ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 16 del decreto
 legislativo 10 novembre 1993, n.  470  (Disposizioni  correttive  del
 decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, recante razionalizzazione
 dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della
 disciplina  in materia di pubblico impiego), che ha sostituito l'art.
 48 del decreto legislativo 3  febbraio  1993,  n.  29,  promosso  con
 ordinanza  emessa  il  15  giugno  1994  dal Tribunale amministrativo
 regionale del Lazio sul ricorso proposto da Calcarami Amedeo ed altri
 contro l'Istituto nazionale  di  previdenza  per  i  dirigenti  delle
 aziende industriali (INPDAI) ed altro iscritta al n. 518 del registro
 ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Visti  gli  atti di costituzione di Calcarami Amedeo e dell'INPDAI,
 nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
   Udito  nella  udienza  pubblica  del  6  febbraio  1996  il giudice
 relatore Enzo Cheli;
   Uditi gli avvocati  Gaetano  Lepore  per  Calcarami  Amedeo,  Luigi
 Medugno  per l'INPDAI e l'Avvocato dello Stato Gian Paolo Polizzi per
 il Presidente del Consiglio dei ministri.
                            Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso di un giudizio  instaurato  dai  rappresentanti  del
 personale nel consiglio di amministrazione dell'Istituto nazionale di
 previdenza  per  i  dirigenti  di  aziende  industriali  (INPDAI) per
 chiedere l'annullamento  del  decreto  del  Ministro  del  lavoro  14
 dicembre  1993  con  il  quale  era stata disposta la loro esclusione
 dallo stesso consiglio, il  Tribunale  amministrativo  regionale  del
 Lazio,  con ordinanza del 15 giugno 1994 ha sollevato, in riferimento
 all'art.  76  della  Costituzione,  la  questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art.  16 del d.lgs. 10 novembre 1993, n. 470, che
 ha  sostituito  l'art.    48  del  d.lgs.  3  febbraio  1993,  n.  29
 (Razionalizzazione    dell'organizzazione    delle    amministrazioni
 pubbliche  e  revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico
 impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre  1992,  n.  421),
 nelle parti in cui:
     a) prevede la soppressione della rappresentanza del personale nei
 consigli  di amministrazione degli enti pubblici, in violazione della
 legge n. 421 del 1992, che, all'art.  2,  primo  comma,  lettera  a),
 attribuisce  al  Governo  il  potere  di  prevedere  nuove  forme  di
 partecipazione   delle   rappresentanze   del   personale   ai   fini
 dell'organizzazione del lavoro, e non quello di legiferare in materia
 di consigli di amministrazione degli enti pubblici;
     b)  dispone  l'abrogazione  con  effetto immediato, senza dettare
 alcuna disciplina transitoria, delle norme  che  prevedono  forme  di
 rappresentanza  del  personale  nei consigli di amministrazione delle
 amministrazioni pubbliche di  cui  all'art.  1,  secondo  comma,  del
 d.lgs.    n. 29 del 1993, rinviando alla contrattazione collettiva la
 nuova  disciplina  della  partecipazione  delle  rappresentanze   del
 personale all'organizzazione del lavoro.
   Il  giudice  a quo ritenendo preliminare l'esame della questione di
 costituzionalita' ai fini  della  decisione  sulla  legittimita'  del
 decreto  ministeriale  impugnato  dai  ricorrenti, osserva che con la
 legge n. 421 del 1992 il Governo e' stato delegato ad emanare  uno  o
 piu'  decreti legislativi nel settore del pubblico impiego diretti al
 contenimento della spesa, al miglioramento  dell'efficienza  ed  alla
 riorganizzazione  di  questo settore. In tale ambito la stessa legge,
 all'art. 2, primo comma, lettera a), ha previsto  la  delega  per  la
 disciplina  di nuove forme di partecipazione delle rappresentanze del
 personale   ai   fini   dell'organizzazione    del    lavoro    nelle
 amministrazioni.    In  attuazione  di tale previsione, l'art. 48 del
 d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall'art. 16 del d.lgs. n. 470
 del  1993,  ha  disposto  l'abrogazione  immediata  delle  norme  che
 stabilivano   ogni  forma  di  rappresentanza,  anche  elettiva,  del
 personale nei consigli di amministrazione di tutte le amministrazioni
 pubbliche indicate all'art. 1,  secondo  comma,  del  d.lgs.  n.  29,
 rinviando  alla  contrattazione  collettiva  la  definizione di nuove
 forme di partecipazione delle rappresentanze del personale.
