LA CORTE DI APPELLO
   Ha emessa la seguente ordinanza nel procedimento di ricusazione del
 giudice  per  l'udienza preliminare - Ufficio V - presso il Tribunale
 di Napoli, per incompatibilita' ai sensi dell'art. 34, secondo  comma
 c.p.p.  a partecipare a detta udienza, avendo in precedenza applicato
 la misura cautelare della custodia agli arresti domiciliari.
                               F a t t o
   Il procuratore della  Repubblica  presso  il  tribunale  di  Napoli
 faceva  richiesta di rinvio a giudizio di Troccoli Giuseppe, imputato
 del reato di cui agli artt. 81 cpv. 110,  310  e  321  c.p.  Troccoli
 Giuseppe,   avvisato   della   fissazione  dell'udienza  preliminare,
 depositava dichiarazione di ricusazione, tempestiva  ed  ammissibile,
 del  g.u.p.,  per  essere  la  stessa  persona  fisica  che  aveva in
 precedenza  emesso  a  suo  carico,  un'ordinanza  applicativa  della
 custodia cautelare di arresti domiciliari.
   Eccepiva  l'incompatibilita'  del giudice a partecipare all'udienza
 preliminare, ai sensi dell'art.  34,  secondo  comma,  c.p.p.,  quale
 ipotesi   analoga  a  quella  decisa  con  la  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 432 del 6-15  settembre  1995,  dichiarativa  della
 incompatibilita'  a  partecipare  al  dibattimento del giudice per le
 indagini  preliminari  che  abbia  applicato  una  misura   cautelare
 personale.
   In  via  subordinata alla invocata estensione dell'incompatibilita'
 al  giudice  per  l'udienza  preliminare,  eccepiva  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  34,  secondo comma, c.p.p., nella parte in
 cui non prevede che non possa partecipare all'udienza preliminare, il
 giudice per le indagini preliminari che  abbia  adottato  una  misura
 cautelare personale di natura coercitiva nei confronti dell'imputato.
                             D i r i t t o
   Il  carattere  tassativo  delle  cause di incompatibilita' previste
 dall'art. 34 c.p.p., rende la norma insuscettibile di interpretazione
 estensiva ed analogica.
   Neppure puo' derivarsi la  prospettata  causa  di  incompatibilita'
 dall'indicata  sentenza  della  Corte  costituzionale n. 432/1995, in
 quanto priva di disposizioni che consentano di estendere - ex art. 27
 l.c.  11  marzo  1953  n.   87   -   la   dichiarata   illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  34,  secondo  comma, c.p.p., a fattispecie
 diverse da quella esaminata.
   La sollevata eccezione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 34,  secondo  comma,  c.p.p.,  e' rilevante, per i dedotti profili di
 incompatibilita' del giudice per l'udienza preliminare, ai  fini  del
 procedimento  di  ricusazione  in  corso, e non appare manifestamente
 infondata.
   La  questione  trae  spunto  dalla  natura  dei  poteri  valutativi
 attribuibili  al  giudice  per  le indagini preliminari che emetta un
 provvedimento applicativo di misure cautelari personali (coercitive o
 interdittive), anche a seguito  della  citata  sentenza  della  Corte
 costituzionale  n.  432/1995; dalla espansione dei poteri cognitivi e
 valutativi attribuibili al giudice per l'udienza preliminare e  dalla
 natura del provvedimento conclusivo di tale udienza, alla luce di una
 registrabile  evoluzione  nell'interpretazione giurisprudenziale e in
 conseguenza della legge 8 aprile 1993 n. 105 che ha modificato l'art.
 425 c.p.p.; dal raffronto con  situazioni  analoghe,  gia'  esaminate
 dalla Corte costituzionale.
   E'  principio  affermato con la sentenza della Corte costituzionale
 n. 432/1995 che il giudice per le indagini preliminari, nel  disporre
 una   misura  cautelare  personale  di  qualsiasi  tipo  (e,  quindi,
 coercitiva o interdittiva), deve compiere valutazioni comportanti  la
 formulazione  di un giudizio non di mera legittimita', ma di merito -
 sia pure prognostico ed allo stato degli atti  -  sulla  colpevolezza
 dell'indagato; una valutazione sul merito della res iudicanda.
