IL TRIBUNALE
   Vista l'istanza di espulsione dal territorio dello  Stato  proposta
 da  Hamdadou Abdennour, nato ad Algeri  il 2 aprile 1962, attualmente
 detenuto in espiazione pena a Gorizia, osserva quanto segue.
                           Premesso in fatto
   Hamdadou Abdennour e' stato condannato in primo grado dal tribunale
 di Venezia (sentenza 15 dicembre 1994) alla pena di anni 4 e  mesi  6
 di  reclusione  e  lire 100 milioni di multa per il reato di cui agli
 artt. 73 e 80, secondo comma,  del  d.P.R.  n.  309/1990,  per  avere
 importato  in Italia l'ingente quantitativo di stupefacente pari a kg
 18 di hashish, con principio attivo di gr 1432, 033,  fatto  commesso
 in Marghera (Venezia) il 28 luglio 1994.
   In  sede  d'appello, la pena e' stata ridotta, a seguito di accordo
 tra le parti ex art. 599 del c.p.p., ad anni 3 e mesi 4 di reclusione
 e lire 30 milioni di  multa  (sentenza  9  maggio  1995,  passata  in
 giudicato il 31 luglio 1995).
   Stante  la  sorpresa in flagrante reato, l'Hamdadou era stato a suo
 tempo tratto in arresto ed all'esito   dell'udienza di  convalida  il
 g.i.p.  aveva  pronunciato ordinanza di custodia cautelare in carcere
 (ordinanza del g.i.p. del tribunale di  Venezia  in  data  30  luglio
 1994),  misura  la  cui  applicazione e' proseguita ininterrottamente
 fino al passaggio in giudicato  della  sentenza  di  condanna  ed  al
 conseguente inizio della fase esecutiva.
   Con    istanza   ricevuta   dall'ufficio   matricola   della   casa
 circondariale di Gorizia in data 11 settembre 1995,  lo  Hamdadou  ha
 chiesto  la  propria  espulsione  dal territorio dello Stato ai sensi
 delia   vigente    legislazione    sugli    stranieri,    depositando
 contestualmente passaporto algerino.
                        Considerando in diritto
   Ritiene  il collegio che la norma di cui all'art. 7, commi 12-bis e
 12-ter  della  legge  n.  39/1990,  cosi'  come      modificata   dai
 provvedimenti  normativi  successivamente  intervenuti nella materia,
 sollevi gravi dubbi di incostituzionalita', per manifesta  violazione
 dei  canoni  di  ragionevolezza (sotto il profilo della disparita' di
 trattamento)  cui  pur  sempre  l'attivita'  legislativa   dev'essere
 improntata,   nonche'   per  contrasto  con  i  princi'pi  desumibili
 dall'art. 27 della Costituzione in ordine alla natura ed  agli  scopi
 della sanzione criminale.
   Non  ignora  questo tribunale come una precedente impugnativa delle
 medesime  disposizioni  avanti  alla   Corte   costituzionale   abbia
 incontrato  il  rigetto  da  parte  del giudice delle leggi (sentenza
 10-24 febbraio 1994, n. 62).
   In  quella  occasione  la  Corte  ha  fornito   un   ampio   quadro
 ricostruttivo   dell'istituto   dell'espulsione  dello     straniero,
 distinguendo  all'interno  della  previsione  normativa  due  ipotesi
 autonome, ciascuna caratterizzata da  precisi requisiti: quella dello
 straniero che si trova in custodia cautelare e quella dello straniero
 detenuto  in   espiazione pena.  In questo secondo caso, come e' dato
 leggere nella motivazione della sentenza, "l'ordinanza di  espulsione
 e'...  subordinata  alla circostanza che la pena da espiare, anche se
 residua di una maggior pena, non sia superiore a  tre  anni.  E  cio'
 evidentemente  comporta  che  il  reato  per il quale lo straniero e'
 stato condannato non sia di gravita' particolarmente rilevante o, nel
 caso di pena residua non superiore a tre anni, che la pena possa aver
 raggiunto, sulla  base  di  una  non  irragionevole  presunzione  del
 legislatore, le finalita' ad essa proprie".
