ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 146, terzo
 comma, del regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
 fallimento,    del    concordato   preventivo,   dell'amministrazione
 controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con
 ordinanza emessa l'11 gennaio  1995  dal  tribunale  di  Pistoia  sul
 reclamo   proposto   da  Gentilini  Franco  contro  il  curatore  del
 fallimento della UNO s.r.l.    ed  altri,  iscritta  al  n.  539  del
 registro  ordinanze  1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 24 gennaio 1996 il giudice
 relatore Fernando Santosuosso.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nell'ambito di una  procedura  fallimentare  relativa  ad  una
 societa'  fallita  (la  UNO  s.r.l.) pendente davanti al tribunale di
 Pistoia, il curatore del fallimento forniva al giudice delegato  dati
 circa  la sussistenza di fondati elementi di responsabilita' a carico
 degli ex amministratori e degli ex sindaci  della  societa'  fallita.
 Sulla  base  di questi elementi, con istanza dell'8 novembre 1994, il
 curatore chiedeva al giudice delegato di autorizzarlo  ex  art.  146,
 secondo  comma,  del  regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
 del fallimento,  del  concordato  preventivo,  della  amministrazione
 controllata   e   della   liquidazione   coatta  amministrativa),  ad
 esercitare le azioni di responsabilita' previste dagli artt.  2393  e
 2394  del  codice  civile  nei  confronti  degli amministratori e dei
 sindaci  della societa' fallita. Gli prospettava anche l'opportunita'
 che il giudice delegato disponesse ex art. 146,  terzo  comma,  della
 legge fallimentare le misure cautelari che gli apparivano necessarie.
   2.  -  Con  decreto  del  15  novembre  1994,  il  giudice delegato
 autorizzava il curatore  ad  esperire  l'azione  di  responsabilita'.
 Inoltre, recependo le ulteriori prospettazioni del curatore, riteneva
 necessario  garantire  con  misure cautelari l'efficacia del giudizio
 che, con la sua  autorizzazione,  il  curatore  stava  per  esperire.
 Pertanto  disponeva  il  sequestro  conservativo  dei  beni  mobili e
 immobili nei confronti dei predetti ex  amministratori  e  sindaci  e
 fissava l'udienza del 29 novembre 1994 per l'audizione delle parti in
 vista  della conferma, della modifica o della revoca del decreto. Con
 ordinanza del 9 dicembre  1994  il  giudice  delegato  confermava  il
 decreto  nei  confronti  di  alcuni soggetti, mentre lo revocava o lo
 dichiarava inefficace nei confronti di altri.
   3. - Uno degli amministratori  della  societa'  fallita,  Gentilini
 Franco,  presentava  reclamo  al  tribunale ex art. 669-terdecies del
 codice di procedura civile, assumendo che l'art.  146,  terzo  comma,
 della legge fallimentare sarebbe stato abrogato dagli artt. 669-bis e
 669-quaterdecies  del  codice di procedura civile, sicche' il giudice
 delegato sarebbe incompetente a disporre il sequestro. In subordine -
 per il caso che il tribunale avesse rigettato la tesi suesposta -  il
 reclamante   avanzava   eccezione  di  illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 146, terzo comma, della legge fallimentare  in  riferimento
 al  potere di iniziativa di ufficio che tale disposizione attribuisce
 al giudice delegato. All'udienza dell'11 gennaio 1995  i  procuratori
 del  ricorrente  e della curatela discutevano sulle questioni oggetto
 del reclamo.
   4.  -  Il   tribunale   di   Pistoia   -   aderendo   all'indirizzo
 interpretativo  attualmente prevalente, ma non unico, in materia - ha
 escluso che il potere del giudice delegato di disporre ante causam, a
 tutela del credito della massa dei creditori sulla scorta degli artt.
 2393 e 2394 del codice civile, il  sequestro  conservativo  dei  beni
 degli  ex  amministratori  e  degli ex sindaci della societa' fallita
 previsto dall'art. 146 della legge fallimentare, sia  stato  abrogato
 dalla nuova normativa in materia di misure cautelari.
   Riteneva,   invece,   non  manifestamente  infondata  la  questione
 sollevata circa la legittimita' costituzionale dell'art.  146,  terzo
 comma,  del  regio  decreto  16  marzo  1942,  n. 267, osservando che
 l'attribuzione al giudice di un potere di iniziativa costituisce  una
 deroga  al principio della domanda che garantisce l'imparzialita' del
 giudizio, poiche'  assicura  il  rispetto  della  normale  dialettica
 processuale,  e  ritenendo  che  una  deroga  in  questa  materia  si
 giustifichi solo quando il risultato mirato dal legislatore  non  sia
 perseguibile  con  altri strumenti.   Pertanto, con ordinanza dell'11
 gennaio 1995 rimetteva gli atti alla Corte costituzionale.
