IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, nel procedimento n. 10782/1993 (r.g. not. di reato) contro Genco Assunta Maria, nata a Palermo il 26 agosto 1957, ed ivi elettivamente domiciliata in via Filippo Corazza n. 37; imputata del reato di cui all'art. 464 c.p., per avere fatto uso di un valore di bollo (marca per patente) contraffatto senza esserne concorsa nella contraffazione; alla pubblica udienza del 1 febbraio 1996, il difensore di fiducia dell'imputata, dott. Enzo Favata, sollevava questione di legittimita' costituzionale dell'art. 464, secondo comma, c.p. in relazione agli artt. 25, secondo comma e 27, primo comma, della Costituzione. Ritenuto quanto alla rilevanza della questione 1. - Osservava la difesa che l'art. 464, primo comma, c.p. punisce colui che abbia fatto uso di valori di bollo contraffatti (o alterati), pur non essendo concorso nella contraffazione dei medesimi. Tale "uso" deve concretarsi, in particolare, nella utilizzazione del valore di bollo secondo la destinazione corrispondente a quella propria del valore genuino. Sotto il profilo soggettivo, inoltre, dovrebbe essere necessaria la consapevolezza della falsita' del bollo "dal" momento in cui lo si acquista. Ove tale conoscenza subentri successivamente, tuttavia, l'utilizzatore risponde ugualmente (anche se la pena e' ridotta), ai sensi dell'art. 464, secondo comma, c.p.: la ricezione in buona fede del valore di bollo contraffatto, in altri termini, attenua semplicemente la responsabilita' di colui che faccia uso del bollo, ma non la esclude. Assumeva pertanto il difensore, che nel caso di specie la propria assistita ben avrebbe potuto offrire la prova di aver ricevuto il valore contestatogli in buona fede (indicando, ad esempio, il tabbaccaio dove lo aveva acquistato); e che tuttavia tale prova non le sarebbe servita a nulla, posto che la condotta punita dalla norma consiste nell'"uso" del valore di bollo contraffatto (pur ricevuto in buona fede), e tale uso ella aveva in effetti commesso, applicando appunto la marca sulla propria patente (emerge gia' dagli atti, del resto, la circostanza che l'imputata abbia spontaneamente presentato la propria patente in prefettura, per il compimento della c.d. procedura di rinnovo). Stante, in altri termini, lo sbarramento fissato dal secondo comma dell'art. 464 c.p., che non consente di escludere la responsabilita' dell'imputato pur ignaro della falsita' del bollo al momento dell'acquisto, lamentava la difesa il carattere sostanzialmente oggettivo della responsabilita' delineata dall'art. 464 c.p., postulando quest'ultimo un mutamento psicologico nell'agente (incoscienza al momento dell'acquisto, consapevolezza al momento dell'uso) impossibile da dimostrare processualmente, in quanto mutamento destinato a rimanere confinato nell'esclusivo foro interno del soggetto, e dunque di fatto non accertabile dal giudice. E denunciava pertanto la disposizione indicata sia per contrasto con l'art. 25, secondo comma (principio di determinatezza) che con l'art. 27, primo comma, della Costituzione (principio di colpevolezza), nei termini di cui in motivazione. 2. - La questione deve ritenersi rilevante nel presente giudizio. Osserva invero il giudicante che, pur facendo riferimento l'odierna imputazione all'art. 464, primo comma, c.p., in ogni caso, la presenza della previsione di cui al secondo comma dello stesso articolo, rendendo ininfluente ai fini della configurabilita' del reato l'acquisto in buona fede del valore contraffatto, finisce per incidere profondamente sul significato attribuibile alla stessa incriminazione della condotta di "uso" del bollo, di cui al primo comma dell'art. 464 c.p. In altre parole: se la ricezione in buona fede del valore di bollo fasullo non consente ancora, a chi ne abbia fatto uso, di andare esente da responsabilita', appare legittimo il dubbio che anche nella ipotesi di cui al primo comma, di fatto, non sia necessaria la consapevolezza del soggetto di utilizzare una marca contraffatta. Il meccanismo incriminatorio risultante dal combinato disposto di queste due norme, invero, dovrebbe presupporre la dimostrazione della sopravvenuta consapevolezza della falsita' del bollo in chi lo abbia