IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Dell'Oglio
 Massimo, nato il 23 maggio 1974 a S. Severo (Foggia), atto di nascita
 n. 715/A/I, ivi residente in via Checchia-Rispoli n.  278,  muratore,
 celibe, censurato; soldato nella Forza assente del distretto militare
 di  Foggia,  libero, imputato di diserzione (art. 148 n. 1, c.p.m.p.)
 perche' perdurava nell'arbitraria assenza anche  posteriormente  alla
 sentenza di condanna del tribunale militare di Padova del 17 febbraio
 1994 e fino a tutt'oggi.
   In esito al pubblico ed orale dibattimento.
                            Fatto e diritto
   Con  sentenza  del  17 novembre 1994 il militare Dell'Oglio Massimo
 veniva condannato da  questo  tribunale  militare  per  il  reato  di
 diserzione (art. 148 c.p.m.p.), in relazione ad assenza che, iniziata
 il 16 luglio 1993, ancora non era cessata alla data del giudizio.
   Il   procuratore   militare   in   sede,  a  fronte  del  perdurare
 dell'assenza,  instaurava  altro  procedimento  per   il   reato   di
 diserzione  in  epigrafe, decorrente dal 17 febbraio 1994, data della
 prima pronuncia. L'assenza a tutt'oggi non e' ancora cessata.
   Secondo costante giurisprudenza regolatrice e del giudice  militare
 d'appello,  la  prosecuzione dell'assenza arbitraria dopo la sentenza
 di primo grado costituisce ad  ogni  effetto  un  nuovo  ed  autonomo
 reato,  come  tale  da  giudicare senza che per cio' venga violato il
 princio del ne bis in idem  di  cui  all'art.  649  c.p.p.  Dovrebbe,
 pertanto, essere accolta la richiesta del p.m.
   Con  varie  ordinanze emesse il 12 aprile 1994 e in date successive
 questo  tribunale  sollevava  tuttavia  questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art. 649 c.p.p., nella parte in cui consente che
 per un unico reato  permanente,  una  o  piu'  volte  "giudizialmente
 interrotto",  sia irrogabile un complessivo trattamento sanzionatorio
 superiore a quello edittalmente stabilito per il reato  medesimo,  in
 relazione  agli artt.  3, 25, secondo comma, e 27, primo comma, Cost.
 In  tal  modo  questo giudice remittente, nell'alveo del principio di
 civilta' giuridica sancito dall'art. 649  c.p.p.,  e  prendendo  atto
 inoltre  -  come di un dato di diritto vivente - della permanenza dei
 reati di  assenza  dal  servizio,  intendeva  porre  in  risalto  che
 dall'"interruzione della permanenza" conseguente al giudizio derivano
 seri   problemi   di   legittimita',   con  violazione  delle  citate
 disposizioni  costituzionali.  E  nell'occasione  era   apparso   che
 l'istituto    dell'"interruzione    giudiziale   della   permanenza",
 individuato  quale  responsabile  delle   lamentate   illegittimita',
 trovasse il suo riscontro normativo nel citato art. 649 c.p.p.
   Con  l'ordinanza n. 150 del 4-5 maggio 1995 la Corte costituzionale
 ha  dichiarato  la  manifesta   inammissibilita'   della   questione,
 rilevando  innanzitutto  che  l'effetto dell'"interruzione giudiziale
 della  permanenza"  non  discende   affatto   dall'applicazione   del
 principio  contenuto  nell'art.    649  c.p.p.;  ma  soprattutto  che
 l'origine delle asserite incostituzionalita'  non  e'  l'interruzione
 giudiziale,   bensi'   il  fatto  che  il  reato  sia  configurato  e
 disciplinato come permanente. Sul punto la Corte ha poi precisato che
 la  presenza  si  collega,  oltre  che  alle  caratteristiche   delle
 disposizioni  incriminatrici  e all'art. 158, primo comma, c.p., alla
 disposizione dell'art. 68  c.p.m.p.,  secondo  cui  per  i  reati  di
 assenza  dal  servizio  il  termine  di  prescrizione,  se  l'assenza
 perduri, decorre dal giorno in cui il militare ha compiuto l'eta' per
 la quale cessa in modo assoluto l'obbligo del servizio militare, e  a
 quella  infine dell'art. 9 d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237, che per i
 militari di truppa  stabilisce  di  norma  l'estinzione  dell'obbligo
 militare  alla  data  del  31  dicembre  dell'anno del compimento del
 quarantacinquesimo anno di eta'.