   A   tale  conclusione,  la  Corte  costituzionale  e'  pervenuta  -
 rivisitando il contrario orientamento in precedenza espresso -  anche
 per  l'intervenuto  mutamento  del quadro normativo per effetto della
 legge  8  agosto  1995  n.  332,  che  accentuando  il  carattere  di
 eccezionalita'  delle  misure  cautelari personali (in particolare di
 quelle limitative della liberta' personale),  impone  al  giudice  un
 piu'  pregnante  apprezzamento  degli  elementi  a carico ed a favore
 dell'indagato,  emersi  dall'attivita'  di  indagine  del   p.m.,   e
 l'obbligo  di  dar conto dei motivi per i quali ritiene  che assumono
 rilevanza,  pena   la   nullita'   del   provvedimento   applicativo,
 espressamente sancita dal comma 2/ter  dell'art.  292 c.p.p.
   E'  da  aggiungere,  a conferma della compiutezza dell'attivita' di
 valutazione  nel  merito  attribuita  al  giudice  per  le   indagini
 preliminari,  come  essa  implichi  e  attenga  anche alla previsione
 quantitativa della pena (valutazione gia' inclusa  nel  principio  di
 proporzionalita'  della  misura,  di cui all'art. 275, secondo comma,
 c.p.p.), considerato l'espresso divieto  normativamente  disposto  al
 comma  2/bis  dell'art.    275  c.p.p.  (introdotto  con  la legge n.
 332/95), di applicare la custodia cautelare se si ritiene che con  la
 sentenza  possa  essere  concessa  la  sospensione condizionale della
 pena.
   Nell'udienza  preliminare,  fase  terminativa  delle  indagini,  il
 giudice  e' tenuto a compiere la verifica processuale dell'iniziativa
 del p.m.,  nel  contraddittorio  fra  le  parti,  mediante  la  piena
 cognizione  di  tutti i risultati dell'attivita' di indagine, al fine
 dell'accertamento della loro idoneita'  a  giustificare  un  pubblico
 processo.
   Accertamento  che,  pur  essendo  di  ordine  processuale  per tale
 finalita' di introduzione del giudizio, non puo' prescindere  da  una
 valutazione di merito di tutti gli elementi probatori.
   Lo  stesso  potere attribuito al giudice per l'udienza preliminare,
 di procedere ad integrazioni probatorie ai sensi e nei limiti di  cui
 all'art. 422 c.p.p., nonche' la riconosciuta possibilita' ex art. 423
 c.p.p.  di  sollecitare  con  un proprio provvedimento il p.m.   alle
 modifiche dell'imputazione anche dopo  la  discussione  delle  parti,
 purche'  nel  corso  dell'udienza  (sentenza  Corte  cost.  n. 88 del
 7-15/marzo/1994), confermano da un lato l'effettuazione da parte  del
 g.u.p.  di un vaglio critico e di merito delle prove e fonti di prova
 gia' in atti, sfociato in un giudizio di inidoneita' a consentire una
 decisione allo stato degli atti (per incompletezza, lacunosita' o non
 rispondenza alla fattispecie contestata); sono  preordinati,  d'altro
 lato,  a  portare  all'esame  del  g.u.p.  un  quadro  degli elementi
 probatori, quanto piu' completo possibile "prima della pronuncia  dei
 provvedimenti  previsti  sul  merito della regiudicanda dall'art. 424
 c.p.p." (sentenza della Corte cost.  citata n. 88/1994).
   La   legge   8   aprile  1993  n.  105,  abrogatrice  del  criterio
 "dell'evidenza" richiesto dall'art. 425  c.p.p.,  che  consentiva  al
 giudice  per l'udienza preliminare di procedere ad una valutazione di
 merito dell'imputazione con esclusivo riferimento ad un parametro  di
 non  evidente  infondatezza  dell'accusa, limitandone i poteri a mero
 controllo di legittimita' e correttezza  delle  fonti  di  prova,  ha
 ulteriormente rafforzato ed ampliato i poteri valutativi del giudice,
 rendendoli  tanto  penetranti nel merito dell'accusa, da poter essere
 assimilati a quelli attribuiti al giudice del dibattimento, allorche'
 rimanga  immutato  il  quadro  probatorio;  comunque,  la  diversita'
 dell'apprezzamento e' solo di ordine quantitativo, e non qualitativo,
 nel caso di acquisizione di ulteriori prove.
   Conseguenza  di  tale  modifica legislativa e', quindi, la modifica
 della regola di giudizio che sottende alla sentenza di  non  luogo  a
 procedere,  non  piu'  di  controllo  di  legittimita' degli elementi
 probatori, ma di pieno merito.
