ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 673 del codice
 di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il  1  marzo  1995
 dal  giudice  per  le  indagini  preliminari  del Tribunale di Ascoli
 Piceno sulla richiesta proposta da Petrarolo Franco, iscritta  al  n.
 229 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
   Udito nella camera  di  consiglio  del  6  marzo  1996  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                            Ritenuto in fatto
   1.  -  Richiesto  della revoca di una sentenza pronunciata in esito
 alla procedura di cui all'art. 444 e seguenti del codice di procedura
 penale, che aveva applicato la pena complessiva di  un  anno,  cinque
 mesi,   dieci   giorni  di  reclusione  e  lire  2.500.000  di  multa
 relativamente ai reati previsti dall'art. 73, comma 5, del  d.P.R.  9
 ottobre  1990, n. 309, e dagli artt. 2 e 7 della legge 2 agosto 1967,
 n. 895, uniti dal vincolo della continuazione (pena determinata sulla
 base del primo reato), il giudice per  le  indagini  preliminari  del
 Tribunale  di  Ascoli  Piceno  ha,  con  ordinanza  del 1 marzo 1995,
 sollevato, in riferimento agli  artt.  3  e  25  della  Costituzione,
 questione  di  legittimita'  dell'art.  673  del  codice di procedura
 penale, perche' la detta norma "non sembra contemplare la fattispecie
 di sentenza di condanna relativa a piu'  reati,  unificati  sotto  il
 vincolo della continuazione, uno solo dei quali sia stato abolito per
 abrogazione  o  dichiarazione  di illegittimita' costituzionale della
 norma incriminatrice".
   Piu' in particolare, il giudice  a quo osserva  che  la  "condanna"
 relativa al reato di detenzione di sostanze stupefacenti potrebbe "in
 teoria"  essere  revocata  a  seguito  della  procedura  referendaria
 conclusasi con il d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, non sussistendo  agli
 atti elementi tali da escludere l'uso personale della droga detenuta.
 Una  revoca  che  pero'  non  potrebbe essere pronunciata nel caso di
 specie  perche'  la  norma  denunciata   sembrerebbe   "concepita   e
 strutturata per la sola ipotesi di una sentenza o decreto di condanna
 riguardante una o piu' norme abrogate o dichiarate costituzionalmente
 illegittime"  e  non  anche  per  l'ipotesi  di sentenza o decreto di
 condanna riguardante plurimi fatti di reato, uno (o alcuni)  soltanto
 dei  quali  rientrante  nella  previsione dell'art. 673 del codice di
 procedura penale.
   E cio' perche' manca nel  sistema  una  norma  che  attribuisca  al
 giudice   dell'esecuzione   un   potere   di  revoca  parziale  e  di
 rideterminazione della pena a seguito dell'abolitio criminis.
   Un procedimento, oltre tutto - prosegue  l'ordinanza  -  di  dubbia
 percorribilita'  nei casi - come quello all'esame del giudice a quo -
 in cui l'abolizione del reato coinvolge la fattispecie piu' grave dei
 reati uniti dal vincolo della continuazione e che, dunque, non  rende
 possibile  la  rideterminazione della pena, oltre tutto a mezzo di un
 provvedimento avente natura di  ordinanza,  benche'  pronunciato  nel
 contraddittorio delle parti.
   Ed  ancora,  con  piu'  specifico riferimento al processo da cui e'
 scaturita l'attuale vicenda esecutiva, processo conclusosi  ai  sensi
 dell'art. 444 e seguenti del codice di procedura penale, il giudice a
 quo   avanza   perplessita'   circa  l'area  di  possibile  incidenza
 dell'abolitio criminis; se essa  cioe'  comporti  effetti  demolitori
 sull'intero  assetto  programmato dalle parti e accolto dal giudice o
 invece soltanto sulla pronuncia riguardante la fattispecie  abrogata;
 senza  che,  peraltro,  in  tal  caso,  sia  possibile rinvenire, nel
 sistema della legge, un criterio che  consenta  di  rideterminare  la
 pena residua.
   In  conclusione,  secondo  il rimettente, la formulazione dell'art.
