IL PRETORE
   Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza  visti  gli  atti  del
 procedimento penale n. 6213/92  r.g.n.r.  -  n.  1536/94  r.g.dib.  a
 carico  di  Pucar  Milenco,  nato  a Zara (ex Yugoslavia) il 9 giugno
 1950, e Del Fabro Adriano, nato a Reana del  Rojale  il  3  settembre
 1956,  sispettivamente assistiti dai difensori di fiducia dott. proc.
 A. Paludetti e avv.  G. Agrizzi del Foro di Udine.
   Premesso che gli imputati sono stati tratti a  giudizio  davanti  a
 questa  giudicante,  a  seguito  di  opposizione  a decreto penale di
 condanna, per rispondere della contravvenzione di cui agli artt.   81
 cpv.,  c.p.  e  13  legge 30 aprile 1962, n. 283, per avere, il primo
 quale legale rappresentante  della  "Lattea  s.  coop.  a  r.l.",  il
 secondo  quale  legale  rappresentante della "Con.Fa.Bi.", la seconda
 societa' produttrice per nome e per conto della  prima  dello  yogurt
 denominato  "Biancofriuli",  posto in vendita e pubblicizzato a mezzo
 stampa e con altri sistemi, quali manifesti pubblicitari, il prodotto
 medesimo adottando denominazioni  di  qualita'  atte  ad  indurre  in
 errore  l'acquirente  circa  la  natura, la sostanza e la qualita' (a
 mezzo stampa veniva indicata la dicitura "latte  biologico  +  frutto
 biologico = yogurt biologico", sull'incarto costituente la confezione
 del  prodotto  veniva  riportata  la dicitura "yogurt ottenuto con la
 trasformazione  di  prodotti  agricoli  provenienti  da  aziende  che
 escludono l'impiego di pesticidi e prodotti chimici di sintesi".
   Fatto accertato in Udine, fino al luglio 1993.
   Aperto  il  dibattimento  ed  ammessi  i mezzi istruttori richiesti
 dalle parti, venivano acquisiti numerosi  documenti  ed  ascoltati  i
 testi  introdotti  dalla  pubblica  accusa,  dopo  di  che il pretore
 decideva   di   sollevare   d'ufficio   questione   di   legittimita'
 costituzionale  degli  artt. 2, comma primo, 18, comma secondo, e 29,
 comma secondo, del d.lgs.  27 gennaio 1992, n. 109, per contrasto con
 l'art. 76 della  Costituzione,  ritenendo  che  dette  norme  abbiano
 (almeno  parzialmente) abrogato l'art. 13 della legge 30 aprile 1962,
 n. 283, e cio' in contrasto con la legge-delega 29 dicembre  1990, n.
 428 (legge comunitaria per il 1990).
   Accertata  la  materialita'   dei   fatti   contestati   attraverso
 l'attivita' di istruzione dibattimentale - in particolare grazie alle
 deposizioni  del  teste  del  N.A.S.  dei  CC e del chimico del P.M.P
 ascoltati in aula - nell'iter logico del giudice si pone infatti  con
 carattere di priorita' la questione relativa alla attuale vigenza nel
 nostro  ordinamento  positivo  della  norma  di cui all'art. 13 della
 legge 30 aprile 1962, n. 283, sulla  base  della  quale  deve  essere
 valutata la condotta ascritta ai prevenuti ed accertata in fatto.
   Si cerchera' dunque di esporre in primo luogo il ragionamento sulla
 base  del  quale  si assume avvenuta la depenalizzazione dell'art. 13
 della legge n. 283/62, a seguito della entrata in vigore  del  d.lgs.
 27  gennaio  1992,  n.  109  (Attuazione delle direttive 89/395 CEE e
 89/396  CEE  concernenti  l'etichettatura,  la  presentazione  e   la
 pubblicita'  dei  prodotti alimentari), per soffermarsi in un secondo
 momento sul requisito della rilevanza  di  detta  questione  ai  fini
 della definizione del processo.
   Il  decreto n. 109/92 or ora citato ha introdotto all'art. 2, comma
 primo,  una  fattispecie  di  illecito  amministrativo  (punita   dal
 successivo  art.  18,  comma  secondo, con la sanzione amministrativa
 pecuniaria da lire sei milioni a lire trentasei milioni), che  appare
 quasi   interamente   sovrapponibile   alla   fattispecie  sanzionata
 penalmente dall'art. 13 in esame.
