IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
   Sul ricorso proposto da Beltrami Gianluigi  osserva  quanto  segue:
 Beltrami  Gianluigi, definitivo, ristretto in Brescia dal 27 dicembre
 1995 in forza di ordine di esecuzione  emesso  il  18  dicembre  1995
 dalla  procura  di  Verona,  ha  nominato difensore di fiducia l'avv.
 Maria Teresa Sturla di Brescia in forza dell'invito del suddetto p.m.
 notificatogli  il  27  dicembre  1995,  n.  289/1995,   emesso   "nel
 procedimento  relativo  all'esecuzione  penale  n. 189/1995", a sensi
 dell'art. 28 disp. att. del c.p.p.
   Il direttore della casa di Brescia non ha consentito  al  colloquio
 con  il  detto  difensore  uniformandosi  alle istruzioni a suo tempo
 impartite dal Ministero di grazia e giustizia e dal d.a.p.
   Il  Beltrami  ha  allora  presentato  rituale  reclamo   a   questo
 magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 35 ord. penit. e l'avv.
 Sturla ha presentato i motivi.
   Ritiene  questo  magistrato  in  via  pregiudiziale che deve essere
 esaminato se l'interpretazione adottata dal p.a., ancora recentemente
 ribadita con nota 23 febbraio 1996, n. 128563,  sia  legittima  o  se
 urti contro principi costituzionali rigorosamente prescritti.
   L'ammissibilita' del ricorso e' evidente.
   La  norma  di  cui  all'art. 35 o.p.., che facoltizza il detenuto a
 proporre reclamo anche al magistrato di sorveglianza, fa parte di  un
 giusto  sistema  di garanzie offerto ai detenuti onde assicurare loro
 il pieno rispetto dei loro diritti ed interessi e consentire tutti  i
 necessari  interventi  correttivi volti ad eliminare rapidamente ogni
 ingiusto trattamento.
   Purtroppo, nessuna  norma  dell'ordinamento  penitenziario  vigente
 prevede  disposizioni  speciali  per  i  colloqui  tra  il condannato
 definitivo ed il  suo  difensore  (mentre  piena  e  completa  e'  la
 disciplina  dettata  per  gli  imputati  dagli  artt. 104 e segg. del
 c.p.p. e 21 e segg.  disp. att.).
   In  tema  di  colloqui,  l'ordinamento  attuale  non   concede   al
 condannato   altro  strumento  di  difesa,  tanto  piu'  che  i  casi
 contemplati per il ricorso formale dall'art. 69  o.p.  non  rientrano
 affatto  in  tale  categoria,  riguardando  soltanto  il  lavoro e la
 disciplina.
   D'altronde il diritto al reclamo  e'  sancito  anche  dalle  regole
 minime dell'O.N.U. e quelle del Consiglio d'Europa.
   Diversamente  opinando,  risulterebbe  privo di qualsiasi tutela il
 diritto primario dei detenuti a fruire di colloqui  con  familiari  o
 conviventi,  o  con  altre  persone  per ragionevoli motivi, o con il
 proprio difensore (se condannati definitivi).
   Altrettanto evidente sembra l'ammissibilita',  in  questa  sede  di
 reclamo, del ricorso incidentale alla Corte costituzionale.
   A  seguito del reclamo di cui all'art. 35 o.p. non vi e' dubbio che
 inizia un "procedimento", davanti al magistrato di sorveglianza,  che
 e'  da considerare autorita' giurisdizionale (art. 23, legge 11 marzo
 1953).
   Del resto da tempo la stessa Corte ha escluso che  debba  trattarsi
 necessariamente  ed  esclusivamente di un giudizio "contenzioso", nel
 senso tecnico e formale del termine, tanto e'  vero  che  ha  ammesso
 l'incidente  anche  nel  procedimenti  di  volontaria  giurisdizione,
 osservando che l'attivita' di ogni giudice e'  giurisdizionale  anche
 se  mancano  la  "lite" ed un formale "contraddittorio" (da ultimo 11
 marzo 1958, n. 24).
   In altre parole la proponibilita' delle questioni riposa non  sulla
 natura  del  procedimento  ma sul fatto che un organo giurisdizionale
 sollevi la questione.
   Nel merito si deve rilevare quanto segue.
