necessario stabilire se ricorrano le "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza" che (costituendo il primo corno del dilemma) imporrebbero, sulla scorta della decisione della Corte, il mantenimento della custodia altrimenti vietata dalla conclamata e riaffermata incompatibilita' "a priori", nonche', ulteriormente se non sussista, all'interno dell'istituzione carceraria, "pregiudizio per la salute del soggetto e degli altri detenuti" (che costituisce il secondo corno del dilemma). Solo una volta esclusa la sussistenza di tali esigenze, occorrera' ulteriormente stabilire se escarcerare puramente e semplicemente l'imputato, ovvero disporre nei suoi confronti altre misure coercitive, sia pure piu' attenuate rispetto a quella in carcere. 7. - Tanto premesso sul piano metodologico, si osserva che le informative assunte presso la casa circondariale di Giarre, consentono di ritenere che, tale istituto (cosi' come, a quanto pare, altre strutture carcerarie che, come quella di Giarre, dovrebbero pur essere destinate ai malati di AIDS), non e' dotato (stando a quanto riferisce il sanitario dott. Sisali), di reparti ospedalieri tali da consentire la compatibilita' tra le condizioni di salute dei detenuti affetti da AIDS con le esigenze di custodia in carcere. Cio', tuttavia, alla luce della ricordata sentenza n. 439/1995, non e' piu' sufficiente a imporre l'escarcerazione. Invero, l'emergenza provocata dalla cronica e costante mancata attuazione della legge, seppure non puo' giustificare l'inosservanza della legge stessa, non puo' neppure giustificare il disinvolto superamento della pronuncia d'incostituzionalita'. La quale, sul piano logico, non puo' che intendersi nel senso del venir meno - in presenza delle ricordate esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - dell'incompatibilita' assoluta e "a priori" siccome inizialmente configurata dall'art. 286-bis del codice di procedura penale (e siccome, del resto, gia' presa in considerazione prima del d.-l. n. 139/1993, come dimostra la circolare del Ministero di grazia e giustizia n. 3267/5717 in data 3 giugno 1989, dove l'AIDS viene ritenuta una patologia tale da risultare "assolutamente incompatibile con il permanere del soggetto in stato carcerario"). Comunque sia, la Corte, affermando la possibilita' (rectius: la necessita') del mantenimento della custodia in carcere, sia pure nell'ipotesi di cui all'art. 275, quarto comma, ha, in buona sostanza, ritenuto che non sussista piu' una incompatibilita' assoluta, neppure nelle ipotesi di AIDS conclamata o ad esse assimilate. Tale incompatibilita' tuttavia permane, come s'e' visto, in assenza delle condizioni che, a seguito della pronuncia d'incostituzionalita', giustificano la deroga, visto che lo stato di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria ritenuta dal giudice, continuano a costituire, in tal caso, un elemento in se' sufficiente a imporre l'escarcerazione, a prescindere da ogni valutazione in concreto circa l'effettivo stato di salute del detenuto e la stessa potenzialita' diffusiva della malattia (che, a tutto ammettere, anche a non considerare le note questioni in ordine alla trasmissibilita' del virus, andrebbe anche valutata tenendo conto, se non altro, della personalita' del malato e del grado di promiscuita' e di sovraffollamento esistente nella struttura carceraria). La questione, in effetti, assume precipua rilevanza considerando che, viceversa, con la sentenza n. 438/1995, la Corte sembra aver tout court eliminato, con riguardo all'art. 146, primo comma, n. 3 del cod. pen., siccome aggiunto dall'art. 2 del d.