IL PRETORE
   Letti gli atti della causa n. 30276/1995 in controversia in materia
 di  lavoro,  proposta  con  ricorso  ai  sensi  dell'art.  414 c.p.c.
 depositato in data 5 giugno 1995  da  Galluzzo  Carmela,  ricorrente,
 avverso la Santomio s.p.a., convenuta resistente;
   Viste  le  note  conclusive dimesse dai procuratori delle parti per
 l'udienza di discussione;
                                OSSERVA
   La signora Galluzzo Carmela - premesso di essere  stata  licenziata
 in  data  23  luglio  1994  dalla societa' convenuta, presso la quale
 prestava la propria attivita' lavorativa quale addetta alla pressa  e
 al  ripasso  ferro  nel reparto stiro della unita' operativa di Malo,
 con atto di licenziamento di  cui  deduceva  svariati  e  concorrenti
 profili  di  invalidita'  sia  come licenziamento individuale sia ove
 inserito nell'ambito di una procedura  di  licenziamento  collettivo,
 della   quale  negava  l'esistenza  dei  presupposti  e  della  quale
 evidenziava comunque plurimi vizi - adiva questo pretore in  funzione
 di giudice del lavoro chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro
 ed  il  risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 18, legge 20 maggio
 1970 n. 300  (Norme  sulla  tutela  della  liberta'  e  dignita'  dei
 lavoratori,  della  liberta' sindacale e dell'attivita' nei luoghi di
 lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall'art. 1,  legge
 11 maggio 1990 n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali).
   Si  costituiva  nei termini la convenuta, contestando genericamente
 quanto dalla ricorrente addotto a sostegno della  illegittimita'  del
 licenziamento,  e comunque deducendo che fosse cessata la materia del
 contendere in ordine alla legittimita' o illegittimita' del  recesso,
 avendo  la  Santomio  s.p.a.  invitato la lavoratrice a riprendere il
 lavoro in data 21 agosto 1995.
   Concludeva  che  nulla  era dovuto alla ricorrente, ovvero che alla
 stessa (che gia' in  data  21  novembre  1994  aveva  reperito  altra
 occupazione)  poteva  competere  solo il risarcimento minimo previsto
 dall'art. 18 Statuto Lav.,  in  misura  di  cinque  mensilita'  della
 retribuzione globale di fatto.
   Alla  udienza  fissata ai sensi dell'art. 420 c.p.c. il procuratore
 della  ricorrente  dava  atto  che,  a  seguito  della   revoca   del
 licenziamento,  la  lavoratrice  con  comunicazione in data 27 luglio
 1995 aveva dichiarato la propria opzione per l'indennita' di quindici
 mensilita' di retribuzione in sostituzione della reintegra, ai  sensi
 del quinto comma dell'art.  18 Stat. Lav. rinnovellato.
   Modificava,  a cio' autorizzato nell'opposizipne di controparte, le
 proprie  conclusioni  in  punto   di   attribuzione   dell'indennita'
 sostitutiva in luogo della gia' chiesta reintegrazione.
   Indi  le parti, su concorde istanza, per l'ultroneita' di attivita'
 ulteriore di istruzione nonche' per  verificare  il  pagamento  delle
 competenze  per  trattamento  di  fine  rapporto  (pure  richieste in
 ricorso), venivano autorizzate al deposito di  note  difensive  e  la
 causa veniva rinviata per discussione alla odierna udienza.
   Ritiene  questo  pretore che sussista piu' di un consistente motivo
 per dubitare della legittimita' costituzionale dell'art. 18, legge 20
 maggio 1970 n. 300, quinto comma, come introdotto dall'art. 1,  legge
 11   maggio   1990,  n.  108,  laddove  disciplina  l'istituto  della
 indennita' sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro.
   Questo pretore reputa la questione di costituzionalita' rilevante e
 non manifestamente infondata.