   Ad avviso del giudice rimettente, la norma impugnata violerebbe  il
 criterio  direttivo di cui all'art. 2, primo comma, lettera a), della
 legge n. 421, dal momento che la  rappresentanza  del  personale  nei
 consigli  di  amministrazione  sarebbe  fattispecie diversa da quella
 prevista dallo stesso articolo, con riferimento  alla  partecipazione
 delle  rappresentanze  del  personale ai fini dell'organizzazione del
 lavoro.  In  particolare,  nell'ordinanza   si   afferma   che   tale
 partecipazione  non riguarderebbe i consigli di amministrazione degli
 enti pubblici,  poiche'  questi  sono  organi  di  gestione  generale
 dell'ente   con   competenze   ben  piu'  ampie  di  quelle  connesse
 all'organizzazione del lavoro.  La rappresentanza del personale negli
 organi di gestione  non  sarebbe,  infatti,  secondo  il  rimettente,
 finalizzata  alla  sola  organizzazione  del  lavoro,  ma prevista in
 funzione del controllo in senso lato affidato ad  una  componente  di
 minoranza.
   Sotto   diverso  profilo,  l'ordinanza  rileva  che,  pur  a  voler
 ammettere  che  nell'istituto  della  partecipazione  del   personale
 all'organizzazione del lavoro possa rientrare anche la rappresentanza
 del  personale negli organi degli enti pubblici di gestione, la legge
 n. 421 del 1992 non autorizzava comunque il Governo ad  abrogare  con
 effetti  immediati  la  normativa in vigore in tema di rappresentanza
 del personale nei consigli di amministrazione ed a rinviare la  nuova
 disciplina alla contrattazione collettiva. In tal senso, il giudice a
 quo  ritiene  che l'assenza di contestualita' tra l'abrogazione delle
 norme vigenti e la previsione delle  nuove  forme  di  partecipazione
 delle rappresentanze del personale - nonche' la mancata previsione di
 una   disciplina  transitoria  in  grado  di  condizionare  l'effetto
 abrogante all'entrata in vigore della normativa contrattuale -  violi
 il principio espresso nella legge di delegazione.
   2.  -  Nel  giudizio  davanti  alla Corte ha spiegato intervento il
 Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
 dall'Avvocatura  generale  dello Stato, per chiedere che la questione
 sollevata sia dichiarata infondata.
   L'Avvocatura osserva che con l'art. 2 della legge n. 421  del  1992
 e'   stato   avviato   un   ampio   rinnovamento  delle  strutture  e
 dell'organizzazione  del  lavoro  nelle   pubbliche   amministrazioni
 prevedendo  quali  punti caratterizzanti la separazione tra i compiti
 di  direzione  politica e quelli di direzione amministrativa, nonche'
 l'affidamento ai dirigenti di autonome  responsabilita',  concernenti
 la  gestione  delle  risorse  umane  e  strumentali,  allo  scopo  di
 accrescere  l'efficienza  delle  pubbliche  amministrazioni.  Secondo
 l'Avvocatura,   se   esaminata  in  questa  prospettiva,  la  materia
 dell'organizzazione   del   lavoro   non    riguarderebbe    soltanto
 l'apprestamento  dei  mezzi, ma comprenderebbe anche la realizzazione
 di precise finalita' gestionali, nel  cui  ambito  va  ricondotta  la
 disciplina  relativa  ai  consigli di amministrazione.   A riprova di
 questa conclusione, nella memoria si osserva  che  l'attribuzione  ai
 dirigenti  di  rilevanti  responsabilita' gestionali comporta che non
 possano essere mantenute forme di rappresentanza del personale  negli
 organi  collegiali  di  gestione  dal  momento che, come riconosce lo
 stesso  giudice  rimettente,   tali   rappresentanze   hanno   finora
 esercitato  funzioni  di controllo, essendo espressione del principio
 della    ponderazione    della    molteplicita'    degli    interessi
 nell'esplicazione delle attivita' istituzionali.
