ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 3, n. 4, 6 e
 7  della  legge  23  aprile  1981,  n.  154  (Norme  in  materia   di
 ineleggibilita'  ed  incompatibilita'  alle  cariche  di  consigliere
 regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in  materia  di
 incompatibilita'  degli  addetti  al Servizio sanitario nazionale), e
 9-bis del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi  per
 la  composizione  e  la  elezione  degli organi delle amministrazioni
 comunali), promosso con ordinanza emessa il 9 luglio 1996 dalla Corte
 d'appello di Catanzaro sui ricorsi, riuniti, proposti da Fuda  Pietro
 contro Minniti Francesco Giovanni ed altra, e Mollace Vincenzo contro
 Minniti Francesco Giovanni ed altri, iscritta al n. 1136 del registro
 ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1996.
   Visti    gli atti di costituzione di Fuda Pietro, Mollace Vincenzo,
 Minniti Francesco Giovanni e della regione Calabria,  nonche'  l'atto
 d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito    nell'udienza  pubblica  del  25  febbraio  1997 il giudice
 relatore Francesco Guizzi;
   Uditi gli avvocati Franco  G.  Scoca  per  Fuda  Pietro,  Francesco
 Scalzi  per Mollace Vincenzo, Oreste Morcavallo per Minniti Francesco
 Giovanni, Raffaele Mirigliani per la regione Calabria,  e  l'Avvocato
 dello  Stato  Plinio  Sacchetto  per  il Presidente del Consiglio dei
 Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - La Corte  di  appello  di  Catanzaro,  prima  sezione  civile,
 investita  dei  ricorsi  proposti  da  Pietro Fuda e Vincenzo Mollace
 avverso la sentenza n. 503 del 1996 del tribunale di Catanzaro  nella
 causa  elettorale  fra  gli stessi Fuda e Mollace, Francesco Giovanni
 Minniti e la regione Calabria,  ha  sollevato,  in  riferimento  agli
 artt.   3   e   51  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 3, n. 4, e degli artt. 6 e 7 della legge  23
 aprile   1981,  n.  154  (Norme  in  materia  di  ineleggibilita'  ed
 incompatibilita' alle cariche di consigliere regionale,  provinciale,
 comunale  e  circoscrizionale  e in materia di incompatibilita' degli
 addetti al Servizio sanitario nazionale), nonche' dell'art. 9-bis del
 d.P.R. 16 maggio 1960,  n.  570  (Testo  unico  delle  leggi  per  la
 composizione   e  la  elezione  degli  organi  delle  amministrazioni
 comunali), e successive modificazioni e integrazioni, nella parte  in
 cui   ricomprendono   le   cause   di  lavoro  nelle  fattispecie  di
 litispendenza che sono fonte di incompatibilita', e  non  consentono,
 una  volta  promossa  l'azione  popolare di cui al citato art. 9-bis,
 l'esercizio dei diritti e delle  facolta'  volte  a  rimuovere  detta
 incompatibilita'.
   Con  riguardo  all'art.  3,  n.  4, della legge n. 154 del 1981, il
 giudice a quo richiama la  giurisprudenza  di  questa  Corte  tesa  a
 valorizzare   il   principio   di   elettorato   passivo,   ritenendo
 irragionevole il sacrificio delle situazioni giuridiche  fondate  sul
 rapporto di lavoro (con le connesse rivendicazioni di inquadramento a
 fini  previdenziali)  e del diritto di elettorato passivo. Tanto piu'
 che il legislatore ha accordato una deroga per  le  liti  tributarie,
 sulla  base  del rilievo che la conflittualita' fra ente impositore e
 contribuente "appare quasi normale", il che avviene  anche  fra  ente
 datoriale e dipendente.
   In  merito  agli artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981 e all'art.
 9-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 570 del 1960, il
 collegio rimettente si sofferma  sull'orientamento  giurisprudenziale
 favorevole  alla  coesistenza  della  fase contenziosa amministrativa
 (art. 7 della legge n. 154) e di quella giurisdizionale, disciplinata
 dall'art. 9-bis del citato decreto del Presidente della Repubblica n.