   La norma in questione stabilisce infatti che  "l'etichettatura,  la
 presentazione  e  la  pubblicita'  dei prodotti alimentari non devono
 indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del  prodotto  e
 precisamente  sulla  natura,  sulla  identita', sulla qualita', sulla
 composizione,  sulla  quantita',  sulla  durabilita',  sul  luogo  di
 origine  o di provenienza, sul modo di ottenimento o di fabbricazione
 del prodotto stesso".
   E se cio' non bastasse, il successivo art. 29, comma  secondo,  del
 medesimo  decreto  legislativo  ha  espressamente  previsto  non solo
 l'abrogazione del d.P.R. 18  maggio  1982,  n.  322,  il  quale  pure
 disciplinava  la  materia dell'etichettatura dei prodotti alimentari,
 ma anche di "tutte le disposizioni in materia  di  etichettatura,  di
 presentazione  e  di  pubblicita'  dei prodotti alimentari" diverse o
 incompatibili con quelle previste dal decreto stesso.
   Dal combinato  disposto  di  queste  norme  pare  dunque  di  dover
 concludere  nel  senso  che  le  violazioni  in  tema  di pubblicita'
 ingannevole (salvo le situazioni di fatto,  assolutamente  residuali,
 disciplinate dal solo art. 13 della legge n. 283/62) sono attualmente
 sanzionate  dal  d.lgs.  n.  109/92,  vuoi per l'espressa abrogazione
 della disciplina anteriore, operata dall'art. 29, comma secondo, vuoi
 per  l'implicita   (parziale)   abrogazione   che   pare   desumibile
 dall'identita'  fra le fattispecie previste dall'art. 2, comma primo,
 e quelle dell'art.  13 citato.
   E'  ben  vero  che  la  giurisprudenza  si  e'  quasi  unanimamente
 pronunciata nel senso di escludere la depenalizzazione della norma di
 cui all'art.  13 della legge n. 283/62 per effetto della introduzione
 della  citata  normativa  di  cui  al  decreto legislativo n. 109/92,
 estendendo i principi  interpretativi  precedentemente  formatisi  in
 relazione  ai rapporti fra il medesimo art. 13 e gli artt. 2 e 16 del
 previgente d.P.R.  18 maggio 1982, n. 322 (anche se si deve segnalare
 come recentemente la Corte di cassazione, a sezioni  unite  penali  -
 sentenza n. 3 del 19 gennaio 1994, Iacovoni - abbia invece accolto la
 tesi   dell   'avvenuta  depenalizzazione  della  violazione  di  che
 trattasi, seppure con una asserzione non  funzionale  ai  fini  della
 decisione  del  caso  concreto,  e  conseguentemente  non motivata in
 maniera analitica e convincente).
   In relazione alla prima delle  impostazioni  richiamate  si  impone
 tuttavia  un'osservazione,  avente carattere assolutamente pregnante:
 l'art. 16 del citato, d.P.R. n. 322/82 aveva infatti  preventivamente
 risolto  con  la  clausola  di  riserva  penale  "salvo  che il fatto
 costituisca reato" ogni problema di interferenza fra la norma  penale
 di  cui  all'art.   13 della legge n. 283/62 e la disposizione di cui
 all'art. 2  dello  stesso  d.P.R.,  rendendo  sempre  applicabile  la
 sanzione  penale  in caso di inosservanza dei precetti compresi tanto
 nell'art. 13 che nell'art. 2.
   La situazione appare invece assolutamente diversa alla  luce  della
 vigente  normativa,  posto  che  l'art. 18 del decreto legislativo 27
 gennaio 1992, n. 109, a differenza dell'art. 16 del d.P.R. n. 322/82,
 menziona  la  clausola  di  riserva  a  favore  del  settore   penale
 espressamente solo nel suo primo comma, mentre nulla dice nel secondo
 comma,  il  quale  come  si  e'  visto prevede una specifica sanzione
 amministrativa proprio per l'inosservanza  delle  norme  in  tema  di
 etichettatura, pubblicita' e presentazione dei prodotti alimentari.