   L'art.  24,  secondo  comma,  della  Costituzione  afferma,   senza
 possibilita'  di  dubbio o di incertezze, che la difesa e' un diritto
 inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
   La legge delega n. 81 del 1987 ha tradotto in termini  concreti  il
 suddetto   principio  anche  nel  settore  della  esecuzione  penale.
 Infatti l'art. 2, n. 96 ha voluto che il nuovo codice offrisse:
     1) "garanzie di giurisdizionalita' nella fase  della  esecuzione,
 con  riferimento  ai  procedimenti concernenti le pene e le misure di
 sicurezza";
     2) "obbligo di notificare o comunicare al difensore,  a  pena  di
 nullita', i provvedimenti suddetti".
   Ogni  sentenza  di  condanna  presuppone  una pena, che deve essere
 eseguita  a  cura  del  pubblico  ministero,   mediante   l'emissione
 dell'ordine  di esecuzione, atto formale che da' inizio alla "fase di
 esecuzione" che il codice ha regolato nel libro apposito,  il  decimo
 (artt. 648 e segg.).
   Nella  sua  complessita',  il  processo  penale  continua  cosi'  a
 conoscere fasi successive, per realizzare l'applicazione in  concreto
 della  legge  penale  e  la  pretesa  punitiva  dello  Stato. La fase
 dell'esecuzione e' l'ultima in ordine cronologico, ma non e' certo la
 meno essenziale.   Senza di questa,  sarebbe  reso  nullo,  vuoto  di
 significato e di contenuti reali, tutto il processo penale.
   Sono  ormai  trascorsi  i tempi in cui la esecuzione delle sentenze
 non era considerata come facente parte della giurisdizione  ma  della
 amministrazione.  Oggi  anche la fase esecutiva costituisce esercizio
 di giurisdizione, pur essendo curata  dal  p.m.  che,  fino  a  prova
 contraria,   e'   tuttora   un  magistrato,  appartenente  all'ordine
 giudiziario (art.  102, primo comma, della Costituzione), che  quindi
 esercita  una funzione giurisdizionale, anche se le garanzie relative
 di cui  deve  godere  sono  stabilite  dalle  norme  sull'ordinamento
 giudiziario (art. 107, ultimo comma, della Costituzione).
   Il  salto tra il codice Rocco e l'attuale e' pertanto generazionale
 e - d'altra parte - gia' la Corte costituzionale con le  sentenze  n.
 69 del 18 maggio 1970 (che supero' la contraria, precedente decisione
 n.  29  del  27  marzo  1962)  e  n. 98 del 20 maggio 1982 in tema di
 presenza del difensore nell'incidente di cui all'art. 630 del  c.p.p.
 e  di  audizione personale dell'interessato che l'abbia espressamente
 richiesto, aveva ovviato alle piu' gravi deficienze, ponendo le  basi
 delle nuove regole in vigore dal 1989.
   Gia'   Manzini  diceva  che  il  p.m.  era  investito  di  funzioni
 esecutive, rispetto  alle  quali  "egli  agisce  come  ausiliare  del
 giudice",  esplicantesi  nel promuovere la esecuzione delle sentenze,
 solo materialmente curata da funzionari ed agenti di p.g., questi si'
 non appartenenti (a differenza del p.m.) all'ordine giudiziario.
   Affermava il Manzini  che  l'esecuzione  e'  l'effettuazione  delle
 disposizioni  di  un  provvedimento  giurisdizionale  e "da' l'ultima
 concretizzazione alla volonta' della legge".
   Il  procedimento   camerale   previsto   per   dirimere,   mediante
 l'intervento del giudice, ogni questione relativa all'esecuzione, era
 si'  rimesso alla decisione della parte privata o di quella pubblica,
 ma era tale da assicurare che anche i diritti del condannato  fossero
 assicurati da garanzie giurisdizionali.
   L'art. 581 del c.p.p. abrogato, peraltro, non prevedeva la notifica
 "dell'ordine di carcerazione", come allora era chiamato.
   Sulla  stessa  linea tradizionale, purtroppo, si era posto anche il
 legislatore delegato nel 1987-1988. Infatti il  progetto  preliminare
 del  c.p.p.  all'art.  646 non prevedeva alcun obbligo di notifica da
 parte del p.m. dell'ordine di esecuzione e degli altri  provvedimenti
 riferentesi   alla  esecuzione.  E  la  stessa  cosa  valeva  per  la
 esecuzione delle pene detentive (art. 647 del progetto). La norma  si
 limitava  ad  esigere  la  consegna dell'ordine all'interessato (art.
