ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 280, 287 e
 381, primo comma, numero 1 e secondo  comma,  lettera  c)  e  g)  del
 codice  di  procedura  penale  e  dell'art.  207 disp. att. codice di
 procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 24 aprile 1995 dal
 giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  militare  di
 Roma,  il 2 agosto 1995, il 17 e il 24 luglio 1995 dal giudice per le
 indagini  preliminari  presso  il  Tribunale  militare   di   Padova,
 rispettivamente  iscritte  ai  nn.  431,  695, 733 e 789 del registro
 ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 nn. 30, 44, 46 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1995;
   Udito nella camera di consiglio  del  17  aprile  1996  il  giudice
 relatore Valerio Onida.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare di Roma, al quale veniva chiesta, in  sede  di  giudizio  di
 convalida  di  arresto  in flagranza per diversi reati, l'adozione di
 una misura cautelare coercitiva a carico di un militare in  relazione
 al  delitto  di  insubordinazione  con violenza, rilevato che la pena
 edittale massima prevista per quel delitto  e'  inferiore  al  limite
 generale  -  reclusione  superiore  nel  massimo a tre anni - fissato
 dall'art. 280 del codice di procedura penale  per  l'applicazione  di
 misure  cautelari  coercitive,  e che l'insubordinazione con violenza
 non e' compresa nell'elenco dei reati per i quali, ai sensi dell'art.
 381,  secondo  comma,  cod.  proc.  pen.,  puo'  comunque  procedersi
 all'arresto  facoltativo  in  flagranza,  con  la  conseguenza che la
 misura cautelare non avrebbe potuto essere adottata nemmeno ai  sensi
 dell'art.  391,  quinto  comma,  secondo periodo, cod. proc. pen., ha
 sollevato d'ufficio, con ordinanza del 24 aprile  1995,  pervenuta  a
 questa  Corte  il 21 giugno 1995 (r.o. n. 431 del 1995), questione di
 legittimita'  costituzionale,  in  riferimento   all'art.   3   della
 Costituzione,  del medesimo art. 381, secondo comma, lettera c), cod.
 proc. pen., in relazione all'art.   207 disp.  att.  del  cod.  proc.
 pen.,  nella  parte  in cui, mentre consentono l'arresto in flagranza
 per il reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale  (art.  336,
 secondo  comma,  cod.  pen.),  non  lo  consentono  per  il  reato di
 insubordinazione con violenza previsto dall'art.   186, primo  comma,
 del codice penale militare di pace.
   Premette  il  giudice  remittente  che, a seguito della sentenza n.
 503 del 1989 di questa  Corte,  che  ha  dichiarato  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art. 308, primo comma, cod. pen. mil. di pace, a
 determinare i casi in cui si puo' procedere ad arresto  in  flagranza
 non  possono  che  essere  le  disposizioni  del  diritto processuale
 ordinario:   ma, al di sotto  del  limite  di  pena  fissato  in  via
 generale  dall'art.   381, primo comma, cod. proc. pen., l'arresto e'
 consentito solo in relazione ai reati  comuni  elencati  nel  secondo
 comma  dello  stesso  art. 381, mentre non lo e' in relazione a reati
 militari che hanno identici elementi  costitutivi  dei  reati  comuni
 elencati.
   La  differenza  di  trattamento  fra  reati comuni e reati militari
 sarebbe, secondo il remittente, priva  di  fondamento  razionale.  In
 particolare,  sarebbe palese l'irragionevolezza della discriminazione
 tra il reato comune di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale  e
 quello  militare  di  insubordinazione  con violenza. Infatti i reati
 militari di insubordinazione con violenza e di  abuso  di  autorita',
 previsti  dal  codice  penale  militare,  sarebbero  in  rapporto  di
 specialita' rispetto alla normativa comune concernente i delitti  dei
 privati   contro  pubblici  ufficiali,  onde  apparirebbe  del  tutto
 irrazionale  che  soltanto  per  i  primi  non  si  possa   procedere
 all'arresto facoltativo in flagranza.
   Tale   preclusione   assumerebbe   poi   un  ulteriore  profilo  di
 irragionevolezza in quanto sarebbe del tutto incongruo che, di fatto,
 non si possa procedere con giudizio direttissimo in casi in cui fatti
 analoghi potrebbero invece essere perseguiti con quel procedimento se
 di competenza dell'autorita' giudiziaria ordinaria.
   Ne' l'obiezione secondo cui la decisione  di  accoglimento  avrebbe
 effetto   in   malam   partem   apparirebbe  tale  da  precludere  la
 proposizione della questione, posto  che  a  ben  vedere  l'eventuale
 declaratoria   di  incostituzionalita'  si  porrebbe  piuttosto  come
 ulteriore esplicazione della pronuncia di questa Corte  (sentenza  n.
 503  del  1989)  che  espunse  dall'ordinamento  una norma di maggior
 sfavore come l'art. 308 cod.  pen. mil. di pace; e che  gia'  con  la
 sentenza  n.  469  del  1990  la Corte ha dichiarato l'illegittimita'
 costituzionale della norma che  non  consentiva  il  procedimento  in
 contumacia  nei confronti degli imputati dei reati di diserzione e di
 mancanza alla chiamata, eliminando un privilegio ingiustificato.
   2. -  Nel  corso  di  un  giudizio  di  convalida  dell'arresto  in
 flagranza  di  un  militare  per  il  reato di furto militare a danno
 dell'amministrazione militare, il giudice per le indagini preliminari
 presso il Tribunale militare di Padova, con ordinanza del  17  luglio
 1995,  pervenuta  a  questa  Corte il 3 ottobre 1995 (r.o. n. 733 del
 1995),   ha   sollevato   d'ufficio   questione    di    legittimita'
 costituzionale, in relazione all'art. 3 della Costituzione, dell'art.
