ha pronunciato la seguente Sentenza nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 280, 287 e 381, primo comma, numero 1 e secondo comma, lettera c) e g) del codice di procedura penale e dell'art. 207 disp. att. codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 24 aprile 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, il 2 agosto 1995, il 17 e il 24 luglio 1995 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 431, 695, 733 e 789 del registro ordinanze 1995 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 30, 44, 46 e 48, prima serie speciale, dell'anno 1995; Udito nella camera di consiglio del 17 aprile 1996 il giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto in fatto 1. - Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, al quale veniva chiesta, in sede di giudizio di convalida di arresto in flagranza per diversi reati, l'adozione di una misura cautelare coercitiva a carico di un militare in relazione al delitto di insubordinazione con violenza, rilevato che la pena edittale massima prevista per quel delitto e' inferiore al limite generale - reclusione superiore nel massimo a tre anni - fissato dall'art. 280 del codice di procedura penale per l'applicazione di misure cautelari coercitive, e che l'insubordinazione con violenza non e' compresa nell'elenco dei reati per i quali, ai sensi dell'art. 381, secondo comma, cod. proc. pen., puo' comunque procedersi all'arresto facoltativo in flagranza, con la conseguenza che la misura cautelare non avrebbe potuto essere adottata nemmeno ai sensi dell'art. 391, quinto comma, secondo periodo, cod. proc. pen., ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 24 aprile 1995, pervenuta a questa Corte il 21 giugno 1995 (r.o. n. 431 del 1995), questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, del medesimo art. 381, secondo comma, lettera c), cod. proc. pen., in relazione all'art. 207 disp. att. del cod. proc. pen., nella parte in cui, mentre consentono l'arresto in flagranza per il reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336, secondo comma, cod. pen.), non lo consentono per il reato di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186, primo comma, del codice penale militare di pace. Premette il giudice remittente che, a seguito della sentenza n. 503 del 1989 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 308, primo comma, cod. pen. mil. di pace, a determinare i casi in cui si puo' procedere ad arresto in flagranza non possono che essere le disposizioni del diritto processuale ordinario: ma, al di sotto del limite di pena fissato in via generale dall'art. 381, primo comma, cod. proc. pen., l'arresto e' consentito solo in relazione ai reati comuni elencati nel secondo comma dello stesso art. 381, mentre non lo e' in relazione a reati militari che hanno identici elementi costitutivi dei reati comuni elencati. La differenza di trattamento fra reati comuni e reati militari sarebbe, secondo il remittente, priva di fondamento razionale. In particolare, sarebbe palese l'irragionevolezza della discriminazione tra il reato comune di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e quello militare di insubordinazione con violenza. Infatti i reati militari di insubordinazione con violenza e di abuso di autorita', previsti dal codice penale militare, sarebbero in rapporto di specialita' rispetto alla normativa comune concernente i delitti dei privati contro pubblici ufficiali, onde apparirebbe del tutto irrazionale che soltanto per i primi non si possa procedere all'arresto facoltativo in flagranza. Tale preclusione assumerebbe poi un ulteriore profilo di irragionevolezza in quanto sarebbe del tutto incongruo che, di fatto, non si possa procedere con giudizio direttissimo in casi in cui fatti analoghi potrebbero invece essere perseguiti con quel procedimento se di competenza dell'autorita' giudiziaria ordinaria. Ne' l'obiezione secondo cui la decisione di accoglimento avrebbe effetto in malam partem apparirebbe tale da precludere la proposizione della questione, posto che a ben vedere l'eventuale declaratoria di incostituzionalita' si porrebbe piuttosto come ulteriore esplicazione della pronuncia di questa Corte (sentenza n. 503 del 1989) che espunse dall'ordinamento una norma di maggior sfavore come l'art. 308 cod. pen. mil. di pace; e che gia' con la sentenza n. 469 del 1990 la Corte ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma che non consentiva il procedimento in contumacia nei confronti degli imputati dei reati di diserzione e di mancanza alla chiamata, eliminando un privilegio ingiustificato. 