 570, osservando  che  si  priva  l'eletto  della  piu'  ampia  tutela
 assicurata  dalla  procedura amministrativa. Chiunque, determinato da
 interessi  particolari,  voglia  provocare   la   decadenza   di   un
 consigliere,  non  gli  offrira', certo, la possibilita' di rimuovere
 l'incompatibilita' nei modi e nei tempi previsti dall'art.  7,  e  lo
 "brucera'" con il deposito del ricorso giudiziario.
   E'    cosi'    vanificata   la   facolta'   di   far   venir   meno
 l'incompatibilita' per lite pendente,  che  l'evoluzione  legislativa
 sembra  invece  voler  favorire  al  fine di contemperare l'interesse
 pubblico con il corretto esercizio delle funzioni  e  il  diritto  di
 elettorato passivo. L'art.  7 della legge n. 154 ammette come rimedio
 l'impugnazione   della   delibera   consiliare   innanzi  l'autorita'
 giudiziaria ordinaria, garantendo l'attore popolare e  il  primo  dei
 non  eletti; ma il deposito del ricorso, ai sensi dell'art. 9-bis del
 decreto del Presidente della Repubblica n. 570 del 1960, cristallizza
 la fattispecie e preclude l'utile rimozione dell'incompatibilita'.
   2. - Si e' costituito Pietro Fuda, sostenendo la  fondatezza  della
 questione  anche in considerazione del fatto che nelle liti di lavoro
 si  rinviene,  piu'  che  in   quelle   tributarie,   la   potenziale
 conflittualita'  fra  ente  impositore e contribuente (sentenza n. 58
 del 1972 di questa Corte). La parte privata analizza, poi, il sistema
 costruito dalla legge n. 154 del 1981, da un lato, e dall'art.  9-bis
 del  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica n. 570 del 1960,
 dall'altro.
   Il ricorso giurisdizionale contemplato dall'art. 9-bis e' delineato
 in modo tale che nessun termine - se  non  quello  dell'ultimo  comma
 dell'art.   6  della  legge  n.  154  -  e'  previsto  per  rimuovere
 l'incompatibilita', si' che la decadenza deriva  automaticamente  dal
 ricorso  e  dalla  pronuncia del giudice adito. Di qui, l'alternativa
 prospettata dalla parte privata: o il sistema viene inteso nel  senso
 che  il  ricorso  al  giudice, proposto in mancanza del provvedimento
 amministrativo,  conduce  in  caso  di  esito  favorevole  non   alla
 decadenza,  ma  all'obbligo  per il consigliere eletto di iniziare il
 procedimento di cui all'art. 7 della legge n. 154, oppure il  ricorso
 stesso  deve  ritenersi  implicitamente  abrogato.  Fuori  da  questa
 alternativa, si paleserebbe l'illegittimita' costituzionale dell'art.
 9-bis del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.  570,  per
 violazione   degli   artt.  3  e  51  della  Costituzione,  essendovi
 disparita' di trattamento  dell'eletto  in  relazione  al  fatto  del
 terzo,  a  seconda che sia esperita o no l'azione popolare preclusiva
 della sanatoria in via amministrativa; e sarebbe  violato,  altresi',
 il  diritto  di  elettorato passivo, in quanto l'iniziativa del terzo
 interessato preclude la rimozione della incompatibilita'.
   3.  -  Si  e'  costituito  Vincenzo  Mollace,  cittadino  elettore,
 appellante avverso la  sentenza  di  primo  grado  del  tribunale  di
 Catanzaro,  anch'egli nel senso della fondatezza della questione alla
 luce della giurisprudenza costituzionale che vuole ristrette le cause
 di  incompatibilita'  e  ineleggibilita'  soltanto  a  cio'  che   e'
 indispensabile  per la soddisfazione degli interessi pubblici (fra le
 altre, ricorda la sentenza n. 46 del 1969).