 647, primo comma) che pur doveva contenere varie notizie, considerate
 nella relazione al progetto preliminare "essenziali per la  validita'
 dell'atto  e  per  la instaurazione di un valido rapporto processuale
 esecutivo".  In tal modo l'ordine di esecuzione diventa  equipollente
 alla notifica dell'estratto della sentenza al contumace.
   Ovviamente  la  semplice  consegna di copia non e' atto sufficiente
 per assicurare la garanzia della presenza del difensore.
   Eppure la stessa relazione affermava che  una  volta  "adottato  il
 principio   della   piena  giurisdizionalizzazione  del  procedimento
 esecutivo", appariva  illogico  pensare  ad  uno  svolgimento  "senza
 l'instaurazione  di un vero e proprio contraddittorio" che implica la
 contestuale e necessaria presenza del difensore e del p.m.
   La commissione parlamentare interveniva opportunamente ed al  testo
 definitivo  del  codice,  all'art. 646 (divenuto il 655), fu aggiunto
 l'attuale quinto comma, che a pena di  nullita'  impone  la  notifica
 entro  trenta giorni del provvedimento del p.m. al difensore nominato
 dall'interessato o a quello d'ufficio designato  dal  p.m.  ai  sensi
 dell'art. 97.
   Non  vi  e'  dubbio,  pertanto,  che  la  fase  esecutiva  e'  fase
 procedimentale e giurisdizionale ed inizia con la suddetta  notifica,
 non avendo alcun senso la presenza del difensore se cosi' non fosse.
   Tale  difensore, del resto, e' "nuovo" come e' nuova la fase, tanto
 e' vero che e' da scartare l'ipotesi di una prorogatio del  difensore
 della  fase  di  cognizione (anche a causa della distanza temporale e
 spaziale che spesso intercorre tra le fasi  suddette,  caratterizzate
 dalle ormai note e deprecate lungaggini processuali).
   Competente  a  "conoscere  dell'esecuzione"  di  ogni provvedimento
 giurisdizionale e' lo stesso giudice che lo ha deliberato  (art.  655
 attuale  c.p.p.).  Tale competenza e' di natura generale e scatta nel
 momento stesso in cui inizia la fase dell'esecuzione.
   In altri termini, cio' conferma che un procedimento e' gia' aperto,
 indipendentemente dal fatto che il p.m. o  l'interessato  od  il  suo
 difensore  in  seguito propongano istanze ai sensi dell'art. 666, nel
 quale il contraddittorio deve essere necessario ed effettivo.
   Cio' e' tanto piu' vero, se si pensa che non vi  sono  termini  per
 l'inizio  dell'incidente,  il  che  conferma  come  "tutta"  la  fase
 esecutiva e' di per se  stessa  un  "procedimento"  che  deve  essere
 assistito dalle solite garanzie.
   Ma cio' non e' vero nella realta' quotidiana.
   In  effetti,  una volta eseguito l'ordine di esecuzione di una pena
 detentiva,   il   condannato   viene   associato   al    carcere    e
 l'amministrazione  penitenziaria  non  gli consente di avere colloqui
 con il proprio difensore, di fiducia  o  d'ufficio,  che  pur  e'  in
 possesso dell'ordine di esecuzione notificatogli dallo stesso p.m.
   Secondo   l'amministrazione   penitenziaria  nella  migliore  delle
 ipotesi il difensore suddetto e' un "estraneo" o un "terzo" che  puo'
 avere  colloqui  con  il  detenuto "per ragioni di giustizia" ma deve
 anche pendere un procedimento avanti il giudice ex art.  665  o  alla
 magistratura di sorveglianza.
   Il  tutto, ad avviso del ministero, alla luce degli artt. 18, primo
 comma, ord. penit. e 35 primo comma, reg. pen. (secondo  il  quale  i
 colloqui  con  "persone  diverse"  dai  congiunti  e conviventi "sono
 autorizzati quando ricorrano ragionevoli motivi").