   5. - Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e
 difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  in
 giudizio e, rilevando che nel caso in esame la deroga  agli  ordinari
 principi  sulla competenza cautelare ante causam riguarda soltanto la
 pronuncia della misura cautelare - la quale, anziche'  al  presidente
 del  tribunale,  e'  devoluta  alla competenza del giudice delegato -
 chiedeva che la questione sollevata fosse dichiarata inammissibile o,
 in subordine, che fosse dichiarata infondata.
                        Considerato in diritto
   1.   -   Il   tribunale   di  Pistoia  "dichiara  rilevante  e  non
 manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art.  146,  terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267
 (Disciplina    del    fallimento,    del    concordato    preventivo,
 dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
 amministrativa), nella parte in cui prevede  che,  prima  dell'inizio
 della  causa  di  merito,  le  misure  cautelari strumentali rispetto
 all'azione di responsabilita' contro  gli  amministratori  e  sindaci
 possono  essere disposte d'ufficio dal giudice delegato al fallimento
 anziche' su ricorso del  curatore  secondo  le  norme  ordinarie,  in
 riferimento  agli  artt.  3, 24, secondo comma, coordinato con l'art.
 3, e 101, secondo comma, della Costituzione".
   2. - Ai fini della rilevanza della questione occorre osservare  che
 -  come  correttamente motiva lo stesso giudice rimettente - non puo'
 ravvisarsi una "istanza in senso  proprio"  (con  tutti  i  requisiti
 formali  e  sostanziali  previsti  per  l'atto  introduttivo di altri
 procedimenti) nella generica sollecitazione di misure cautelari fatta
 dal curatore nell'atto con cui richiedeva l'autorizzazione  ad  agire
 in  giudizio.    La  liberta'  delle  forme  che  governa l'attivita'
 processuale non toglie che la domanda di parte, in quanto diretta  ad
 instaurare  un  determinato giudizio nei confronti di un terzo, debba
 consentire a quest'ultimo di esercitare il diritto  di  difesa  e  va
 pertanto  specificamente  determinata  nei  suoi elementi essenziali.
 D'altra  parte,  osserva  ancora  il  giudice  a  quo,   "allorquando
 l'iniziativa  e'  officiosa, l'eventuale richiesta di terzi degrada a
 mera denuncia".
   3. - Nel merito la questione non e' fondata.
   Il tribunale rimettente prende  le  mosse  dall'orientamento  -  al
 quale  aderisce  -  di quella parte della giurisprudenza secondo cui,
 anche dopo l'entrata in vigore della generale disciplina unitaria dei
 procedimenti cautelari (artt.  da  669-bis  a  669-quaterdecies  cod.
 proc.  civ.),  e'  ancora  vigente il terzo comma dell'art. 146 della
 legge fallimentare, il  quale  attribuisce  al  giudice  delegato  un
 potere  di  iniziativa  nel disporre le misure cautelari, costituendo
 una delle  ipotesi  in  cui  il  nostro  ordinamento  processuale  fa
 eccezione al principio della domanda di parte.
   Ritiene  tuttavia  il  tribunale  che  tale  norma  contrasti con i
 precetti costituzionali degli articoli 3, 24, secondo comma,  e  101,
 secondo comma, della Costituzione, poiche' la predetta eccezione alla
 regola  generale non sarebbe sorretta da una effettiva e inderogabile
 giustificazione  (quella  dell'interesse  pubblico  della  massa  dei
 creditori),  potendo "lo stesso risultato essere garantito attraverso
 diversi strumenti tecnici".
   Secondo l'ordinanza di rimessione la norma, come sopra interpretata
 in modo non implausibile, determinerebbe la violazione del  principio
 di  ragionevolezza  ed un vulnus alla tutela giurisdizionale poiche',
 anche in questa ipotesi,  si  verificherebbe  quanto  gia'  affermato
 dalla  Corte costituzionale con sentenza n. 133 del 1993, e cioe' una
 "deroga alla regola  di  terzieta'  del  giudice"  ed  alla  "normale
 dialettica  processuale,  sia  perche'  la  domanda  introduttiva del
 giudizio, formulata dallo  stesso  giudice,  prefigura  il  contenuto
 della  decisione,  sia  perche' il contraddittorio non si instaura in
 condizioni di parita' tra le parti del rapporto  sostanziale,  bensi'
 tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro".
