ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 297, terzo
 comma, del codice di procedura penale promosso con  ordinanza  emessa
 il  13  settembre 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso
 il Tribunale di Milano, nel procedimento penale  a  carico  di  Sarlo
 Mario  Pasquale  ed  altri, iscritta al n. 743 del registro ordinanze
 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  46,
 prima serie speciale dell'anno 1995;
   Visti  gli  atti  di  costituzione  di  Sarlo  Mario e di Schettini
 Antonio, nonche' l'atto di intervento del  Presidente  del  Consiglio
 dei ministri;
   Udito  nella  udienza  pubblica  del  20  febbraio  1996 il giudice
 relatore Giuliano Vassalli;
   Udito l'Avvocato dello Stato Paolo Di Tarsia  di  Belmonte  per  il
 Presidente del Consiglio dei ministri.
                            Ritenuto in fatto
   1.  - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di
 Milano,  chiamato  a  provvedere  su  istanze  di  scarcerazione  per
 decorrenza  dei  termini  massimi  di  custodia  cautelare  -  e piu'
 precisamente per inefficacia sopravvenuta della misura della custodia
 in carcere a seguito della entrata in vigore dell'art. 12 della legge
 8 agosto 1995, n. 332 - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della
 Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 297,
 terzo comma, cod. proc. pen.,  nel  testo  sostituito  ad  opera  del
 citato art. 12 della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice
 di  procedura  penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di
 misure cautelari e di diritto di difesa), "nella parte  in  cui,  per
 l'ipotesi   d'una  pluralita'  di  ordinanze  restrittive  per  fatti
 diversi,  e'  preveduta  la  decorrenza  del  termine  massimo  della
 custodia  cautelare,  per  tutti  i  reati in rapporto di connessione
 qualificata, a far tempo dalla data  di  piu'  remota  contestazione,
 anche   nei   casi   in  cui  la  notizia  dei  fatti  di  successiva
 contestazione  non  risultasse  dagli  atti   all'epoca   del   primo
 provvedimento".  In subordine, l'ordinanza prospetta l'illegittimita'
 costituzionale della medesima norma "almeno" nella parte in cui viene
 esclusa la rilevanza, ai fini  di  diversificazione  dei  termini  di
 decorrenza,  della  "verifica  positiva di tempestivita'" delle nuove
 contestazioni cautelari anche fuori dai casi in cui  sia  intervenuto
 provvedimento  che dispone il giudizio relativamente ai fatti di piu'
 remota contestazione.
   Osserva il giudice a quo che  la  nuova  disposizione,  modificando
 radicalmente     il     consolidato    e    risalente    orientamento
 giurisprudenziale che poneva a base del  fenomeno  dei  provvedimenti
 custodiali   "a   catena"   ipotesi   di  artificioso  ritardo  nella
 contestazione dei fatti, non richiede  piu',  per  la  retrodatazione
 degli  effetti  della  custodia  cautelare, che la contestazione piu'
 recente sia tardiva. In base, infatti, alla legge che  ha  modificato
 l'art.  297  terzo  comma, cod.   proc. pen., la retrodatazione sara'
 impedita  dalla  prova  che  la  conoscenza  dei   fatti   di   nuova
 contestazione  e' stata tardiva, ma solo a condizione che per i fatti
 di piu'  remota  contestazione  sia  gia'  intervenuto  il  rinvio  a
 giudizio;  sicche',  rileva il giudice a quo nel corso delle indagini
 preliminari la decorrenza del termine  va  fissata  al  giorno  della
 prima  cattura anche se per i nuovi reati la tardiva notitia criminis
 sia stata  acquisita  in  epoca  molto  successiva.  Se,  dunque,  la
 funzione  della  norma  e'  quella  di  precludere le contestazioni a
 catena, il legislatore, osserva il rimettente, "e' andato ben  oltre,
 privando  di  ogni  rilevanza  il  dato  scriminante  dello  iato tra
 possibilita' ed effettivita' della  nuova  contestazione".  La  nuova
 normativa,  pertanto, parificherebbe in modo irragionevole situazioni
 assolutamente eterogenee:  e cio', anzitutto, per quanto concerne  la
 posizione  di  quanti  si  sarebbero  dovuti  avvalere  di  una nuova
 contestazione piu' tempestiva e non  intervenuta  per  inerzia  della
 autorita'  giudiziaria,  rispetto  alla  posizione  di indagati per i
 quali  la  tardivita'  della  nuova  contestazione  dipenda,  invece,
 esclusivamente   dalla   tardivita'   della   relativa   acquisizione
 indiziaria.   Al   tempo  stesso,  soggiunge  il  giudice  a  quo  si
 diversifica la situazione di  soggetti  che,  ugualmente  attinti  da
 contestazioni tempestive in rapporto a nuove emergenze, abbiano visto
 o  meno  disporre  il  giudizio  in relazione al reato di piu' remota
 contestazione: una disparita', questa, che viene fatta  dipendere  da
 un  evento  (il  rinvio a giudizio) eterogeneo rispetto alle esigenze
 cautelari e che e'  frutto  della  "iniziativa  incontrollabile"  del
 pubblico ministero e del giudice.