-l. 14 maggio 1993, n. 139, proprio tale incompatibilita' "a priori", laddove esclude che il differimento dell'esecuzione della pena, nei confronti della persona affetta da AIDS, anche nei casi d'incompatibilita' previsti dall'art. 286-bis, possa aver luogo a prescindere dalla valutazione "in concreto delle effettive condizioni di salute del condannato" e dalla loro "compatibilita' con lo stato detentivo". Non si comprende, peraltro, perche' mai tale incompatibilita' per cosi' dire "a priori" - ammesso che sia giustificata (ma, per le considerazioni che precedono, non pare lo sia) - debba valere solo per l'AIDS e non per altre malattie gravissime e perfino piu' contagiose e virulente. Tali, ad esempio, le epatiti di tipo B e C, che, avendo, capacita' di veicolazione certamente superiore all'AIDS, risultano ben piu' pericolose per la salute della stessa popolazione carceraria, pur dichiarata prevalente rispetto a quella indifferenziata (e, forse per cio', assai meno protetta) della popolazione extracarceraria. Non si comprende, in buona sostanza, il trattamento differenziato voluto dall'art. 286-bis per gli ammalati di AIDS e riaffermato (sia pure limitatamente ai casi in cui non ricorra l'ipotesi di deroga all'escarcerazione), anche con la pronuncia d'incostituzionalita', dalla Corte, la quale, mantenendo solo per essi l'incompatibilita' "a priori", sembra ancora privilegiare, almeno per cio' che riguarda la norma in esame, la differenza tra "malati ''comuni'' e persone affette da AIDS" (cfr. la sentenza n. 70/1994) accolta da larga parte dell'opinione pubblica sulla spinta dell'allarme suscitato da quella che con linguaggio massmediale terroristico viene definita la "peste del secolo". E', infatti, facile rilevare al riguardo, che non si sono mai posti problemi di sorta con riguardo alla custodia carceraria di ammalati di epatite B o C, i quali, per quanto consta, vengono regolarmente ricoverati nei centri clinici carcerari. 8. - Non v'e' dubbio, comunque, che la lettura "costituzionale" della norma imponga oggi di verificare prioritariamente non tanto il requisito della incompatibilita'" e, tanto meno, il requisito della sussistenza di idonee strutture carcerarie, le quali, se non altro, a seguito della sentenza della Corte e del pesante monito in essa contenuto, dovrebbero comunque essere sollecitamente apprestate (ma, more solito non lo saranno), quanto, viceversa, quello delle "esigenze cautelari di particolare rilevanza". Ond'e' che, solo ove queste non sussistano, torna ad assumere rilevanza preminente quella tale "incompatibilita' a priori" che osta al mantenimento della custodia in carcere. Invero, l'assenza di pregiudizio per la salute dell'imputato e di quella degli altri detenuti, che la Corte aveva, in precedenza, assunto come prevalente parametro di costituzionalita' meritevole di tutela, ha finito, con le sentenze nn. 438 e 439/1995, per essere affiancata dalla necessita' di tutela della collettivita', che, seppure nella sola ipotesi delle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, torna a essere prevalente rispetto alla prima. Inoltre, poiche' l'assenza di pregiudizio, come ha osservato la stessa Corte puo' e deve essere esclusa con l'attuazione delle strutture ospedaliere intracarcerarie (ma, per vero, le comunita' terapeutiche e rieducative piu' avanzate - vedasi la comunita' di San Patrignano - hanno gia' realizzato strutture del genere, come al solito precedendo lo Stato), non e' chi non veda come essa, ove fosse ritenuta alla stregua di requisito condizionante per il mantenimento della misura di custodia in carcere, finirebbe per risolversi in una inammissibile petizione di principio che renderebbe le pronunce della Corte prive di senso e, di fatto, inattuabili. Invero, nell'ipotesi in cui non siano state istituite e non venissero mai istituite le anzidette strutture (il che, anche se non auspicabile, e', purtroppo, prevedibile), si finirebbe per subordinare (come, mutatis mutandis, ha gia' rilevato la Corte), alla "eventuale lacunosita' dei servizi di sicurezza" (e sanitari) carcerari, "la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare", valori che, alla luce delle sentenze in esame sono (finalmente ora) rappresentati anche dalla sicurezza sociale, oltre che dal "bene della salute nello specifico contesto carcerario". In tale ottica va, dunque, vista l'ultima parte del dispositivo della sentenza n. 439/1995, atteso, peraltro, che, in seno alla parte motiva, il riferimento all'"attivazione (...) di tutti gli istituti che l'ordinamento prevede al fine di assicurare il fondamentale bene della salute", non puo' che intendersi alla stregua di un auspicio, non certo di una condicio sine qua non per mantenere la carcerazione nell'ipotesi di deroga considerata (il che equivarrebbe a una deroga alla deroga). 