   4.   -   Va  subito  precisato  a  quest'ultimo  proposito  che  la
 fattispecie oggetto della  sentenza  costituzionale,  alla  quale  si
 richiama  il  giudice  a  quo,  aveva  ad oggetto un potere d'impulso
 processuale  nell'ambito  di  una   normativa   in   cui   l'anomalia
 dell'attore-giudice  era  il  riflesso  dell'anomalia  della veste di
 amministratore-giudice allora riconosciuta al commissario per gli usi
 civici.
   Nel presente caso, invece, il  giudice  delegato  non  "formula  la
 domanda  introduttiva  del  giudizio",  ma  emette  un  provvedimento
 consequenziale all'istanza del  curatore  di  essere  autorizzato  ad
 introdurre  il  giudizio di responsabilita'; e, una volta ritenuta la
 necessita' di garantire con misure cautelari l'efficacia del giudizio
 che il curatore chiede di introdurre, il giudice delegato  da'  avvio
 ad un contraddittorio che, sia pure con alcune connotazioni peculiari
 alla  procedura  concorsuale, si svolge tra le parti portatrici degli
 interessi contrapposti del rapporto sostanziale.
   5. - A prescindere dal riferimento fatto al  citato  precedente  di
 questa  Corte, le censure sollevate con l'ordinanza di rimessione non
 possono essere condivise.
   Il  diritto  alla  tutela  giurisdizionale  e'  ascrivibile  tra  i
 principi  fondamentali  del  nostro  ordinamento costituzionale ed e'
 connesso al principio di  democrazia  nell'assicurare  per  qualsiasi
 controversia  un  giudice e un giudizio (sentenza n. 18 del 1982); ma
 tale diritto non risulta violato in materia  processuale  quando  gli
 strumenti  apprestati  dalla  legge, sia pure con diverse modulazioni
 dipendenti dall'adattamento alla struttura di  ciascun  procedimento,
 salvaguardino  nella  sua  essenza l'esercizio del diritto stesso (ex
 plurimis sentenze nn. 214 del 1974, 27 del 1966 e 5 del 1965).
   Piu' recentemente la Corte ha avuto diverse occasioni -  specie  in
 materia   penale   -   di   sottolineare  l'importanza  dei  principi
 dell'imparzialita' e della terzieta' del giudice, per la salvaguardia
 dei diritti di difesa e della uguaglianza dei  cittadini,  che  hanno
 fondamento  negli articoli 3, 24 e 101 della Costituzione (sentt. nn.
 455 del 1994, 133 del 1993, 299 del 1992, 502 e 390 del 1991).
   6. - La delicata  materia  cautelare  -  in  cui  questa  Corte  e'
 intervenuta numerose volte specie per le misure penali - assume anche
 nel  settore  civile  particolare  rilievo, dal momento che essa puo'
 incidere in modo grave, sia pure  provvisoriamente,  su  diritti  dei
 soggetti  passivi,  sulla  base  di  una istruttoria sommaria e senza
 sicurezza di eliminazione totale degli effetti, una volta  rimossi  i
 provvedimenti  stessi.  Questo potere, pertanto, specie se consentito
 per iniziativa officiosa, assume carattere eccezionale  anche  per  i
 giudici ordinari, e viene del tutto escluso per gli arbitri (art. 818
 cod.   proc.   civ.).  Il  legislatore  ha  poi  ritenuto  di  dovere
 disciplinare unitariamente i  procedimenti  cautelari  civili  (prima
 regolati in modo disomogeneo e frammentario) con la novella del 1990,
 che  si  connotaper  il  rispetto  del  contraddittorio e degli altri
 strumenti  di  difesa,  e  risponde  all'esigenza  (v.  Relazione  23
 febbraio  1990  della  Commissione  giustizia del Senato) di "evitare
 che, a fronte di una crescente domanda  di  provvedimenti  implicanti
 cognizione  sommaria,  le  differenze  strutturali  e le lacune delle
 rispettive discipline  si  traducano  in  una  abnorme  ampiezza  dei
 confini delle opzioni ermeneutiche".