   Sotto il profilo della rilevanza va detto che  (pur senza che  cio'
 equivalga  ad  anticipare  quanto  andra'  a  pronunciarsi con futura
 sentenza)  il  licenziamento   irrogato   alla   lavoratrice   appare
 illegittimo  -  come  fatto  palese dalla solo generica contestazione
 della convenuta e dagli argomenti diffusamente espressi  in  ricorso,
 ai quali nessuna effettiva difesa la convenuta, pur costituendosi, ha
 fatto  seguire,  limitandosi  essa  alla revoca del recesso -; che si
 stima ammissibile l'emendatio  delle  conclusioni  (laddove  viene  a
 richiedersi  l'indennita' sostitutiva) e non si ritiene di accogliere
 l'interpretazione fatta propria, sia pur con pregevole  ricostruzione
 esegetica, dal patrocinio della convenuta.
   La  convenuta,  invero, conclude per l'inconfigurabilita', nel caso
 di  specie,  della  facolta'  di  chiedere  -  ed   ottenere   -   il
 riconoscimento della indennita' sostitutiva.
   La  questione  di  costituzionalita'  - che pure gia' in passato e'
 stata sottoposta al vaglio  del  giudice  delle  leggi  con  positivo
 scrutinio  di  legittimita'   (sentenza n. 81 del 19 febbraio-4 marzo
 1992; ordinanze n. 169 e n. 426  del  medesimo  anno)  -  appare  non
 manifestamente   infondata   alla   luce   delle  considerazioni  che
 l'applicazione pratica della normativa, in questi  anni,  ha  imposto
 all'attenzione  dei  giudici  di merito, stretti nell'alternativa tra
 l'applicazione di un congegno normativo  improntato  a  caratteri  di
 assoluta    rigidita'   e   l'intima   convinzione   dell'ingiustizia
 sostanziale della norma nel disciplinare, in termini  immodificabili,
 fattispecie  concrete  con  peculiarita'  sovente  irriducibili  allo
 schema legale astratto (si veda, di recente, ordinanza 6 aprile  1995
 del  pretore  del  lavoro  di  Lucca,  sez.  dist.  di Pietrasanta in
 Gazzetta Ufficiale - 1 serie speciale - n. 27 del 28 giugno 1995).
   per  dar  conto delle perplessita' di questo pretore in merito alla
 conformita'  alla  costituzione  della  disposizione  impugnata,   si
 osserva  come l'interpretazione della norma imponga, ad avviso di chi
 scrive, di affermare:
     che il lavoratore che impugna il licenziamento, al fine di  farne
 valere  l'invalidita' ai sensi dell'art. 18 Stat. Lav. e di stimolare
 le  ulteriori  conseguenze  ivi   previste,   possa   fin   dall'atto
 introduttivo  del  giudizio  richiedere il pagamento della indennita'
 sostitutiva in luogo della reintegrazione;
     che il lavoratore  medesimo  possa  anche  modificare  l'iniziale
 domanda  di  reintegrazione  in corso di causa, nei limiti consentiti
 dal rito speciale e previa autorizzazione per giusti o gravi motivi;
     che  il  riconoscimento  del  diritto  ad  ottenere  l'indennita'
 sostitutiva non e' condizionato allaprevia emissione di una decisione
 che  pronunci l'obbligo della reintegrazione, bensi' all'accertamento
 giudiziale dell'invalidita' del licenziamento;
     che pertanto non  corrisponde  al  dato  normativo  (come  invece
 deduce  la convenuta) che il diritto alla indennita' non sia autonomo
 ma subordinato all'accertamento di quello alla reintegra, di modo che
 (non potendosi pronunciare, per impossibilita', la reintegra nei casi
 in cui, come quello di specie, il lavoratore non abbia  accettato  la
 revoca  del recesso datoriale) l'impossibilita' materiale dell'ordine
 di reintegrazione si riverberebbe, annullandolo o comunque  facendolo
 venire  meno,  sul diritto di opzione economica, "mera prestazione in
 facultate solutionis priva di una autonoma ragion d'essere  e  di  un
 proprio supporto causale";
     che  al lavoratore e' consentito nell'attuale assetto del sistema
 normativo di ricusare la revoca del licenziamento - sul  cui  pratico
 obiettivo,  introducendo il ricorso richiedente la reintegrazione con
 annesse conseguenze patrimoniali,  pur  aveva  modulato  l'originaria
 domanda  -  al  fine  di conseguire la monetizzazione dell'indennita'
 sostitutiva ex art. 18, quinto comma, legge n. 300/70.