   La  novella  dell'agosto 1995, dunque, da un lato dissolverebbe del
 tutto la relazione tra gravita' del fatto e  durata  del  trattamento
 cautelare,  almeno  nelle  ipotesi  in  cui  il  primo  provvedimento
 cautelare riguardi un fatto di gravita'  pari  o  minore  rispetto  a
 quello   oggetto   della  successiva  contestazione,  e,  dall'altro,
 scinderebbe anche "la relazione tra durata della custodia e  qualita'
 effettiva  e  concreta delle necessita' cautelari", dando cosi' vita,
 sotto entrambi i profili, ad una serie di conseguenze che il  giudice
 a   quo  enumera  come  ipotesi  esemplificative  di  "abnormita'"  e
 "paradosso".
   2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura generale dello
 Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata  non  fondata.  Dopo
 una  ampia  disamina della ordinanza di rimessione e della evoluzione
 normativa e giurisprudenziale che ha attinto il tema delle cosiddette
 contestazioni a  catena,  l'Avvocatura  osserva  che  la  scelta  del
 legislatore e' stata quella di unificare la decorrenza della custodia
 cautelare  quando  si  sia  in presenza di "operazioni criminose che,
 quantunque integrative di diverse fattispecie di reato, si presentano
 tuttavia nel loro complesso ontologicamente  unitarie".  Tutto  cio',
 osserva  l'Avvocatura,  per  evitare  una  disparita'  di trattamento
 opposta a quella denunciata dal giudice a quo nel senso che il regime
 risulterebbe  differenziato  "a  seconda  che  le  notizie  di  reato
 relative  ai  fatti avvinti da connessione qualificata emergano tutte
 contemporaneamente (donde la decorrenza di un solo termine) ovvero in
 momenti successivi ed eventualmente assai  distanziati  temporalmente
 tra   loro  (donde  l'allungamento  della  durata  complessiva  della
 custodia pur a fronte  della  cennata  unitarieta'  ontologica  della
 manifestazione criminosa)".
   3.  -  Nel  giudizio  si e' costituita, depositando "deduzioni", la
 parte privata Sarlo Mario. In tale atto si richiede pregiudizialmente
 declaratoria di inammissibilita' in quanto, si  osserva,  l'eventuale
 dichiarazione  di  incostituzionalita'  non  potrebbe determinare nel
 processo a quo l'applicazione della norma "sfavorevole", ostandovi la
 previsione dell'art. 25, secondo comma, della  Costituzione.  Inoltre
 l'ordinanza  di  rimessione  alla  Corte costituzionale sarebbe stata
 usata soltanto come strumento per non  procedere  alla  scarcerazione
 dell'imputato, venendosi cosi' a porre in essere una fictio litis che
 priverebbe  la questione del requisito della rilevanza. Nel merito si
 contesta  la  fondatezza  delle  censure  sul  presupposto   che   il
 legislatore  avrebbe  nella  specie effettuato una comparazione tra i
 contrapposti valori che il tema coinvolge.