 381,  primo  comma,  cod.  proc.    pen.,  nella parte in cui esclude
 l'arresto  facoltativo  in  flagranza  per  i  reati  puniti  con  la
 reclusione  militare  per  una  durata uguale a quella prevista dallo
 stesso comma in relazione ai reati puniti con la reclusione,  nonche'
 dello  stesso art. 381, secondo comma, lettera g), nella parte in cui
 esclude l'arresto in flagranza per il reato di furto militare, mentre
 lo prevede per il reato di furto comune.
   Il remittente rileva che il reato per il quale si procede e' punito
 con la reclusione militare, mentre  l'art.  381,  primo  comma,  cod.
 proc.  pen.  prevede l'arresto facoltativo in flagranza per i delitti
 non colposi per i quali sia  stabilita  la  pena  della  "reclusione"
 superiore  nel  massimo  a  tre  anni.  Il  principio di tassativita'
 sancito  dall'art.  13,   terzo   comma,   della   Costituzione   non
 consentirebbe di estendere la previsione dell'arresto in flagranza ai
 casi in cui la pena prevista non e' quella della reclusione ma quella
 della  reclusione  militare;  e  d'altra parte si tratterebbe di pene
 diverse, come e' confermato dal fatto che determinati reati  militari
 sono  puniti  con la pena della reclusione, tant'e' che l'art. 23 del
 codice militare accomuna la reclusione e la reclusione militare sotto
 le  dizioni  di  "pene  detentive"  o  "restrittive  della   liberta'
 personale",  e  proprio alla prima di queste dizioni si riferivano le
 previgenti disposizioni dello stesso  codice  che  disciplinavano  le
 misure restrittive della liberta'.
   Inoltre il remittente rileva che l'art. 381, secondo comma, lettera
 g),  cod.  proc. pen. consente l'arresto facoltativo in flagranza per
 il reato di furto, non per il reato di furto militare: sarebbe, a suo
 giudizio, del tutto irrazionale che fatti  sostanzialmente  uguali  e
 connotabili  di  uguale  gravita', come il furto e il furto militare,
 sottostiano  ad  un  diverso  trattamento  quanto  all'applicabilita'
 dell'arresto in flagranza.
   Benche'  si  tratti  di  questione  in  malam partem essa sarebbe -
 rileva il giudice a  quo  -  ugualmente  sollevabile  trattandosi  di
 materia   processuale  e  comunque  perche'  altrimenti  si  dovrebbe
 riconoscere la non impugnabilita' di norme costitutive  di  privilegi
 positivi.
   La  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  dovrebbe,  a
 parere del remittente, estendersi, ai sensi dell'art. 27 della  legge
 11   marzo  1953,  n.  87,  agli  artt.  380,  primo  comma  (arresto
 obbligatorio in flagranza), 384, primo comma (fermo di  indiziato  di
 delitto),  280 (condizioni di applicabilita' delle misure coercitive)
 e 287 (condizioni di applicabilita' delle  misure  interdittive)  del
 codice di procedura penale, che presenterebbero gli stessi vizi.
   3.  -  Il  giudice  per  le indagini preliminari presso il medesimo
 Tribunale  militare  di  Padova,  investito  di  una   richiesta   di
 applicazione  di  misura  coercitiva a carico di un militare indagato
 per concorso in truffa militare aggravata,  ha  sollevato  d'ufficio,
 con  ordinanza  del  2  agosto  1995,  pervenuta a questa Corte il 26
 settembre 1995 (R. O. n. 695 del  1995),  questione  di  legittimita'
 costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione,
 dell'art.  280  cod.  proc.  pen.  nella  parte  in  cui non consente
 l'applicabilita' di misure cautelari coercitive  nel  caso  di  reati
 militari  puniti  con  la reclusione militare superiore nel massimo a
 tre anni, come invece prevede  per  i  reati  comuni  puniti  con  la
 reclusione.
   Il  giudice remittente esclude che in via di interpretazione l'art.
 280 possa applicarsi ai reati  puniti  con  la  reclusione  militare,
 ritenendo tale interpretazione preclusa dal principio di tassativita'
 dei casi di limitazione della liberta' personale, di cui all'art.  13
 della  Costituzione,  e  dal  divieto di interpretazione analogica di
 leggi  che  fanno  eccezione  alla  regola  generale  della  liberta'
 personale.
   Tuttavia,  secondo  il  remittente, sarebbe del tutto irrazionale e
 percio' lesivo del principio di uguaglianza  che  fatti  come  quelli
 puniti  dal  codice militare, ontologicamente uguali e connotabili di
 uguale gravita' rispetto a quelli previsti dal codice penale  comune,
 sottostiano  ad  un  diverso trattamento quanto all'applicabilita' di
 misure  cautelari;  ne'  sussisterebbero  giustificazioni  per   tale
 diversita'  di  trattamento,  che'  anzi  la  qualita'  militare  del
 soggetto attivo del reato puo' rendere in  talune  fattispecie  ancor
 piu' concrete e pressanti le esigenze cautelari.
   In  riferimento  all'art.  112  della  Costituzione,  il remittente
 osserva che privare il pubblico ministero del potere di richiesta  di
 misure   cautelari   implicherebbe   un   sostanziale   indebolimento
 dell'azione penale che finirebbe col non essere  piu'  assistita  dai
 mezzi e supporti necessari per un corretto esercizio.
   4. - La stessa autorita' giudiziaria, investita di una richiesta di
 applicazione  di una misura cautelare coercitiva ovvero di una misura
 cautelare interdittiva nei confronti  di  un  militare  indagato  per
 truffa militare, con ordinanza del 24 luglio 1995, pervenuta a questa
 Corte  il  25  ottobre  1995  (r.o.  n.  789  del 1995), ha sollevato
 d'ufficio questione di legittimita'  costituzionale,  in  riferimento
 all'art.  3 della Costituzione, degli artt. 280 e 287 cod. proc. pen.
 nella  parte  in  cui  non  consentono   l'applicazione   di   misure
 coercitive,  e  rispettivamente  di  misure  interdittive,  per reati
 militari puniti con la reclusione militare,  alle  stesse  condizioni
 che le rendono applicabili ai reati comuni o ai reati militari puniti
 con la reclusione.