acquistato in buona fede (c.d. dolo di utilizzazione). E tuttavia tale coefficiente psicologico, equivalendo ad un sopravvenuto mutamento di "rappresentazione" destinato ad esaurirsi nell'esclusivo "foro interno" dell'agente, diviene del tutto insuscettibile di dimostrazione empirica, anche solo indiziaria. Per l'ovvia ragione che un mutamento psichico siffatto non lascia alcuna traccia di se' nella realta' esterna: l'acquisto e la successiva apposizione sulla patente della marca da bollo annuale costituiscono comportamenti scarsamente significativi sotto il profilo fattuale, rientranti fra gli atti di gestione ordinaria della vita di relazione, e destinati pertanto a confondersi fra i molteplici adempimenti che ciascun individuo effettua quotidianamente. Ne' potrebbe legittimamente invocarsi, a carico dell'imputato, una presunzione di riconoscibilita' del valore fasullo, dedotta dalla circostanza che per ciascun anno di emissione delle marche della patente il Ministero delle finanze emana un apposito decreto, pubblicato nella Gazzettta Ufficiale, nel quale vengono specificati i requisiti che deve possedere la marca autentica. Va qui richiamato, infatti, il fondamentale principio per cui, al pari di ogni altro elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, il dolo deve essere effettivamente provato, tenendo conto di tutte le circostanze che possono assumere un valore sintomatico ai fini dell'esistenza della volonta' colpevole (modalita' estrinseche della condotta, movente, comportamento tenuto dal colpevole successivamente alla commissione del reato, e cosi' via). Stante, invero, l'estrema difficolta' insita nell'accertamento dei dati psicologici, e' certo inevitabile - e consentito - in questo campo, il ricorso a massime di esperienza: non, pero', a meri schemi presuntivi, ad ipotesi preformulate, o a postulati aprioristici, che diano per dimostrato il dolo ritenendolo implicito nella stessa realizzazione del fatto materiale (c.d. dolus in re ipsa): e tale sarebbe appunto l'effetto del ricorso ad una presunzione di conoscenza del tipo di quella sopra segnalata (che sarebbe peraltro, in ogni caso, juris tantum), posto che la sistematica consultazione dei decreti ministeriali, da parte del comune cittadino, non corrisponde affatto, con tutta evidenza, ad un dato dell'esperienza. Piu' in generale, peraltro, non e' fuor di luogo ricordare che proprio constatando la insormontabile difficolta' di accertare i mutamenti degli stati d'animo rimasti "interni" al soggetto, gia' gli antichi romani avevano elaborato il principio - tuttora valido, ad esempio, in materia di possesso civilistico (art. 1147, terzo comma, c.c.) - per cui mala fede superveniens non nocet. In definitiva, cosi' come delineata dal legislatore, la norma di cui all'art. 464 c.p. non pare avere alcuna possibilita' pratica di funzionare: ed invero, nel caso in cui si dimostri che l'agente abbia acquistato la marca contraffatta in buona fede, al giudice non dovrebbe rimanere altra possibilita' che quella di assolverlo perche' il fatto non costituisce reato, essendo mancata totalmente, sul punto, la prova dell'elemento soggettivo richiesto. Con un esito del giudizio, quindi, scontato in partenza, imponendosi in ogni caso il proscioglimento dell'imputato per insufficienza di prove. In alternativa, dovrebbe sostenersi che la fattispecie di cui al combinato disposto del primo e del secondo comma dell'art. 474 c.p., concerna una vera e propria forma di responsabilita' oggettiva. Ed anche in questo caso, tuttavia, la conclusione cui del giudice sarebbe parimenti obbligata: egli dovrebbe infatti condannare in ogni caso, sulla base del solo accertamento della condotta materiale prevista dalla norma (apposizione della marca sulla patente: che non puo' non verificarsi, essendo l'amministrato tenuto ad applicarvela). Ritiene, pertanto, il decidente che il presente giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimita' costituzionale come sopra accennate, imponendosi pertanto il rinvio degli atti al giudice delle leggi. Ritenuto quanto alla manifesta infondatezza della questione A) Violazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. 