 673 del codice di procedura penale, nella sua interpretazione  logica
 e  letterale,  pare  non  consentire  al  giudice  dell'esecuzione di
 pronunciare la revoca parziale della sentenza e di pervenire, dunque,
 alla conseguente rideterminazione della pena residua.
   Donde la violazione del principio di  eguaglianza  da  parte  della
 norma   denunciata   dove   questa   "non   prevede  che  il  giudice
 dell'esecuzione possa provvedere alla revoca parziale della  sentenza
 o  del  decreto  penale  di condanna" ed alla "rideterminazione della
 pena, anche in caso di condanne ex art. 444  c.p.p.,  trattandosi  di
 situazione   sostanzialmente   identica,   almeno  sotto  il  profilo
 dell'interesse del condannato, a quella  della  revoca  totale  della
 sentenza   o  del  decreto  di  condanna  riguardante  esclusivamente
 fattispecie  di  reato  abrogate";   nonche'   dell'art.   25   della
 Costituzione,   poiche',   "escludendo   la  possibilita'  di  revoca
 "parziale" della sentenza o del decreto di  condanna,  il  condannato
 verrebbe assoggettato ad una pena (rectius: ad una parte di pena) per
 una  fattispecie  abrogata  o  dichiarata incostituzionale al momento
 dell'esecuzione e ne dovrebbe subire gli effetti per  il  solo  fatto
 del  collegamento,  con il vincolo della continuazione, a fattispecie
 non   interessata   dall'abrogazione   e   dalla   declaratoria    di
 incostituzionalita'".
   2.  -  E'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 chiedendo   che  la  questione  venga  dichiarata  inammissibile  con
 riferimento all'art. 25 ed infondata con riferimento all'art. 3 della
 Costituzione.
   L'infondatezza   della   questione   relativamente   alla   dedotta
 violazione  del  principio di eguaglianza conseguirebbe dall'avere il
 giudice a quo evocato una figura giuridica - la revoca parziale della
 sentenza - assolutamente inipotizzabile alla  stregua  dell'art.  673
 del  codice  di  procedura  penale,  atteggiandosi la revoca sempre e
 comunque come totale.
   Per il resto, e cioe' per i provvedimenti conseguenti  del  giudice
 dell'esecuzione,  si  tratta  di un problema di ordine esclusivamente
 interpretativo, da risolvere positivamente; nel senso, cioe', che  il
 giudice  dell'esecuzione,  in  quanto  competente ad adottare tutti i
 provvedimenti concernenti l'esecuzione delle sentenze o dei  decreti,
 puo' eliminare la pena per il reato (non piu' esistente) piu' grave e
 determinare la pena per il reato meno grave. Un principio applicabile
 anche  alle  sentenze  pronunciate a norma degli artt. 444 e seguenti
 del codice di procedura penale.
   L'inammissibilita'  della  questione  incentrata sull'art. 25 della
 Costituzione deriverebbe, poi, dal non trovare il principio  espresso
 dal parametro invocato applicazione nella fattispecie in esame.
                         Considerato in diritto
   1.  - Chiamato a decidere sulla richiesta di revoca di una sentenza
 per abolizione del reato  proposta  nell'interesse  di  persona  alla
 quale  era  stata  applicata, con decisione divenuta irrevocabile, la
 pena complessiva di anno uno, mesi cinque, giorni dieci di reclusione
 e lire 2.500.000 di multa per il reato di cui all'art. 73,  comma  5,
 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per violazione della legge sulle
 armi  (artt.  2  e  7  della  legge 2 agosto 1967, n. 895), uniti dal
 vincolo della continuazione, revoca da ritenere circoscritta al primo
 reato, in quanto depenalizzato in forza  dell'esito  della  procedura
 referendaria  diretta all'abrogazione di talune norme del testo unico
 in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope, il giudice  per  le
 indagini preliminari del Tribunale di Ascoli Piceno ha denunciato, in
 riferimento  agli  artt.  3 e 25 della Costituzione, l'illegittimita'
 dell'art. 673 del codice di procedura  penale,  nella  parte  in  cui
 "l'attuale  formulazione"  di detta norma, "non sembra contemplare la
 fattispecie relativa a piu' reati unificati sotto  il  vincolo  della
 continuazione, uno solo dei quali sia stato "abolito" per abrogazione
 o   dichiarazione   di   illegittimita'  costituzionale  della  norma
 incriminatrice".