   4. - Si e'  poi  costituito,  per  sostenere  l'infondatezza  della
 questione,  Giovanni  Minniti,  presentatore  del  ricorso  ai  sensi
 dell'art. 9-bis del decreto del Presidente della Repubblica  n.  570,
 accolto  dal  tribunale  di  Catanzaro  con  la sentenza citata. Egli
 osserva che la mancata abrogazione dell'art.  9-bis,  al  momento  di
 definire  la  nuova disciplina delle incompatibilita' con la legge n.
 154  del  1981,  e'  frutto  di  una  precisa   scelta   legislativa:
 l'accoglimento  della  questione  frantumerebbe un impianto normativo
 volto  a  garantire  l'interesse  pubblico,  oltre  che  il   diritto
 dell'elettore  di  adire  l'autorita' giudiziaria per porre fine alla
 situazione di incompatibilita', quando vi sia inerzia  dell'eletto  e
 del consiglio di appartenenza.
   Certo,  la  pendenza  di  lite  tributaria  non  e'  piu'  causa di
 incompatibilita', ma vi e' sostanziale differenza  fra  tali  liti  e
 quelle  di lavoro, perche' la potesta' impositiva dello Stato sottrae
 al privato la piena disponibilita' della vertenza e  la  possibilita'
 di  determinarne  l'esito.  I  rapporti  di  lavoro  e le liti che ne
 derivano sono stati disciplinati dal legislatore in  maniera  diversa
 (sentenza  n.  48 del 1987); e in proposito la Corte ha precisato che
 la necessaria garanzia di obiettivita' nell'esercizio delle  funzioni
 e'  esclusa  dalla  sussistenza  di  rapporti di dipendenza diretta o
 indiretta,  da  rapporti  di  affari  o  da  posizioni  personali  di
 conflitto  con  l'amministrazione  (sentenza  n.  42  del  1961).  Si
 osserva, quindi, come il diritto di elettorato passivo trovi adeguata
 tutela, senza che vi sia discriminazione rispetto ad altri cittadini,
 nella facolta' dell'eletto di rimuovere la causa di  incompatibilita'
 entro   dieci   giorni  dal  suo  verificarsi.  L'azione  popolare  -
 esperibile da chiunque vi abbia interesse e finanche dal  prefetto  -
 conosce  come  finalita'  primaria  la  tutela  del  buon andamento e
 dell'imparzialita' dell'amministrazione.
   5. - Si e' costituita infine la regione Calabria  nel  senso  della
 fondatezza,  soffermandosi  sull'irragionevolezza  dell'art. 3, n. 4,
 della legge n. 154, nella parte in cui non esclude dalle  fattispecie
 di  litispendenza  le  cause  di  lavoro dei dipendenti dell'ente, in
 considerazione del diverso trattamento riservato alle liti per  fatto
 connesso con l'esercizio del mandato dell'amministratore dell'ente.
   6.  -  E'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato,  concludendo  per
 la  manifesta  inammissibilita'.  L'Avvocatura obietta, innanzitutto,
 che l'ordinanza non motiva sulla rilevanza  della  questione;  quanto
 alla  "non  manifesta infondatezza" il giudice a quo si limiterebbe a
 "mere  variazioni  o  divagazioni".   L'individuazione   dei   limiti
 all'elettorato  passivo  e'  rimessa  al legislatore, che nel caso di
 specie ha rispettato il canone di razionalita'. Ne' appare persuasivo
 il richiamo, presente nell'ordinanza, agli interessi particolari  del
 promotore  dell'azione  popolare,  dal  momento  che gli strumenti di
 tutela  in  tale  settore  dovrebbero  essere   non   diminuiti,   ma
 rafforzati.
                         Considerato in diritto
   1.   -  La  questione  di  legittimita'  costituzionale  nasce  dal
 giudizio, in appello, avverso la sentenza con la quale  il  tribunale
 di  Catanzaro ha dichiarato la decadenza di un consigliere regionale,
 accogliendo una  domanda,  proposta  ai  sensi  dell'art.  9-bis  del
 decreto  del  Presidente  della  Repubblica n. 570 del 1960, che, nel
 "cristallizzare" la fattispecie, ha impedito all'eletto di  rimuovere
 utilmente l'incompatibilita' dopo la notifica del ricorso.