2. - Nel corso di un giudizio di convalida dell'arresto in flagranza di un militare per il reato di furto militare a danno dell'amministrazione militare, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, con ordinanza del 17 luglio 1995, pervenuta a questa Corte il 3 ottobre 1995 (r.o. n. 733 del 1995), ha sollevato d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, in relazione all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 381, primo comma, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude l'arresto facoltativo in flagranza per i reati puniti con la reclusione militare per una durata uguale a quella prevista dallo stesso comma in relazione ai reati puniti con la reclusione, nonche' dello stesso art. 381, secondo comma, lettera g), nella parte in cui esclude l'arresto in flagranza per il reato di furto militare, mentre lo prevede per il reato di furto comune. Il remittente rileva che il reato per il quale si procede e' punito con la reclusione militare, mentre l'art. 381, primo comma, cod. proc. pen. prevede l'arresto facoltativo in flagranza per i delitti non colposi per i quali sia stabilita la pena della "reclusione" superiore nel massimo a tre anni. Il principio di tassativita' sancito dall'art. 13, terzo comma, della Costituzione non consentirebbe di estendere la previsione dell'arresto in flagranza ai casi in cui la pena prevista non e' quella della reclusione ma quella della reclusione militare; e d'altra parte si tratterebbe di pene diverse, come e' confermato dal fatto che determinati reati militari sono puniti con la pena della reclusione, tant'e' che l'art. 23 del codice militare accomuna la reclusione e la reclusione militare sotto le dizioni di "pene detentive" o "restrittive della liberta' personale", e proprio alla prima di queste dizioni si riferivano le previgenti disposizioni dello stesso codice che disciplinavano le misure restrittive della liberta'. Inoltre il remittente rileva che l'art. 381, secondo comma, lettera g), cod. proc. pen. consente l'arresto facoltativo in flagranza per il reato di furto, non per il reato di furto militare: sarebbe, a suo giudizio, del tutto irrazionale che fatti sostanzialmente uguali e connotabili di uguale gravita', come il furto e il furto militare, sottostiano ad un diverso trattamento quanto all'applicabilita' dell'arresto in flagranza. Benche' si tratti di questione in malam partem essa sarebbe - rileva il giudice a quo - ugualmente sollevabile trattandosi di materia processuale e comunque perche' altrimenti si dovrebbe riconoscere la non impugnabilita' di norme costitutive di privilegi positivi. La dichiarazione di illegittimita' costituzionale dovrebbe, a parere del remittente, estendersi, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 380, primo comma (arresto obbligatorio in flagranza), 384, primo comma (fermo di indiziato di delitto), 280 (condizioni di applicabilita' delle misure coercitive) e 287 (condizioni di applicabilita' delle misure interdittive) del codice di procedura penale, che presenterebbero gli stessi vizi. 3. - Il giudice per le indagini preliminari presso il medesimo Tribunale militare di Padova, investito di una richiesta di applicazione di misura coercitiva a carico di un militare indagato per concorso in truffa militare aggravata, ha sollevato d'ufficio, con ordinanza del 2 agosto 1995, pervenuta a questa Corte il 26 settembre 1995 (R. O. n. 695 del 1995), questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, dell'art. 280 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente l'applicabilita' di misure cautelari coercitive nel caso di reati militari puniti con la reclusione militare superiore nel massimo a tre anni, come invece prevede per i reati comuni puniti con la reclusione. Il giudice remittente esclude che in via di interpretazione l'art. 280 possa applicarsi ai reati puniti con la reclusione militare, ritenendo tale interpretazione preclusa dal principio di tassativita' dei casi di limitazione della liberta' personale, di cui all'art. 13 della Costituzione, e dal divieto di interpretazione analogica di leggi che fanno eccezione alla regola generale della liberta' personale. Tuttavia, secondo il remittente, sarebbe del tutto irrazionale e percio' lesivo del principio di uguaglianza che fatti come quelli puniti dal codice militare, ontologicamente uguali e connotabili di uguale gravita' rispetto a quelli previsti dal codice penale comune, sottostiano ad un diverso trattamento quanto all'applicabilita' di misure cautelari; ne' sussisterebbero giustificazioni per tale diversita' di trattamento, che' anzi la qualita' militare del soggetto attivo del reato puo' rendere in talune fattispecie ancor piu' concrete e pressanti le esigenze cautelari. In riferimento all'art. 112 della Costituzione, il remittente osserva che privare il pubblico ministero del potere di richiesta di misure cautelari implicherebbe un sostanziale indebolimento dell'azione penale che finirebbe col non essere piu' assistita dai mezzi e supporti necessari per un corretto esercizio. 