   L'ufficio legislativo del Ministero  di  grazia  e  giustizia  (nel
 parere 18 aprile 1990, n. 1360-2/1 - 5U.L. e su richiesta del d.a.p.,
 che  era  stato  interessato dal tribunale di sorveglianza di Brescia
 con lettera n. 642/1989 del 28 novembre 1989) ha avvallato  la  tesi,
 pur riconoscendo rilevante "l'argomento teso ad individuare nell'art.
 104  del  c.p.p.  un parametro di riferimento non ristretto alla sola
 fase della custodia cautelare". L'ufficio peraltro ha  poi  preferito
 dare  decisiva  importanza  al  testuale dettato di tale articolo che
 menziona "il solo stato di custodia cautelare". Soltanto il difensore
 dell'imputato  sarebbe  cosi'  titolare  di  un  diritto  mentre   il
 difensore  del  condannato  rimane soggetto a quanto stabiliscono gli
 artt. 18 o.p. e 35 reg.
   Secondo il Ministero, del resto, il condannato e'  un  "colpevole",
 non  e'  piu'  un  imputato  la  cui  responsabilita' rimane tutta da
 accertare.  Singolare tesi questa, che non tiene  conto  del  dettato
 costituzionale   che   vieta   distinzioni  tra  le  varie  fasi  del
 procedimento.
   Aggiunge il Ministero, poi, che il  diritto  al  colloquio  con  il
 difensore non e' "limitato" ma semplicemente "condizionato", peraltro
 ad  una  autorizzazione  discrezionale  del  direttore, il quale puo'
 affermare, come spesso avviene, che a nome del condannato non pendono
 procedimenti (anche se alla fine non e' vero).
   Con il  che  il  diritto  non  viene  condizionato,  ma  totalmente
 sacrificato   a   seguito  di  una  decisione,  discrezionale  e  non
 impugnabile dell'organo amministrativo.
   La tesi suddetta non e' stata da varie  parti  condivisa  (tra  cui
 provveditorato  di  Torino  n.  11690-7 del 9 ottobre 1993) tanto che
 l'ufficio  studi  del  d.a.p.  ha  inviato  all'ufficio  detenuti  un
 motivato  parere  (n. 694328 - 2/11(6) del 7 marzo 1994) nel quale ha
 almeno riconosciuto che i colloqui dei condannati  con  il  difensore
 non  possono  mai  essere  conteggiati  nei quattro mensili cui hanno
 diritto i familiari.
   L'ufficio studi ha poi riaffermato che i motivi di  giustizia  sono
 "ragionevoli"  per  giustificare  un  colloquio con persona estranea,
 dietro  autorizzazione  del  direttore,  ma  sempre  richiedendo  nel
 contempo la pendenza del procedimento.
   Il  Ministero  ha  citato  il decimo comma dell'art. 35 reg. che fa
 riferimento ad "eccezionali circostanze" con il che si  apprende  con
 stupore  che  quando  il  condannato parla con il suo difensore, dopo
 aver  parlato  con  i  familiari,  si  verifica  non  un  avvenimento
 fisiologico,   costituzionalmente   garantito,   ma  addirittura  una
 occasione "eccezionale".
   Grave  poi  appare  l'altra  affermazione  secondo  cui   "in   via
 ordinaria"  l'espiazione  delle  pene  non  richiede  contatti con il
 difensore. In tal modo si vanifica totalmente la nomina, di fiducia o
 d'ufficio, contenuta nell'ordine di esecuzione emesso dal p.m.
   Il principio posto dal Ministero e' cosi' il seguente: il direttore
 deve  autorizzare  "ove  non  sussistano  motivi  specifici  che   lo
 sconsigliano"  (e quindi in via di totale discrezionalita'|) colloqui
 del condannato con il difensore "nella misura necessaria a soddisfare
 le esigenze di giustizia" connesse a  "procedimenti"  giurisdizionali
 "in  relazione  ai quali il difensore medesimo sia stato regolarmente
 nominato".
   Qui appare altro inquietante aspetto che conferma  la  mancanza  di
 autonomia  e  di  garanzie  per  il  condannato,  perche' e' ancora e
 soltanto il direttore che puo' decidere se e fino  a  qual  punto  le
 "esigenze di giustizia" possano essere soddisfatte.
   Il  problema da risolvere rimane uno solo: quando per un condannato
 definitivo  possa  parlarsi  di   "pendenza"   di   un   procedimento
 giurisdizionale.