   Le considerazioni sovraespresse, che si reputano conformi  al  dato
 offerto  dal diritto positivo, e che comunque sono largamente seguite
 dalla giurisprudenza e da diffusa ed  ottima  dottrina,  inducono  ad
 avviso di questo pretore a ritenere ulteriormente:
     che  il  diritto  al conseguimento dell'indennita' sostitutiva in
 questione,  nell'ambito  della  tutela  c.d.  reale,  sorga  con   il
 licenziamento  illegittimo  e  non  gia'  dalla sentenza che viene ad
 accertare l'illegittimita' e cosi' il diritto alla reintgrazione;  la
 pronuncia  del  giudice  vale  solo ad integrare, giudizialmente, una
 fatti  specie  dichiarativa/ordinatoria:     dichiarativa   a   mezzo
 ricognizione  della  illegittimita' del recesso e ordinatoria, con le
 jussum compendiato  nella  decisione  di  condanna,  del  diritto  ad
 ottenere la prestazione patrimoniale;
     che  -  al  di  la'  della collocazione sistematica, nell'art. 18
 Stat. lav., delle  disposizioni  afferenti  al  risarcimento  (quarto
 comma) ovvero all'indennita' sostitutiva (quinto comma), o ancora dei
 dati  letterali  e  semantici  (risarcimento del danno subito, quarto
 comma;   indennita',   quinto   comma)   -    l'effettiva    funzione
 dell'indennita'  sostitutiva (se si vuole ad essa annettere una reale
 causale  coerente   con   la   costruzione   normativa)   e'   quella
 risarcitoria,  di  ristoro  di  un danno presunto dal legislatore con
 presunzione  assoluta  juris  et de jure e prefissato tipicamente nel
 suo ammontare legale.
   Si osserva invero che la funzione  giuridica  della  indennita'  in
 oggetto  non puo' consistere nel rafforzamento del comando giudiziale
 di  reintegra,  contenuto  nella  sentenza  che  abbia   riconosciuto
 l'invalidita' del licenziamento e disposto la reintegrazione, proprio
 perche'  la  legge  - nel mentre apparentemente fissa una connessione
 ineludibile tra reintegrazione ed indennita' sostitutiva -  detta  in
 realta'   due  istituti  assolutamente  disomogenei  e  tra  di  loro
 sostanzialmente scissi.
   Invero,  l'integrazione  del  diritto  alla   indennita'   non   e'
 configurata  per  l'ipotesi  che  il datore inottemperi all'ordine di
 reintegrazione   e   non   riammetta   il   lavoratore   nel    posto
 precedentemente  occupato  (secondo  un  schema raccordabile a quanto
 avveniva  in  precedenza,  secondo  l'originaria  formulazione  della
 norma,  a  mezzo  dell'indiretto strumento coercitivo dell'obbligo di
 corrispondere comunque le retribuzioni  medio  tempore  maturate)  ma
 viene  "disegnata"  come protesta rimessa all'esclusiva volizione del
 lavoratore, assolutamente prevalente  rispetto  all'eventuale  invito
 del  datore  di  riprendere  servizio.    Quindi, una forma in ultima
 analisi  aggiuntiva   di   risarcimento,   rimessa   alla   decisione
 insindacabile  del lavoratore e che - se puo' trovare, come inferisce
 ottima dottrina, valenza quale elemento di prevenzione e  dissuasione
 per  i  datori  di  lavoro affinche' non comminino licenziamenti poco
 meditati  -  apre  pero'  le  porte  ad  una  tutela   potenzialmente
 esorbitante  rispetto  all'esigenza  astratta  di  riequilibrare  gli
 interessi in gioco.