4. - La stessa autorita' giudiziaria, investita di una richiesta di applicazione di una misura cautelare coercitiva ovvero di una misura cautelare interdittiva nei confronti di un militare indagato per truffa militare, con ordinanza del 24 luglio 1995, pervenuta a questa Corte il 25 ottobre 1995 (r.o. n. 789 del 1995), ha sollevato d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, degli artt. 280 e 287 cod. proc. pen. nella parte in cui non consentono l'applicazione di misure coercitive, e rispettivamente di misure interdittive, per reati militari puniti con la reclusione militare, alle stesse condizioni che le rendono applicabili ai reati comuni o ai reati militari puniti con la reclusione. Seguendo una linea argomentativa analoga a quella esposta nella ordinanza di cui sopra, al numero 3, il remittente esclude che gli artt. 280 e 287 cod. proc. pen. possano trovare applicazione per i reati puniti con la reclusione militare, trattandosi di pena diversa da quella della reclusione; e rileva che tale diversita' di trattamento sarebbe irrazionale, e quindi lesiva del principio di uguaglianza. Considerato in diritto 1. - I quattro giudizi instaurati con le ordinanze dei Giudici per le indagini preliminari presso i Tribunali militari di Roma e di Padova possono essere riuniti e definiti con unica sentenza, data la connessione fra le questioni sollevate. 2. - Queste hanno ad oggetto due gruppi di norme - rispettivamente l'art. 381, primo comma e secondo comma, lettere c) e g) del codice di procedura penale, concernente l'arresto in flagranza (ordinanza n. 431 del giudice per le indagini preliminari di Roma e ordinanza n. 733 del giudice per le indagini preliminari di Padova), e l'articolo 280 (ordinanze nn. 695 e 789 del giudice per le indagini preliminari di Padova) nonche' l'articolo 287 (per la sola ordinanza n. 789) del codice di procedura penale, concernenti le misure cautelari personali coercitive e interdittive - accomunate, nella prospettazione delle questioni, dal fatto che esse non consentirebbero di disporre l'arresto in flagranza, e rispettivamente le misure cautelari, per i reati militari puniti con la pena della reclusione militare, ovvero per reati militari di gravita' uguale a quella di reati comuni per i quali l'arresto in flagranza, e conseguentemente anche l'adozione di misure coercitive, sono viceversa possibili. Piu' precisamente, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma ritiene bensi' applicabile anche ai reati militari puniti con la reclusione militare l'art. 381, primo comma, cod. proc. pen., secondo cui l'arresto facoltativo in flagranza e' consentito per i delitti non colposi per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni; ma dubita della legittimita' costituzionale, in riferimento al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., dell'art. 381, secondo comma, cod. proc. pen. - ove si prevedono i reati per i quali l'arresto in flagranza e' consentito comunque, al di fuori del limite di pena di cui al primo comma - in relazione all'art. 207 disp. att. cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono l'arresto in flagranza e conseguentemente precludono l'adozione di misure cautelari coercitive al di fuori dei limiti previsti dall'art. 280, ai sensi dell'art. 391, quinto comma, secondo periodo, dello stesso codice, per il reato di insubordinazione con violenza (art. 186 cod. pen. mil. di pace), laddove lo consentono per il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336, secondo comma, cod. pen. comune. A sua volta il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova da un lato nega - in contrasto con l'altro giudice remittente - che l'art. 381, primo comma, cod. proc. pen., prevedendo l'arresto facoltativo in flagranza per i reati puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo edittale a tre anni, sia applicabile anche ai reati militari puniti con la reclusione militare, e per questa ragione dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimita' costituzionale di detta norma; e dubita altresi' della legittimita' del secondo comma, lettera g) dello stesso art. 381, nella parte in cui non consente l'arresto facoltativo in flagranza per il reato di furto militare, mentre lo consente per il reato di furto previsto dal codice penale comune (ordinanza n. 733). Dall'altro lato, lo stesso giudice dubita, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., e in un caso anche in riferimento all'art. 112 Cost., della legittimita' costituzionale degli artt. 280 e 287 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono, secondo l'interpretazione da lui seguita, l'adozione di misure cautelari coercitive, e rispettivamente interdittive, per i reati puniti con la reclusione militare (ordinanze nn. 695 e 789). La stretta connessione fra tutte le questioni e' messa ulteriormente in luce dall'ordinanza n. 733 del giudice per le indagini preliminari di Padova la' dove il giudice remittente - sia pure andando oltre il compito a lui affidato - esprime l'avviso che la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 381 cod. proc. pen. debba estendersi, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, agli artt. 380 (arresto obbligatorio in flagranza), 384, primo comma (fermo di indiziato di delitto), 280 (condizioni di applicabilita' delle misure coercitive) e 287 (condizioni di applicabilita' delle misure interdittive) del codice di procedura penale, disposizioni che, ad avviso del medesimo remittente, "tutte presentano gli stessi vizi delle disposizioni direttamente impugnate". 