IL TRIBUNALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale n.
 28/92 r.g. Trib. contro Pahor Samo, nato a Trbovlje (Slovenia) il  22
 maggio  1939,  residente a Trieste, Salita di Vuardel n. 21, imputato
 dei reati di cui agli artt. 337 c.p., 582, 585, 576, primo  comma  n.
 1, 61 n. 2, 61 n. 10 c.p., 341, 340 c.p., 51 legge 25 maggio 1970, n.
 352,  in  riferimento  all'art.  100,  primo comma, d.P.R. n. 361 del
 1957;
                           Premesso in fatto
   All'udienza dibattimentale  del  1  febbraio  1996  nel  suindicato
 procedimento   penale   il  pubblico  ministero  e  la  parte  civile
 costituita eccepivano l'illegittimita' costituzionale, per violazione
 degli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo  comma,  e  112  Cost.,
 degli  artt.  159  c.p., 46, terzo comma, c.p.p., 47, primo e secondo
 comma, c.p.p., 48, quarto comma, c.p.p., 49, secondo  comma,  c.p.p.,
 nella  parte  in cui fanno divieto al giudice del merito di sindacare
 l'ammissibilita'  e  la  fondatezza  della  richiesta  di  rimessione
 nonche' di pronunciare  sentenza  fino  a  che  non  sia  intervenuta
 l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta stessa,
 cosi'  di  fatto impedendo, nei confronti degli imputati che si siano
 strumentalmente avvalsi dell'istituto a  fini  dilatori,  l'esercizio
 della giurisdizione penale, con conseguente possibile maturazione dei
 termini di prescrizione.
                        Considerato in diritto
   Ritiene  il  Collegio che, ricorrendo i requisiti della rilevanza e
 non  manifesta   infondatezza   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale  prospettata  dal  pubblico  ministero  e  dalla parte
 civile, essa dev'essere sollevata con ogni conseguente provvedimento.
   Appare,  anzitutto,  sicuramente  sussistente  il  requisito  della
 rilevanza,   essendo   evidente   che  un'eventuale  declaratoria  di
 illegittimita'  costituzionale  della  normativa  eccepita,   ed   in
 particolare  del ricordato divieto dell'art. 47, primo comma, c.p.p.,
 consentirebbe l'attuazione della giurisdizione penale  attraverso  la
 pronuncia della sentenza di merito, allo stato del tutto preclusa.
   Sotto  il  diverso  profilo  della  non  manifesta infondatezza, e'
 opportuno ricordare che all'udienza  dibattimentale  del  1  febbraio
 1996  l'imputato  ha  ulteriormente  riproposto,  per  pretesi  nuovi
 motivi, la richiesta di rimessione ex art. 45  e  segg.  c.p.p.  gia'
 altre  volte formulata nel corso del dibattimento e altrettante volte
 respinta ovvero dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione.
   L'uso   strumentale   dell'istituto   della   rimessione,   operato
 attraverso  la reiterazione di richieste, solo apparentemente fondate
 su nuovi motivi, ha comportato a  tutta  evidenza,  da  un  lato,  la
 pratica  impossibilita'  di definizione del processo, con conseguente
 sottrazione dell'imputato all'esercizio della  giurisdizione  penale,
 dall'altro  il  concreto pericolo di prescrizione di alcuni dei reati
 contestati (per quelli di cui agli artt. 340 e 341 c.p. si sono  gia'
 maturati  i  termini  di  prescrizione  ordinaria),  non essendo, tra
 l'altro, la proposizione dell'istanza  in  esame  ricompresa  tra  le
 cause che ex art. 159 c.p. determinano la sospensione del corso della
 prescrizione.
   Tali   gravi   effetti  di  un  uso  distorto  dell'istituto  della
 rimessione sono solo in parte conseguenti al difetto, risultante  dal
 combinato  disposto  degli  artt.  46,  48  e  49  c.p.p.,  di potere
 delibatorio  del  giudice  in  ordine   all'ammissibilita'   o   alla
 fondatezza  della  richiesta  di rimessione, anche nei casi in cui la
 stessa appaia   manifestamente  inammissibile  o  infondata,  siccome
 riservata  all'esclusiva  competenza  della Corte di cassazione (cfr.
 Cass. SS.UU. n. 6925 del 1995, Romanelli).
   Appare, invero, evidente che,  quand'anche  fosse  riconosciuto  al
 giudice  del merito un sindacato di ammissibilita' sulla richiesta di
 rimessione, nulla impedirebbe all'imputato, dopo la  declaratoria  di
 inammissibilita'  della  prima  istanza,  di riproporla sulla base di
 motivi anche solo apparentemente nuovi, ottenendo comunque  l'effetto
 di  impedire  la  decisione finale (cfr. in tal senso, le conclusioni
 dell'Avvocatura generale dello Stato  nel  giudizio  di  legittimita'
 costituzionale  definito  con  sentenza  n.  460 del 1995 della Corte
 costituzionale).
   Per contro, e' il rigido divieto codificato nell'art. 47 c.p.p.  di
 pronunciare  sentenza "fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che
 dichiara inammissibile o rigetta la richiesta", a  porsi,  ad  avviso
 del  Collegio,  alla  base  delle  lamentate distorsioni dell'attuale
 assetto dell'istituto della rimessione.
   Tale divieto, peraltro sconosciuto all'abrogato codice di  rito  ed
 introdotto dai compilatori di quello vigente allo scopo di evitare le
 incertezze  interpretative  insorte  nel  passato sui rapporti tra la
 pronuncia della sentenza non definitiva  nel  processo  principale  e
 l'esame dell'istanza di rimessione nonche' sulla sorte della sentenza
 di  merito  una  volta  accolta la richiesta di rimessione, appare in
 sicuro contrasto con i parametri degli artt. 3, 97 e 101 Cost.
   Non sembra dubbio, infatti, per quanto sopra  evidenziato,  che  la
 normativa   in  esame  da  un  lato  non  corrisponde  al  canone  di
 ragionevolezza   rispetto   all'esigenza   del    "buon    andamento"
 dell'amministrazione  della  giustizia  ed,  in particolare, a quella
 dell'efficienza del processo penale  (artt.  3  e  97,  primo  comma,
 Cost.);  dall'altro  confligge  con il principio che vuole il giudice
 soggetto  solo  alla  legge,  laddove  invece  nell'attuale   assetto
 dell'istituto   l'esercizio   della   giurisdizione  resta  di  fatto
 assoggettato alle iniziative, piu' o meno  arbitrarie,  dell'imputato
 (art. 101 Cost.).
   Si  impone,  pertanto,  ad  avviso  del collegio, un intervento del
 giudice delle leggi diretto a consentire anche nella  pendenza  della
 richiesta  di rimessione la pronuncia della sentenza di merito, fermo
 restando il potere della S.C., per l'ipotesi  di  accoglimento  della
 richiesta,  di  annullare  la  sentenza  predetta  siccome emessa "in
 difetto temporaneo di potere giurisdizionale" (cfr. Cass.  SS.UU.  n.
 6925 del 1995 cit.).
   Consegue  la  sospensione del processo e la trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale per il giudizio.