IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 91/92 del RG. AC. promossa da Persia Mario contro il comune di Alfedena; Letti gli atti e visti i documenti di causa, osserva; F a t t o Con atto di citazione ritualmente notificato in data 20 febbraio 1992, il sig. Persia Mario esponeva: di essere proprietario di un terreno distinto in catasto al foglio n. 6 particella n. 1145, in comune di Alfedena, localita' Corone; che detto comune, con delibera di Giunta n. 149/1988, dichiarata sostitutiva del decreto di occupazione di urgenza, aveva occupato parte del suo terreno per una porzione di mq 260 per un periodo non superiore a tre anni, occorrenti per la realizzazione di una strada e della rete idrica e fognante; che i lavori erano terminati nel 1989, onde si era verificata l'irreversibile destinazione del terreno a finalita' pubbliche; che l'occupazione doveva ritenersi illegittima sia perche' non notificata, che per difetto di fissazione di termini per l'espropriazione ed i lavori; che comunque, l'ente non aveva provveduto alla emissione del decreto di esproprio, ne' a corrispondere alcunche' a titolo di indennita'; tanto premesso, conveniva innanzi al Tribunale di Sulmona il comune di Alfedena, per ivi sentir dichiarare la illegittimita' della occupazione del bene attoreo e per l'effetto condannare l'Amministrazione alle somme determinande in fase istruttoria a titolo di risarcimento dei danni, compreso quello arrecato alla residua proprieta', oltre interessi legali dalla occupazione al soddisfo, rivalutazione monetaria e spese di giudizio. Nessuno si costituiva per il comune convenuto, onde il giudice istruttore, rilevata la ritualita' della notifica dell'atto di citazione, ne dichiarava la contumacia. Veniva disposta consulenza tecnica per accertare la trasformazione del bene, la sua consistenza e valore venale. Infine, acquisita la documentazione prodotta, la causa, sulle conclusioni del solo attore in epigrafe trascritte, veniva trattenuta in decisione all'udienza collegiale del 6 marzo 1996. D i r i t t o L'art. 1, comma sessantacinquesimo della legge 28 dicembre 1995, n. 549, ha modificato il comma sesto dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni nella legge 8 agosto 1992, n. 359. Orbene, ritiene il Collegio che la disposizione normativa cosi' novellata sia rilevante ai fini della decisione della presente controversia, il cui oggetto consiste nella richiesta di risarcimento dei danni subiti dall'attore in seguito alla illegittima occupazione del proprio fondo da parte del comune di Alfedena, con irreversibile trasformazione dell'immobile ed acquisizione dello stesso in capo alla pubblica amministrazione. Peraltro, il Tribunale dubita della legittimita' costituzionale della norma in questione. Essa, infatti, disponendo che l'art. 5-bis del d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 si applichi "in tutti i casi in cui non sono ancora stati determinati in via definitiva il prezzo, l'entita' dell'indennizzo e/o del risarcimento del danno", produce una indebita equiparazione di situazioni radicalmente differenti, raggruppandole sotto il comune denominatore del quantum (indennizzo-risarcimento) spettante al soggetto il cui diritto dominicale e' stato estinto in concomitanza con la correlativa fattispecie acquisitiva maturata in favore della pubblica amministrazione. Se la giurisprudenza ha da tempo affermato, con un indirizzo ripetutamente ribadito, che la Pubblica Amministrazione la quale occupi, ancorche' in difetto dei presupposti legittimanti la procedura di esproprio, il suolo altrui, ne acquista la proprieta' a titolo originario con la radicale trasformazione dell'immobile, non puo' dimenticarsi che tale condotta integra gli estremi di un illecito, a fronte del quale il soggetto privato del diritto dominicale puo' chiedere il risarcimento del danno. Dunque, l'idoneita' dell'opera realizzata sul suolo altrui al soddisfacimento di interessi pubblici (in violazione delle norme che regolano la procedura espropriativa), comporta l'acquisto a titolo originario del