   Secondo il rimettente  la  procedura  prevista  dall'art.  673  del
 codice  di  procedura  penale  "sembra"  congegnata  in  modo tale da
 trovare applicazione "per la sola ipotesi di una sentenza  o  decreto
 di  condanna  riguardante  una  o  piu'  norme  abrogate o dichiarate
 costituzionalmente illegittime"; non sarebbe,  invece,  in  grado  di
 operare  nei  casi di sentenze o decreti riguardanti norme abrogate o
 dichiarate costituzionalmente illegittime e norme rimaste in  vigore:
 nei  casi,  cioe',  di  decisioni  aventi  ad  oggetto  piu'  capi di
 imputazione alcuni dei quali soltanto siano  relativi  a  fattispecie
 abrogate  o  dichiarate incostituzionali. Il tutto perche' solo se la
 legge attribuisse espressamente sia il potere  di  "revoca  parziale"
 sia  quello di "provvedere alla rideterminazione della pena residuata
 a  seguito  della  revoca  parziale",  il  detto   giudice   potrebbe
 scorporare  l'una  dall'altra  condanna e provvedere conseguentemente
 alla riduzione della pena determinando il  residuo  da  eseguire.  Un
 potere  che,  fra  l'altro, ove venisse riconosciuto, darebbe vita ad
 ulteriori profili problematici nel caso di reati  uniti  dal  vincolo
 della  continuazione  se  l'abolitio  criminis concerna il reato piu'
 grave sul quale e' stata operata la determinazione della  pena  base,
 per  di  piu'  con  un  provvedimento  "avente  natura di ordinanza";
 profili che nel caso di applicazione della pena  su  richiesta  delle
 parti   assumono   un  tasso  di  maggiore  complessita',  occorrendo
 verificare  se  il  reato  "sopravvissuto  alla  abrogatio  criminis"
 richieda  o  no  un nuovo accordo fra le parti, tanto piu' che l'art.
 188 delle norme di attuazione impone un simile accordo per  applicare
 in  sede  esecutiva  la  disciplina  del concorso formale o del reato
 continuato.
   2. - La questione non e' fondata.
   L'art. 673 del codice di procedura penale, sotto il titolo  "Revoca
 della  sentenza  per  abrogazione  del  reato",  ha  dato  vita ad un
 istituto  del  tutto  nuovo  nell'ordinamento  positivo.  Prevedendo,
 infatti,  nel  suo  primo  comma  che,  nel  caso di abrogazione o di
 dichiarazione    di   illegittimita'   costituzionale   della   norma
 incriminatrice, il giudice  dell'esecuzione  revoca  la  sentenza  di
 condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non e' previsto
 come  reato  e  adotta  i  provvedimenti conseguenti, la disposizione
 denunciata segna, infatti, sul piano processuale  e  nella  specifica
 materia  dell'abolitio  criminis  un  reciso  mutamento  di  tendenza
 rispetto alle prescrizioni dell'art. 2,  secondo  comma,  del  codice
 penale ("Nessuno puo' essere punito per un fatto che secondo la legge
 posteriore  non  costituisce  reato;  e  se  vi  e' stata condanna ne
 cessano l'esecuzione e gli effetti penali") e  dell'art.    30  della
 legge  11  marzo  1953,  n.  87 ("Quando in applicazione di una norma
 dichiarata   incostituzionale   e'   stata    pronunciata    sentenza
 irrevocabile  di  condanna,  ne  cessano  la  esecuzione  e tutti gli
 effetti penali"), in base alle quali l'abolitio criminis derivante  o
 da  abrogazione  della norma penale incriminatrice o da dichiarazione
 di  illegittimita'  costituzionale  della  norma  stessa  non  spiega
 effetti  sul  giudicato  ma  esaurisce  la  sua  valenza  demolitoria
 sull'esecuzione della sentenza,  senza  alcuna  efficacia  risolutiva
 della  decisione  divenuta irrevocabile.  Nel nuovo quadro normativo,
 invece, in concomitanza con i piu' penetranti poteri riconosciuti  al
 giudice  dell'esecuzione  ed  in puntuale coerenza con il processo di
 integrale giurisdizionalizzazione  di  ogni  momento  di  tale  fase,
 governata  sulla  traccia  delle  direttive  contenute nell'art.   2,
 numeri 96, 97  e  98  della  legge-delega,  da  un'accentuazione  del
 rilievo del contraddittorio (v. anche la prima subdirettiva dell'art.