   La Corte ha, dunque, giustamente riportato la problematica  ai  sui
 profili  originari  e  fondamentali.  Il  quesito se i reati omissivi
 propri (nel cui ambito vanno compresi quelli di assenza dal  servizio
 perche'  consistenti  nell'inottemperanza  al dovere di presentazione
 alle armi, o di riassunzione del servizio al termine della  legittima
 assenza  o  a  seguito dell'allontanamento arbitrario) siano, o meno,
 permanenti ha avuto varie soluzioni in giurisprudenza  e  soprattutto
 in  dottrina.  Oltre  ad  orientamenti  intermedi,  sono  presenti in
 quest'ultima anche concezioni estreme: quella secondo  cui  il  reato
 omissivo  proprio  mai potrebbe essere permanente; quella secondo cui
 il  reato  omissivo  proprio  sarebbe   il   reato   permanente   per
 antonomasia.  Quanto  alle  assenze  dal  servizio,  secondo  l'ormai
 prevalente dottrina (Venditti e  di  recente  Brunelli  e  Mazzi)  si
 tratterebbe  di reati istantanei, mentre in giurisprudenza unanime e'
 l'idea che siano reati permanenti.
   La tesi della permanenza del reato omissivo proprio chiaramente  si
 basa   sul   perdurare   dell'obbligo   extrapenale   (c.d.   obbligo
 sottostante)  la  cui  inosservanza  e'  penalmente   sanzionata,   e
 corrisponde   dunque   alla   concezione   del  diritto  penale  come
 ulteriormente sanzionatorio  di  precetti  propri  di  altre  branche
 dell'ordinamento  giuridico.  Per  quanto  specificamente  riguarda i
 reati di assenza dal servizio, lo stretto  collegamento  tra  diritto
 penale  e precetti dell'ordinamento militare e' anche particolarmente
 sottolineato dalla disposizione dell'art. 68  c.p.m.p.,  sulla  quale
 giustamente  si  sofferma  la  stessa Corte costituzionale nella gia'
 citata ordinanza n. 150 del 1995.  Nel caso di assenza  che  non  sia
 ancora  terminata, la prescrizione del reato comincia a decorrere dal
 giorno in cui per  il  militare  cessa  in  modo  assoluto  l'obbligo
 militare:  norma  che, in quanto correlata all'art. 158, primo comma,
 c.p., viene esattamente, o quanto meno correttamente  (cosi'  da  dar
 luogo  a  diritto  vivente), intesa quale configurazione autentica (e
 del resto l'art. 377 c.p.m.p. testualmente parlava di "permanenza" di
 reati non istantanei e per di piu' con una permanenza che ha  termine
 con  la cessazione dell'obbligo militare.  In definitiva, per diretta
 statuizione dello stesso legislatore i reati di assenza dal  servizio
 sono  delineati come permanenti e piu' particolarmente con un periodo
 di  consumazione  che  puo'  anche  durare  venticinque  anni   circa
 (dall'eta' del servizio di leva sino al congedo assoluto).
   E'  da  questa  situazione normativa che scaturiscono - come per il
 Dell'Oglio - le conseguenze gia' da questo  giudice  denunciate  come
 trasgressive di basilari principi costituzionali; conseguenze che qui
 e' bene ancora brevemente illustrare.
   Si  consideri innanzittutto come, dato che dal giudizio in costanza
 della permanenza prende vita un nuovo fatto di reato che a sua  volta
 richiede    un   ulteriore   giudizio,   si   instaura   la   spirale
 fatto-giudizio-fatto,  e  cosi'  via,  per  cui  la   responsabilita'
 dell'imputato  non  dipende  soltanto  dal  suo  operato, bensi' - in
 patente violazione dell'art.   27, primo comma,  Cost.  -  anche  dal
 funzionamento dell'apparato giudiziario militare. La pluralita' delle
 condanne  per  un  unico  reato  permanente giudicato in piu' riprese
 comporta, inoltre, un progressivo aumento della pena e un trattamento
 sanzionatorio che diviene una prova di  forza  tra  lo  Stato  ed  il
 condannato,   chiaramente   in  contraddizione  con  la  liberta'  di
 coscienza garantita dall'art. 2 Cost. e con la finalita'  rieducativa
 della  pena  di  cui  all'art.  27,  terzo comma, Cost. Ed ancora: la
 moltiplicazione dei giudizi  comporta  un  innalzamento  della  pena,
 praticamente  indeterminato,  sino  al  limite del triplo del massimo
 della pena edittale, in contraddizione con il principio di  legalita'
 della  pena  sancito  dall'art. 25, secondo comma, Cost.  Ne risulta,
 infine, violato anche il principio di uguaglianza di cui  all'art.  3
 Cost.,  in  quanto,  a parita' di periodo di assenza dal servizio, il
 trattamento sanzionatorio complessivo viene a derivare dal  grado  di
 efficienza dell'apparato giudiziario competente a conoscere del reato
 nei   vari   autonomi   episodi  che  si  creano  con  l'interruzione
 giudiziale.