3. - In ossequio alla piu' attenta dottrina (Marinucci-Dolcini, Fiandaca) deve dirsi che ove la norma preveda una fattispecie delittuosa costruita sulla esistenza, nel soggetto, di un certo coefficiente psicologico empiricamente non riscontrabile in alcun modo, la stessa si ponga, per cio' stesso, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale, posto che l'obbligo del legislatore di delineare l'ipotesi incriminatrice secondo schemi sufficientemente precisi deve evidentemente riguardare non soltanto la descrizione della condotta materiale di reato, ma anche la individuazione del necessario coefficiente soggettivo di sostegno (il dolo, invero, deve abbracciare tutti gli elementi del fatto tipico: artt. 5, 47, 59, 42, 43 e 44 c.p.). A nulla varrebbe, in altri termini, che la condotta tipica fosse astrattamente individuabile sulla base della formulazione della norma, se si tratti di condotta in ordine alla quale risulti empiricamente impossibile verificarne il necessario supporto psicologico: perche' anche in questo caso non sarebbe possibile per l'interprete esprimere un giudizio di corrispondenza tra il comportamento concreto e la fattispecie astratta, "sorretto da fondamento controllabile" (Corte costituzionale n. 96/1981). La condotta sanzionata dalla norma denunciata consiste, cosi, nell'"uso" della marca: integra oggettivamente il reato, percio', anche il fatto di aver presentato, ad esempio, la patente di guida (unitamente alla marca contraffatta) all'autorita' competente per il rinnovo della medesima (come e' appunto avvenuto nel caso di specie): e tuttavia, tale comportamento non e' ancora sintomatico dal punto di vista soggettivo, rimanendo ugualmente plausibile, in astratto, sia che il soggetto, ricevuto il valore in buona fede, abbia mantenuto tale stato psicologico anche in seguito (altrimenti non avrebbe presentato il documento all'autorita'), sia che egli contasse, invece, proprio di trarre in inganno quest'ultima: e cio' perche' il deposito della patente per il rinnovo costituisce a ben vedere un atto "necessitato" per il cittadino (ove il medesimo intenda continuare a godere dell'abilitazione alla guida), non gia' un atto propriamente "spontaneo". E piu' in generale, l'apposizione della marca sulla patente - cosi' come del resto l'acquisto ed il successivo utilizzo di un qualsiasi altro valore di bollo - sono atti che giammai "parlano da soli", denotando semplicemente il pagamento di una tassa da parte dell'amministrato. Obbligato il rinvio, in proposito, a quanto affermato dalla Corte costituzionale in tema di plagio (art. 603 c.p.) con la sentenza dell'8 giugno 1981, n. 96, nella quale e' stato appunto precisato che la determinatezza o tassativita' della fattispecie incriminatrice non attiene soltanto alla sua formulazione linguistica, ma implica anche la verificabilita' empirica del fatto dalla medesima disciplinato: "in riferimento all'art. 25 della Costituzione questa Corte ha piu' volte ripetuto che a base del principio invocato sta in primo luogo l'intento di evitare arbitrii nell'applicazione di misure limitative di quel bene sommo ed inviolabile costituito dalla liberta' personale. Ritiene quindi la Corte che, per effetto di tale principio, onere della legge penale sia quello di determinare la fattispecie criminosa con connotati precisi in modo che l'interprete nel ricondurre un'ipotesi concreta alla norma di legge, possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da fondamento controllabile. Tale onere richiede una descrizione intellegibile della fattispecie astratta (...) e risulta soddisfatto fintantoche' nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilita' di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiano verificabili". (...) "nella dizione dell'art. 25 della Costituzione che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intellegibilita' dei termini impiegati, deve ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realta' (...). Sarebbe infatti assurdo ritenere che possano considerarsi determinate in coerenza col principio di tassativita' della legge, norme che, sebbene concettualmente intellegibili, esprimano situazioni e comportamenti irreali o fantastici o comunque non avverabili, e tanto meno concepire