9. - Cio' posto, e per venire all'indagine sulla sussistenza delle esigenze cautaleri di eccezionale rilevanza, la scarna relazione dell'educatore dell'istituto carcerario non offre certo consistenti spunti argomentativi, limitandosi a notiziare genericamente circa la ("condotta regolare" del Giliberto, nel quale, si ha cura di aggiungere, tuttavia, si nota la presenza di "uno stato di notevole prostrazione e scoramento". Che tale sindrome sia dovuta allo stato di detenzione in se' (e, quindi da considerare in qualche modo "fisiologica" e connaturata alla situazione, certamente frustrante, del recluso), ovvero discenda dallo stato di malattia (e, quindi, suscettiva di ingravescenza a causa della detenzione), non e' dato ricavare, mancando ogni accenno al riguardo e mancando, altresi', la richiesta relazione dello psicologo (evidentemente non presente nell'istituto). Appare, nondimeno, sintomatico che il Giliberto non abbia chiesto di essere autorizzato a esercitare attivita' lavorativa. L'atteggiamento del Giliberto, invero, sembra conformarsi a uno stato di apatia caratteriale tipico di molte devianze giovanili, nelle quali, al difetto di interazione sociale, si affianca l'assenza di ogni interesse a impegnarsi in attivita' utili ed emendative e di parametri etici minimi atti a distinguere il valore e il disvalore delle azioni. In tale contesto, il fatto che il Giliberto mantenga ("buoni (...) rapporti (...) sia con gli operatori penitenziari che con gli altri compagni di detenzione" appare, a tutto dire, anodi'no, posto che la ("normalita'") della condotta non e' indice univoco di resipisciente atteggiamento in favore della legalita' e di volonta' di inserimento nel contesto sociale. Essa, viceversa, e', per lo piu', indice del modo di manifestarsi una impotenza reattiva indotta dalla coscienza dello stato di carcerazione, o, viceversa, della preordinata attuazione di una apparente ("buona condotta" al fine di lucrare i benefici previsti dall'ordinamento carcerario, ma e' soggetta a venir meno allorche', per il mutamento delle condizioni umorali, vengano meno le remore attivate da freni inibitori in genere assai deboli in soggetti del genere, ovvero allorche' non si ritenga piu' utile e fruttuoso l'atteggiamento di apparente assoggettamento alle regole. Viceversa, l'indole violenta e anomica del Giliberto viene evidenziata, al di la' di ogni epidermica valutazione (e in assenza di approfonditi e prolungati periodi di osservazione e di approfondite relazioni da parte dei servizi carcerari), dal certificato del casellario giudiziale, dal quale si ricava che l'imputato ha commesso, nel giro di appena pochi anni, una serie quasi ininterrotta di reati (tra i quali appaiono assai significativi quelli in tema di porto di armi e di spaccio di stupefacenti) e ha continuato con i reati a seguito dei quali e' stato di recente giudicato e condannato. Come si vede, il Giliberto, non solo dimostra una proclivita' a delinquere estremamente accentuata, ma dimostra anche che egli si trova in una condizione di salute tale da consentirgli, a prescindere dalle patologie certamente esistenti, una costante e quasi frenetica attivita' delittuosa, la quale verosimilmente e' destinata ad accentuarsi proprio in funzione del venir meno dell'effetto deterrente della pena (al quale la stessa Corte fa cenno). Del resto e' ormai noto (e le ultime scoperte l'hanno confermato) che in molti casi, la presenza di enzimi antagonisti, pur non consentendo la regressione o la guarigione dall'AIDS (ma uguale discorso vale per le epatopatie), consente la protrazione per molti anni (anche decenni) di una condizione di vita attiva. 