   In  riferimento  alla  seconda  censura,  concernente  la sfasatura
 temporale tra la soppressione delle preesistenti  rappresentanze  del
 personale  e  l'introduzione  della  nuova  disciplina  rimessa  alla
 contrattazione collettiva,  l'Avvocatura  ritiene  che  la  legge  di
 delegazione  non  imponga  ne' la contestualita' ne' la previsione di
 una normativa transitoria in materia, limitandosi soltanto a indicare
 la necessita' di innovare il sistema preesistente. Nella  memoria  si
 rileva anche che il legislatore delegante, quando ha voluto garantire
 una continuita' nel passaggio del rapporto di lavoro dalla disciplina
 del diritto amministrativo a quella del diritto privato, ha previsto,
 espressamente, l'emanazione di una disciplina transitoria.
   3.   -  Si  e'  costituito  in  giudizio  l'Istituto  nazionale  di
 previdenza per i  dirigenti  di  aziende  industriali  (INPDAI),  per
 chiedere  che  la questione sia dichiarata inammissibile o infondata,
 ovvero che sia disposta la restituzione degli atti al giudice  a  quo
 per un nuovo esame della rilevanza.
   Nella  memoria  depositata  la  difesa dell'INPDAI premette che, ai
 sensi dell'art. 1, terzo comma, della  legge  24  dicembre  1993,  n.
 537,  il  Governo  e'  stato  delegato  ad  emanare  norme  dirette a
 riordinare gli enti pubblici previdenziali,  e  che  tale  delega  e'
 stata  esercitata con l'emanazione del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509,
 che ha disposto la trasformazione, con decorrenza dal 1 gennaio 1995,
 di questi enti in associazioni o fondazioni. Con provvedimento del 22
 dicembre  1994  l'INPDAI  ha,   pertanto,   deliberato   la   propria
 trasformazione  in  fondazione,  approvando  contestualmente il nuovo
 statuto e i nuovi regolamenti.
   Questa trasformazione  della  natura  giuridica  dell'INPDAI,  resa
 necessaria  dalla  legge,  avendo  determinato  la soppressione degli
 organi preesistenti e la loro sostituzione con gli organi di  vertice
 della  nuova fondazione, imporrebbe, ad avviso dell'interveniente, la
 restituzione degli atti al giudice a quo per  un  nuovo  esame  della
 rilevanza  della  questione  sollevata.  Secondo  l'INPDAI,  infatti,
 dall'annullamento del decreto ministeriale  impugnato,  i  ricorrenti
 non  potrebbero  ricavare  alcun vantaggio giuridico, dal momento che
 risulterebbe impossibile ottenere oggi la reintegrazione in  seno  ad
 un organo ormai inesistente a causa della sopravvenuta trasformazione
 dell'istituto  previdenziale  in  questione  in  soggetto  di diritto
 privato.
   Passando all'esame del merito, la  difesa  dell'INPDAI  richiama  i
 principi  espressi  nell'art.  2  della  legge  n.  421 del 1992, per
 rilevare che da  tali  principi  si  desume  la  distinzione  tra  la
 disciplina  dell'organizzazione degli uffici e quella del rapporto di
 lavoro, nonche' la diversita' della fonte di regolamentazione dei due
 settori,  il  primo  demandato  alla  legge   e   il   secondo   alla
 contrattazione.  Richiamando  alcuni  recenti pareri del Consiglio di
 Stato, la memoria dell'INPDAI rileva che la  disposizione  impugnata,
 concernente   l'abrogazione  delle  norme  sulla  rappresentanza  del
 personale  nei  consigli  di  amministrazione,  avrebbe  attuato   il
 principio   della   separazione   tra   le  competenze  di  indirizzo
 politico-amministrativo (e le connesse funzioni e responsabilita' dei
 dirigenti), ed i compiti di controllo delle rappresentanze sindacali.
 La norma impugnata dovrebbe quindi essere ricompresa tra  quelle  che
 hanno  dato  attuazione  ai  molteplici criteri direttivi della legge
 delega.
   4. - Si e' costituito nel giudizio anche il sig. Amedeo  Calcarami,
 ricorrente  nel giudizio a quo quale rappresentante del personale nel
 consiglio di amministrazione dell'INPDAI.  L'interveniente  ribadisce
 le  argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione, osservando
 che l'unico principio della delega da porre  alla  base  della  norma
 impugnata e' quello dell'art. 2, primo comma, lettera a), della legge
 n.  421,  e  che  le  competenze  del  consiglio  di  amministrazione
 dell'ente previdenziale  in  questione  sono  piu'  ampie  di  quelle
 relative  all'organizzazione  del  lavoro,  comprendendo  la gestione
 complessiva dell'ente.