   Seguendo  una  linea  argomentativa  analoga a quella esposta nella
 ordinanza di cui sopra, al numero 3, il remittente  esclude  che  gli
 artt.  280  e  287 cod. proc. pen. possano trovare applicazione per i
 reati puniti con la reclusione militare, trattandosi di pena  diversa
 da   quella  della  reclusione;  e  rileva  che  tale  diversita'  di
 trattamento sarebbe irrazionale, e quindi  lesiva  del  principio  di
 uguaglianza.
                         Considerato in diritto
   1.  - I quattro giudizi instaurati con le ordinanze dei Giudici per
 le indagini preliminari presso i Tribunali  militari  di  Roma  e  di
 Padova  possono essere riuniti e definiti con unica sentenza, data la
 connessione fra le questioni sollevate.
   2. - Queste hanno ad oggetto due gruppi di norme -  rispettivamente
 l'art.  381,  primo comma e secondo comma, lettere c) e g) del codice
 di procedura penale, concernente l'arresto in flagranza (ordinanza n.
 431 del giudice per le indagini preliminari di Roma  e  ordinanza  n.
 733  del giudice per le indagini preliminari di Padova), e l'articolo
 280 (ordinanze nn. 695 e 789 del giudice per le indagini  preliminari
 di  Padova) nonche' l'articolo 287 (per la sola ordinanza n. 789) del
 codice di procedura penale, concernenti le misure cautelari personali
 coercitive e interdittive - accomunate,  nella  prospettazione  delle
 questioni,  dal  fatto  che  esse  non  consentirebbero  di  disporre
 l'arresto in flagranza, e rispettivamente le misure cautelari, per  i
 reati  militari  puniti con la pena della reclusione militare, ovvero
 per reati militari di gravita' uguale a quella di reati comuni per  i
 quali  l'arresto in flagranza, e conseguentemente anche l'adozione di
 misure coercitive, sono viceversa possibili.
   Piu' precisamente, il giudice per le indagini preliminari presso il
 Tribunale militare di Roma ritiene bensi' applicabile anche ai  reati
 militari  puniti  con la reclusione militare l'art. 381, primo comma,
 cod. proc. pen., secondo cui l'arresto facoltativo  in  flagranza  e'
 consentito  per i delitti non colposi per i quali la legge stabilisce
 la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; ma  dubita
 della  legittimita'  costituzionale,  in  riferimento al principio di
 ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., dell'art. 381, secondo comma,
 cod. proc. pen. - ove si prevedono i reati per i quali  l'arresto  in
 flagranza  e'  consentito comunque, al di fuori del limite di pena di
 cui al primo comma - in relazione all'art. 207 disp. att. cod.  proc.
 pen., nella parte in cui non  consentono  l'arresto  in  flagranza  e
 conseguentemente precludono l'adozione di misure cautelari coercitive
 al  di  fuori  dei  limiti previsti dall'art. 280, ai sensi dell'art.
 391, quinto comma, secondo periodo, dello stesso codice, per il reato
 di insubordinazione con violenza (art. 186 cod. pen. mil.  di  pace),
 laddove  lo  consentono  per  il  reato  di  violenza o minaccia a un
 pubblico ufficiale previsto dall'art. 336, secondo comma,  cod.  pen.
 comune.
   A  sua  volta  il  giudice  per  le  indagini preliminari presso il
 Tribunale militare di Padova da un  lato  nega  -  in  contrasto  con
 l'altro  giudice remittente - che l'art. 381, primo comma, cod. proc.
 pen., prevedendo l'arresto  facoltativo  in  flagranza  per  i  reati
 puniti  con la pena della reclusione superiore nel massimo edittale a
 tre anni, sia applicabile anche  ai  reati  militari  puniti  con  la
 reclusione  militare,  e  per  questa  ragione dubita, in riferimento
 all'art. 3 della Costituzione, della legittimita'  costituzionale  di
 detta  norma; e dubita altresi' della legittimita' del secondo comma,
 lettera g) dello stesso art.  381, nella parte in  cui  non  consente
 l'arresto  facoltativo  in  flagranza per il reato di furto militare,
 mentre lo consente per il reato di furto previsto dal  codice  penale
 comune (ordinanza n. 733). Dall'altro lato, lo stesso giudice dubita,
 sempre  in  riferimento  all'art.  3  Cost.,  e  in  un caso anche in
 riferimento all'art. 112  Cost.,  della  legittimita'  costituzionale
 degli  artt.  280  e  287  cod.  proc.  pen.,  nella parte in cui non
 consentono, secondo l'interpretazione da lui seguita,  l'adozione  di
 misure  cautelari  coercitive,  e rispettivamente interdittive, per i
 reati puniti con la reclusione militare (ordinanze nn. 695 e 789).
   La  stretta  connessione  fra   tutte   le   questioni   e'   messa
 ulteriormente  in  luce  dall'ordinanza  n.  733  del  giudice per le
 indagini preliminari di Padova la' dove il giudice remittente  -  sia
 pure  andando  oltre il compito a lui affidato - esprime l'avviso che
 la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 381  cod.
 proc.  pen.  debba  estendersi,  ai sensi dell'art. 27 della legge 11
 marzo  1953,  n.  87,  agli  artt.  380  (arresto   obbligatorio   in
 flagranza),  384,  primo  comma  (fermo di indiziato di delitto), 280
 (condizioni  di  applicabilita'  delle  misure  coercitive)   e   287
 (condizioni  di  applicabilita' delle misure interdittive) del codice
 di  procedura  penale,  disposizioni  che,  ad  avviso  del  medesimo
 remittente,  "tutte  presentano  gli  stessi  vizi delle disposizioni
 direttamente impugnate".
   3. - E' opportuno premettere un cenno sulle  vicende  normative  da
 cui deriva la situazione oggi denunciata dai giudici remittenti.