   La  questione  di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte
 d'appello di Catanzaro investe le seguenti disposizioni:
     l'art. 3, n. 4, della legge n. 154 del 1981, nella parte  in  cui
 include   nelle  fattispecie  di  litispendenza  che  sono  fonte  di
 incompatibilita' le cause di lavoro: cio'  sarebbe  illegittimo  alla
 luce del principio costituzionale che tutela il diritto di elettorato
 passivo  (artt.   3 e 51 della Costituzione), anche in considerazione
 del fatto  che  la  stessa  disposizione  esclude  dal  novero  delle
 incompatibilita' le liti tributarie;
     il  collegio denuncia altresi' le norme che regolano la procedura
 di rimozione dell'incompatibilita' (artt. 6 e 7 della  legge  n.  154
 del  1981)  e,  soprattutto,  l'art. 9-bis del decreto del Presidente
 della Repubblica n. 570 del 1960  che  disciplina  l'azione  popolare
 elettorale: disposizioni che sarebbero illegittime nella parte in cui
 non  consentono l'esercizio dei diritti volti a rimuovere la causa di
 incompatibilita'  per  lite   pendente;   e   infatti,   secondo   la
 giurisprudenza  prevalente,  la domanda ex art. 9-bis cristallizza la
 fattispecie,  precludendo  all'eletto   di   adempiere   tardivamente
 l'obbligo di rimuovere la causa di incompatibilita'.
   E' dunque l'art. 9-bis come interpretato dalla Cassazione, la norma
 investita  in via primaria dal dubbio di legittimita' costituzionale,
 in riferimento agli artt.  3  e  51  della  Costituzione,  mentre  la
 menzione  degli  artt.  6  e  7  della legge n. 154 del 1981 e' fatta
 evidentemente per cautela - e comunque in via subordinata -  si'  che
 questa  Corte  ha al suo esame tutte le norme procedurali essenziali,
 restando cosi' determinato il thema decidendum.
   2. - Occorre esaminare la prima questione sollevata, quella che  si
 indirizza alla statuizione dell'incompatibilita'.
   Il  dubbio  di legittimita' costituzionale dell'art. 3, n. 4, della
 legge n. 154 del  1981  e'  infondato.  Spetta  al  legislatore,  nel
 ragionevole  esercizio  della sua discrezionalita', attuare l'art. 51
 della   Costituzione,   stabilendo   il   regime   delle   cause   di
 ineleggibilita'  e  di  incompatibilita'.    L'aver  escluso  le liti
 tributarie dalle fattispecie  di  litispendenza  che  sono  causa  di
 incompatibilita'  non  vizia  d'irragionevolezza la disposizione: una
 cosa sono, invero, le liti tributarie, altra le cause  di  lavoro.  E
 non si dimentichi, a tal riguardo, che non vi e' incompatibilita' per
 le  liti  connesse  con  l'esercizio del mandato elettivo, sia quelle
 correlate ai compiti istituzionali, sia quelle con cui si  fa  valere
 un interesse della collettivita' (Cass. n. 3756 del 1985).
   3.  -  Piu' delicato il secondo punto, che attiene alla concorrenza
 dei due meccanismi,  quello  contenzioso  amministrativo  e  l'azione
 popolare.
   Va ricordato, innanzitutto, che la legge n. 154 del 1981, pur cosi'
 prodiga  di  abrogazioni  della  disciplina elettorale previgente (v.
 l'art. 10), ha tenuto ferma l'azione popolare  elettorale  introdotta
 dall'art.  9-bis  del  decreto del Presidente della Repubblica n. 570
 del 1960, come integrato dalla legge 23 dicembre 1966,  n.  1147.  Vi
 e',  quindi,  la  coesistenza  di  due  meccanismi diversi: il primo,
 quello    contenzioso    amministrativo,     mira     a     rimuovere
 l'incompatibilita'  attraverso  una  procedura in contraddittorio che
 consente  all'eletto  di  presentare  osservazioni,  prevedendo  come
 extrema  ratio la pronuncia di decadenza; mentre l'azione popolare e'
 costruita in modo tale da "cristallizzare la fattispecie" al  momento
 della   proposizione   della   domanda.   Se   l'eletto  non  rimuove
 tempestivamente  l'incompatibilita',  confidando   nel   procedimento
 amministrativo  ex  art.  7 della legge n. 154 del 1981, lo fa "a suo
 rischio", come ha affermato questa Corte nella sentenza  n.  235  del
 1989.