   In prossimita'  dell'udienza  la  parte  privata  ha  prodotto  una
 memoria per sviluppare le argomentazioni a sostegno delle conclusioni
 dell'atto  di costituzione e, in subordine, per richiedere alla Corte
 una sentenza interpretativa di rigetto  che  escluda  dall'ambito  di
 operativita'  della  norma  impugnata  i  consigli di amministrazione
 degli enti pubblici non economici disciplinati dalla legge n. 70  del
 1975.
   5. - Nel corso dell'udienza la difesa dell'INPDAI ha prodotto copia
 della  deliberazione  del  Consiglio  di amministrazione dello stesso
 ente adottata il 5 dicembre 1995, mediante la quale -  in  attuazione
 dell'art.  18,  secondo  comma, del decreto-legge 4 dicembre 1995, n.
 515 (reiterato con il decreto-legge 1 febbraio  1995,  n.  39)  -  e'
 stata  disposta  la revoca della delibera 22 dicembre 1994 (che aveva
 trasformato l'INPDAI  in  fondazione  di  diritto  privato),  con  il
 conseguente  ripristino  dell'originaria configurazione pubblicistica
 dell'ente.
                        Considerato in diritto
   1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio  dubita  della
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 16 del decreto legislativo 10
 novembre 1993, n. 470, che ha sostituito l'art.  48  del  d.lgs.    3
 febbraio   1993,  n.  29,  disponendo  in  tema  di  nuove  forme  di
 partecipazione all'organizzazione del lavoro nel pubblico impiego: ad
 avviso del giudice rimettente, infatti, la disposizione in  questione
 avrebbe  violato  l'art.  76  della  Costituzione  per aver posto una
 disciplina difforme dai criteri  direttivi  indicati  al  legislatore
 delegato  dall'art.    2,  primo  comma,  lettera  a), della legge 23
 ottobre  1992,  n.  421,   recante   Delega   al   Governo   per   la
 razionalizzazione  e  la  revisione  delle  discipline  in materia di
 sanita',  di  pubblico  impiego,   di   previdenza   e   di   finanza
 territoriale.  L'eccesso di delega viene contestato sotto due profili
 diversi e cioe' per avere la disposizione impugnata disposto:
     a)  la  soppressione  delle  rappresentanze  del  personale   nei
 consigli   di   amministrazione   delle   amministrazioni  pubbliche,
 incidendo su fattispecie diversa da quella prevista  dalla  legge  di
 delegazione,  dove  si richiamano soltanto le forme di partecipazione
 delle   rappresentanze    del    personale    collegate    ai    fini
 dell'organizzazione  del  lavoro  nelle  amministrazioni e non quelle
 connesse a finalita' di controllo sull'attivita' gestionale;
     b) l'abrogazione con  effetto  immediato,  senza  dettare  alcuna
 norma  transitoria,  delle  norme  che  prevedono  qualsiasi forma di
 rappresentanza  del  personale  nei  consigli   di   amministrazione,
 rinviando   alla   futura   contrattazione  collettiva  nazionale  la
 definizione delle nuove forme di partecipazione.
   2. - Va preliminarmente disattesa l'eccezione  di  inammissibilita'
 prospettata nella memoria dell'Istituto nazionale di previdenza per i
 dirigenti di aziende industriali (INPDAI) per sopravvenuto difetto di
 rilevanza della questione sollevata.
   Tale  eccezione dovrebbe trovare il suo fondamento nel fatto che il
 consiglio  di  amministrazione  dell'INPDAI,  con  delibera  del   22
 dicembre  1994,  adottata in attuazione del d.lgs. 30 giugno 1994, n.
 509, aveva disposto la propria trasformazione  da  ente  pubblico  in
 fondazione  di  diritto  privato,  prevedendo, nel nuovo statuto, una
 disciplina degli organi di amministrazione di tipo  civilistico,  che
 escludeva  la possibilita' di una partecipazione delle rappresentanze
 del personale al consiglio di amministrazione. Dalla nuova disciplina
 sarebbe, pertanto,  derivata  la  sopravvenienza  di  un  difetto  di
 interesse  dei  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo dal momento che gli
 stessi non avrebbero piu' potuto in alcun modo realizzare la  propria
 reintegrazione,  come  rappresentanti del personale, nel consiglio di
 amministrazione in questione.  Senonche'  -  come  la  stessa  difesa
 dell'ente  ha  fatto presente nel corso dell'udienza - la delibera di
 trasformazione   dell'INPDAI   in   fondazione   privata   e'   stata
 successivamente  revocata  con delibera del 5 dicembre 1995 (adottata
 sulla base della facolta' concessa dall'art. 18, secondo  comma,  del
 decreto-legge  4  dicembre 1995, n.  515, successivamente reiterato),
 con la conseguenza che attualmente risulta ripristinata  l'originaria
 natura pubblicistica dell'ente e confermata la preesistente struttura
 dei  suoi  organi  amministrativi.    Permane,  pertanto, allo stato,
 insieme con l'interesse dei ricorrenti, la rilevanza della  questione
 ai fini della decisione del giudizio a quo.