   La Corte ha quindi implicitamente posto l'accento sull'apprezzabile
 efficacia  rieducativa  connessa ad una pur parziale espiazione della
 pena detentiva.   Ma e' chiaro a questo  punto  che,  per  attribuire
 contenuto  effettivo  a  quella  non  irragionevole  presunzione  del
 legislatore e' necessario che comunque la frazione di pena espiata in
 carcere dal soggetto prima che maturino le  condizioni  per  una  sua
 espulsione  su richiesta debba aver avuto una durata sufficientemente
 prolungata,  che'  altrimenti  non  si   vedrebbe   quale   efficacia
 rieducativa  possa  in  realta' avere esplicato la sanzione criminale
 irrogata in  concreto.    Ed  e'  proprio  su  questo  versante  (non
 espressamente   preso   in   esame   dalla   sentenza   della   Corte
 costituzionale sopraindicata, come si chiarira' piu' avanti) che,  ad
 avviso  di  questo  tribunale,  si  colloca la maggiore delle carenze
 imputabili alle norme in parola. Essa, difatti,  nel  subordinare  la
 possibilita'  di espulsione dello straniero alla presenza di una pena
 detentiva residua non superiore ai  tre  anni,  omette  di  prevedere
 l'ulteriore  condizione  che comunque il soggetto debba aver scontato
 una certa frazione della  pena  complessiva  (es.  la  meta',  o  due
 terzi), la cui effettiva espiazione possa a questo punto fondatamente
 giustificare  un  convincimento  nel  senso dell'apprezzabile valenza
 rieducativa della sanzione patita dal detenuto.  Le disposizioni  che
 si  censurano,  invece,  per  il  modo  in cui oggi sono concepite ed
 interpretate nel diritto vivente (cfr. Cass.,  sezione  1,  31  marzo
 1995,  Arpak,  che ha escluso efficacia ostativa all'espulsione dello
 straniero, alla condanna definitiva per i reati contemplati dall'art.
 275, terzo  comma,  del  c.p.p.  nel  testo  anteriore  alle  recenti
 modifiche,  operate  con  la  novella  n. 332/1995) aprono il varco a
 situazioni  anche  paradossali,  le  quali  appaiono  tutt'altro  che
 improbabili  e  che  possono verificarsi allorquando la pena inflitta
 sia di poco superiore ai tre anni. Con la  conseguenza  che  una  pur
 brevissima espiazione in carcere diviene sufficiente a determinare la
 sospensione  dell'esecuzione ed il rimpatrio dello straniero.  Ne' va
 dimenticato come, grazie alle risorse offerte in sede processuale dai
 c.d. riti alternativi e, segnatamente, dal giudizio abbreviato, fatti
 anche gravi siano  puniti  con  sanzione  notevolmente  decurtata  la
 quale,  se  si  giustifica  pienamente  nell'ottica di incentivare la
 scelta di definizioni extradibattimentali, non fa  certo  venir  meno
 l'offensivita'  dei  singoli  episodi  criminosi  e l'esigenza che la
 sanzione  concretamente  inflitta,  proprio   perche'   sensibilmente
 diminuita,  venga  poi  tradotta  ad esecuzione (salva, naturalmente,
 l'eventuale applicazione  di  benefici  od  altre  particolari  cause
 estintive della pena, come ad esempio l'indulto).
   In   altri   termini,   l'esigenza   di   deflazionare   il  carico
 dibattimentale, la quale ha suggerito l'introduzione dell'istituto di
 cui agli artt.  438 e segg. del c.p.p., non puo'  in  ogni  caso  far
 premio,  oltre  una  certa  misura,  su  quella di porre ad effetto i
 comandi  legislativi  penalmente  sanzionati.  E se il sistema appare
 certamente equilibrato nel suo complesso, altrettanto non puo'  dirsi
 nel  momento  in  cui  venga  in  esame la posizione di uno straniero
 soggetto alla legge n. 39/1990,  caso  in  cui,  per  effetto  di  un
 criticabile    automatismo   legale,   la   pretesa   punitiva   deve
 ulteriormente, ed in modo non sufficientemente  discriminato,  cedere
 all'esigenza  di  sovvenire  ai  problemi derivanti dall'affollamento
 carcerario.  Senza contare che in taluni casi - tra  i  quali  figura
 quello  che  ha  originato  la  presente ordinanza di rimessione - si
 finirebbe virtualmente col favorire soggetti condannati per  illeciti
 di rilevante allarme sociale (come, appunto, quello di cui agli artt.