   Il  codice  penale militare di pace, che contiene la generale norma
 di rinvio di cui all'art. 261, in forza della  quale  "salvo  che  la
 legge  disponga diversamente, le disposizioni del codice di procedura
 penale si osservano anche per i  procedimenti  davanti  ai  tribunali
 militari",  disciplinava  all'origine  in  modo  autonomo  e compiuto
 l'adozione  delle  misure  restrittive   della   liberta'   personale
 dell'imputato  di  reati  militari. Precisamente, l'art. 308 di detto
 codice prevedeva l'arresto obbligatorio di chiunque  fosse  colto  in
 flagranza  di  un  reato militare punibile con pena detentiva; l'art.
 309 prevedeva che, fuori  dei  casi  di  flagranza,  il  militare  in
 servizio alle armi, imputato di un reato, ancorche' non soggetto alla
 giurisdizione  militare,  non  potesse  essere  arrestato  se  non in
 dipendenza  di  un  mandato  od  ordine  di  cattura  o  di   arresto
 dell'autorita'  giudiziaria,  salve  le  misure  precauzionali che il
 comandante da cui il militare dipendeva ritenesse di adottare; a loro
 volta gli artt. 313 e 314 disciplinavano i casi in cui il mandato  di
 cattura  era  obbligatorio  (in particolare riferendosi, oltre che ad
 alcuni  reati  elencati,  a  tutti  i reati non colposi soggetti alla
 giurisdizione militare per i  quali  la  legge  stabilisse  una  pena
 detentiva superiore nel massimo a tre anni, con la sola eccezione dei
 reati di duello: art. 313, primo comma, numero 3), ovvero facoltativo
 (in particolare riferendosi ai reati non colposi per i quali la legge
 stabilisse  una  pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni,
 con eccezione dei reati di duello, e dunque, in sostanza,  pressoche'
 a tutti i restanti reati puniti con pena detentiva: art. 314); l'art.
 322   disciplinava   la   concessione   della   liberta'  provvisoria
 all'imputato che  si  trovava  nello  stato  di  custodia  cautelare,
 vietandola nei casi in cui il mandato di cattura fosse obbligatorio.
   4.  -  Su  questa  normativa, ispirata a largo impiego delle misure
 restrittive di liberta' ante causam, sono venute  ad  incidere  varie
 pronunce   di  questa  Corte,  e  piu'  radicalmente  le  innovazioni
 legislative apportate a partire dal 1988 in materia di  provvedimenti
 restrittivi della liberta' personale degli imputati.
   In  particolare,  la  sentenza  n.  68  del  1974,  nel  dichiarare
 l'illegittimita' dell'art. 322, secondo comma, cod. pen. mil. di pace
 nella parte in cui  non  consentiva  la  concessione  della  liberta'
 provvisoria  nei  casi in cui era obbligatorio il mandato di cattura,
 osservo',  fra  l'altro,  che  la  carcerazione  preventiva  "non  si
 atteggia  in  modo  diverso,  quanto  alla  sua  funzione  e alla sua
 finalita', nel rito ordinario e nel rito  militare",  pur  ammettendo
 che,  in  via  generale,  possano  essere  legittime  le disposizioni
 integrative e derogative dei codici penali militari,  ragionevolmente
 giustificate,  nonostante  la  loro  differenza  da quelle del codice
 comune;  e  la  sentenza  n.    50  del  1985,  dopo   l'introduzione
 legislativa  della  richiesta  di  riesame  dei  provvedimenti  sulla
 liberta' personale, chiari' che essa trovava applicazione  anche  con
 riguardo agli imputati soggetti alla giurisdizione militare, in forza
 del   generale  richiamo  alle  norme  del  codice  comune  contenuto
 nell'art. 261 del codice penale militare di pace.
   L'art. 309 cod. pen. mil. di pace,  che  disciplinava  in  generale
 l'arresto dei militari fuori dei casi di flagranza, fu poi dichiarato
 incostituzionale  con  la  sentenza  n.  74  del  1985, la quale, pur
 fondandosi  essenzialmente  sul  contrasto  con   l'art.   13   della
 Costituzione  di quella parte di detto art. 309 che prevedeva "misure
 precauzionali" adottate dal comandante  del  corpo,  ritenne  che  la
 declaratoria di illegittimita' dovesse coinvolgere l'intero articolo,
 per  lo stretto collegamento fra le varie sue parti, e dunque colpire
 anche la parte che prevedeva l'arresto "in dipendenza di  un  mandato
 od  ordine  di  cattura  o di arresto dell'autorita' giudiziaria". In
 quella  sede  la  Corte  affermo'  esplicitamente,  come  conseguenza
 "ovvia"  della  pronuncia,  che  "a disciplinare l'"arresto fuori dei
 casi di flagranza" nei confronti dei militari in servizio  alle  armi
 potranno  subentrare  -  nell'attesa  di  un  intervento legislativo,
 soprattutto ipotizzabile in sede di sempre piu' auspicata riforma del
 codice penale militare di pace - le vigenti disposizioni del  diritto
 processuale penale ordinario, com'e' logico che sia, quando si tratta
 di  reati  non  soggetti alla giurisdizione militare, e come discende
 automaticamente dall'art.   261 cod. pen. mil.  di  pace,  quando  si
 tratta  di  reati  soggetti alla giurisdizione militare"; e richiamo'
 l'assunto, gia' espresso nella sentenza n. 68 del 1974,  secondo  cui
 la  funzione  e  la  finalita' della carcerazione preventiva non sono
 diverse nel rito ordinario e in quello militare.