 2,  numero  3,  della  stessa  legge-delega)  la  decisione  viene ad
 incidere direttamente,  cancellandola,  sulla  sentenza  del  giudice
 della cognizione.
   3.  - Considerati i limiti insiti nel requisito della rilevanza, la
 questione sottoposta all'esame della Corte sembra in  realta'  essere
 stata  proposta  sotto  tre  ordini di profili coordinati tra loro in
 logica successione.
   L'uno, concernente la possibilita' di applicazione  dell'art.  673,
 primo  comma, del codice di procedura penale nell'ipotesi di condanna
 per plurime imputazioni in ordine ad una o ad alcune  soltanto  delle
 quali   sia   intervenuta   l'abrogazione   o   la  dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale della norma incriminatrice relativa. Il
 secondo, riguardante la possibilita' di far operare l'istituto  della
 revoca  della  sentenza  quando  uno  o  alcuno  dei fatti rientranti
 nell'abolitio criminis sia stato giudicato  come  unito  dal  vincolo
 della  continuazione  con  altro  reato  relativamente  al  quale non
 ricorra l'abolitio criminis soprattutto quando sul  primo  sia  stata
 determinata  la  pena  base.  Il  terzo, infine, avente ad oggetto la
 possibilita' di utilizzare la norma denunciata in tutti quei casi  in
 cui  non  soltanto  si  verifichino  le  prime  due condizioni, ma il
 giudicato derivi da  una  sentenza  di  applicazione  della  pena  su
 richiesta delle parti.
   E' evidente, dunque, che qui la rilevanza diviene non un limite, ma
 un  requisito  in  grado di coinvolgere, ai fini del concreto operare
 dell'art. 673 del codice di procedura penale, tutte le  decisioni  di
 condanna, e, quindi, anche la pronuncia di applicazione della pena su
 richiesta  (da  considerare,  pure  a  tali  fini,  come  sentenza di
 condanna, alla stregua  del  disposto  dell'art.  445,  primo  comma,
 ultima  parte,  del codice di procedura penale) per una pluralita' di
 reati uno o alcuno dei quali soltanto sia ricompreso nella previsione
 della norma incriminatrice abrogata.
   4. - Quanto al primo problema, il presupposto interpretativo da cui
 muove il giudice a quo appare  assolutamente  erroneo.  Se  e'  vero,
 infatti,   che   la  norma  denunciata  non  contempla  espressamente
 l'abolitio criminis non riferibile a tutti i reati in ordine ai quali
 e' intervenuta condanna, cio'  e'  perche'  una  simile  disposizione
 sarebbe  risultata  pleonastica.  In  tale ipotesi non pare, infatti,
 corretto - come ha esattamente dedotto  l'Avvocatura  generale  dello
 Stato  nel  suo  atto  di  intervento  - fare riferimento alla revoca
 parziale perche', in ogni caso,  la  sentenza  di  condanna  dovrebbe
 essere  revocata nella sua interezza, cosi' come prescrive l'art. 673
 del codice di procedura penale; salvo poi l'esercizio  da  parte  del
 giudice  dell'esecuzione  del  potere di determinare il residuo della
 pena inflitta. Meccanismo ben diverso dalla revoca della sentenza, un
 istituto,  invece,  sicuramente  operante   anche   nell'ipotesi   di
 pluralita' di reati.