                         Considerato in diritto
   1.  - Investito da talune richieste di scarcerazione per decorrenza
 dei termini  di  custodia  cautelare,  il  giudice  per  le  indagini
 preliminari   presso   il   Tribunale  di  Milano  ha  sollevato,  in
 riferimento all'art.  3 della Costituzione, questione di legittimita'
 costituzionale dell'art.  297, terzo comma, del codice  di  procedura
 penale,  nel  testo  sostituito  ad  opera dell'art. 12 della legge 8
 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in  tema
 di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto
 di  difesa).  In  via principale, il giudice a quo chiede dichiararsi
 l'illegittimita'  costituzionale  della  norma  nella  parte  in  cui
 prevede  la  decorrenza del termine massimo di custodia cautelare, in
 ipotesi di pluralita' di ordinanze applicative della misura per fatti
 connessi, a  far  tempo  dal  giorno  in  cui  e'  stata  eseguita  o
 notificata  la  prima ordinanza, anche nel caso in cui la notizia dei
 fatti oggetto del successivo provvedimento coercitivo non  risultasse
 dagli atti all'epoca del primo intervento cautelare. In subordine, si
 richiede  declaratoria  di illegittimita' costituzionale della stessa
 disposizione nella parte in cui  esclude  qualsiasi  rilevanza  della
 tempestivita'  della  nuova  contestazione agli effetti della diversa
 decorrenza dei termini di custodia cautelare.
   Osserva, infatti,  il  rimettente  che  il  legislatore  del  1995,
 superando  l'elaborazione  giurisprudenziale  formatasi in materia di
 "contestazioni a catena" e dettata dal chiaro intento di impedire una
 indebita protrazione dei termini di custodia cautelare attraverso una
 artificiosa diluizione nel tempo  dei  provvedimenti  custodiali,  ha
 eliminato   in   radice   qualsiasi  rilievo  alla  distinzione  "tra
 possibilita'  ed  effettivita'  della  nuova  contestazione".   Cosi'
 operando,  rileva  il  giudice  a  quo  il  legislatore  ha assegnato
 identita' di disciplina  a  situazioni  fra  loro  assai  divergenti,
 giacche'  si  stabilisce l'identico regime di decorrenza della misura
 sia nell'ipotesi di artificioso  ritardo  della  nuova  contestazione
 cautelare,  sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato
 tempestivo in rapporto al momento in cui il fatto e' stato accertato.
 Nel  contempo,   osserva   ancora   il   rimettente,   si   distingue
 irragionevolmente  la  posizione  dei  soggetti  investiti  da  nuovi
 provvedimenti  cautelari  tempestivamente  disposti  alla   luce   di
 elementi  sopravvenuti,  a  seconda  che,  per i fatti di piu' remota
 contestazione, sia stato o meno disposto il rinvio  a  giudizio:  una
 eventualita',  questa, che a parere del giudice a quo si appalesa del
 tutto  inidonea  a  giustificare  il  diverso   regime,   in   quanto
 indifferente   rispetto   alle  esigenze  cautelari  e  frutto  della
 "iniziativa incontrollabile del pubblico ministero e del giudice".
   La novella oggetto di impugnativa determinerebbe, dunque, a  parere
 del  rimettente,  da  un  lato  la dissoluzione del rapporto che deve
 sussistere tra la durata della custodia cautelare e la  gravita'  del
 fatto  contestato  e,  sotto altro profilo, "il completo abbandono di
 necessita'  cautelari  attualissime",  il  tutto  in  virtu'  di  una
 censurata  "presunzione  assoluta"  di  indebito  prolungamento della
 custodia dalla quale scaturiscono conseguenze pratiche che il giudice
 a quo definisce abnormi.