   Infine  con la sentenza n. 503 del 1989, intervenuta dopo l'entrata
 in vigore del nuovo codice di procedura penale,  la  Corte  dichiaro'
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 308 cod. pen. mil. di pace,
 concernente  l'arresto  in flagranza, osservando che la previsione in
 esso contenuta  dei  casi  di  arresto  difettava  dei  requisiti  di
 eccezionalita'   prescritti   dall'art.   13,   terzo   comma,  della
 Costituzione, per le misure restrittive di  liberta'  adottate  dalle
 autorita'  di  pubblica sicurezza. Anche in quella occasione la Corte
 affermo',  come  conseguenza  "evidente"  della  pronuncia,  che   "a
 determinare  i  casi  di  arresto in flagranza nei confronti di reati
 militari commessi da militare non potranno  che  essere,  allo  stato
 della  legislazione,  le  disposizioni del diritto processuale penale
 ordinario", vale a dire gli artt. 380 e  381  del  nuovo  codice,  in
 forza del "lineare" dettato dell'art. 261 cod. pen. mil. di pace.
   Nel  frattempo,  peraltro,  l'entrata in vigore del nuovo codice di
 rito penale, e ancor prima della legge 5 agosto 1988, n. 330, che  ne
 anticipava  alcune  linee  in  tema  di  disciplina dei provvedimenti
 restrittivi  della  liberta'  personale,  pose  il   problema   della
 sopravvivenza  delle  norme  che  in questa materia erano dettate dal
 codice militare.  La conclusione cui pervenne la giurisprudenza della
 Corte di cassazione, nonche' quella dei tribunali militari, e che  ha
 trovato  largo  appoggio  nella  dottrina,  nonostante perplessita' e
 dissensi sulle argomentazioni di supporto ad essa, fu nel  senso  che
 debbano  ritenersi  inapplicabili, per effetto dell'entrata in vigore
 del nuovo codice, le disposizioni degli artt.  313  fino  a  323  del
 codice  penale  militare  di  pace,  che  disciplinavano i mandati di
 cattura e la custodia cautelare,  applicandosi  dunque  integralmente
 anche  ai  reati  di  competenza  dei tribunali militari le norme del
 nuovo codice di procedura penale (v. ad esempio  Cass.,  sez.  I,  22
 marzo-22 maggio 1991, Pagliarini).
   Questa  conclusione  era sorretta dalla consapevolezza della totale
 dissonanza della normativa gia' contenuta nel codice militare  con  i
 principii  in  materia di misure restrittive della liberta' personale
 accolti  nel  nuovo  codice  di  rito  comune.  Era  dunque  evidente
 l'esigenza  di  provvedere  in  via  legislativa al coordinamento del
 codice militare, tuttora  non  riformato,  con  il  nuovo  codice  di
 procedura  penale:  dato  che quest'ultimo, anche in forza dei limiti
 della delega sulla cui base  era  stato  emanato,  non  aveva  potuto
 dettare in proposito una adeguata disciplina.
   5.  -  Da tale mancato coordinamento traggono origine anche i dubbi
 di costituzionalita' prospettati dai giudici remittenti.
   In primo luogo, infatti, le norme del codice comune, che  prevedono
 le  condizioni  generali  per  l'adozione  delle  misure coercitive e
 interdittive (artt. 280 e 287 cod.  proc.  pen.),  per  l'arresto  in
 flagranza (artt.  380 e 381 cod. proc. pen.), nonche' per il fermo di
 indiziato  di  delitto  (art.  384 cod. proc. pen.), si riferiscono a
 tale fine ai limiti della pena edittale comminata per i  vari  reati:
 ergastolo o reclusione superiore nel massimo a tre anni per le misure
 coercitive e interdittive, o non inferiore nel massimo a quattro anni
 per  la  custodia  cautelare in carcere (art. 280, primo comma e 2, e
 art.  287); ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a  cinque
 anni  e  nel  massimo  a  venti  anni  per  l'arresto obbligatorio in
 flagranza (art. 380, primo comma); reclusione superiore nel massimo a
 tre  anni,  o a cinque anni in caso di delitti colposi, per l'arresto
 facoltativo  in  flagranza  (art.  381,  primo  comma);  ergastolo  o
 reclusione  non  inferiore  nel  minimo  a  due  anni e superiore nel
 massimo a sei anni, per il fermo di indiziato di delitto  (art.  384,
 primo comma, prima parte).
   Tutte  queste norme fanno riferimento alla pena della "reclusione".
 Ora, i reati  previsti  dal  codice  penale  militare  sono  talvolta
 anch'essi puniti con le pene comuni dell'ergastolo e della reclusione
 (v.  art.  23, secondo comma, cod. pen. mil. di pace), ma per lo piu'
 sono invece puniti con l'unica pena militare principale rimasta  dopo
 l'abolizione  della pena di morte: la "reclusione militare" (art. 22,
 primo comma, numero 2, e art. 26 cod. pen. mil. di pace).
   Di qui la tesi interpretativa, peraltro minoritaria  ancorche'  non
 isolata  -  e  fatta  propria  anche  da uno dei giudici remittenti -
 secondo cui il mancato riferimento, nelle citate norme del codice  di
 procedura,   ai   delitti  puniti  con  la  reclusione  militare  non
 consentirebbe di applicarle in tutti i casi in  cui  si  procede  per
 reati  militari  puniti  con  tale  pena,  e  dunque  per  la  grande
 maggioranza dei reati previsti dal codice militare.
   Sussisterebbe in proposito una vera e propria lacuna,  sulla  quale
 si  appuntano  le  censure  di  costituzionalita'  del giudice per le
 indagini preliminari di Padova, il quale ritiene che tale  situazione
 normativa,  che  non consentirebbe all'autorita' giudiziaria militare
 di disporre  misure  coercitive  o  interdittive,  ne'  alla  polizia
 giudiziaria  di  procedere all'arresto in flagranza, in caso di reati
 militari puniti con la reclusione militare, contrasti  con  l'art.  3
 nonche',  per  quanto  riguarda l'art. 280 cod. proc. pen., anche con
 l'art. 112 della Costituzione.
   6. - La questione cosi' prospettata  e'  infondata  sotto  tutti  i
 profili, in quanto e' errata, a giudizio di questa Corte, la premessa
 interpretativa sulla quale essa si fonda.