   La stessa Corte costituzionale,  con  la  sentenza  n.  82  del  26
 febbraio-11  marzo  1993  -  precedente  alla  modifica dell'art. 425
 c.p.p. ex legge n. 105/1993 - affermo' il principio che "e'  l'intero
 merito  a  dover  essere  valutato dal giudice", pur sottolineando la
 diversita di struttura e funzione dell'udienza  preliminare  rispetto
 alla   fase  del  dibattimento,  in  conformita'  alla  volonta'  del
 legislatore delegante di limitare  ai  soli  casi  di  "evidenza"  le
 ipotesi in cui era consentito al giudice di apprezzare l'infondatezza
 dell'imputazione.
   Caduta  tale  limitazione,  il  proscioglimento ex art. 425 c.p.p.,
 comporta un giudizio di merito pieno, che  anticipa  l'attivita'  del
 dibattimento,  rendendolo  inutile, sicche' ne' il mantenimento della
 qualificazione come "sentenza di  non  luogo  a  procedere",  ne'  il
 carattere di non definitivita' di tale sentenza (in quanto soggetta a
 revoca  nei  casi  di  cui  all'art.  434  c.p.p.),  possono valere a
 confinare  la  decisione  del  giudice  nell'area   delle   soluzioni
 processuali dell'udienza preliminare, e non di merito.
   Posto  che l'alternativa decisoria offerta al giudice per l'udienza
 preliminare, investito della richiesta del p.m. di rinvio a giudizio,
 e' la sentenza di non luogo a procedere nei confronti  dell'imputato;
 affermato  che  ai  fini  del  proscioglimento ex art. 425 c.p.p., e'
 l'intero merito a dover essere valutato  dal  giudice;  rilevato  che
 solo  la negativita' di tale valutazione puo' dare ingresso al giusto
 processo, e' chiara, anzitutto, la unitarieta' dei poteri  valutativi
 di  merito  che  presiedono  all'opzione  da  parte  del  giudice per
 l'udienza preliminare per l'una o l'altra soluzione.
   E'  anche  evidente  l'impossibilita'  di  scindere   tali   poteri
 valutativi,  qualificandoli  rispetto  alla  richiesta  di  rinvio  a
 giudizio,  non  di  merito  ma  di   controllo   sulla   legittimita'
 dell'esercizio  dell'azione  penale, e assegnare, invece, al medesimo
 giudice, nello stesso contesto dell'udienza  preliminare  e  rispetto
 allo  stesso materiale probatorio, un potere cognitivo pieno rispetto
 alla sentenza di non luogo a procedere.
   Le  precedenti   considerazioni   consentono   di   affermare   che
 l'attivita'  di  valutazione  che  compie  il  giudice  per l'udienza
 preliminare  investito  della  richiesta   di   rinvio   a   giudizio
 dell'imputato,  e' identica a quella che deve compiere nell'applicare
 una misura cautelare personale, anche sotto il profilo  quantitativo,
 allorche' si presenti al g.u.p.  un quadro probatorio immutato.
   V'e'  ragione  di  ritenere,  quindi,  che  la precedente decisione
 assunta dal giudice per  le  indagini  preliminari  nell'emettere  un
 provvedimento  cautelare,  possa  influenzare  quella del giudice per
 l'udienza preliminare, stessa persona fisica.
   Ma, anche nel caso di arricchimento degli elementi probatori, si ha
 motivo di dubitare che il vaglio critico che il giudice per l'udienza
 preliminare  estende  ai  nuovi  indizi,  avvenga  in  condizioni  di
 assoluta   liberta'  da  pregiudizi  derivanti  dalla  gia'  compiuta
 valutazione di quelli disponibili nel momento in cui ha disposto  una
 misura  cautelare  e  che,  quindi,  la  decisione  sul provvedimento
 conclusivo dell'udienza preliminare sia assunta in  piena  serenita',
 obbiettivita' ed imparzialita'.
   La  concentrazione in capo allo stesso giudice, come persona fisica
 - prevista, peraltro, dalla direttiva n. 40  della  legge  delega  16
 dicembre  1987  n.  81, solo in via di "possibilita'" - di poteri che
 spaziano dall'adozione di provvedimenti cautelari  fino  all'adozione
 del  provvedimento  conclusivo dell'udienza preliminare, puo' creare,
 per le esposte ragioni, il prospettato caso di incompatibilita',  per
 cui  l'art. 34, secondo comma, nella parte in cui non prevede che non
 possa partecipare all'udienza preliminare, il giudice per le indagini
 preliminari  che  abbia  adottato  una  misura  cautelare  personale,
 contrasta con le norme costituzionali di cui agli artt. 3, 24 e 25.