 73  e  80, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica
 n. 309/1990), in relazione ai quali e' stata applicata la  misura  di
 sicurezza  tipica  prevista  dall'art.  86 del decreto del Presidente
 della Repubblica cit., la quale ultima, comunque subordinata  ad  uno
 specifico  accertamento  in  ordine  alla pericolosita' del reo, puo'
 trovare  applicazione  soltanto  dopo  interamente  espiata  la  pena
 detentiva.    E'  evidente,  a  questo punto, come le norme contenute
 all'art. 7, commi 12-bis e 12-ter, appaiano manifestamente  contrarie
 ai  dettami  della Carta fondamentale, ed in particolare al principio
 di equilibrata, paritaria e ragionevole ponderazione degli  interessi
 in  conflitto rinvenibile nell'art. 3 della Costituzione, laddove non
 prevedono che, prima di aver diritto  all'espulsione  dal  territorio
 dello  Stato, lo straniero debba comunque aver scontato una quantita'
 della pena irrogata in concreto che corrisponda ad  una  apprezzabile
 frazione  del  tutto. In assenza di che, sarebbe vuoto di significato
 ogni richiamo alla funzione rieducativa della  sanzione  criminale  e
 l'istituto   in  parola  si  trasformerebbe  in  un  ingiustificabile
 privilegio a favore dello straniero  extracomunitario,  a  detrimento
 delle   altre   categorie   di   soggetti.  Con  ovvia,  e  parimenti
 irragionevole, disparita' di trattamento rispetto a coloro  che,  pur
 condannati  a pena di entita' inferiore, devono attendere il completo
 esaurimento   del   periodo   di    detenzione    ovvero    confidare
 nell'applicazione  di  misure  alternative,  comunque  ricollegate  a
 valutazioni  discrezionali  dell'autorita'  giudiziaria  e   ad   una
 condizione  di meritevolezza che invece, ai fini dell'espulsione, non
 e' richiesta agli individui extracomunitari.
   A questo punto, ritiene il collegio s'imponga una precisazione.
   L'aspetto relativo alla presunta indebita disparita' di trattamento
 fra il cittadino e lo straniero e' stato gia' affrontato dalla  Corte
 costituzionale   nella   ricordata   sentenza   n.   62/1994.      In
 quell'occasione, l'Alto consesso ebbe ad osservare  che  inerisce  al
 controllo  di  costituzionalita' sotto il profilo della disparita' di
 trattamento considerare le posizioni messe a confronto, non  gia'  in
 astratto, bensi' in relazione alla concreta fattispecie oggetto della
 normativa  contestata.  E poiche' quest'ultima attiene all'espulsione
 di   una   persona   dallo   Stato   italiano,   e'   in    relazione
 all'applicabilita' di tale misura che va valutata la comparabilita' o
 meno  delle  situazioni  rispetto  alle  quali  i  giudici  a  quibus
 sospettano la violazione del principio costituzionale di  parita'  di
 trattamento.    Poste  tali  premesse,  la Corte ha poi argomentato e
 concluso affermando la peculiarita' della posizione dello straniero e
 la sua non comparabilita' con quella del cittadino, al  quale  ultimo
 la misura dell'espulsione, comunque configurata, non sarebbe in alcun
 modo  applicabile,  stante  l'amplissima  garanzia di cui all'art. 16
 della Costituzione.  La questione che con la  presente  ordinanza  si
 vuol  sottoporre  al  giudizio della Corte costituzionale e', invece,
 affatto diversa.
   Ora, va certamente tenuta per ferma la premessa svolta dal  giudice
 delle leggi, secondo la quale la comparazione fra le situazioni messe
 a   confronto  va  operata  non  in  astratto,  bensi'  in  relazione
 all'istituto giuridico concretamente preso in esame.
   In questa sede, tuttavia, la questione non verte sul confronto  tra
 la  posizione  del  cittadino  e  quella  dello  straniero,  nei loro
 rispettivi rapporti,  rilevanti  a  livello  costituzionale,  con  il
 territorio  dello  Stato italiano; essa concerne piuttosto il diverso
 regime che, in forza delle disposizioni  impugnate,  caratterizza  il
 rapporto  fra  ciascuna  di  quelle  categorie  di soggetti e la pena
 criminale (o, se si preferisce, il c.d. dovere statuale di punire).