   Il  letterale  riferimento  delle  norme  in  questione, ai fini di
 individuare i reati per i quali e' prevista l'adozione delle  diverse
 misure  cautelari,  a  determinati  minimi  o  massimi  di pena della
 "reclusione"  non  impedisce,  secondo  una  lettura  ragionevole   e
 sistematica  delle  norme  stesse,  che  tenga  conto dell'evoluzione
 normativa accennata, di considerarle applicabili anche ai reati per i
 quali la pena prevista e' quella della "reclusione militare".
   E'  ben  vero,  infatti,  che  la  reclusione  militare  e'   stata
 considerata, anche da questa Corte, come pena autonoma, diversa dalla
 reclusione comune e dotata di autonoma disciplina giuridica, cosi' da
 far  ritenere legittima e non irrazionale la diversa disciplina della
 rispettiva durata minima (v. ordinanza n. 220 del 1987): e che le due
 pene  sono  accomunate  dal   codice   penale   militare   sotto   la
 denominazione  di  "pene  detentive"  o  "restrittive  della liberta'
 personale" (cfr. art. 23 cod. pen. mil. di pace). Ma  il  fondamento,
 considerato  dalla Corte tuttora "apprezzabile" pur "nel quadro della
 odierna integrazione dell'ordinamento militare  in  quello  statale",
 della  "specialita' della reclusione militare" e' stato indicato solo
 nelle   diverse   modalita'   di   esecuzione   della    pena,    che
 caratterizzerebbero  in  senso militare i fini rieducativi perseguiti
 con la pena stessa, e precisamente comporterebbero una  finalita'  di
 "recupero al servizio militare" (sentenza n. 503 del 1989).
   A tali differenti modalita' di esecuzione non fa riscontro una vera
 e  propria  differenza  di natura fra le due pene. Nemmeno puo' dirsi
 che l'esecuzione di ciascuna delle due pene  corrisponda  e  consegua
 sempre  alla  condanna  per  reati o categorie di reati distinte. Non
 solo infatti il codice  penale  militare  commina  per  taluni  reati
 militari,   soggetti  alla  giurisdizione  militare,  la  pena  della
 reclusione comune (cfr. per esempio artt. 157, 167, primo comma, 215,
 216 cod. pen.  mil. di pace). Ma, soprattutto, il  sistema  normativo
 del  codice  militare  e'  ispirato a quello che si potrebbe definire
 come principio  di  "sostituibilita'"  fra  reclusione  e  reclusione
 militare.  Cosi',  ai sensi dell'art. 27, primo comma, cod. pen. mil.
 di pace, "alla pena della reclusione, inflitta o  da  infliggersi  ai
 militari  per  reati militari, e' sostituita la pena della reclusione
 militare per  eguale  durata,  quando  la  condanna  non  importa  la
 degradazione",  vale  a dire la pena militare accessoria che, secondo
 l'art. 28 del codice militare, priva il condannato della qualita'  di
 militare  (art.  55 cod. pen. mil. di pace). Parimenti, ai fini della
 esecuzione delle pene inflitte a  militari  "in  servizio  permanente
 alle  armi",  l'art.  63, numero 3, dello stesso codice prescrive che
 "alla  pena  della  reclusione,  se  la  condanna  non   importa   la
 interdizione   perpetua   dai   pubblici  uffici,  e'  sostituita  la
 reclusione militare per eguale durata, ancorche'  la  reclusione  sia
 inferiore  a  un  mese".  Per  converso, e specularmente, nei casi di
 condannati a pene militari che  abbiano  prestato  servizio  militare
 puramente  di fatto, ovvero abbiano cessato di appartenere alle forze
 armate, o siano assimilati ai militari, o iscritti  ai  corpi  civili
 militarmente  ordinati,  o siano comunque persone estranee alle forze
 armate, in sede di esecuzione "alla pena della reclusione militare e'
 sostituita la pena della reclusione per eguale durata" (art. 65  cod.
 pen.  mil.  di  pace).  Ancora,  nel  caso di concorso di piu' reati,
 alcuni dei quali puniti con la reclusione, altri  con  la  reclusione
 militare, si applica la reclusione ovvero la reclusione militare, con
 un  aumento  pari  alla  durata  complessiva  dell'altra  pena che si
 dovrebbe infliggere  per  i  reati  concorrenti,  a  seconda  che  la
 condanna importi ovvero non importi la degradazione.
   Appare   evidente   dalle  disposizioni  citate  che  l'ordinamento
 considera le due pene come reciprocamente sostituibili (si noti  come
 la "conversione" di una pena nell'altra sia prevista sempre a parita'
 di durata), e che l'applicazione di una o dell'altra pena non dipende
 in  definitiva  tanto  dalla  specie  del reato commesso quanto dalla
 circostanza che il reo o il condannato rivesta  tuttora,  ovvero  non
 rivesta  o  non  rivesta  piu',  la  qualita'  di  militare. In altri
 termini, la reclusione militare non e' altro che  la  reclusione  che
 puo'  essere  inflitta  e  applicata  nei  confronti  di  coloro  che
 rivestono la qualita' soggettiva di militare, mentre il venir meno di
 tale qualita'  comporta  l'automatica  conversione  della  reclusione
 militare inflitta in reclusione comune.
   Cio'  conferma  che  la  specialita'  della  reclusione militare si
 colloca esclusivamente sul versante delle modalita' di esecuzione  di
 una pena fondamentalmente unitaria. Se infatti si trattasse veramente
 di  pene  di  natura  diversa,  non  sarebbe  ammissibile,  in quanto
 contrasterebbe   pienamente,   fra   l'altro,   con   il    principio
 costituzionale   di   legalita'   delle  pene  (art.  25  Cost.),  la
 conversione dell'una nell'altra pena in forza di circostanze  esterne
 rispetto  alla  fattispecie  del  reato  commesso,  come  la  perdita
 successiva della qualita' di militare da parte del condannato.