   La  circostanza  non  puo'  essere  sottovalutata  e  non  puo' che
 significare, a parere di chi scrive, che  l'intento  del  legislatore
 era  proprio  quello  di  escludere  l'estensione  della  clausola di
 riserva penale alle ipotesi  del  secondo  comma  dell'art.  18.    A
 sostegno  della  tesi qui propugnata si pone infatti, in primo luogo,
 l'interpretazione letterale della norma, che anche in virtu' del noto
 brocardo ubi lex voluit ibi dixit,  deve  far  intendere  la  mancata
 ripetizione della clausola di riserva nel secondo comma dell'art.  18
 come  segno  evidente  di una volonta' legislativa volta ad escludere
 l'applicabilita' della sanzione penale  per  le  ipotesi  oggetto  di
 quella  specifica disposizione.   Alle medesime conclusioni si giunge
 peraltro con una interpretazione sistematica, che non si limiti cioe'
 a considerare il solo decreto legislativo n. 109/92, ma  tenga  nella
 dovuta  considerazione anche altri provvedimenti legislativi adottati
 nella stessa epoca, sempre in attuazione di disposizioni comunitarie,
 i quali dovrebbero conseguentemente
  sottendere una identica tecnica legislativa, oltre che una  volonta'
 unitaria del legislatore.
   A  tal  proposito  si  puo'  far  riferimento, a titolo di esempio,
 all'art.   14  del  decreto  legislativo  27  gennaio  1992,  n.  107
 (Attuazione  delle  direttive  88/388  CEE  e 91/71 CEE relative agli
 aromi destinati ad essere impiegati nei  prodotti  alimentari  ed  ai
 materiali  di  base  per la loro preparazione), in cui la clausola di
 riserva penale e' espressamente inserita nel primo comma, mentre  non
 viene  menzionata  nel  secondo  e nel terzo; all'art. 15 del decreto
 legislativo 27 gennaio  1992,  n.  110  (Attuazione  della  direttiva
 89/108    CEE    in   materia   di   alimenti   surgelati   destinati
 all'alimentazione umana), in cui  la  clausola  predetta  appare  nei
 commi  primo  e  quarto,  ma  non  nel  terzo e nel quinto; ed ancora
 all'art.  15  del  decreto  legislativo  27  gennaio  1992,  n.   111
 (Attuazione   della  direttiva  89/398  CEE  concernente  i  prodotti
 alimentari destinati ad una alimentazione particolare), nel  quale  i
 soli commi primo, terzo, quarto e quinto si aprono con la clausola di
 riserva  citata,  a differenza del secondo comma in cui la stessa non
 e' riportata.  Tali osservazioni consentono dunque di  sostenere  che
 il  problema di escludere o meno l'applicabilita' del sistema penale,
 in  caso  di  concorso  apparente  di  norme,  era  ben  presente  al
 legislatore  nazionale,  nel momento in cui si apprestava ad adeguare
 l'ordinamento interno alla disciplina dettata  in  sede  comunitaria,
 cosicche'  deve  ritenersi  che  lo  stesso  abbia operato con scelte
 discrezionali, ma precise  e  ponderate,  apponendo  la  clausola  di
 riserva  nelle  sole ipotesi in cui voleva espressamente escludere la
 depenalizzazione.
   Accogliere la tesi contraria - dell'estensibilita'  della  clausola
 di  riserva  penale  anche alle ipotesi di cui all'art. 18, comma del
 decreto   legislativo   n.   109/92,   con   conseguente   esclusione
 dell'abrogazione  dell'art.  13  della  legge  n. 283/62, - creerebbe
 peraltro problemi anche sul piano logico, posto che la portata  della
 prima delle norme citate verrebbe ad essere quasi totalmente svuotata
 di  significato,  finendo  per  sanzionare  esclusivamente infrazioni
 formali di minima gravita'; ed una tale interpretazione non  potrebbe
 che creare come conseguenza una intrinseca irrazionalita' del sistema
 normativo,  il  quale  verrebbe  a  punire  infrazioni meno gravi, di
 carattere  meramente  formale,   con   la   sanzione   amministrativa
 pecuniaria  da  lire  sei milioni a lire trentasei milioni, mentre le
 piu' gravi violazioni di natura sostanziale  sarebbero  punite  (come
 reati,  si',  ma)  con l'ammenda da lire seicentomila a lire quindici
 milioni.   E  a  questo  proposito  non  e'  chi  non  veda  come  si
 determinerebbe  una  irragionevole  ed  ingiustificata  disparita' di
 trattamento, attesa la ben diversa afflittivita' ed  incidenza  delle
 sanzioni sul patrimonio dei responsabili degli illeciti.  La tesi che
 nega  la  intervenuta  depenalizzazione dell'art. 13 ormai piu' volte
 richiamato ha anche fatto appello al principio contenuto nell'art. 9,
 comma terzo, della legge 24 novembre 1981,  n.  689,  in  virtu'  del
 quale  ai  fatti  previsti  dagli  artt.  5, 6, 9 e 13 della legge n.