   La tesi interpretativa del patrocinio della convenuta  -  ossia  di
 collegare  l'obbligazione  del  datore  di  lavoro,  nel  suo momento
 genetico, alla sentenza di  condanna  alla  reintegrazione,  e  cosi'
 ancora  di  raccordare  geneticamente  il  diritto  all'opzione  alla
 condanna di reintegrazione  -  e'  degna  di  considerazione  perche'
 ispirata  ad  una ratio adeguatrice, nell'intento (al di la' dei meri
 interessi   processuali   di   parte)    di    depurare    l'istituto
 dell'indennita'  sostitutiva  da  qualsiasi infiltrazione di elementi
 fattuali di ingiustificato arricchimento o di speculazione, in quanto
 tali immeritevoli  di  tutela  giuridica  su  piano  legale  e  della
 legalita' costituzionale.
   Ma  la  stessa  e'  una  tesi  che  il  dato  di diritto positivo -
 incentrato sulla esclusiva volonta' del lavoratore e che, oltretutto,
 configura solo il termine ultimo  dell'opzione  lasciando  aperto  il
 termine  iniziale  (che secondo questo pretore puo' coincidere con la
 proposizione del ricorso giudiziale) -  non  consente  di  accogliere
 attraverso un mera operazione esegetica.
   Se  i  termini  della  questione possono essere fissati come sopra,
 allora bisogna coerentemente riconoscere che il legislatore,  con  la
 novella  del  1990,  non  ha  semplicemente  diversamente  modulato o
 addirittura attenuato la tutela reale, ma  e'  venuto  a  creare  una
 sorta  di meccanismo a "doppio binario", conservando l'istituto della
 tutela reale e prevedendo nel contempo un parallelo sistema di tutela
 a  valenza  obbligatoria,  rimessa  all'esercizio   di   un   diritto
 potestativo di opzione da parte del lavoratore e caratterizzato dalla
 previsione  rigida di una specie di "super risarcimento" che - per la
 sua assolutezza; per il fatto di prescindere da ogni  reale  funzione
 di  tutela proporzionata di interessi - appare confliggente, in primo
 luogo, con il criterio di ragionevolezza, e cosi'  con  il  parametro
 costituzionale canonizzato all'art. 3 Cost.
   Per  usare  le  espressioni  del  giudice  remittente della sezione
 distaccata di Pietrasanta del circondario di Lucca, la  condanna  "al
 pagamento  delle  quindici mensilita' di retribuzione alla dipendente
 appare, a giudizio dello scrivente, di manifesta irrazionalita'".
   Nel caso all'esame di questo pretore la ricorrente ha reperito  una
 nuova  occupazione  in data 21 novembre 1994, ossai a meno di quattro
 mesi dall'impugnato licenziamento.
   La  ricusazione   della   revoca   del   licenziamento   puo'   far
 ragionevolmente  ipotizzare, secondo l'id quod plerumque accidit, che
 la lavoratrice abbia stimato la nuova  occupazione  quantitativamente
 non  meno  remunerativa  e qualitativamente non meno soddisfacente di
 quella precedente, e comunque che tra  i  due  posti  di  lavoro  non
 sussistesse assoluta disomogeneita' di aspettative professionali e di
 redditi.
   In  ipotesi  di  declaratoria  di illegittimita' del licenzimento -
 evenienza piu'  che  probabile  -  alla  ricorrente,  anche  a  voler
 riconoscere  il  trattamento  risarcitorio minimo previsto dal quarto
 comma dell'art.  18, legge 20 maggio 1970 n. 300, andrebbe attributia
 una indennita' non  inferiore  a  20  mensilita'  della  retribuzione
 globale  di  fatto  parametrata alla precedente attivita' lavorativa,
 senza  alcuna  possibilita'  di  detrarne   alcunche'   non   essendo
 valutabile l'aliendum perceptum.