   7.  -  Del  resto  la  piena  equiparabilita',  a  certi  fini,  di
 reclusione comune e reclusione militare e' stata ritenuta  da  questa
 Corte   quando   essa   ha   censurato   le   norme  dell'ordinamento
 penitenziario le quali non prevedevano l'applicabilita' della  misura
 alternativa  della  detenzione  domiciliare  per  i  condannati  alla
 reclusione  militare,  sia   pure   limitatamente   all'ipotesi   del
 condannato in condizioni di salute particolarmente gravi (sentenza n.
 414  del 1991), o non prevedevano l'ammissione ai permessi premio dei
 condannati alla reclusione militare (sentenza n.  227  del  1995);  o
 quando  ha  censurato come ingiustificata la differenza di disciplina
 dell'affidamento  in   prova   al   servizio   sociale,   quanto   ad
 indefettibilita'  della  previa  osservazione della personalita', del
 condannato militare rispetto al condannato comune (sentenza n.    119
 del  1992);  o  ancora  quando  ha  ammesso la non irrazionalita' del
 principio della  sostituzione  della  reclusione  comune  con  quella
 militare,  di  cui al citato art. 27 del codice militare (sentenza n.
 409 del 1989, numero 7 del Considerato in diritto).
   Ne' contraddice questa linea la  ritenuta  illegittimita'  di  tale
 sostituzione  nel  caso  di  condanna  per  il  reato  di rifiuto del
 servizio militare per motivi di coscienza,  che  era  motivata  dalla
 contraddizione  fra la previsione dell'esonero dal servizio militare,
 previsto per i cosi' detti obiettori totali a seguito dell'espiazione
 della  pena,  e  una  modalita'  di  esecuzione  della  pena   stessa
 improntata  alla  finalita'  del  recupero  del  soggetto al servizio
 militare, nonche' dal rischio di "spirale delle  condanne"  derivante
 dall'assoggettamento  dell'obiettore  totale  al  trattamento proprio
 della reclusione militare (sentenza n. 358 del 1993).
   Dal canto suo la  giurisprudenza  dei  giudici  comuni  ha  ammesso
 l'applicabilita'  delle  norme  sul  trattamento  sanzionatorio della
 continuazione tra reati anche al caso di reati puniti rispettivamente
 con la reclusione e con la reclusione militare (v. Cass., sez. un., 5
 luglio 1984, Falato); e, ancor piu'  significativamente,  ha  ammesso
 l'applicabilita'  del "patteggiamento" anche quando debba infliggersi
 la pena della reclusione militare, ancorche' l'art.  444  cod.  proc.
 pen.,   nello   stabilire   il   limite   di  pena  che  consente  il
 "patteggiamento", faccia riferimento letterale alla "reclusione"  (v.
 ad es. Cass., sez. I pen., 28 ottobre 1995, Gallo).
   8.  - Si puo' dunque concludere che, essendo la reclusione comune e
 la  reclusione   militare   solo   due   species   dell'unico   genus
 "reclusione",  e  in concreto due pene autonome quanto a modalita' di
 esecuzione ma identiche per natura ed intercambiabili  a  parita'  di
 durata,  nulla  vieta  di  applicare le norme del codice di procedura
 penale, che fanno riferimento a determinati limiti di  pena  edittale
 per  identificare i reati per i quali possono trovare applicazione le
 misure coercitive o interdittive ovvero l'arresto in flagranza  o  il
 fermo di indiziati di reato, anche nei casi in cui i reati per cui si
 procede  sono  reati  militari  punibili  con la reclusione militare:
 considerato  anche  che   "la   carcerazione   preventiva,   che   e'
 giustificata  da  esigenze eminentemente processuali, non si atteggia
 in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua  finalita',  nel
 rito ordinario e nel rito militare" (sentenza n. 68 del 1974). Questa
 e'  anzi l'unica ragionevole lettura del sistema normativo, una volta
 che si considerino venute meno le norme speciali del codice  militare
 sulle  misure  restrittive  della  liberta', e quindi debbano trovare
 applicazione anche in queste ipotesi, in forza del generale  richiamo
 dell'art.  261  cod.  pen.  mil.  di  pace, le norme dell'ordinamento
 processuale penale comune.
   Cosi' interpretate le norme denunciate, non si  pone  evidentemente
 il  problema  che  ha  dato  luogo alle censure sollevate dal giudice
 remittente in ordine alla presunta mancata  previsione  nelle  stesse
 norme  della  possibilita'  di  adottare  misure  cautelari per reati
 puniti con la reclusione militare.
   9. - Resta da esaminare il secondo ordine di  questioni  sollevate,
 concernente  l'asserita  lacuna  dell'art.  381,  secondo comma, cod.
 proc.  pen.,  laddove,  nell'elencare  i  reati  per  i  quali   puo'
 procedersi  all'arresto  in  flagranza  al  di fuori delle condizioni
 generali in ordine all'entita'  della  pena  edittale  stabilite  dal
 primo  comma,  non  contempla reati militari che sarebbero in qualche
 modo assimilabili, per natura e gravita', a reati comuni compresi nel
 predetto elenco.
   In proposito deve  pero'  ritenersi  rilevante  solo  la  questione
 sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
 militare  di  Roma  con  riguardo  alla  lettera c) del secondo comma
 dell'art.  381, ove si menziona il reato di violenza o minaccia a  un
 pubblico  ufficiale  previsto dall'art. 336 cod. pen., in riferimento
 al reato di insubordinazione con  violenza  previsto  dall'art.  186,
 primo comma, cod. pen. mil. di pace.