   La  concorrenza  dei  due meccanismi e' pacificamente ammessa dalla
 giurisprudenza,  ordinaria  e  costituzionale  (v.,  di  recente,  la
 sentenza  n.  357  del  1996),  ma deve operare in modo proporzionato
 rispetto ai beni pubblici meritevoli di  protezione:  le  limitazioni
 poste   al  diritto  di  elettorato  passivo,  che  questa  Corte  ha
 ricondotto alla sfera dei diritti inviolabili (sentenze nn.  571  del
 1989  e  235  del  1988),  devono essere necessarie e ragionevolmente
 proporzionate (sentenze nn. 141 del 1996 e 476 del 1991).
   Ora, la decadenza pronunciata in sede giurisdizionale anche  quando
 il  consigliere  abbia  rimosso la causa di incompatibilita', dopo la
 proposizione  dell'azione  popolare,  rappresenta  una   misura   non
 proporzionata  rispetto  ai beni salvaguardati dalla incompatibilita'
 stessa; e va qui ribadito che la  decadenza  e'  veramente  l'extrema
 ratio  (sentenza  n.  357 del 1996). E' significativo in proposito il
 disagio della dottrina, che ha  auspicato  una  correzione  da  parte
 della  giurisprudenza tale da permettere al consigliere di rimuovere,
 anche nel corso dell'azione giudiziale, la causa di incompatibilita'.
   4. - Questa Corte e' ben consapevole che una materia cosi' delicata
 richiede che sia il legislatore  a  operare  un  bilanciamento  degli
 interessi  meritevoli  di tutela; e ad essa e' preclusa l'adozione di
 una pronuncia tendente  a  integrare  o  a  sostituire  la  normativa
 vigente,  che  sarebbe  giustificata, si', dalla tutela di un diritto
 fondamentale qual e' il diritto di elettorato passivo,  ma  finirebbe
 per ledere l'ambito riservato alla discrezionalita' legislativa.
   Ferma  la concorrenza dei due meccanismi (quello previsto dall'art.
 7 della legge n. 154  del  1981  e  l'azione  diretta  al  tribunale,
 contemplata   dall'art.   9-bis  del  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica n. 570 del 1960), gli artt. 3 e 51 impongono di  temperare
 l'eccessiva  severita'  del  sistema  attuale, quale risulta definito
 dalla giurisprudenza, assicurando la proporzione tra fini  perseguiti
 e  mezzi prescelti.   Bisogna dunque consentire di rimuovere la causa
 d'incompatibilita' entro un termine ragionevolmente  breve,  dopo  la
 notifica  del  ricorso  di  cui  all'art.  9-bis,  per  assicurare un
 equilibrio fra la ratio giustificativa della  incompatibilita'  e  la
 salvaguardia  del diritto di elettorato passivo, senza pregiudizio di
 un   futuro   intervento   del   Parlamento   e   di    un'evoluzione
 giurisprudenziale che diano compiuta razionalita' al sistema.
   L'art. 9-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 570 del
 1960  e'  quindi  illegittimo  nella  parte  in  cui  prevede  che la
 decadenza possa essere pronunciata in sede giurisdizionale, senza che
 sia data all'interessato la facolta' di rimuovere utilmente la  causa
 di  incompatibilita'  entro  un  congruo  termine  dalla notifica del
 ricorso previsto da esso.
   A  seguito   della   parziale   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  9-bis  citato,  rimangono superati i dubbi
 sugli artt. 6 e 7 della legge n. 154 del 1981.  Le  relative  censure
 vanno pertanto dichiarate infondate.