   Sotto   tale   aspetto,   dunque,   introdurre  nella  problematica
 prospettata a questa Corte il tema  concernente  la  rideterminazione
 della  pena  rivela,  anzi, una giustapposizione di questioni che non
 sembra rispondere alla ratio dell'art. 673 del  codice  di  procedura
 penale;  e  cio'  perche' la determinazione del "residuo" costituisce
 soltanto l'ineludibile conseguenza della revoca del giudicato.  Cosi'
 da   rivelare   un   ulteriore   errore  interpretativo  direttamente
 scaturente dal postulato della revoca parziale, essendosi  omesso  di
 considerare  che,  una  volta  venuto  meno  il  giudicato  nella sua
 integrita',  sara'  necessario  pervenire  ad  adottare   una   nuova
 statuizione   in  sede  esecutiva  da  sovrapporre  al  giudicato  di
 cognizione.
   Ne' va trascurato come ugualmente pleonastica si  sarebbe  rivelata
 un'espressa  previsione  legislativa  ove  si ritenesse concepibile -
 conformemente a talune prese di posizione della giurisprudenza  -  la
 revoca   soltanto  parziale  della  sentenza,  in  tal  modo  facendo
 coincidere  l'effetto  demolitorio  del  provvedimento  del   giudice
 dell'esecuzione  con  l'effetto  rideterminativo  della  pena.  Anche
 seguendo una simile ricostruzione, infatti, la  revoca  parziale  non
 avrebbe   avuto   necessita'  di  apposita  previsione  derivando  la
 coincidenza di effetti  ora  ricordata  dal  semplice  richiamo  alle
 regole  che  disciplinano  la condanna per una pluralita' di reati e,
 con riferimento alla specifica fattispecie, dai  principi  desumibili
 dal rapporto fra abolitio criminis e continuazione.
   5. - Cosi' introdotto il secondo profilo di censura, diviene subito
 chiaro  come  le  perplessita'  avanzate  dal  giudice a quo oltre ad
 apparire come rivolte a proporre un mero dubbio interpretativo - pure
 qui fondato su presupposti non corrispondenti ne'  alla  lettera  ne'
 alla  ratio  del  precetto della norma denunciata - si rivelano anche
 del tutto divergenti rispetto  alla  linea  interpretativa  tracciata
 dalla  giurisprudenza  della  Corte di cassazione in tema di rapporti
 tra continuazione e cosa giudicata.
   Dopo un lungo travaglio ermeneutico iniziato a  partire  dai  primi
 anni  ottanta e culminato verso la fine di tale decennio, la Corte di
 cassazione si e' assestata sulla regula  iuris  in  base  alla  quale
 anche nell'ipotesi in cui il reato per il quale il giudice procede e'
 piu'  grave  di  quello  gia'  giudicato con sentenza irrevocabile di
 condanna e' applicabile la  continuazione,  purche'  venga  accertata
 l'identita'  del  disegno  criminoso dell'uno e dell'altro fatto: con
 l'effetto, in tema di determinazione della pena, che, individuata  la
 pena  base  per  il  reato  piu'  grave sottoposto al suo   esame, il
 giudice vi apportera' l'aumento giudicato equo per  la  continuazione
 con il reato gia' giudicato e meno grave. Il che conduce - a fortiori
 - a ritenere del tutto ininfluente il quesito sollevato dal giudice a
 quo  ancora una volta, concernente in via esclusiva la tematica della
 determinazione della pena.
   La stessa tematica viene, poi, evocata anche con l'argomento che la
 pronuncia del giudice dell'esecuzione viene adottata con ordinanza  e
 non con sentenza.
   A  tale  proposito l'enfatizzazione della tipologia provvedimentale
 prevista  dalla  legge  appare  in  tutta  la   sua   evidenza   solo
 considerando  che,  in  tal  modo, viene a mettersi in discussione la
 stessa disciplina della statuizione che  pronuncia  l'abolizione  del
 reato.  Si  omette,  infatti,  di considerare come il procedimento di
 esecuzione, da attivare per pervenire all'applicazione dell'art.  673
 del  codice  di  procedura penale, e' contrassegnato (salvo che per i
 casi  di  richiesta  manifestamente  infondata  per   difetto   delle
 condizioni  di  legge  e  di  riproposizione  di  una  richiesta gia'
 rigettata basata sui medesimi motivi)  dall'assoluta  osservanza  del
 principio  del  contraddittorio proprio dei procedimenti in camera di
 consiglio, con in piu' la partecipazione necessaria del  difensore  e
 del  pubblico  ministero. Del resto, che l'osservazione del giudice a
 quo sia davvero esorbitante rispetto alla questione proposta  risulta
 confermato  dal  rilievo  che  trattasi  di  un  provvedimento la cui
 denominazione va coordinata con i tipi di provvedimento  del  giudice
 dell'esecuzione,  la  forza  demolitoria  dei quali dovra' poi essere
 documentata  secondo  il  disposto  dell'art.  193  delle  norme   di
 attuazione.