   Viceversa  non  e'  rilevante  l'analoga  questione  sollevata  dal
 giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale  militare  di
 Padova  con  l'ordinanza  n.  733  con  riguardo  alla lettera g) del
 secondo comma dell'art. 381,  ove  si  menziona  il  reato  di  furto
 previsto dall'art.  624 del codice penale, in riferimento al reato di
 furto militare previsto dall'art. 230 cod. pen. mil. di pace. Infatti
 nella specie sottoposta al giudice patavino si procede per il delitto
 di furto militare a danno dell'amministrazione militare, per il quale
 l'art.    230,  secondo comma, cod. pen. mil. di pace prevede la pena
 della reclusione militare da uno a cinque anni,  e  dunque  una  pena
 superiore  al  limite  al di sopra del quale l'arresto facoltativo in
 flagranza e' comunque consentito a norma dell'art. 381, primo  comma,
 cod.  proc.    pen,  secondo  la lettura qui accolta. Dovendo trovare
 applicazione  tale  norma,  e'  inammissibile,  in  quanto  priva  di
 rilevanza,  la  questione  che  investe  la diversa norma del secondo
 comma, lettera g) dello stesso art. 381.
   10.  -  La  questione  sollevata  dal  giudice  per   le   indagini
 preliminari presso il Tribunale militare di Roma e' infondata.
   L'art.  381,  secondo  comma,  cod. proc. pen. introduce una deroga
 alla regola generale di cui al primo comma, che collega  la  facolta'
 di   procedere   all'arresto  in  flagranza  all'entita'  della  pena
 (reclusione superiore nel massimo a tre anni nel caso di delitto  non
 colposo,  consumato  o tentato) prevista per il reato per il quale si
 procede.  Tale deroga consiste nella  previsione  nominativa  di  una
 serie  di reati elencati, per i quali tale facolta' e' concessa anche
 se la pena per essi prevista dalla legge e' inferiore  al  limite  di
 cui  al primo comma. Si tratta ovviamente di un elenco tassativo, non
 suscettibile ne' di letture estensive (i reati sono indicati  con  la
 loro denominazione e con il richiamo alla corrispondente disposizione
 del codice penale o di altra legge, e dunque si tratta di fattispecie
 ben   determinate),   ne'   tanto  meno  di  applicazione  analogica,
 trattandosi di norma eccezionale in rapporto alla regola generale del
 primo comma.
   Ora, non vi  e'  dubbio  che  sussista  una  disarmonia  in  questa
 disciplina,  in  quanto  il legislatore del codice ha elencato solo i
 reati comuni colpiti con pena edittale meno elevata, ma per  i  quali
 si e' ritenuto possano sussistere particolari esigenze cautelari tali
 da   richiedere  l'arresto  in  flagranza,  mentre  ha  completamente
 pretermesso la considerazione dei reati militari previsti dal  codice
 militare,   in   ordine   ai   quali  in  precedenza  provvedeva  con
 disposizione di generalissima  applicazione  l'art.  308  del  codice
 militare  medesimo. Caduta tale disposizione a seguito della sentenza
 n. 503 del 1989 di questa Corte,  sono  rimaste  solo  le  norme  del
 codice  comune,  le  quali  pero',  mentre stabiliscono le condizioni
 generali per procedere  all'arresto  (primo  comma  dell'art.    381,
 applicabile,  come si e' detto, anche ai reati militari puniti con la
 reclusione militare), nulla dispongono  in  ordine  a  singoli  reati
 militari per i quali si consenta l'arresto fuori da quelle condizioni
 generali.
   Tuttavia  la  disarmonia non e' tale da dar luogo ad una situazione
 di incostituzionalita'.
   Non puo' infatti che essere riservato  al  legislatore,  nella  sua
 esclusiva  discrezionalita',  stabilire  in  via  tassativa, ai sensi
 dell'art. 13 della Costituzione, i casi  e  i  modi  in  cui  possono
 essere    disposte    restrizioni   della   liberta'   personale,   e
 specificamente i "casi eccezionali di necessita' ed urgenza"  in  cui
 possono  essere  adottati  provvedimenti restrittivi provvisori al di
 fuori della riserva di giurisdizione esistente in materia. Tali casi,
 costituenti altrettante deroghe - costituzionalmente ammesse  -  alla
 regola  generale  dell'inviolabilita'  della  liberta' personale, non
 possono essere estesi con  pronunce  di  questa  Corte,  per  ragioni
 analoghe  a  quelle  che  impediscono  la  introduzione,  per  via di
 pronunce di incostituzionalita', di nuove ipotesi di reati o di  pene
 (v. da ultimo sentenza n. 411 del 1995).
   Il   reato  militare  di  insubordinazione  con  violenza  previsto
 dall'art.  186 cod. pen. mil. di pace puo' ben essere considerato  di
 gravita'  equiparabile  a  quella  del  reato  comune  di  violenza o
 minaccia ad un pubblico ufficiale  previsto  dall'art.  336,  secondo
 comma,  cod.    pen.,  anche  se si tratta di fattispecie diverse per
 alcuni degli elementi costitutivi: l'insubordinazione con violenza e'
 configurata come reato contro la disciplina  militare  (titolo  terzo
 del  libro  secondo,  cod.  pen.  mil. di pace), mentre la violenza o
 minaccia ad un pubblico ufficiale  e'  compresa  fra  i  delitti  dei
 privati contro la pubblica amministrazione (libro II, titolo II, capo
 II, cod. pen).
   Ma   resta   il   fatto  che  solo  il  legislatore  puo'  compiere
 l'apprezzamento necessario per  includere  eventualmente  tale  reato
 militare  fra quelli per i quali e' consentito l'arresto in flagranza
 fuori dalle condizioni generali stabilite dall'art. 381, primo comma,
 cod. proc. pen.
   11. - La riforma dei codici militari in  conformita'  ai  principii
 della  Costituzione repubblicana e' impegno che da troppo tempo ormai
 grava, insoddisfatto, sugli organi legislativi. Questa Corte  ritiene
 di dover indirizzare ad essi un nuovo, pressante invito a provvedere,
 anche  prendendo  spunto  dai problemi applicativi di cui le presenti
 questioni di costituzionalita', sollevate da giudici  militari,  sono
 ulteriore testimonianza.