   Responsabile di quest'inaccettabile - che gia' il  legislatore  del
 1941 aveva scongiurato con la previsione di un unico giudizio a norma
 dell'art.  377  c.p.m.p.  -  appare,  come  si  e'  detto,  l'art. 68
 c.p.m.p., in difetto del quale i reati di assenza  dal  servizio,  in
 adesione  alle  piu' accreditate concezioni dottrinarie, sarebbero da
 considerare  istantanei;  oppure  sarebbero  ancora  da   considerare
 permanenti,  ma  secondo  ben  diverse modalita' e cadenze temporali,
 tali da non comportare  quella  spirale  delle  condanne  su  cui  si
 incentrano le censure di incostituzionalita'.
   In  merito  a quest'ultimo punto, non puo' infatti sottacersi dalla
 sfasatura logica e temporale esistente tra gli obblighi  che  vengono
 sanzionati con le varie norme penali militari da un lato, e l'obbligo
 dalla   cui  estinzione  dipende  ex  art.  68  la  cessazione  della
 permanenza nel reato dall'altro.
   L'obbligo   sanzionato   dall'art.   151   c.p.m.p.  e'  quello  di
 presentarsi ad un determinato reparto militare per  intraprendere  il
 servizio di ferma; obbligo che, con possibili evidenti conseguenze in
 ordine  alla cessazione della permanenza nel reato, muta di contenuto
 (divenendo mero obbligo di  mettersi  a  disposizione  del  distretto
 militare di appartenenza per una nuova chiamata alle armi) non appena
 con il trascorrere del tempo si abbia nell'organizzazione militare un
 nuovo  ciclo  addestrativo,  e  quindi  una nuova chiamata alle armi.
 L'obbligo sanzionato dagli artt. 148 e 149  c.p.m.p.  in  materia  di
 diserzione e' quello della presenza nel reparto militare; obbligo che
 analogamente  si  modifica,  con  la  possibilita'  che  ne derivi la
 cessazione della permanenza nel reato, con il transito del disertore,
 trascorsi novanta giorni di assenza (circ. 40049/40 SD del 15  luglio
 1967),  nella  forza  assente del distretto militare di appartenenza.
 L'obbligo cui, vigendo l'art. 68 c.p.m.p., e' collegata la cessazione
 della permanenza e' invece, come si evince dagli artt. 9 e 10  d.P.R.
 14 febbraio 1964, n. 237, quello militare nella sua globalita', della
 durata  di  venticinque  anni  circa  e  comprensivo  di vari doveri,
 soggezioni, limitazioni di diritti.  Si  tratta  quindi  di  un  dato
 normativo  onnicomprensivo,  della  prestazione  militare  nella  sua
 globalita', che esula dai piu' limitati obblighi che stanno alla base
 delle varie figure di reato.
   E  dunque  le  descritte  incostituzionalita'  sono  da  attribuire
 all'art.   68 c.p.m.p. non solamente perche' impedisce di considerare
 come istantanei i reati di assenza  di  servizio;  ma  anche  perche'
 configura  una permanenza sui generis, un periodo di consumazione che
 si prolunga sino a coincidere con l'obbligazione militare  nella  sua
 interezza.
   Pertanto questo tribunale, anche cogliendo le indicazioni contenute
 nella  citata  ordinanza  della  Corte,  ritiene  di  dover sollevare
 questione di legittimita' costituzionale dell'art.  68  c.p.m.p.,  in
 relazione  agli  artt.  2,  3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo
 comma, della Costituzione.
   La questione e' rilevante nel presente giudizio in quanto,  con  la
 caducazione  della  norma  impugnata,  sarebbe  evitata  un'ulteriore
 condanna per il Dell'Oglio.
   Ma alla dichiarazione di illegittimita' dell'art. 68 potrebbe anche
 pervenirsi, a parere di questo tribunale, per semplice estensione,  a
 norme  dell'art.  27  legge 11 marzo 1953, n. 37, dell'illegittimita'
 dell'art. 377 c.p.m.p., gia' pronunciata con sentenza della Corte  n.
 469  del  1990. E' evidente il nesso dell'art. 68 con la disposizione
 secondo cui, per garantire un'unica sentenza, il giudizio per i reati
 di assenza era sospeso sino alla cessazione della permanenza. Essendo
 venuto   meno   l'art.   377,    dovrebbe    pertanto    pronunciarsi
 l'illegittimita' anche dell'art. 68.