   6.  -  Pure  l'ultima  questione  problematicamente  introdotta dal
 giudice a quo  quella  concernente  la  prospettata  incompatibilita'
 dell'art.    673  del  codice di procedura penale nei confronti della
 sentenza,  passata  in  giudicato,  di  applicazione  della  pena  su
 richiesta  delle  parti  ove l'abolitio criminis non concerna tutti i
 reati ai quali la pena e' stata applicata, per il fatto che  potrebbe
 anche profilarsi, nell'ipotesi di applicabilita' "parziale" dell'art.
 673  del  codice di procedura penale, la necessita' di far nuovamente
 verificare alle parti la rispondenza al loro interesse  dell'accordo,
 non ha fondamento.
   A  parte  la considerazione che le perplessita' sollevate risultano
 gia' di per se' contraddittorie rispetto alle premesse, in quanto  si
 darebbe  per  scontata proprio quella revoca totale che il rimettente
 mostra di escludere, i dubbi sollevati dal giudice a  quo  non  hanno
 assolutamente ragion d'essere.
   Priva  di  consistenza  e',  infatti,  la  dedotta comparazione con
 l'art.  188 delle norme di attuazione del codice di procedura penale,
 quanto alla problematicamente  evidenziata  necessita'  di  un  nuovo
 consenso  delle parti nel caso di piu' sentenze di applicazione della
 pena su richiesta pronunciate  in  procedimenti  distinti  contro  la
 stessa persona.
   Tale precetto che, come e' stato rilevato, costituisce, a un tempo,
 applicazione  e  completamento  dell'art. 671 del codice di procedura
 penale, proprio per prevedere l'irrogazione di una  pena  diversa  in
 relazione  a  reati  gia'  giudicati,  non  puo'  operare  attraverso
 l'intervento unilaterale del  giudice,  postulando  invece  il  nuovo
 assetto  da  comporre  che  tanto  il  condannato  quanto il pubblico
 ministero valutino, in relazione ad un momento  che  appartiene  alla
 fase  dell'esecuzione,  ciascuno con riguardo all'interesse di cui e'
 portatore, se procedere o no all'unificazione per la continuazione di
 fatti giudicati con separate sentenze  di  applicazione  della  pena.
 Fermo  restando  nel  giudice  dell'esecuzione  il potere-dovere, non
 soltanto "di  verificare  in  concreto  la  sussistenza  di  tutti  i
 presupposti   cui   l'ordinamento   subordina   l'applicazione  della
 disciplina del reato continuato, fra i quali anche, attesi  i  limiti
 inerenti  alla  fase,  la mancanza della condizione ostativa espressa
 dall'art. 671, primo comma, cod. proc.   pen.,  ma  anche  quello  di
 valutare  la  congruita'  della  pena indicata dalle parti ai fini di
 quanto previsto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, tenuto
 conto della portata generale che assume il principio affermato  e  il
 decisum  espresso nella sentenza n. 313 del 1990" (v. ordinanza n. 37
 del 1996).
   Una vicenda, quindi, che non rivela affinita' di sorta  con  quella
 ora al vaglio della Corte, rispetto alla quale i termini dell'accordo
 non  possono  essere  in  alcun  modo  chiamati  in  causa occorrendo
 soltanto verificare se una o taluna delle  imputazioni  relativamente
 alla  quale  e'  stata  applicata  la pena concerna un fatto non piu'
 costituente reato per abrogazione della norma  incriminatrice  o  per
 dichiarazione di illegittimita' della norma stessa. Senza contare che
 gli  interventi  in  executivis  sulla  pronuncia  del  giudice della
 cognizione costituiscono l'espressione di un  potere  eccezionalmente
 conferito  dalla legge e, come tale, non suscettibile di applicazione
 analogica.