3. - E' opportuno premettere un cenno sulle vicende normative da cui deriva la situazione oggi denunciata dai giudici remittenti. Il codice penale militare di pace, che contiene la generale norma di rinvio di cui all'art. 261, in forza della quale "salvo che la legge disponga diversamente, le disposizioni del codice di procedura penale si osservano anche per i procedimenti davanti ai tribunali militari", disciplinava all'origine in modo autonomo e compiuto l'adozione delle misure restrittive della liberta' personale dell'imputato di reati militari. Precisamente, l'art. 308 di detto codice prevedeva l'arresto obbligatorio di chiunque fosse colto in flagranza di un reato militare punibile con pena detentiva; l'art. 309 prevedeva che, fuori dei casi di flagranza, il militare in servizio alle armi, imputato di un reato, ancorche' non soggetto alla giurisdizione militare, non potesse essere arrestato se non in dipendenza di un mandato od ordine di cattura o di arresto dell'autorita' giudiziaria, salve le misure precauzionali che il comandante da cui il militare dipendeva ritenesse di adottare; a loro volta gli artt. 313 e 314 disciplinavano i casi in cui il mandato di cattura era obbligatorio (in particolare riferendosi, oltre che ad alcuni reati elencati, a tutti i reati non colposi soggetti alla giurisdizione militare per i quali la legge stabilisse una pena detentiva superiore nel massimo a tre anni, con la sola eccezione dei reati di duello: art. 313, primo comma, numero 3), ovvero facoltativo (in particolare riferendosi ai reati non colposi per i quali la legge stabilisse una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, con eccezione dei reati di duello, e dunque, in sostanza, pressoche' a tutti i restanti reati puniti con pena detentiva: art. 314); l'art. 322 disciplinava la concessione della liberta' provvisoria all'imputato che si trovava nello stato di custodia cautelare, vietandola nei casi in cui il mandato di cattura fosse obbligatorio. 4. - Su questa normativa, ispirata a largo impiego delle misure restrittive di liberta' ante causam, sono venute ad incidere varie pronunce di questa Corte, e piu' radicalmente le innovazioni legislative apportate a partire dal 1988 in materia di provvedimenti restrittivi della liberta' personale degli imputati. In particolare, la sentenza n. 68 del 1974, nel dichiarare l'illegittimita' dell'art. 322, secondo comma, cod. pen. mil. di pace nella parte in cui non consentiva la concessione della liberta' provvisoria nei casi in cui era obbligatorio il mandato di cattura, osservo', fra l'altro, che la carcerazione preventiva "non si atteggia in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua finalita', nel rito ordinario e nel rito militare", pur ammettendo che, in via generale, possano essere legittime le disposizioni integrative e derogative dei codici penali militari, ragionevolmente giustificate, nonostante la loro differenza da quelle del codice comune; e la sentenza n. 50 del 1985, dopo l'introduzione legislativa della richiesta di riesame dei provvedimenti sulla liberta' personale, chiari' che essa trovava applicazione anche con riguardo agli imputati soggetti alla giurisdizione militare, in forza del generale richiamo alle norme del codice comune contenuto nell'art. 261 del codice penale militare di pace. L'art. 309 cod. pen. mil. di pace, che disciplinava in generale l'arresto dei militari fuori dei casi di flagranza, fu poi dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 74 del 1985, la quale, pur fondandosi essenzialmente sul contrasto con l'art. 13 della Costituzione di quella parte di detto art. 309 che prevedeva "misure precauzionali" adottate dal comandante del corpo, ritenne che la declaratoria di illegittimita' dovesse coinvolgere l'intero articolo, per lo stretto collegamento fra le varie sue parti, e dunque colpire anche la parte che prevedeva l'arresto "in dipendenza di un mandato od ordine di cattura o di arresto dell'autorita' giudiziaria". In quella sede la Corte affermo' esplicitamente, come conseguenza "ovvia" della pronuncia, che "a disciplinare l'"arresto fuori dei casi di flagranza" nei confronti dei militari in servizio alle armi potranno subentrare - nell'attesa di un intervento legislativo, soprattutto ipotizzabile in sede di sempre piu' auspicata riforma del codice penale militare di pace - le vigenti disposizioni del diritto processuale penale ordinario, com'e' logico che sia, quando si tratta di reati non soggetti alla giurisdizione militare, e come discende automaticamente dall'art. 261 cod. pen. mil. di pace, quando si tratta di reati soggetti alla giurisdizione militare"; e richiamo' l'assunto, gia' espresso nella sentenza n. 68 del 1974, secondo cui la funzione e la finalita' della carcerazione preventiva non sono diverse nel rito ordinario e in quello militare. Infine con la sentenza n. 503 del 1989, intervenuta dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, la Corte dichiaro' l'illegittimita' costituzionale dell'art. 308 cod. pen. mil. di pace, concernente l'arresto in flagranza, osservando che la previsione