   La  diversita'  di  trattamento  e'  rilevabile nei confronti di un
 coimputato  dello  stesso  reato  nel  medesimo   procedimento,   non
 raggiunto  da  misure  cautelari  personali,  rispetto  al  quale  la
 decisione del giudice per  l'udienza  preliminare  e'  frutto  di  un
 approccio valutativo non pregiudicato.
   E',  altresi',  rilevabile  rispetto  a  situazioni  analoghe, gia'
 esaminate dalla Corte costituzionale.
   Con sentenza n. 401/1991 e' stata dichiarata  l'incompatibilita'  a
 partecipare  al  successivo  giudizio  abbreviato  del giudice per le
 indagini  preliminari  presso  il   tribunale,   che   abbia   emesso
 l'ordinanza di cui all'art. 409, quinto comma c.p.p.
   Con  sentenza  n. 439 del 2-16 dicembre 1993 e' stata dichiarata la
 illegittimita' dell'art. 34, secondo comma, c.p.p. nella parte in cui
 non prevede l'incompatibilita' a partecipare al giudizio  abbreviato,
 del  giudice  per  le  indagini  preliminari  che  abbia rigettato la
 richiesta di applicazione di pena concordata ex art. 444 c.p.p.
   Anche in tali casi, il momento processuale pregiudicante attiene  a
 provvedimenti   implicanti   un'attivita'   valutativa   del   merito
 dell'imputazione; diverso, rispetto al caso  in  esame,  e'  solo  il
 termine di confronto.
   Ma,  tra  l'alternativa  offerta  al  giudice  di  definire la fase
 processuale dell'udienza preliminare con il rinvio a giudizio  o  con
 il   proscioglimento   dell'imputato   ex   art.  425  c.p.p.,  e  la
 possibilita' di definire tale fase con il giudizio  abbreviato,  v'e'
 un   marcato  parallelismo  per  la  comunanza  dei  presupposti,  di
 decisione allo stato  degli  atti  e  di  possibilita'  degli  stessi
 epiloghi assolutori.
   Il  discrimine  e' ridotto (come osservato anche in dottrina), alle
 sole scelte di strategia processuale dell'imputato, che  puo'  optare
 per  il  giudizio  abbreviato  per  garantirsi,  in  caso  di mancata
 assoluzione, la prevista riduzione di pena.
   L'affermata,    in   precedenza,   assimilabilita'   dell'attivita'
 valutativa del giudice  per  l'udienza  preliminare  con  quella  del
 giudice  del  dibattimento,  che  puo'  registrare,  ma  non  sempre,
 differenze di ordine quantitativo, ossia di completamento  probatorio
 e  di  nuove  acquisizioni,  e  la  quasi  omogeneita'  delle formule
 conclusive previste  dall'art.  425 c.p.p. con quelle di cui all'art.
 430 c.p.p., consentono di ravvisare un'analogia di  situazioni  anche
 tra  il  caso in esame e quello verificato dalla Corte costituzionale
 con la sentenza n. 432/95, dichiarativa  della  incompatibilita'  del
 giudice  per  le  indagini  preliminari che abbia disposto una misura
 cautelare personale, a partecipare al giudizio dibattimentale.
   E' da rilevare, anzi, che il giudice per l'udienza preliminare,  in
 quanto  non coinvolto nella dialettica della  collegialita', e' ancor
 piu' esposto agli effetti trascinanti di un giudizio sulla fondatezza
 dell'accusa, gia' espresso in precedenza.
   La lesione del diritto di difesa, costituzionalmente protetto (art.
 24) e' conseguenza inevitabile della possibile prevenzione  che  puo'
 inquinare  il  convincimento  del giudice, per la ridotta valenza che
 assumono le argomentazioni difensive di fronte alla naturale tendenza
 a mantenere un giudizio gia' espresso.
   L'identita' soggettiva tra il giudice per le  indagini  preliminari
 che  ha  disposto  l'applicazione  di una misura cautelare personale,
 esprimendosi in termini  di  valutazione  di  alta  probabilita'  del
 fondamento  dell'accusa,  e  il  giudice  per  l'udienza  preliminare
 chiamato a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio, e' idonea a
 determinare (o far apparire) un  pregiudizio  che  mina  la  garanzia
 costituzionale  di  imparzialitita'  del  giudice  (art.  25), la cui
 esigenza e' particolarmente avvertita dalla coscienza collettiva,  in
 ispecie  nell'attuale  momento  storico,  connotato  dall'ansia di un
 rigoroso garantismo.