   Risulta evidente, allora,  come  l'istituto  dell'espulsione  dello
 straniero, lungi dall'esaurire in se' stesso il complesso dei temi su
 cui  si  vuole  sollecitare  l'intervento  della  Corte,  costituisca
 null'altro che l'occasione per  affrontare  -  sia  pure  nei  limiti
 segnati dalla sfera di applicazione delle norme oggetto di censura ed
 ai  soli  fini di una loro eventuale declaratoria di illegittimita' -
 l'argomento concernente il rapporto anzidetto, per verificare se,  in
 relazione  ad  esso,  la  posizione  del  cittadino  e  quella  dello
 straniero siano state differenziate secondo  criteri  di  equilibrata
 discrezionalita'  legislativa,  oppur non.  Tale profilo non e' stato
 preso in considerazione dalla citata sentenza n.  62/1994,  essendosi
 in   quell'occasione   la   Corte   limitata  a  valutare  l'istituto
 dell'espulsione  dello   straniero   unicamente   alla   luce   delle
 disposizioni  di cui agli artt. 3 e 13 della Costituzione, mentre nel
 presente caso il parametro di riferimento  e'  certamente  costituito
 dall'insieme dei principi ricavabili dagli artt. 3 e 27, terzo comma,
 della  Costituzione, in una loro coordinata lettura.  Chiarito cio' -
 e tornando ora alla prospettiva indicata da questo tribunale  con  le
 considerazioni precedenti - va ancora aggiunto come la configurazione
 di  meccanismi  premiali  subordinati  all'avvenuta espiazione di una
 determinata frazione della pena in concreto non sia affatto  estranea
 al  vigente  ordinamento  positivo.    Si  puo'  tener  presente,  al
 riguardo, la  norma  di  cui  all'art.  176  del  c.p.,  in  tema  di
 liberazione  condizionale,  che  ammette al beneficio colui che abbia
 scontato almeno trenta mesi e comunque almeno  la  meta'  della  pena
 inflittagli,  qualora  il  rimanente  della  pena non superi i cinque
 anni, mentre per alcune categorie di recidivi la previsione e'  ancor
 piu' restrittiva, essendo stabilito che costoro debbano aver scontato
 almeno  quattro  anni  di  pena  e  non meno di tre quarti della pena
 inflitta.
   Analoga  struttura   presenta   la   disciplina   del   regime   di
 semiliberta',  contemplato  dagli  artt.  48  e  segg. della legge n.
 354/1975, ed al quale i condannati per delitto possono essere ammessi
 soltanto dopo l'espiazione di almeno  meta'  della  pena  ovvero,  in
 ipotesi  piu'  gravi,  di  almeno due terzi di essa (art. 50, secondo
 comma, legge citata).   Tanto osservato  in  linea  di  inquadramento
 ordinamentale,  ritiene  conclusivamente  il collegio che soltanto la
 previsione di un necessario rapporto in  termini  frazionari  fra  la
 pena  inflitta in sede di condanna e quella concretamente espiata dal
 soggetto possa ricondurre la disciplina dell'istituto dell'espulsione
 dello  straniero  in  sintonia  con  i  principi  costituzionali   di
 uguaglianza  e parita' di trattamento (art. 3 della Costituzione), in
 modo tale che  il  regime  derogatorio  previsto  per  gli  stranieri
 extracomunitari  - non censurabile, sintende, in linea di principio e
 indubitabilmente suggerito da necessita' pratiche di sicuro rilievo -
 possa trovare ragionevole ed adeguata giustificazione nel  quadro  di
 una  funzione  rieducativa  della  pena  (art. 27, terzo comma, della
 Costituzione) che, prima di ogni altra cosa, esige  una  apprezzabile
 misura  di  effettivita'  della  pena  stessa.    Per queste ragioni,
 dev'essere  sollevata  questione   di   legittimita'   costituzionale
 dell'art. 7, commi 12-bis e 12-ter  del d.-l. n. 416/1989, convertito
 con  modificazioni  dalla  legge  28  febbraio 1990, n. 39, nel testo
 dovuto all'art. 8, primo comma, del d.-l. 14 giugno 1993,  convertito
 con  modificazioni  nella legge 12 agosto 1993, n. 296, per contrasto
 con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
   Gli atti dovranno quindi essere trasmessi alla Corte costituzionale
 in Roma.
   Seguono le statuizioni accessorie di cui al dispositivo.