in esso contenuta dei casi di arresto difettava dei requisiti di eccezionalita' prescritti dall'art. 13, terzo comma, della Costituzione, per le misure restrittive di liberta' adottate dalle autorita' di pubblica sicurezza. Anche in quella occasione la Corte affermo', come conseguenza "evidente" della pronuncia, che "a determinare i casi di arresto in flagranza nei confronti di reati militari commessi da militare non potranno che essere, allo stato della legislazione, le disposizioni del diritto processuale penale ordinario", vale a dire gli artt. 380 e 381 del nuovo codice, in forza del "lineare" dettato dell'art. 261 cod. pen. mil. di pace. Nel frattempo, peraltro, l'entrata in vigore del nuovo codice di rito penale, e ancor prima della legge 5 agosto 1988, n. 330, che ne anticipava alcune linee in tema di disciplina dei provvedimenti restrittivi della liberta' personale, pose il problema della sopravvivenza delle norme che in questa materia erano dettate dal codice militare. La conclusione cui pervenne la giurisprudenza della Corte di cassazione, nonche' quella dei tribunali militari, e che ha trovato largo appoggio nella dottrina, nonostante perplessita' e dissensi sulle argomentazioni di supporto ad essa, fu nel senso che debbano ritenersi inapplicabili, per effetto dell'entrata in vigore del nuovo codice, le disposizioni degli artt. 313 fino a 323 del codice penale militare di pace, che disciplinavano i mandati di cattura e la custodia cautelare, applicandosi dunque integralmente anche ai reati di competenza dei tribunali militari le norme del nuovo codice di procedura penale (v. ad esempio Cass., sez. I, 22 marzo-22 maggio 1991, Pagliarini). Questa conclusione era sorretta dalla consapevolezza della totale dissonanza della normativa gia' contenuta nel codice militare con i principii in materia di misure restrittive della liberta' personale accolti nel nuovo codice di rito comune. Era dunque evidente l'esigenza di provvedere in via legislativa al coordinamento del codice militare, tuttora non riformato, con il nuovo codice di procedura penale: dato che quest'ultimo, anche in forza dei limiti della delega sulla cui base era stato emanato, non aveva potuto dettare in proposito una adeguata disciplina. 5. - Da tale mancato coordinamento traggono origine anche i dubbi di costituzionalita' prospettati dai giudici remittenti. In primo luogo, infatti, le norme del codice comune, che prevedono le condizioni generali per l'adozione delle misure coercitive e interdittive (artt. 280 e 287 cod. proc. pen.), per l'arresto in flagranza (artt. 380 e 381 cod. proc. pen.), nonche' per il fermo di indiziato di delitto (art. 384 cod. proc. pen.), si riferiscono a tale fine ai limiti della pena edittale comminata per i vari reati: ergastolo o reclusione superiore nel massimo a tre anni per le misure coercitive e interdittive, o non inferiore nel massimo a quattro anni per la custodia cautelare in carcere (art. 280, primo comma e 2, e art. 287); ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni per l'arresto obbligatorio in flagranza (art. 380, primo comma); reclusione superiore nel massimo a tre anni, o a cinque anni in caso di delitti colposi, per l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, primo comma); ergastolo o reclusione non inferiore nel minimo a due anni e superiore nel massimo a sei anni, per il fermo di indiziato di delitto (art. 384, primo comma, prima parte). Tutte queste norme fanno riferimento alla pena della "reclusione". Ora, i reati previsti dal codice penale militare sono talvolta anch'essi puniti con le pene comuni dell'ergastolo e della reclusione (v. art. 23, secondo comma, cod. pen. mil. di pace), ma per lo piu' sono invece puniti con l'unica pena militare principale rimasta dopo l'abolizione della pena di morte: la "reclusione militare" (art. 22, primo comma, numero 2, e art. 26 cod. pen. mil. di pace). Di qui la tesi interpretativa, peraltro minoritaria ancorche' non isolata - e fatta propria anche da uno dei giudici remittenti - secondo cui il mancato riferimento, nelle citate norme del codice di procedura, ai delitti puniti con la reclusione militare non consentirebbe di applicarle in tutti i casi in cui si procede per reati militari puniti con tale pena, e dunque per la grande maggioranza dei reati previsti dal codice militare. Sussisterebbe in proposito una vera e propria lacuna, sulla quale si appuntano le censure di costituzionalita' del giudice per le indagini preliminari di Padova, il quale ritiene che tale situazione normativa, che non consentirebbe all'autorita' giudiziaria militare di disporre misure coercitive o interdittive, ne' alla polizia giudiziaria di procedere all'arresto in flagranza, in caso di reati militari puniti con la reclusione militare, contrasti con l'art. 3 nonche', per quanto riguarda l'art. 280 cod. proc. pen., anche con l'art. 112 della Costituzione. 