disposizioni legislative che inibiscano o ordinino o puniscano fatti che per qualunque nozione ed esperienza devono considerarsi inesistenti o non razionalmente accertabili". In definitiva, la fattispecie delineata dal legislatore con il secondo comma dell'art. 464, e consistente nel fatto di chi, pur non essendo concorso nella contraffazione dei valori bollati, e pur avendoli ricevuti in perfetta buona fede, successivamente accorgendosi della falsita' dei medesimi, ne abbia consapevolmente fatto uso, non corrisponde ad un'ipotesi concretamente suscettibile di verifica processuale, stante l'assoluta impossibilita' di sceverare i mutamenti psicologici rimasti meramente interni all'individuo, e non estrinsecatisi in comportamenti esteriormente percepibili. E sotto tale profilo, essa si pone dunque in contrasto con il principio di determinatezza (art. 25, secondo comma, della Costituzione), secondo la portata al medesimo attribuita dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 96/1981. B) Violazione dell'art. 27, primo comma, della Costituzione. 4. - L'avere il legislatore meccanicamente escluso che l'acquirente di una marca da bollo contraffatta possa andare esente da pena pur avendola ricevuta in buona fede, in una con l'impossibilita' probatoria sopra evidenziata circa il sopravvenuto mutamento dello stato psicologico dell'agente in ordine alla autenticita' della marca, si pone altresi' in contrasto con il principio di colpevolezza quale recepito dalla Costituzione (art. 27), e quale piu' volte enunciato dalla stessa Corte costituzionale (sentenze nn. 364 e 1085, del 1988), in collegamento con la funzione essenzialmente rieducativa che deve assolvere la pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione): ed invero, chiamando a rispondere del reato di "uso" anche chi abbia ricevuto il valore di bollo nell'assoluta incoscienza della sua falsita', l'art. 464 c.p. non si sottrae al dubbio di nascondere una vera e propria ipotesi di responsabilita' oggettiva (se non addirittura "per fatto altrui"), in cui la realizzazione del solo comportamento materiale vietato (uso della marca), basta, di fatto, a fondare la colpevolezza dell'autore. Occorre osservare, infatti, che nel caso delle marche per patente - cosi' come, del resto, in ordine ad un qualsiasi altro valore di bollo - l'"uso" segue immediatamente la "ricezione". Ove pertanto abbia ricevuto il valore di bollo in buona fede, il soggetto rimane sostanzialmente affidato al "caso" che la marca acquistata sia falsa oppure no. E poiche' la mera ricezione in buona fede di una marca contraffatta non e' ancora reato, nemmeno di un versari in re illicita si tratta, bensi' di una (surrettizia) responsabilita' "per fatto altrui", dato che il soggetto e' chiamato a rispondere proprio in quanto abbia acquistato una marca materialmente contraffatta da altri (egli, infatti, non deve essere concorso nella contraffazione). Se quindi a configurare il reato de quo basta il mero "uso" della marca non genuina, pur ricevuta in buona fede, la norma di cui al secondo comma dell'art. 464 c.p. va ritenuta in insanabile contrasto con il principio di colpevolezza costituzionalmente inteso, quale limite cioe' alla discrezionalita' del legislatore nella individuazione dei fatti penalmente sanzionabili: ed invero, secondo quanto da ultimo precisato dal giudice delle leggi (Corte costituzionale, 24 marzo 1988, n. 364), tale principio si condensa, innanzitutto, nel tassativo divieto di far ricadere nel soggetto colpe a lui non ascrivibili (c.d. responsabilita' per fatto altrui) e, in secondo luogo, nell'obbligo per il legislatore di stabilire incriminazioni solo per fatto proprio, ove per "fatto proprio" - ha sottolineato efficacemente la Corte - deve intendersi non "il fatto collegato al soggetto, all'azione dell'autore, dal mero nesso di causalita' materiale (...) ma anche, e soprattutto, dal momento subiettivo, costituito in presenza della prevedibilita' ed evitabilita' del risultato vietato, almeno dalla "colpa" in senso stretto". (...) "Perche' sia legittimamente punibile, (il fatto imputato) deve necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi piu' significativi della fattispecie tipica".