   3. - Nel merito la questione non e' fondata.
   L'art.  2,  primo comma, lettera a) della legge 23 ottobre 1992, n.
 421, nel disporre la delega per la riforma del pubblico impiego,  ha,
 tra l'altro, affidato al Governo il compito di "prevedere nuove forme
 di   partecipazione   delle  rappresentanze  del  personale  ai  fini
 dell'organizzazione del lavoro nelle amministrazioni".
   In attuazione di tale disposto, l'art. 16 del  d.lgs.  10  novembre
 1993, n. 470 (che ha sostituito l'art. 48 del d.lgs. 3 febbraio 1993,
 n. 29) ha stabilito:
     a)  il  rinvio  alla  contrattazione  collettiva  nazionale della
 definizione delle nuove forme di partecipazione delle  rappresentanze
 del   personale   ai   fini   dell'organizzazione  del  lavoro  nelle
 amministrazioni pubbliche di  cui  all'art.  1,  secondo  comma,  del
 d.lgs.  n.  29 del 1993 (ivi compresi gli enti pubblici non economici
 nazionali, come l'INPDAI);
     b)  l'abrogazione  delle  norme  che  prevedono  ogni  forma   di
 rappresentanza,   anche  elettiva,  del  personale  nei  consigli  di
 amministrazione delle  predette  amministrazioni  pubbliche  e  nelle
 commissioni di concorso;
     c)   il   rinvio   alla   contrattazione   collettiva   nazionale
 dell'indicazione delle forme e procedure di partecipazione  destinate
 a  sostituire  le  commissioni  del  personale  e  gli  organismi  di
 gestione, comunque denominati.
   L'ordinanza di rimessione  fa  riferimento,  in  particolare,  alla
 previsione  richiamata  sub  b), che viene censurata sia in relazione
 all'asserita estraneita' del suo oggetto rispetto a  quello  indicato
 nella  legge di delegazione, sia in relazione alla non contestualita'
 tra abrogazione delle  forme  di  rappresentanza  del  personale  nei
 consigli  di amministrazione (che e' stata attivata immediatamente) e
 disciplina delle nuove forme di partecipazione  delle  rappresentanze
 del   personale   (che   e'   stata,  invece,  rinviata  alla  futura
 contrattazione nazionale).
   Ne' l'uno ne' l'altro di tali profili integra, peraltro,  l'eccesso
 di delega che viene lamentato.
   4.  -  Per  quanto  concerne  il  profilo  relativo alla diversita'
 dell'oggetto regolato dalla norma delegata rispetto a quello indicato
 nella norma di delegazione, occorre in primo luogo fare richiamo alla
 lettera di quest'ultima norma (art. 2, primo comma, lettera a)),  che
 riferisce  il  fine  dell'"organizzazione  del  lavoro" soltanto alle
 "nuove forme" di partecipazione delle rappresentanze del personale  e
 non  alle  forme  partecipative  gia'  esistenti  che  il legislatore
 delegato e' chiamato ad innovare.
   La  definizione  delle  "nuove  forme"  da  parte  del  legislatore
 delegato   sottintende,   pertanto,   il   superamento   delle  forme
 partecipative   operanti    prima    della    riforma,    e    questo
 indipendentemente   dalla   considerazione   delle   finalita'   che,
 attraverso  tali  forme,  la  precedente  disciplina  avesse   inteso
 realizzare.   La  norma  di  delegazione,  quando  ha  indicato  come
 obbiettivo generale da perseguire  il  rinnovamento  delle  forme  di
 partecipazione   delle  rappresentanze  del  personale,  ha,  dunque,
 legittimato l'intervento del legislatore delegato non soltanto  sulle
 forme  preesistenti collegate al fine dell'organizzazione del lavoro,
 ma anche su quelle connesse a finalita' di natura  diversa,  come  le
 finalita'  di  controllo  sulla  gestione  perseguite  attraverso  la
 partecipazione del personale agli organi  amministrativi  degli  enti
 pubblici non economici.