 283/62 "si applicano in ogni caso le disposizioni  in  tali  articoli
 previste,  anche  quando  i  fatti stessi sono puniti da disposizioni
 amministrative  che  hanno  sostituito  disposizioni penali speciali"
 (cosi' hanno sostenuto Cass. pen.  15  giugno  1993,  Perotto;  Cass.
 pen. 19 ottobre 1993, Martino).
   L'impostazione  in  parola,  secondo  la  quale con l'art. 9, comma
 terzo della legge  n.  689/81  si  sarebbe  non  solo  escluso  dalla
 depenalizzazione  cola'  disposta,  fra  gli  altri,  l'art.  13,  ma
 attribuito  ad  esso  la  natura  di   reato   in   ogni   caso   non
 depenalizzabile,  anche  in presenza di eventuali depenalizzazioni di
 norme specifiche, non appare convincente; essa perviene infatti  alla
 conclusione  che l'abrogazione dell'art.  13, in virtu' del principio
 di fissita' di cui all'art. 9, comma terzo citato, potrebbe  avvenire
 solo con un intervento espresso del legislatore, o per effetto di una
 nuova  e  completa  disciplina  in tema di depenalizzazione, e non in
 materia di alimenti.  Ma percorrendo questa via ci si pone in  aperto
 contrasto  con i piu' elementari principi che regolano la gerarchia e
 il  valore  delle  fonti  di  diritto,   poiche'   con   una   simile
 interpretazione la norma in questione - che costituisce evidentemente
 una  deroga al criterio di specialita', sancito dal primo comma dello
 stesso art. 9 - pur se introdotta con  legge  ordinaria  verrebbe  ad
 assumere  la  qualifica  di  norma  di  rango  superiore,  in  quanto
 insuscettibile di abrogazione da parte di una  norma  successiva,  se
 non nelle forme dell'abrogazione espressa.  Si deve inoltre osservare
 che  l'art.  9,  comma  terzo,  disciplina nell'ambito della legge n.
 689/81 un particolare aspetto della depenalizzazione dei  c.d.  reati
 alimentari, e non l'art. 13 della legge n. 283/62, il quale come tale
 ben puo' essere modificato da leggi successive.
   Ma  l'affermazione  che  soprattutto  non  puo' essere condivisa e'
 quella secondo la quale la prevalenza delle disposizioni penali della
 legge n. 283/62 (fra cui quella dell'art. 13) andrebbe  estesa  anche
 alle    fattispecie    di    illecito    amministrativo    introdotte
 successivamente alla legge di depenalizzazione n.  689/81:  i  lavori
 preparatori   e   la   stessa  lettera  della  legge  (che  parla  di
 "disposizioni amministrative che hanno sostituito disposizioni penali
 speciali") paiono infatti far riferimento al concorso di norme  tutte
 anteriori  alla  legge  di  depenalizzazione  citata.   Al contrario,
 ritiene questo pretore di dover decisamente affermare  l'applicazione
 del  principio  di specialita', di cui all'art. 9, comma primo  della
 legge n. 689/81, in ordine al  rapporto  fra  l'art.  13  piu'  volte
 citato e le ipotesi di illecito amministrativo previste dal combinato
 disposto  degli  artt.  2 e 18 del decreto legislativo n. 109/92.  In
 virtu'  di  una  tale  ricostruzione  normativa  e  della   attivita'
 interpretativa  sin  qui  descritta, ritiene dunque la remittente che
 gli artt. 2, comma primo, 18, comma secondo, e 29 comma secondo,  del
 d.lgs.  30  aprile  1992,  n.  109, avendo attuato nel modo descritto
 l'abrogazione delle disposizioni penali contenute nell'art. 13  della
 legge  30  aprile  1962, n. 283, si pongano in aperto contrasto con i
 principi direttivi che ispiravano la legge-delega 29  dicembre  1990,
 n.  428,  contenente  "Disposizioni  per  l'adempimento  di  obblighi
 derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunita' europee".   La
 legge  comunitaria  per  il  1990  infatti,  dettando i criteri della
 delega, stabiliva  all'art.  2,  punto  d),  che  nell'introdurre  le
 sanzioni  penali  ed amministrative, volte ad assicurare l'osservanza
 delle disposizioni create in attuazione di  una  serie  di  direttive
 comunitarie,  dovessero  comunque  essere fatte salve le norme penali
 vigenti,  fra le quali non puo' che essere ricompreso anche l'art. 13
 della legge n. 283/62 di cui ci si occupa.  I piu' volte citati artt.