   7.  -  La  specifica  disciplina  fallimentare  - pur dopo numerosi
 interventi  della  giurisprudenza  costituzionale  (tra   le   altre:
 sentenze  nn. 201 e 100 del 1993; 570, 567, 408 e 204 del 1989; 127 e
 46  del  1975),  ispirati  ad  una  corretta  aderenza  del  processo
 fallimentare  ai principi costituzionali, soprattutto per il rispetto
 del diritto di difesa (in particolare le sentenze nn. 538  del  1990;
 120  e  102 del 1986; 155 e 151 del 1980; 110 del 1972; 142 e 141 del
 1970)  -  e'  caratterizzata  da  aspetti   pubblicistici   e   dalla
 tendenziale esigenza di maggiore speditezza del processo.
   In  questo  contesto, sono affidati al giudice delegato vari poteri
 (direttivi, decisori e di controllo), nell'esercizio dei quali non e'
 stata    ravvisata    violazione    dei    precetti    costituzionali
 dell'imparzialita'  e  dell'indipendenza del giudice delegato, quando
 cio' risponda all'esigenza di assicurare il rapido svolgimento ed  il
 miglior rendimento dell'attivita' giurisdizionale, senza pregiudicare
 le  decisioni  del  tribunale,  e  quando  il giudice sia in grado di
 operare con assoluta obiettivita' (sentenze nn. 158 e 94 del 1975).
   In  coerenza  con  le   predette   caratteristiche   del   processo
 fallimentare e delle funzioni del giudice delegato, il nostro sistema
 prevede   alcuni   interventi   officiosi;  a  proposito  dei  quali,
 limitatamente al profilo costituzionale e con riguardo alla peculiare
 questione che forma oggetto specifico del presente giudizio, si rende
 necessaria qualche precisazione.
   8. - L'art. 146 della legge n. 267 del 1942 attribuisce al  giudice
 delegato   un   potere  autorizzatorio  ed  uno  cautelare,  entrambi
 strumentali a quel giudizio di responsabilita' che non soggiace  alla
 vis  attractiva fallimentare ed ha soggetti diversi rispetto a quelli
 della procedura concorsuale. Per la sua genericita', la norma  stessa
 ha  dato  luogo ad una serie di questioni, oggetto di ampio dibattito
 dottrinale e di interpretazioni  giurisprudenziali  discordi.  Si  e'
 fatto,  tra  l'altro, notare che l'esercizio di un potere eccezionale
 ed officioso  nel  procedimento  giudiziario  implica  che  esso  sia
 ravvisabile  nei  casi  tassativi  in  cui  la  norma  chiaramente lo
 preveda, debba essere interpretato restrittivamente ed applicato  con
 le  garanzie  offerte dall'ordinamento; inoltre si e' rilevato che la
 legge non configura una competenza del giudice delegato  in  tema  di
 misure  cautelari  quando  allo  stesso  sia  analogamente  richiesta
 l'autorizzazione all'esercizio di azioni revocatorie fallimentari.
   In ogni caso, chiarire l'effettiva  portata  dell'art.  146,  terzo
 comma,  della  legge  fallimentare  (che  non  precisa - a differenza
 dell'art.  151, sesto comma - se il  potere  di  disporre  le  misure
 cautelari  sia  esercitabile  ex  officio  o  su istanza di parte), e
 stabilire quali effetti  siano  derivati  alla  vigenza  della  norma
 denunziata  a  seguito  della  sopravvenuta  legge  n.  353 del 1990,
 contenente la disciplina generale dei procedimenti  cautelari,  resta
 affidato all'interpretazione del giudice ordinario e specialmente del
 supremo organo di nomofilachia.
   9. - In questa sede quindi non e' consentito prendere posizione sui
 problemi   di  coordinamento  tra  la  normativa  generale  e  quella
 speciale, e cio' non sarebbe comunque  necessario  dal  momento  che,
 anche  a ritenere officioso il potere di disporre misure cautelari di
 cui si discute e non applicabile la sopravvenuta disciplina del 1990,
 tale interpretazione  non  appare  a  questa  Corte  viziata  da  una
 esasperata  concezione  pubblicistica che menomi il diritto di tutela
 giurisdizionale costituzionalmente garantito.