   In  altri  termini,  se  viene  nominato  dal p.m. un difensore, di
 fiducia o di ufficio, per tassativa disposizione di legge, nel  corpo
 dell'ordine di esecuzione, si e' in presenza di un atto processuale o
 comunque  di  nomina  che  impedisce  di  qualificare  come  generico
 "avvocato" il "difensore"  nominato,  che  cosi'  deve  fruire  senza
 limitazioni  e  senza autorizzazioni della facolta' di avere colloqui
 con il condannato.
   Non e' ragionevolmente ipotizzabile che con la nomina suddetta  non
 inizi  un  procedimento  giurisdizionale o giudiziario; i concetti di
 "procedimento" e di "difensore" sono strettamente correlati.
   Non vi e' procedimento senza difensore e dove c'e'  difensore  c'e'
 necessariamente   un  procedimento,  anche  nella  prima  fase  della
 esecuzione oltre che in  quella  dell'incidente  o  in  quella  della
 sorveglianza.
   Del resto, se un cittadino viene colpito, pur legittimamente, da un
 ordine  che  restringe  gravemente la sua liberta' personale, da quel
 momento e' veramente arduo sostenere che debba essere lasciato  senza
 difesa tecnica, difesa che si dispiega fin dalla prima fase di studio
 del  caso, che e' preliminare alla instaurazione di altri, successivi
 procedimenti, quello incidentale o quello di sorveglianza.
   Il punto di fondo rimane uno solo: occorre cessare  di  considerare
 l'espiazione un fatto "privato" tra il condannato e l'amministrazione
 penitenziaria,  un  momento  meramente  amministrativo,  nel quale il
 giudice non ha voce  (e  dove  non  c'e'  il  giudice,  non  c'e'  il
 procedimento e non c'e' difensore).
   E' questa una considerazione importante, una conquista fino ad oggi
 fatta soltanto di buoni propositi e di parole.
   La  tesi  ministeriale  pertanto  non  convince,  alla  luce  delle
 premesse.
   Ripugna  infatti  considerare  un   estraneo   chi   e'   investito
 legittimamente  di  una  funzione processuale precisa, vale a dire il
 difensore, una delle parti necessarie del procedimento, di  tutto  il
 procedimento,  a  partire dalla fase di cognizione. Al riguardo basti
 leggere gli artt. 96 e segg. del c.p.p. e 21 e segg. delle disp. att.
   Di conseguenza, nello schema logico, pur mancando una norma ad  hoc
 che  legittimi pienamente la posizione del difensore anche nella fase
 processuale esecutiva (e cio' per una mera svista dei compilatori del
 codice), e' possibile giungere alla stessa conclusione  solo  che  si
 accetti la tesi, secondo la quale tutta la fase esecutiva deve essere
 assistita   dalla   garanzia   di   difesa,  indipendentemente  dalla
 circostanza, del tutto eventuale, che le parti si  siano  rivolte  al
 giudice della esecuzione con il rito di cui all'art. 666 del c.p.p.
   Del  resto,  e'  evidente  che  -  prima  di  decidere  di  passare
 all'azione  concreta  -  il  detenuto  ha  un  innegabile  diritto  a
 conferire anche piu' volte con il proprio difensore.
   In mancanza di tutto cio', rimane solo il vuoto piu' totale.
   Il  detenuto  condannato  definitivo  e' solo nel carcere, privo di
 difesa e di dialogo,  perche'  e'  del  tutto  pacifico  che  ne'  il
 personale  della  a.p.  ne' i magistrati di sorveglianza hanno titolo
 per sostituirsi al difensore, essendo ben altre le loro funzioni.
   D'altronde, si e' sempre rilevato che il diritto alla difesa di cui
 all'art. 24, secondo comma, della Costituzione si collega alla difesa
 dei diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 e  garantisce  ai
 titolare  la  possibilita'  di  difendere  i  diritti  stessi  contro
 l'attacco   che   venga  loro  mosso  con  una  qualsiasi  procedura,
 giudiziaria e non.