   7. - Del resto, che questa debba essere  la  scelta  interpretativa
 cui affidare la soluzione della questione sollevata dal giudice a quo
 non  soltanto  sotto  il  profilo  della  violazione del principio di
 eguaglianza, ma anche  sotto  il  profilo  del  prospettato    vulnus
 all'art.  25  della  Costituzione,  appare  chiaro  dall'esame  della
 giurisprudenza della Corte di cassazione circa i poteri  del  giudice
 dell'esecuzione in caso di abolitio criminis.
   Pure se talune pronunce giurisprudenziali escludono la possibilita'
 per  il giudice dell'esecuzione di scindere l'unita' dell'imputazione
 nel  caso  in  cui  una  sola  parte  di   essa   risulti   coinvolta
 nell'abolitio  criminis  cosi'  da  non  consentire  in  tali ipotesi
 l'applicazione dell'art.   673 del codice  di  procedura  penale,  la
 ratio  decidendi  di tali statuizioni non e' certo rinvenibile in una
 esclusione di  quella  che  viene  definita  "revoca  parziale  della
 sentenza";  che', anzi, nel caso di plurime imputazioni una od alcuna
 soltanto delle quali concerna una fattispecie  di  reato  abrogata  o
 dichiarata     costituzionalmente    illegittima,    e'    pressoche'
 incontrastata l'affermazione che in simili ipotesi la  revoca  andra'
 disposta limitatamente ai detti reati ed alla pena ad essi relativa.
   Le   statuizioni   ora   rammentate   vanno  ricollegate  piuttosto
 all'affermato principio - che, peraltro, non sembra  rispondere  agli
 scopi  perseguiti  dal  legislatore  con  la previsione dell'istituto
 della revoca della sentenza di condanna per abolizione  del  reato  -
 della   inscindibilita'   dell'imputazione:   una   regola   ritenuta
 ineludibilmente  ostativa,   per   essersi   formato   il   giudicato
 sull'intero  oggetto del rapporto processuale concernente una singola
 imputazione, alla possibilita' di fare ricorso  al  precetto  di  cui
 all'art.  673,  primo  comma,  del  codice  di procedura penale (cfr.
 Cass., Sez. VI,  3  giugno  1994,  Cappelli).  Ma,  piu'  ancora,  va
 ricordata  un'ulteriore  presa di posizione della Corte di cassazione
 che, proprio nell'ipotesi di riconoscimento in sede di cognizione  ed
 a  seguito  di sentenza di applicazione della pena su richiesta della
 continuazione fra un reato, considerato piu' grave,  ed  altro  reato
 meno  grave,  ha  ritenuto  applicabile  l'art.  673  del  codice  di
 procedura penale in relazione a tale  ultimo  reato  per  intervenuta
 abolitio  criminis  con eliminazione della pena relativa. Per di piu'
 additando anche le prescrizioni da  adottare  per  la  determinazione
 della  pena  residua  in  osservanza  del principio di legalita'; nel
 senso che  alla  regola  secondo  cui  il  trattamento  sanzionatorio
 originariamente previsto per i cosiddetti reati satelliti non esplica
 piu'  alcuna  efficacia,  deve  essere  sostituito  il principio che,
 venuto meno il presupposto per l'applicabilita'  della  detta  regola
 costituito  dalla  continuazione,  il  reato  satellite  recupera  la
 propria  autonomia  sotto  il  profilo  sanzionatorio,  non   essendo
 consentito  stabilire  per  esso  una  pena  diversa,  per  specie  e
 qualita', da quella edittale senza violare il principio di  legalita'
 (Cass., Sez. I, 7 marzo 1995, Parisi).
   8.  - Cosi' interpretata, la norma denunciata si sottrae, dunque, a
 qualsiasi dubbio di legittimita'  costituzionale,  sia  in  relazione
 all'art.  3  sia  in  relazione  all'art.  25  della Costituzione, un
 parametro, quest'ultimo, solo indirettamente  chiamato  in  causa  in
 quanto   riferibile  alla  illegittimita'  del  denunciato  perdurare
 dell'assoggettamento a quella parte di pena  che  corrispondeva  alla
 fattispecie abrogata o dichiarata incostituzionale.