6. - La questione cosi' prospettata e' infondata sotto tutti i profili, in quanto e' errata, a giudizio di questa Corte, la premessa interpretativa sulla quale essa si fonda. Il letterale riferimento delle norme in questione, ai fini di individuare i reati per i quali e' prevista l'adozione delle diverse misure cautelari, a determinati minimi o massimi di pena della "reclusione" non impedisce, secondo una lettura ragionevole e sistematica delle norme stesse, che tenga conto dell'evoluzione normativa accennata, di considerarle applicabili anche ai reati per i quali la pena prevista e' quella della "reclusione militare". E' ben vero, infatti, che la reclusione militare e' stata considerata, anche da questa Corte, come pena autonoma, diversa dalla reclusione comune e dotata di autonoma disciplina giuridica, cosi' da far ritenere legittima e non irrazionale la diversa disciplina della rispettiva durata minima (v. ordinanza n. 220 del 1987): e che le due pene sono accomunate dal codice penale militare sotto la denominazione di "pene detentive" o "restrittive della liberta' personale" (cfr. art. 23 cod. pen. mil. di pace). Ma il fondamento, considerato dalla Corte tuttora "apprezzabile" pur "nel quadro della odierna integrazione dell'ordinamento militare in quello statale", della "specialita' della reclusione militare" e' stato indicato solo nelle diverse modalita' di esecuzione della pena, che caratterizzerebbero in senso militare i fini rieducativi perseguiti con la pena stessa, e precisamente comporterebbero una finalita' di "recupero al servizio militare" (sentenza n. 503 del 1989). A tali differenti modalita' di esecuzione non fa riscontro una vera e propria differenza di natura fra le due pene. Nemmeno puo' dirsi che l'esecuzione di ciascuna delle due pene corrisponda e consegua sempre alla condanna per reati o categorie di reati distinte. Non solo infatti il codice penale militare commina per taluni reati militari, soggetti alla giurisdizione militare, la pena della reclusione comune (cfr. per esempio artt. 157, 167, primo comma, 215, 216 cod. pen. mil. di pace). Ma, soprattutto, il sistema normativo del codice militare e' ispirato a quello che si potrebbe definire come principio di "sostituibilita'" fra reclusione e reclusione militare. Cosi', ai sensi dell'art. 27, primo comma, cod. pen. mil. di pace, "alla pena della reclusione, inflitta o da infliggersi ai militari per reati militari, e' sostituita la pena della reclusione militare per eguale durata, quando la condanna non importa la degradazione", vale a dire la pena militare accessoria che, secondo l'art. 28 del codice militare, priva il condannato della qualita' di militare (art. 55 cod. pen. mil. di pace). Parimenti, ai fini della esecuzione delle pene inflitte a militari "in servizio permanente alle armi", l'art. 63, numero 3, dello stesso codice prescrive che "alla pena della reclusione, se la condanna non importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici, e' sostituita la reclusione militare per eguale durata, ancorche' la reclusione sia inferiore a un mese". Per converso, e specularmente, nei casi di condannati a pene militari che abbiano prestato servizio militare puramente di fatto, ovvero abbiano cessato di appartenere alle forze armate, o siano assimilati ai militari, o iscritti ai corpi civili militarmente ordinati, o siano comunque persone estranee alle forze armate, in sede di esecuzione "alla pena della reclusione militare e' sostituita la pena della reclusione per eguale durata" (art. 65 cod. pen. mil. di pace). Ancora, nel caso di concorso di piu' reati, alcuni dei quali puniti con la reclusione, altri con la reclusione militare, si applica la reclusione ovvero la reclusione militare, con un aumento pari alla durata complessiva dell'altra pena che si dovrebbe infliggere per i reati concorrenti, a seconda che la condanna importi ovvero non importi la degradazione. Appare evidente dalle disposizioni citate che l'ordinamento considera le due pene come reciprocamente sostituibili (si noti come la "conversione" di una pena nell'altra sia prevista sempre a parita' di durata), e che l'applicazione di una o dell'altra pena non dipende in definitiva tanto dalla specie del reato commesso quanto dalla circostanza che il reo o il condannato rivesta tuttora, ovvero non rivesta o non rivesta piu', la qualita' di militare. In altri termini, la reclusione militare non e' altro che la reclusione che puo' essere inflitta e applicata nei confronti di coloro che rivestono la qualita' soggettiva di militare, mentre il venir meno di tale qualita' comporta l'automatica conversione della reclusione militare inflitta in reclusione comune. Cio' conferma che la specialita' della reclusione militare si colloca esclusivamente sul versante delle modalita' di esecuzione di una pena fondamentalmente unitaria. Se infatti si trattasse veramente di pene di natura diversa, non sarebbe ammissibile, in quanto contrasterebbe pienamente, fra l'altro, con il principio costituzionale di legalita' delle pene (art. 25 Cost.), la conversione dell'una nell'altra pena in forza di circostanze esterne rispetto alla fattispecie del reato commesso, come la perdita successiva della qualita' di militare da parte del condannato. 