   A tale proposito si vedano gia' le sentenze della Corte n.  53  del
 24  maggio  1968  e  n.  76  del 25 maggio 1970 in cui si afferma che
 l'art.  24,  secondo comma si applica a  qualunque  procedimento  che
 "indipendentemente  dalla  sua  qualificazione giurisdizionale" possa
 sfociare in una misura limitativa della liberta' personale  (in  tema
 specificamente    di    misure    di    prevenzione   aventi   natura
 amministrativa).
   E' vero che la Corte ha detto che  il  diritto  di  difesa  non  e'
 assoluto,   nel   senso   che   deve  conciliarsi  con  altri  valori
 costituzionali, ma i limiti di ragionevolezza non sono  insindacabili
 (sentenze  n. 41 del 31 maggio 1965 e 117 del 10 luglio 1973) entro i
 quali il legislatore puo' creare procedimenti penali di  vario  tipo,
 adattando le manifestazioni del diritto di difesa alla particolarita'
 di ciascuno. Con un solo limite, quello di "non pregiudicare lo scopo
 e  la  funzione  del  diritto"  in  modo  che  lo  stesso  non  venga
 sacrificato o reso estremamente difficoltoso  l'esercizio  (sent.  n.
 159  del  9  novembre  1973; n. 162 del 26 giugno 1975; n. 174 del 14
 luglio 1976).
   La piena conferma dei suddetti principi si trova laddove  la  Corte
 ha  fatto  giustizia  delle  norme del codice Rocco che conosceva una
 disciplina al riguardo brutalmente  sbrigativa  o  non  la  prevedeva
 affatto (come nel caso di esecuzione dell'ordine di carcerazione).
   Infatti  la  Corte  ha  detto  che  la  notificazione e' "strumento
 necessario ed indispensabile per instaurare il contraddittorio e  per
 dar modo all'imputato di provvedere alla sua difesa" (sent. n. 57 del
 6 luglio 1965 e n. 186 del 18 dicembre 1973).
   Il  legislatore  ordinario doveva creare le condizioni migliori per
 rendere possibile all'interessato  la  "reale  conoscenza"  dell'atto
 (sentenza  n.  117 del 6 luglio 1970, n. 54 del 22 marzo 1971, n. 177
 del 19 giugno 1974).
   Ed e' cio' che ha fatto il nuovo codice in  materia  di  esecuzione
 dei giudicati, dietro espresso invito della commissione parlamentare.
   La stessa cosa, del resto era gia' contenuta nel progetto di codice
 di  cui  alla  legge  delega  3  aprile  1974,  n.  108,  in  tema di
 irreperibilita'.
   La Corte, anche nelle  decisioni  n.  208/1991  e  n.  497  del  23
 novembre/11  dicembre  1995,  sia  pure  in  tema  di  imputati  e di
 contenuto del decreto di citazione a giudizio avanti il  pretore,  ha
 affermato  in  linea  generale  che  si  deve assicurare una garanzia
 essenziale per il diritto di  difesa  e  si  devono  prevedere  delle
 conseguenze  nel caso che vengano violati obblighi tassativi (come si
 verifica anche nel caso del condannato qui in  esame,  a  favore  del
 quale e' obbligatoria la nomina dei difensore, fin dall'inizio).
   L'imputato  soffre  diminuite  potenzialita' difensive se non viene
 portato tempestivamente a conoscenza di quali sono i suoi diritti.
   Nel caso del condannato definitivo e' vero che  non  sono  previsti
 termini  decadenziali per adire la magistratura ordinaria o quella di
 sorveglianza, ma e' evidente il  diritto  dei  soggetto  a  porre  in
 essere  l'azione al piu' presto, per non soffrire piu' pena detentiva
 di quanto non spetti.
   In   altri  termini  anche  il  condannato  deve  essere  messo  in
 condizioni di operare al piu'  presto  -  ed  in  modo  adeguatamente
 assistito  -  le proprie scelte strategiche difensive, essenzialmente
 basate sulla conoscenza di tutte le possibili e varie  soluzioni  che
 l'ordinamento   presenta   atte   ad   attenuare   o  rimuovere  ogni
 pregiudizievole conseguenza.
   Sotto tale  profilo  per  l'imputato  il  decreto  di  citazione  a
 giudizio ha un contenuto di contestazione e di conoscenza e la stessa
 cosa  vale  per  il  condannato,  cui  viene  contestata  la condanna
 definitiva e comunicato che deve subire la pena, ma nei modi e con le
 condizioni anche alternative offerte dalla legge.