   Il  riconoscimento  dell'indennita'  nell'indicata misura - anche a
 voler ipotizzare che alla revoca del licenziamento la  convenuta  sia
 stata,  in  tutto  o  in  parte,  indotta  da  motivi  di  "strategia
 processuale" - appare assolutamente inadeguata alle peculiarita'  del
 caso di specie, configurandosi come un ingiustificato arricchimento.
   Inoltre,  l'obbliqua  introduzione  nel  nostro  ordinamento di una
 forma  di  tutela  obbligatoria  "rafforzata",  mascherata  sotto  le
 spoglie  di  tutela  reale,  disperde l'autentica ragion d'essere del
 differenziato  trattamento  tra  lavoratori  assoggettati  all'una  o
 all'altra  forma  di  tutela,  secondo  il  discrimine  dell'art. 1 e
 dell'art. 2 legge n. 108/1990, perche' - mentre e' comprensibile  che
 dimensioni   dell'azienda   e  consistenza  numerica  dei  lavoratori
 occupati modulino diversamente reintegra ovvero riassunzione ex  art.
 8,  legge  n.  604/1966  - meno comprensibile e' una differenziazione
 incentrata   esclusivamente   sull'ampiezza   di   mere   provvidenze
 economiche.
   Non   ultima,   una   irragionevole   previsione   di   conseguenze
 patrimoniali in ambito di licenziamenti illegittimi nel  campo  della
 c.d.  tutela  reale  pare  in  contrasto con il principio di liberta'
 dell'iniziativa economica privata, che, ad avviso dello scrivente, e'
 mortificata non solo  ove  le  restrizioni  all'attivita'  non  siano
 giustificate  dalla esigenza di tutela di pari o superiori interessi,
 ma anche allorquando l'essenza economica dell'impresa  venga  colpita
 (e  si pensi per esempio alle imprese gia' in situazione di soffernza
 economica) in misura sproporzionata rispetto a quanto ragionevolmente
 imposto per il riequilibrio degli interessi.
   Se la  tutela  del  lavoratore  e  dei  suoi  diritti,  nel  nostro
 ordinamento  costituzionale e legislativo, costituisce in se' un bene
 ed un valore per il cui soddisfacimento  sono  dettati  istituiti  di
 rango costituzionale e/o primario, nondimeno siffatta tutela non deve
 essere  modulata su modalita' che si risolvano - o possano risolversi
 - ad esclusivo detrimento  di  altri  soggetti  egualmente  degni  di
 protezione.
   Si  reputa  in  conformita'  che  ricorra  la  rilevanza  e  la non
 manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  18, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300, cosi'
 come modificata dall'art.  1,  legge  11  maggio  1990  n.  108,  per
 contrasto  con  il  canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,
 nonche' con il parametro di cui all'art. 41 Cost., nella parte in cui
 - riconoscendo al lavoratore di chiedere  al  datore  di  lavoro,  in
 sostituzione  della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennita'
 pari a quindici mensilita' della  retribuzione  globale  di  fatto  -
 esclude  che  il  giudice possa valutare i concorrenti profitti della
 fattispecie concreta, e cosi' di escludere la sussistenza del diritto
 all'opzione, ovvero di ridurlo anche facendo uso di poteri di equita'
 (peraltro non estranei per principio alla disciplina del diritto  del
 lavoro).
   Non  ignora questo pretore il rischio che un possibile accoglimento
 della questione venga  a  creare  un  vuoto  nel  sistema  normativo;
 nondimeno,  una  tale  evenienza  potrebbe essere evitata dal giudice
 delle leggi a mezzo di una pronuncia  interpretativa  (nell'ordinanza
 del  pretore  di  Pietrasanta  si  chiede  che  la Corte subordini la
 facolta' del lavoratore alla individuazione di  "giusti  motivi",  da
 valutarsi  caso  per caso da parte del giudice): pronuncia che, lungi
 dall'essere additiva, potrebbe ricondurre a maggiore  razionlita'  ed
 equita' il sistema normativo.