 2, comma primo, 18, comma secondo, e 29, comma secondo, del d.gls. n.
 109/92, che dovrebbero costituire attuazione della legge  n.  428/90,
 confliggono dunque con i principi contenuti nella legge-delega, e per
 tale  via  si  pongono in contrasto con l'art. 76 della Costituzione,
 proprio sotto il profilo dell'eccesso di delega.  Tali norme infatti,
 in luogo di dare fedele attuazione ai "principi e criteri  direttivi"
 della  legge-delega,  che la Costituzione pone come vincolanti per il
 corretto esercizio della potesta' legislativa delegata da  parte  del
 Governo,  ne  hanno  sovvertito  una  indicazione  assai precisa, che
 espressamente imponeva di far salve le norme penali vigenti.
   Si vuole ora considerare in maniera  adeguata  il  requisito  della
 rilevanza  della  questione.   Assume questo giudice che, per effetto
 delle norme della cui ostituzionalita' si dubita, si sia  determinata
 la  illegittima  abrogazione  della norma penale incriminatrice sulla
 base  della  quale  gli  imputati  sono  stati  tratti  a   giudizio.
 L'eventuale   sentenza   di   accoglimento   di   codesta  Corte  non
 determinerebbe dunque la conseguenza di creare nuove  fattispecie  di
 illecito    penale,   ma   semplicemente   quella   di   ripristinare
 nell'ordinamento ipotesi  contravvenzionali  previste  da  una  norma
 previgente,  incostituzionalmente  abrogata.    Si  potrebbe tuttavia
 sostenere  l'inammissibilita'  della   questione   per   difetto   di
 rilevanza,  per  il fatto che questo pretore, in omaggio al principio
 di irretroattivita' delle norme penali piu' sfavorevoli, non potrebbe
 comunque giungere ad una condanna dei prevenuti, anche  nel  caso  in
 cui  l'intervenuta  abrogazione  della  norma  incriminatrice venisse
 dichiarata  incostituzionale,   in   accoglimento   della   eccezione
 sollevata.    E'  tuttavia  evidente  che  la  pronuncia  di  codesta
 autorevolissima Corte non sarebbe  affatto  priva  di  influenza  nel
 giudizio  sottoposto  a questo giudice remittente, per il fatto che -
 in caso di accoglimento - essa verrebbe comunque  ad  incidere  sulla
 formula  di proscioglimento, riflettendosi sullo schema argomentativo
 della giudicante e modificando cosi  il  fondamento  normativo  della
 decisione,  pur  rimanendone  identici gli effetti pratici, mentre in
 caso di rigetto ben potrebbe il giudice costituzionale  ritenere  non
 condivisibili le argomentazioni interpretative esposte dall'ordinanza
 di rimessione, ed affermare dunque l'attuale vigenza nell'ordinamento
 dell'art.  13  della  legge  30 aprile 1962, n. 283.   La risposta ai
 dubbi di legittimita' espressi con la presente ordinanza e' destinata
 pertanto a riverberare in ogni caso i suoi  effetti sul  giudizio  di
 merito  a  carico  degli  imputati: la ritenuta non abrogazione della
 norma incriminatrice sulla base della quale essi sono stati tratti  a
 giudizio,   contrariamente   a  quanto  opinato  da  questo  giudice,
 comporterebbe infatti la possibile applicazione della norma stessa al
 caso concreto; la ritenuta ma legittima  abrogazione  dell'art.    13
 cit.  (sostenuta  ad  esempio  nella  recente pronuncia delle sezioni
 unite  della  Cassazione)  porterebbe   invece   ad   una   pronuncia
 assolutoria  perche'  il  fatto non e' piu' previsto dalla legge come
 reato; mentre la ritenuta incostituzionalita' delle norme  impugnate,
 ripristinando  la  previgente previsione penale, comporterebbe ancora
 una pronuncia  assolutoria,  ma  per  il  ben  diverso  motivo  della
 impossibilita'   di   applicazione   retroattiva  agli  imputati  del
 reintrodotto art. 13 della legge n. 283/62, a mente  degli  artt.  25
 della Costituzione e 2 del codice penale.