7. - Del resto la piena equiparabilita', a certi fini, di reclusione comune e reclusione militare e' stata ritenuta da questa Corte quando essa ha censurato le norme dell'ordinamento penitenziario le quali non prevedevano l'applicabilita' della misura alternativa della detenzione domiciliare per i condannati alla reclusione militare, sia pure limitatamente all'ipotesi del condannato in condizioni di salute particolarmente gravi (sentenza n. 414 del 1991), o non prevedevano l'ammissione ai permessi premio dei condannati alla reclusione militare (sentenza n. 227 del 1995); o quando ha censurato come ingiustificata la differenza di disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale, quanto ad indefettibilita' della previa osservazione della personalita', del condannato militare rispetto al condannato comune (sentenza n. 119 del 1992); o ancora quando ha ammesso la non irrazionalita' del principio della sostituzione della reclusione comune con quella militare, di cui al citato art. 27 del codice militare (sentenza n. 409 del 1989, numero 7 del Considerato in diritto). Ne' contraddice questa linea la ritenuta illegittimita' di tale sostituzione nel caso di condanna per il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza, che era motivata dalla contraddizione fra la previsione dell'esonero dal servizio militare, previsto per i cosi' detti obiettori totali a seguito dell'espiazione della pena, e una modalita' di esecuzione della pena stessa improntata alla finalita' del recupero del soggetto al servizio militare, nonche' dal rischio di "spirale delle condanne" derivante dall'assoggettamento dell'obiettore totale al trattamento proprio della reclusione militare (sentenza n. 358 del 1993). Dal canto suo la giurisprudenza dei giudici comuni ha ammesso l'applicabilita' delle norme sul trattamento sanzionatorio della continuazione tra reati anche al caso di reati puniti rispettivamente con la reclusione e con la reclusione militare (v. Cass., sez. un., 5 luglio 1984, Falato); e, ancor piu' significativamente, ha ammesso l'applicabilita' del "patteggiamento" anche quando debba infliggersi la pena della reclusione militare, ancorche' l'art. 444 cod. proc. pen., nello stabilire il limite di pena che consente il "patteggiamento", faccia riferimento letterale alla "reclusione" (v. ad es. Cass., sez. I pen., 28 ottobre 1995, Gallo). 8. - Si puo' dunque concludere che, essendo la reclusione comune e la reclusione militare solo due species dell'unico genus "reclusione", e in concreto due pene autonome quanto a modalita' di esecuzione ma identiche per natura ed intercambiabili a parita' di durata, nulla vieta di applicare le norme del codice di procedura penale, che fanno riferimento a determinati limiti di pena edittale per identificare i reati per i quali possono trovare applicazione le misure coercitive o interdittive ovvero l'arresto in flagranza o il fermo di indiziati di reato, anche nei casi in cui i reati per cui si procede sono reati militari punibili con la reclusione militare: considerato anche che "la carcerazione preventiva, che e' giustificata da esigenze eminentemente processuali, non si atteggia in modo diverso, quanto alla sua funzione e alla sua finalita', nel rito ordinario e nel rito militare" (sentenza n. 68 del 1974). Questa e' anzi l'unica ragionevole lettura del sistema normativo, una volta che si considerino venute meno le norme speciali del codice militare sulle misure restrittive della liberta', e quindi debbano trovare applicazione anche in queste ipotesi, in forza del generale richiamo dell'art. 261 cod. pen. mil. di pace, le norme dell'ordinamento processuale penale comune. Cosi' interpretate le norme denunciate, non si pone evidentemente il problema che ha dato luogo alle censure sollevate dal giudice remittente in ordine alla presunta mancata previsione nelle stesse norme della possibilita' di adottare misure cautelari per reati puniti con la reclusione militare. 9. - Resta da esaminare il secondo ordine di questioni sollevate, concernente l'asserita lacuna dell'art. 381, secondo comma, cod. proc. pen., laddove, nell'elencare i reati per i quali puo' procedersi all'arresto in flagranza al di fuori delle condizioni generali in ordine all'entita' della pena edittale stabilite dal primo comma, non contempla reati militari che sarebbero in qualche modo assimilabili, per natura e gravita', a reati comuni compresi nel predetto elenco. In proposito deve pero' ritenersi rilevante solo la questione sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma con riguardo alla lettera c) del secondo comma dell'art. 381, ove si menziona il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336 cod. pen., in riferimento al reato di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186, primo comma, cod. pen. mil. di pace. Viceversa non e' rilevante l'analoga questione sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova con l'ordinanza n. 733 con riguardo alla lettera g) del secondo comma dell'art. 381, ove si menziona il reato di furto previsto dall'art. 624 del codice penale, in riferimento al reato di furto militare previsto dall'art. 230 cod. pen. mil. di pace. Infatti nella specie sottoposta al giudice patavino si procede per il delitto di furto militare a danno dell'amministrazione militare, per il quale l'art. 230, secondo comma, cod. pen. mil. di pace prevede la pena della reclusione militare da uno a cinque anni, e dunque una pena superiore al limite al di sopra del quale l'arresto facoltativo in flagranza e' comunque consentito a norma dell'art. 381, primo comma, cod. proc. pen, secondo la lettura qui accolta. Dovendo trovare applicazione tale norma, e' inammissibile, in quanto priva di rilevanza, la questione che investe la diversa norma del secondo comma, lettera g) dello stesso art. 381. 