fondo in favore dell'amministrazione, ma non trasforma in attivita' lecita cio' che e' stato posto in essere contra legem. Di qui la conseguenza tratta dalla giurisprudenza, secondo cui il proprietario il cui fondo sia stato occupato non puo' esperire l'azione di rivendicazione, ma ha il diritto di ottenere l'integrale risarcimento del danno sofferto. Diversa l'ipotesi in cui la proprieta' dell'immobile sia acquisita attraverso il procedimento ablatorio, nel rispetto delle garanzie da esso previste, perche' allora il diritto dominicale cede di fronte all'interesse pubblico, residuando unicamente la possibilita', per il soggetto espropriato, di ottenere l'indennizzo. Peraltro, con la disposizione normativa introdotta dal legislatore, viene meno qualunque distinzione tra l'indennita' di esproprio dovuta in seguito alla legittima ablazione del bene per fini pubblici, e l'obbligazione da illecito aquiliano scaturente dalla occupazione sine titulo realizzata dalla p.a., poiche' in entrambe le ipotesi la somma dovuta dall'amministrazione viene determinata alla stregua dei parametri di calcolo individuati dall'art. 5-bis gia' menzionato. Sembra invece doversi ribadire la diversita' tra l'indennita' espropriativa ed il risarcimento da illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., poiche' mentre la prima costituisce il serio e congruo (ma non integrale) ristoro che la legge prevede in favore del privato ablato nell'ambito di un criterio di composizione di interessi pubblici e privati (con prevalenza di quelli che afferiscono alla comunita'), il secondo costituisce la conseguenza della illegittima violazione del diritto dominicale, al di fuori degli schemi procedimentali di acquisizione di un bene per motivi di interesse pubblico, e postula dunque la corresponsione, per equivalente, di una utilita' pari al valore venale dell'immobile. La stessa Corte regolatrice ha negato che la p.a. venisse premiata dall'indirizzo giurisprudenziale consolidatosi in materia di occupazione acquisitiva, facendo leva sull'argomento della sostanziale diversita' tra indennita' di espropriazione, che "non rappresenta una integrale riparazione della perdita subita dal proprietario, bensi' il massimo di contributo garantito all'interesse privato", ed il risarcimento del danno dovuto al proprietario del fondo arbitrariamente occupato, che "non potra' mai essere inferiore al valore venale di esso" (cfr. Cass. Sez. Un. n. 3940 del 10 giugno 1988). Sembra in definitiva doversi dubitare della legittimita' costituzionale del comma sessantacinquesimo della legge finanziaria 1996, sotto il profilo della indebita equiparazione che viene operata tra il proprietario di bene radicalmente trasformato dalla p.a. in assenza di una legittima procedura di esproprio e quello di bene espropriato (art. 3 della Costituzione). Tale normativa pare anche porsi in contrasto con l'art. 42 della Costituzione, che prevede l'indennizzo (e dunque un serio, ma pur sempre parziale ristoro) solamente per il caso di proprieta' privata assoggettata alla procedura di esproprio, e non anche per l'ipotesi di ablazione di fatto conseguente ad illecito aquiliano commesso dalla pubblica amministrazione. Infine, la disposizione in questione suscita perplessita' anche in ordine al rispetto dell'art. 97 della Costituzione, i cui principi di buon andamento ed imparzialita' della pubblica amministrazione impongono l'attenta e prudente valutazione e ponderazione, nell'esplicazione delle potesta' pubblicistiche, degli interessi pubblici e privati coinvolti, anche attraverso l'ossequio alla legge ed alle garanzie del procedimento amministrativo. Non e' chi non veda, infatti, che l'estensione dell'art. 5-bis d.-l. 11 luglio 1992, n. 333 anche alle ipotesi di occupazione appropriativa della p.a. rischia di favorire appunto l'occupazione illegittima a discapito dello strumento espropriativo, eliminando l'ostacolo costituito dalle piu' onerose conseguenze, per l'ente costruttore, connesse alla occupazione sine titulo del bene per la realizzazione dell'opera pubblica.