10. - La prognosi decisamente sfavorevole sul futuro comportamento dell'imputato che si trae dalle considerazioni che precedono non vale, tuttavia, a parere del decidente, a far ritenere, da sola, la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, evidentemente riconducibili a una situazione di accentuata pericolosita' sociale dell'imputato e desumibili solo da comportamenti delinquenziali che denotano una capacita' criminale e una pericolosita' sociale fuori dal comune. Senonche', non e' dato determinare i casi in cui si possa con certezza e univocamente ritenere sussistente l'eccezionalita' e i casi in cui questa possa in modo altrettanto certo e univoco ritenersi insussistente. Trattasi, invero, di un giudizio che, in mancanza di' parametri normativi certi, e' soggetto a differenti valutazioni e, quindi, anche a differenti soluzioni, pur in presenza di identici presupposti. E' appena il caso, al riguardo, di osservare che non puo' essere solo la "notorieta'" dell'imputato o la sua consacrazione massmediale nel gotha, della criminalita', o, sia pure, la sola eclatanza dei delitti da lui gia' compiuti, a farne ritenere l'eccezionale pericolosita' sociale, la quale, com'e' noto, molte volte e' latente e sussiste anche in soggetti con trascorsi criminali di non eccezionale rilievo. Ma e' proprio tale ultima constatazione che comporta la possibilita' di soluzioni diverse in casi simili e, quindi, di trattamenti differenziati, anche in presenza di uguali situazioni di fatto. 11. - Cosi' le cose, avuto riguardo alle considerazioni che precedono, sembra al decidente che l'art. 286-bis, primo comma, del codice di procedura penale debba nuovamente essere sottoposto a giudizio di legittimita' costituzionale, essendo indubbia la rilevanza della questione, dalla quale dipende la decisione sulla richiesta di scarcerazione del Giliberto. In particolare, alla luce delle sentenze nn. 438 e 439/1995 della Corte costituzionale (e, principalmente della prima) appare ormai non piu' giustificabile l'incompatibilita' assoluta e "a priori" mantenuta, in via residuale, dalla norma de qua, per i malati di AIDS nei confronti dei quali non sussistano le esigenza cautelari di eccezionale rilevanza: a) per violazione dell'art. 2 della Costituzione, laddove detta norma, prevedendo l'operativita' automatica dell'incompatibilita', a prescindere dall'effettivo stato di salute del malato, comporta l'esposizione a pericolo della salute e sicurezza collettiva, anche in assenza di un effettivo corrispondente (e uguale o maggiore) pericolo per la salute dell'imputato e degli altri detenuti; b) per violazione dell'art. 3 della Costituzione, laddove detta norma, pur essendo prevista per ammalati di AIDS che si trovino in identiche situazioni, e' soggetta a essere derogata, per alcuni di essi, sulla scorta di un elemento differenziatore che, essendo sostanzialmente lasciato a un giudizio non collegato a parametri normativi univoci, comporta la possibilita' di trattamenti differenziati in presenza di situazioni uguali; c) per violazione degli artt. 13 e 25, secondo comma della Costituzione, laddove detta norma, per la ricordata impossibilita' di adottare criteri di giudizio univoci nell'individuazione dell'elemento (l'eccezionalita') che determina il trattamento differenziato e, quindi, la restrizione della liberta' personale, non appare rispondente al principio di tassativita'; d) per violazione dell'art. 32 della Costituzione, laddove detta norma, comportando l'escarcerazione automatica e sine die, a prescindere da una accertata, effettiva, concreta esigenza terapeutica, di soggetti nei cui confronti e' stata ritenuta la necessita' della custodia cautelare in carcere, espone a elevato rischio la salute e la sicurezza sociale, le quali, in tal modo, vengono a essere lese perfino in mancanza di pari o, sia pur prevalente valore costituzionalmente protetto; e) per violazione degli artt. 2 e 32 della Costituzione, laddove detta norma subordina le esigenze di tutela della collettivita' a una situazione di emergenza custodiale determinata dalla mancata attuazione della legge in tema di presidi e strutture atti a salvaguardare la salute dei soggetti affetti da AIDS e dei detenuti con essi conviventi cosi' ingiustificatamente sacrificando la sicurezza e la salute dei cittadini alla inerzia della p.a.