   L'interpretazione   letterale   trova,   d'altro   canto,  conferma
 nell'interpretazione sistematica, ove si faccia richiamo al  contesto
 generale  in  cui  la  norma  impugnata  - inserita nell'ambito della
 riforma  del  pubblico   impiego   delineata,   nei   suoi   principi
 fondamentali,   dall'art.  2  della  legge  n.  421  del  1992  -  va
 necessariamente inquadrata. Su questo piano, l'aspetto da rilevare e'
 che  la  previsione  di  "nuove  forme"   di   partecipazione   delle
 rappresentanze  del  personale  viene  a collegarsi, come corollario,
 all'impianto generale di una riforma che e'  stata  incentrata  sulla
 "privatizzazione"   del   pubblico   impiego  e  che  ha  condotto  a
 valorizzare  la  distinzione  tra   organizzazione   della   pubblica
 amministrazione  (la  cui  disciplina viene, in primo luogo, affidata
 alla legge) e rapporti di lavoro dei  pubblici  dipendenti  (regolati
 dalla  contrattazione  collettiva).  Da  qui l'esigenza di accentuare
 anche la distinzione tra la competenza degli organi  e  la  posizione
 del  personale,  cosi' da favorire il superamento delle diverse forme
 di   "cogestione"   praticate   in   passato   nei    vari    settori
 dell'amministrazione pubblica.
   Si  puo',  quindi,  affermare  che  il  legislatore  delegato,  nel
 disporre, mediante la norma impugnata, la soppressione  di  tutte  le
 forme  esistenti di rappresentanza, anche elettiva, del personale nei
 consigli di amministrazione,  anziche'  eccedere  dall'oggetto  della
 delega,  si  e'  correttamente  adeguato  alla lettera della norma di
 delegazione nonche' allo spirito generale della riforma.
   5.  -  Infondata  si  presenta  anche  la  censura  riferita   alla
 dissociazione  temporale  che  il legislatore delegato ha operato tra
 l'abrogazione  delle  forme  preesistenti   di   rappresentanza   del
 personale  (attuata  immediatamente  con legge) e la previsione delle
 nuove forme di  partecipazione  delle  rappresentanze  del  personale
 (rinviata alla futura contrattazione collettiva).
   In proposito basti solo osservare che dai criteri posti nella legge
 di delegazione n. 421 del 1992 non e' dato desumere, ne' direttamente
 ne'   indirettamente,   un  vincolo  di  contestualita'  tra  le  due
 discipline,  l'una  abrogativa  delle  forme   superate   e   l'altra
 introduttiva delle forme nuove. Al contrario, il metodo di intervento
 in  concreto  adottato  dal  legislatore delegato puo' trovare la sua
 giustificazione  proprio  nei  criteri  espressi   dalla   legge   di
 delegazione,  che, in tema di strumenti di intervento, ha, come si e'
 detto, distinto tra la disciplina dell'organizzazione (affidata  allo
 strumento  legislativo)  e  la  disciplina  dei  rapporti  di  lavoro
 (affidata allo strumento contrattuale). Una volta  prescelta  per  la
 definizione  delle nuove forme di partecipazione delle rappresentanze
 la via contrattuale, il legislatore  delegato  era  tenuto  in  primo
 luogo   ad   eliminare  le  forme  di  rappresentanza  innestate  nel
 preesistente tessuto organizzativo  della  pubblica  amministrazione,
 abrogando  le  norme  su  cui  tali  forme venivano a trovare il loro
 fondamento.
   Ne',  sotto  questo  profilo,  puo'  valere  il  rilievo   che   il
 legislatore  delegato  avrebbe  dovuto,  quanto meno, introdurre, nel
 passaggio dal vecchio al nuovo regime,  una  disciplina  transitoria.
 Con  riferimento  all'istituto  della  rappresentanza  del personale,
 un'esigenza di questo tipo non trova giustificazione, una  volta  che
 si  consideri  che la legge n. 421 del 1992, all'art. 2, primo comma,
 lettera  a),  ha  espressamente  richiamato  la  necessita'  di   una
 disciplina  transitoria,  ma  soltanto  con  riferimento  al  fine di
 assicurare la graduale riconduzione dei rapporti di pubblico  impiego
 sotto la disciplina del diritto privato.