   2.  -  Deve  preliminarmente  essere   disattesa   l'eccezione   di
 inammissibilita'   sollevata   dalla   difesa   della  parte  privata
 costituitasi in giudizio.  Anche a voler prescindere, infatti,  dalla
 inconferenza,  nel  caso  di specie, del parametro dedotto a sostegno
 della  eccezione,  e'  assorbente il rilievo che la giurisprudenza di
 questa Corte  ha  da  tempo  ritenuto  ammissibile  lo  scrutinio  di
 costituzionalita'  delle  norme  penali  di  favore  (v.,  da ultimo,
 sentenza n. 25 del 1994), sicche' la questione, lungi  dall'integrare
 una  ipotesi  di  fictio  litis si appalesa senz'altro rilevante agli
 effetti della decisione che il rimettente  e'  chiamato  ad  adottare
 alla  luce  della  articolata prospettazione in fatto che compare nel
 testo della ordinanza.
   3. - Nel merito la questione e' infondata.
   Non puo' negarsi, innanzi  tutto,  che  la  innovazione  introdotta
 dall'art.  12  della  legge  n.  332 del 1995, in tema di computo dei
 termini di durata delle misure,  si  sia  effettivamente  spinta  ben
 oltre i risultati cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimita'
 che  aveva  preso  in  esame  il patologico fenomeno delle cosiddette
 contestazioni a catena. Cosi' come e' evidente che le scelte  operate
 dal  legislatore possano offrire spazio alle perplessita' ed ai dubbi
 di coerenza che il giudice a quo ha diffusamente enunciato,  sia  sul
 piano  della  congruita'  del  censurato meccanismo di retrodatazione
 delle  misure  di  successiva  contestazione   agli   effetti   della
 salvaguardia  delle  esigenze  cautelari  ad esse riferibili, sia per
 cio' che concerne il diverso regime che  e'  stato  invece  stabilito
 nell'ipotesi  in  cui i fatti oggetto della nuova ordinanza cautelare
 siano stati accertati dopo il rinvio a giudizio disposto per il fatto
 "connesso" posto a fondamento della prima ordinanza.  Ma  al  di  la'
 delle  critiche  che possono essere mosse ad una siffatta disciplina,
 l'unico punto che rileva in questa sede e' verificare se,  alla  luce
 delle  prospettate  censure, la norma impugnata si presenti o meno in
 contrasto con il principio sancito dall'art.  3  della  Costituzione,
 sicche'  e'  proprio  sulla  portata  di  tale  precetto  che  dovra'
 incentrarsi la preliminare disamina, dal momento che il giudice a quo
 mostra di aver annesso a quel principio una  configurazione  che  non
 puo' essere condivisa.
   Il   parametro   della   eguaglianza,   infatti,   non  esprime  la
 concettualizzazione di una categoria astratta, staticamente elaborata
 in funzione di un valore immanente dal quale l'ordinamento  non  puo'
 prescindere,  ma definisce l'essenza di un giudizio di relazione che,
 come tale, assume un risalto necessariamente dinamico.  L'eguaglianza
 davanti  alla  legge,  quindi,  non  determina  affatto  l'obbligo di
 rendere immutabilmente omologhi fra loro fatti o  rapporti  che,  sul
 piano  fenomenico,  ammettono  una  gamma  di  variabili tanto estesa
 quante sono le  imprevedibili  situazioni  che  in  concreto  possono
 storicamente   ricorrere,   ma   individua   il   rapporto  che  deve
 funzionalmente correlare la  positiva  disciplina  di  quei  fatti  o
 rapporti al paradigma dell'armonico trattamento che ai destinatari di
 tale   disciplina   deve   essere  riservato,  cosi'  da  scongiurare
 l'intrusione di elementi normativi  arbitrariamente  discriminatorii.