10. - La questione sollevata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma e' infondata. L'art. 381, secondo comma, cod. proc. pen. introduce una deroga alla regola generale di cui al primo comma, che collega la facolta' di procedere all'arresto in flagranza all'entita' della pena (reclusione superiore nel massimo a tre anni nel caso di delitto non colposo, consumato o tentato) prevista per il reato per il quale si procede. Tale deroga consiste nella previsione nominativa di una serie di reati elencati, per i quali tale facolta' e' concessa anche se la pena per essi prevista dalla legge e' inferiore al limite di cui al primo comma. Si tratta ovviamente di un elenco tassativo, non suscettibile ne' di letture estensive (i reati sono indicati con la loro denominazione e con il richiamo alla corrispondente disposizione del codice penale o di altra legge, e dunque si tratta di fattispecie ben determinate), ne' tanto meno di applicazione analogica, trattandosi di norma eccezionale in rapporto alla regola generale del primo comma. Ora, non vi e' dubbio che sussista una disarmonia in questa disciplina, in quanto il legislatore del codice ha elencato solo i reati comuni colpiti con pena edittale meno elevata, ma per i quali si e' ritenuto possano sussistere particolari esigenze cautelari tali da richiedere l'arresto in flagranza, mentre ha completamente pretermesso la considerazione dei reati militari previsti dal codice militare, in ordine ai quali in precedenza provvedeva con disposizione di generalissima applicazione l'art. 308 del codice militare medesimo. Caduta tale disposizione a seguito della sentenza n. 503 del 1989 di questa Corte, sono rimaste solo le norme del codice comune, le quali pero', mentre stabiliscono le condizioni generali per procedere all'arresto (primo comma dell'art. 381, applicabile, come si e' detto, anche ai reati militari puniti con la reclusione militare), nulla dispongono in ordine a singoli reati militari per i quali si consenta l'arresto fuori da quelle condizioni generali. Tuttavia la disarmonia non e' tale da dar luogo ad una situazione di incostituzionalita'. Non puo' infatti che essere riservato al legislatore, nella sua esclusiva discrezionalita', stabilire in via tassativa, ai sensi dell'art. 13 della Costituzione, i casi e i modi in cui possono essere disposte restrizioni della liberta' personale, e specificamente i "casi eccezionali di necessita' ed urgenza" in cui possono essere adottati provvedimenti restrittivi provvisori al di fuori della riserva di giurisdizione esistente in materia. Tali casi, costituenti altrettante deroghe - costituzionalmente ammesse - alla regola generale dell'inviolabilita' della liberta' personale, non possono essere estesi con pronunce di questa Corte, per ragioni analoghe a quelle che impediscono la introduzione, per via di pronunce di incostituzionalita', di nuove ipotesi di reati o di pene (v. da ultimo sentenza n. 411 del 1995). Il reato militare di insubordinazione con violenza previsto dall'art. 186 cod. pen. mil. di pace puo' ben essere considerato di gravita' equiparabile a quella del reato comune di violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale previsto dall'art. 336, secondo comma, cod. pen., anche se si tratta di fattispecie diverse per alcuni degli elementi costitutivi: l'insubordinazione con violenza e' configurata come reato contro la disciplina militare (titolo terzo del libro secondo, cod. pen. mil. di pace), mentre la violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale e' compresa fra i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (libro II, titolo II, capo II, cod. pen). Ma resta il fatto che solo il legislatore puo' compiere l'apprezzamento necessario per includere eventualmente tale reato militare fra quelli per i quali e' consentito l'arresto in flagranza fuori dalle condizioni generali stabilite dall'art. 381, primo comma, cod. proc. pen. 11. - La riforma dei codici militari in conformita' ai principii della Costituzione repubblicana e' impegno che da troppo tempo ormai grava, insoddisfatto, sugli organi legislativi. Questa Corte ritiene di dover indirizzare ad essi un nuovo, pressante invito a provvedere, anche prendendo spunto dai problemi applicativi di cui le presenti questioni di costituzionalita', sollevate da giudici militari, sono ulteriore testimonianza.