   Va  infatti  ribadito,  anzitutto,  che  il principio di iniziativa
 processuale di parte (art. 2907 del  cod.  civ.)  ammette  eccezioni,
 sempre  che  queste  non  determinino  ingiustificate  limitazioni al
 diritto  di  difesa.  Inoltre,  pur  se  la  norma   denunziata   sia
 interpretata  come  sopra, non e' esatta la censura di illegittimita'
 in quanto al giudice delegato verrebbe  in  tal  modo  attribuito  il
 potere  di  introdurre, e contestualmente concludere, il procedimento
 cautelare. In realta', l'intervento eccezionale del giudice  delegato
 per  tutelare  urgentemente  interessi della massa dei creditori puo'
 considerarsi   compatibile   con   la   salvaguardia   dei   principi
 costituzionali  ritenendo che alla tempestiva limitazione della sfera
 giuridica  dei  soggetti  gravati  dalla  misura  cautelare  subentri
 l'immediata    restaurazione   di   un   sufficiente   rispetto   del
 contraddittorio.
   Come, invero, si deduce chiaramente dalla  stessa  rapida  sequenza
 degli atti processuali posti in essere nel caso di specie, il giudice
 dispone  le  opportune  misure  cautelari  attraverso  una  serie  di
 garanzie per il diritto di difesa, sia pure con adattamenti specifici
 alla   peculiare   materia:   a)   tale   potere   viene   esercitato
 "nell'autorizzare  l'azione  di  responsabilita'"  (art.  146,  terzo
 comma), e cioe' prima della instaurazione  del  giudizio  di  merito,
 sulla  base della dettagliata istanza del curatore circa gli elementi
 emersi sulla responsabilita' degli amministratori e sul periculum  in
 mora;  b)  anche  se  la  misura viene disposta d'ufficio, il giudice
 convoca subito le parti per sentirle e decidere  conseguentemente  se
 confermare,  modificare o revocare la misura stessa (nella specie, il
 giudice delegato - sulle dichiarazioni delle parti  -  confermava  il
 decreto  nei  confronti  di  alcuni soggetti, mentre lo revocava e lo
 dichiarava inefficace nei confronti  di  altri);  c)  avverso  questi
 provvedimenti  sono  ammessi  i  normali  mezzi  di  impugnazione,  a
 cominciare  dall'immediato  reclamo  al  collegio;  d)   quest'ultimo
 riesamina  ogni  aspetto  alla  luce  della  discussione dei soggetti
 interessati,  ed  emette  una  decisione  che  produce   le   normali
 conseguenze,  non  esclusa  quella  relativa  alla soccombenza di una
 delle parti.
   10. - Puo' allora conclusivamente ritenersi che, nell'esercizio  di
 questo  potere, il giudice delegato, pur tenendo conto degli elementi
 risultanti dall'istanza del curatore e  con  l'ulteriore  ausilio  di
 sommarie e dirette informazioni, agisca non come attore, ma nella sua
 veste giurisdizionale e quindi super partes valutando i requisiti che
 devono essere la sicura base di qualsiasi provvedimento cautelare (il
 fumus  boni  juris  ed  un  effettivo periculum in mora), sentendo le
 parti  -  seppure  dopo  l'adozione   del   provvedimento   per   non
 pregiudicare  l'attuazione  della  misura  stessa  -  e sempre con la
 garanzia dei successivi mezzi di impugnazione.
   Anche ai  fini  di  questo  successivo  riesame,  il  giudice  deve
 motivare  sulla  ricorrenza in concreto dei requisiti che legittimano
 il provvedimento, nonche' sugli elementi di fatto e  di  diritto  (da
 versare  negli  atti del giudizio principale) che giustificano quelle
 misure  cautelari   da   lui   ritenute   "opportune".   Quest'ultima
 espressione e' stata usata dalla norma non come equivalente di misura
 "conveniente"  ad  una  parte,  ma  nel  significato  -  quello  piu'
 obiettivo,  che  si  addice  ad   un   provvedimento   giudiziale   -
 dell'equilibrata  adeguatezza  (anche  nella  scelta del tipo e nella
 quantita' della misura) a tutti gli interessi in gioco, e  quindi  in
 relazione  ai  diversi soggetti coinvolti, alle responsabilita' degli
 stessi ed alle varie conseguenze delle misure adottate.
   In questo procedimento, pertanto, i soggetti passivi  delle  misure
 cautelari  vengono  a  trovarsi  in  contraddittorio,  non  col  mero
 convincimento di un giudice-attore, ma con gli interessi e le ragioni
 sostenute dalla  controparte,  e  con  strumenti  processuali,  certo
 peculiari   per   la   specificita'  della  materia,  ma  pur  sempre
 sufficienti a garantire la tutela del diritto di difesa, sia sotto il
 profilo della terzieta' del giudice, sia per l'essenziale  dialettica
 processuale.