 D'altra  parte, essendo qualsiasi disciplina destinata per sua stessa
 natura  ad  introdurre  regole  e,  dunque,  a  operare  distinzioni,
 qualunque  normativa  positiva  finisce per risultare necessariamente
 destinata ad introdurre  nel  sistema  fattori  di  differenziazione,
 sicche',  ove  a  quel parametro fosse annesso il valore di paradigma
 cristallizzato su base meramente "naturalistica"  e  dunque  statica,
 ogni  norma  vi  si  porrebbe  in  evidente contrasto proprio perche'
 chiamata  a  discriminare  cio'  che  e'  attratto  nell'alveo  della
 relativa previsione da cio' che non lo e'. Se, dunque,  il  principio
 di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtu' del quale a
 situazioni   eguali   deve  corrispondere  l'identica  disciplina  e,
 all'inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni
 differenti,  cio'  equivale  a  postulare  che  la   disamina   della
 conformita' di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un
 modello   dinamico,   incentrandosi  sul  "perche'"  una  determinata
 disciplina    operi,    all'interno    del    tessuto     egualitario
 dell'ordinamento,  quella  specifica  distinzione, e quindi trarne le
 debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo.
   Il  giudizio  di  eguaglianza,  pertanto,  in  casi   come   quello
 sottoposto  alla  Corte  costituzionale  con  l'ordinanza del giudice
 rimettente, e' in se' un giudizio di ragionevolezza, vale a  dire  un
 apprezzamento  di  conformita'  tra la regola introdotta e la "causa"
 normativa che la  deve  assistere:  ove  la  disciplina  positiva  si
 discosti  dalla  funzione  che  la  stessa e' chiamata a svolgere nel
 sistema e ometta, quindi, di operare il  doveroso  bilanciamento  dei
 valori che in concreto risultano coinvolti, sara' la stessa "ragione"
 della  norma  a  venir  meno,  introducendo  una  selezione di regime
 giuridico priva di causa giustificativa e, dunque, fondata su  scelte
 arbitrarie     che     ineluttabilmente    perturbano    il    canone
 dell'eguaglianza. Ogni tessuto normativo  presenta,  quindi,  e  deve
 anzi  presentare,  una  "motivazione" obiettivata nel sistema, che si
 manifesta come entita' tipizzante  del  tutto  avulsa  dai  "motivi",
 storicamente  contingenti, che possono avere indotto il legislatore a
 formulare una specifica opzione: se dall'analisi di tale  motivazione
 scaturira'  la  verifica  di una carenza di "causa" o "ragione" della
 disciplina  introdotta,  allora  e  soltanto  allora   potra'   dirsi
 realizzato  un  vizio  di  legittimita'  costituzionale  della norma,
 proprio perche' fondato  sulla  "irragionevole"  e  per  cio'  stesso
 arbitraria scelta di introdurre un regime che necessariamente finisce
 per  omologare  fra  loro  situazioni  diverse  o,  al contrario, per
 differenziare il trattamento di situazioni analoghe.
   Da tutto cio'  consegue  che  il  controllo  di  costituzionalita',
 dovendosi per un verso saldare al generale principio di conservazione
 dei valori giuridici e restando comunque circoscritto all'interno dei
 confini proprii dello scrutinio di legittimita', non puo' travalicare
 in apprezzamenti della ragionevolezza che sconfinino nel merito delle
 opzioni  legislative, e cio' specie nelle ipotesi in cui la questione
 dedotta investa, come nel caso in esame, sistemi normativi complessi,
 all'interno dei quali la ponderazione dei beni e degli interessi  non
 puo'  certo  ritenersi  frutto di soluzioni univoche. Non puo' quindi
 venire in discorso, agli effetti di un  ipotetico  contrasto  con  il
 canone   della   eguaglianza,   qualsiasi  incoerenza,  disarmonia  o
 contraddittorieta' che una determinata  previsione  normativa  possa,
 sotto  alcuni  profili  o per talune conseguenze, lasciar trasparire,
 giacche',   ove   cosi'   fosse,   al   controllo   di   legittimita'
 costituzionale  verrebbe impropriamente a sovrapporsi una verifica di
 opportunita', per di piu' condotta sulla base di un etereo  parametro
 di  giustizia  ed  equita',  al  cui  fondamento  sta  una  composita
 selezione di valori che non spetta  a  questa  Corte  operare.  Norma
 inopportuna e norma illegittima sono pertanto due concetti che non si
 sovrappongono,  dovendosi  il  sindacato arrestare in presenza di una
 riscontrata  correlazione  tra  precetto  e  scopo  che  consenta  di
 rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina,  l'espressione
 di  una  libera  scelta  che  soltanto  il legislatore e' abilitato a
 compiere.
   Cosi' inquadrato l'ambito all'interno del quale deve  svolgersi  il
 controllo   di   costituzionalita'   della  disposizione  oggetto  di
 impugnativa, risultera' allora evidente  come  la  stessa  non  possa
 affatto  ritenersi priva di "ragione" nel senso dianzi delineato. Se,
 infatti,  nel  nucleo  della  disciplina  in  questione  puo'  essere
 agevolmente rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi sicuri
 il  termine  di  durata  massima  delle misure cautelari, in perfetta
 aderenza con quanto previsto dall'art.  13, ultimo comma, della Carta
 fondamentale, e se, dunque, la  "causa"  della  norma  e'  quella  di
 impedire   la   diluizione  dei  termini  in  ragione  dell'episodico
 concatenarsi di piu' fattispecie cautelari, non puo' certo  ritenersi
 incoerente  allo  scopo  e,  dunque,  priva  di ragione, la scelta di
 individuare alcune ipotesi che, piu' di altre, presentano elementi di
 correlazione contenutistica  di  spessore  tale  da  consentirne  una
 valutazione  unitaria  agli  effetti del trattamento cautelare.  Allo
 stesso modo, una volta individuata la regola, non puo' neppure  dirsi
 eterodossa  rispetto  ai  fini  perseguiti la "causa" che sostiene la
 deroga introdotta nel secondo periodo del terzo comma dell'art.   297
 cod.  proc.  pen.,  la  quale  esclude l'applicabilita' del principio
 della retrodatazione dei termini  in  relazione  alle  ordinanze  per
 fatti "nuovi" che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva
 contestazione,  emergano  soltanto dopo il rinvio a giudizio disposto
 per il fatto cui si riferisce l'originaria  ordinanza  cautelare.  La
 individuazione  del  rinvio  a  giudizio come momento processuale che
 traccia la linea di displuvio agli effetti della  operativita'  della
 deroga, appare, infatti, da un lato perfettamente simmetrica rispetto
 al  regime  che  scandisce,  nell'art. 303 cod. proc. pen., i termini
 massimi di  durata  delle  misure  in  funzione  delle  diverse  fasi
 processuali  e, dall'altro, aderente all'intendimento del legislatore
 di impedire che, nel corso delle indagini, le contestazioni cautelari
 plurime per fatti connessi ammettano un diverso trattamento sul piano
 della durata delle misure a seconda che l'indagato riesca  o  meno  a
 provare  l'artificiosa  diluizione nel tempo delle singole ordinanze.
 L'introduzione di parametri certi  e  predeterminati,  quindi,  lungi
 dall'assumere connotazioni di arbitrarieta', si appalesa nella specie
 come  opzione  del tutto coerente rispetto alla avvertita esigenza di
 configurare  limiti  obiettivi  e   ineludibili   alla   durata   dei
 provvedimenti  che  incidono  sulla  liberta'  personale  e  cio' con
 particolare riguardo alla fase delle indagini preliminari, la  quale,
 per  essere  affidata  alle  iniziative  investigative  del  pubblico
 ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre  opinabile
 terreno della tempestivita' delle relative acquisizioni.
   Posto,  dunque,  che  e'  la  stessa  Costituzione  ad  imporre  la
 previsione  di  termini  di  durata  delle  misure  cautelari   e   a
 presupporre,  quindi,  l'inconferenza  delle  esigenze  che dovessero
 residuare al di la' di un limite temporale certo e  invalicabile,  ne
 deriva  che  la  disciplina  impugnata  sfugge a qualsiasi censura di
 irragionevolezza, proprio perche' il valore che la stessa  ha  inteso
 preservare non lascia spazio a diseguaglianze arbitrarie, avendo anzi
 il   legislatore  ricondotto  il  sistema  all'interno  di  un  alveo
 contrassegnato  da  garanzie  di obiettivita' e, dunque, di effettivo
 rispetto del principio di eguaglianza.